giovedì 10 novembre 2016

Tarchetti. Verrà un giorno in cui l'omicidio non sarà più giustificato dalla forma.

Verrà un giorno in cui l'omicidio non sarà più giustificato dalla forma,
in cui l'uomo che uccide nella macchia
e quello che uccide sul campo
saranno collocati allo stesso livello dinanzi alle leggi umane,
come lo sono per fermo dinanzi alle leggi divine.
I. U. Tarchetti, "Una nobile follia"


Igino Ugo Tarchetti
memento 1879
Quando bacio il tuo labbro profumato
Cara fanciulla,non posso obbliare
che un bianco teschio vi è sotto celato
Quando a me stringo il tuo corpo vezzoso
obbliar non poss io,cara fanciulla
che v è sotto uno scheletro niscoso
e nell'orrenda visione assorto 
dovunque o tocchi o baci o la man posi,
sento sporger le fredde ossa di un morto.


Igino non è solo memento
Ne amor di patria quest appunto
però una lirica solo di Tarchetti
fa italico i l re dei maledetti.
Tarchetti


[...] Credo il difficile è trovare il centro della propria anima! 
[...]  O si abbandona, o si è abbandonati — spesso desiderosi, spesso contenti dell'abbandono.
Tal cosa è il cuore umano. Più che l'analisi di un affetto, più che il racconto di una passione d'amore, io faccio forse qui la diagnosi di una malattia. — Quell'amore io non l'ho sentito, l'ho subito. 
[...]Esprimo questo dubbio, perché mi avvenne spesso di chiedere a me medesimo: 
«come, in che guisa vi sono io sopravvissuto?» 
Sento nondimeno che qualche cosa si è guastato nella mia testa
io non ho più cognizione di tempo, 
non ho più ordine nelle mie idee, 
non ho più lucidità nelle mie memorie. 
Questi cinque anni sono passati come un istante e come un'eternità, 
inosservati, oscuri, senza suddivisioni di giorni e di epoche. 
Quelle feste, quegli anniversari 
che formavano le gioie più pure della mia vita quand'era fanciullo, 
sono essi ritornati ogni anno? 
E come non li ho avvertiti? 
Cosa ho fatto in questo lungo spazio di tempo? 
Perché non ho più amato?...
Non so più pensare, non so più fermarmi lungamente sopra un'idea, 
non vedo più le linee che separano il vero dal paradossale. 
Tutto mi sembra ora logico, naturale, possibile. 
Tutti i miei pensieri si urtano, si confondono, 
si perdono in un vortice che turbina incessantemente nella mia testa. 
È là che tutto va a finire. Sento che la coscienza di me si è confusa. 
Quando avrò scritto la storia di questo amore, 
dovrei scrivere ancora quella dei cinque anni che vi sono succeduti; 
sarebbe una storia terribile. Dovrei scriverne un'altra più terribile ancora; 
sarebbe la storia delle mie visioni, 
il racconto dei sogni che hanno popolato le mie notti durante quel tempo. 
Radunerò qui i documenti, le lettere, le note che ho conservato. 
Ricostruirò questo edifìcio colle sue stesse rovine. 
Ora sono ben calmo e tranquillo; 
ora che ho incominciato a non diffidare più di me medesimo. 
La mia indifferenza mi assicura che le sorgenti del mio entusiasmo sono esaurite. 
Una cosa mi conforta e mi inorgoglisce, 
il sentimento della mia freddezza — 
perché il mio cuore è freddo, terribilmente freddo.
Spero e pur temo dimenticare. 
Una notte triste ed oscura ha incominciato a distendersi sul mio passato.
Le onde che la virtù del sole aveva sollevate e convertite in belle nubi d'oro, 
ricadono in pioggia attraversando le fredde latitudini dell'aria, 
ricadono come lagrime della natura. 
Quando il fuoco della gioventù si è spento, 
svanisce a poco a poco anche il tepore delle ceneri; [...]
Chi oserebbe affacciarsi allo spettacolo intero della sua esistenza, 
spiare nelle sue pieghe tenebrose, e ritesserne tutta la storia?
La mia gioventù trascorse piena, ricca, feconda. 
La fortuna, a dir vero, non m'era stata assai prodiga de' suoi favori; 
ma che cale alla gioventù della fortuna? 
Quella è l'età della forza, del coraggio, della baldanza; 
è allora che si raccolgono a piene mani 
i frutti che maturano nel giardino della vita, 
che si accosta alle labbra la coppa inebriante della felicità; 
a quell'età si fruisce di un bene che non si conosce 
e non si esperimenta mai più nell'avvenire, 
mai più — la mite e affettuosa indulgenza degli uomini.
Non ho mai potuto indovinare se la mia natura 
fosse piuttosto incompleta che esuberante; 
ma in qualunque modo, egli era ben certo 
che io mi innalzava sul livello delle nature comuni. 
La ripugnanza che ho sentito, 
e che sento ancora per tutto ciò che è convenzionale, 
per tutto ciò che è metodico
non proveniva già dalla mia educazione, 
ma da una disposizione speciale del mio carattere. 
Non mi importava di essere da più o da meno degli altri uomini, 
mi bastava di esserne diverso.
In tutta la mia vita ho operato come ho pensato — convulsivamente. 
Dicono che i leoni si trovano in uno stato di febbre continuo. 
Ignoro quale medico abbia potuto accertarsi di questo fenomeno, 
come avrebbe fatto al capezzale di un infermo; 
ma sia ciò vero o non vero, sia la mia natura debole o forte, 
non vi è dubbio che io ho provato sempre 
una specie di agitazione febbrile e convulsa simile a quella.
Io mi sono divorato la vita. 
Io non potrei misurare la mia età colla stregua ordinaria del tempo.

Aveva ventotto anni allorché successero gli avvenimenti che sto per raccontare. 
La rivoluzione mi aveva trascinato già da tempo nelle sue file, quasi mio malgrado. 
Deviato da* miei studi, combattuto nelle mie inclinazioni, 
mi era indotto a rimanere nell'esercito ove aveva ottenuto grado di ufficiale. 
Io vi militava da cinque anni, allorché colpito da una grave malattia di cuore 
dovetti chiedere una lunga licenza, e ritirarmi nel mio villaggio natale. 
Gravi rovesci di fortuna mi avevano impedito di camparmi la vita in altro modo 
che coll'essere inscritto nei moli di un reggimento, 
e far pompa del mio costume di capitano. 
E dico ciò perché allora la guerra era cessata, 
e mi vergognava spesso di quell'inazione ricompensata si largamente. 
Io riscuoteva un lauto assegnamento sulle casse dello Stato. 

Non parlerò adesso dei dolori che avevano provocata quella mia malattia. 
Essi appartengono ad un'altra epoca della mia vita; 
furono il frutto di una passione che, ove non mi fosse inspirata dal più nobile dei sentimenti, avrebbe coperto di onta il mio passato. Nondimeno quei dolori furono enormi, e se non ebbero il potere di uccidermi, è perché tal potere è spesso negato al dolore. 

In capo ad un anno aveva richiesta Fattività, 
non già che la mia salute fosse migliorata, 
ma perché mi sarebbe stato impossibile rimanere più a lungo nel mio paese natale. 
Quella vita di solitudine e di meditazione avrebbe finito coll'uccidermi
Chi ha vissuto un tempo nelle grandi città non può più adattarsi alla vita dei villaggi; 
non può impicciolire le sue vedute, le sue idee, le sue abitudini fino alle proporzioni meschine, e spesso ridicole, che dà alle proprie la gente delle campagne. Io ho considerato sempre i piccoli villaggi come centri d'ignoranza, di barbarie, spesso anche di corruzione. 
Sono essi, a mio credere, che arrestano il corso della civiltà, 
che si pongono tra le ruote del suo carro. 
Se tutti i punti abitati della terra fossero Londra, Pietroburgo, Parigi, Roma, Berlino, 
il quesito la cui soluzione affatica da secoli l'umanità sarebbe risolto all'istante.

Né la monotonia di quella vita era il meno doloroso de' miei tormenti. 
Io conosceva tutte le vie di quel paese, tutte le case, tutti gli abitanti — viuzze strette e fangose, catapecchie anguste e miserabili, contadini rozzi e cocciuti. 
Mi dava pena il vederli, più pena il sentirli. 
La stessa natura non aveva che attrattive assai deboli.

Vicino ai villaggi anche la natura sembra patire, è rozza e pigmea, 
soffre d'impotenza e di rachitismo; 
si direbbe che le manchi qualche cosa, come la forza e il profumo. 
I boschi di Boulogne, di Volksgarten, di Thiergarten 
non si trovano che vicino a Parigi, a Vienna, a Berlino. 

L'uomo risente, come le piante, l'influsso dell'atmosfera in cui vive
Io mi vedeva isterilire, immiserire, deperire. Fosse effetto della malattia, 
fosse influenza di quel soggiorno triste ed uggioso, 
io mi era interamente e miseramente trasformato. 
Una malinconia profonda, una disperanza piena di gelo e di scetticismo 
si erano impadronite di me. 
Non sentiva più alcun rammarico del passato, 
né alcuna trepidanza dell'avvenire. 
Questo avvenire lo aveva in certa guisa prevenuto. 
Me ne era formata l'imagine la più triste, 
la più nera, la più desolante; aveva forzato la mia anima ad accettarlo senza lagnarsene, 
e cosi m'era posto in pace con l'unico oggetto che avesse potuto ancora atterrirmi, 
col fantasma sconosciuto di questo avvenire.

Ho pensato spesso, durante questi anni, a quei giorni pieni di desolazione e di sconforto, 
a quel lungo inverno di cinque mesi trascorso tra le pareti di poche stanze, 
senza veder altro volto d'uomo che il mio. 

Mi sono ricordato ancora di tutto ciò che aveva allora colpito in qualche modo i miei sensi: 
le larghe finestre a vetrate coperte di ragliateli, 
il pigolio dei passeri che beccavano nei canali delle gronde, 
lo stillare delle nevi che si scioglievano, 
il rumore degli zoccoli ferrati dei contadini sul selciato fangoso della via 
— uniche sensazioni, uniche voci che mi avvertivano 
come vi erano esseri che vivevano d'intorno a me, 
come io stesso viveva in mezzo ad esseri vivi e sensibili.

Ho conservato memoria di quei giorni in un diario 
scritto sotto l'impressione di quei dolori segreti di cuore, 
che non giova ora qui riportare. 

Allorché mi allontanai da quel luogo, 
e sostato nella prima città che incontrai nel mio viaggio, 
confrontai il mio volto con quello di altri uomini, 
mi chiesi con spavento se io era ancora lo stesso di un tempo, 
se era diventato dissimile da loro, se sarei sopravvissuto a quel giorno
Aveva imparato a disperare troppo precocemente. 
Allora non prevedeva l'aurora luminosa 
che doveva sorgere ancora sulla mia gioventù, 
e che doveva tramontare si presto!

https://www.amazon.it/Fosca-Igino-U-Tarchetti/dp/8804506571




La Fosca di Tarchetti, tra delirio e caduta
di Marina Brunetti

Fosca è esempio compiuto del disperato tentativo, da parte di una creatura reietta, di attirare su di sé l'attenzione, è romanzo che ruota intorno all'amore implorato, preteso, anche a costo di diventare persecutorio e forzato: occhi e capelli che ammaliano, a dispetto di una matrigna Natura. [...]

[...] Il cinismo resta, in questo clima di dolore, ma rimane a noi attaccato come nera pece il senso, da taluni vagheggiato, dell’amore ideale, quel nero assoluto, come il nero deciso dei corvini capelli di Fosca, il colore del delirio senza più ritorno. Andare a ricercare l’amore di Fosca così totalizzante, dilagante, mortifero ed estraneo ai chiaroscuri, è un atto rivoluzionario: l’abnegazione a un uomo come unico mezzo d’amore percepito, simile a quello che muoveva la Sagan quando diceva di aver amato fino alla follia, ma quello che gli altri chiamavano follia, per lei, era l’unico modo di amare.

La Fosca di Tarchetti incarna appieno il fascino della creatura appassionata, volubile e incostante, trascinante e fatale, più demonio che angelo, come nella migliore tradizione letteraria della seconda metà dell’Ottocento, in contrapposizione alla prima, che vedeva le figure femminili, nei romanzi più convenzionali, stereotipate nella loro angelicità (fatta eccezione per lo spessore di Lucia, nei Promessi Sposi)

Queste donne sono belle, seduttive, tragiche, raffinate ammaliatrici, non più vincolate da un ruolo prestabilito, che le vedeva custodi del focolare domestico; ora sembrano imporre i loro desideri, causando spesso, con questo, la rovina degli uomini che hanno la sfortuna d’incontrarle

Si tratta di amori-passioni a volte devastanti, che non mirano al matrimonio, alla legittima procreazione, ma sono vissuti dolorosamente, da ambo le parti, nella consapevolezza dell’emarginazione sociale, dell’isolamento, avulsi come sono dai valori convenzionali. 

[...] Numerose sono anche le cosiddette donne-vampiro, dalla bellezza oscura, orrida e irresistibile come le Gorgoni (il cui potere era quello di pietrificare le loro vittime con il solo sguardo), alcune delle quali s’ispirano proprio a Fosca di Tarchetti, tra queste alcune figure femminili di Verga, “Una peccatrice”, “Tigre reale” e la protagonista de “La lupa”, quale incarnazione della sensualità incontenibile e distruttiva. 

E arriviamo a noi, o meglio, alla nostra creatura che brandisce, unitamente alla pietà che ispira, 
lo scettro della donna psichicamente disturbata, simile a quello di Malombra di Antonio Fogazzaro: entrambe baciate dal fascino enigmatico, ma nel contempo dall’indole patologica e distruttiva, esasperata, fino a lambire i tremendi e spietati esempi dannunziani con Elena Muti in “Il piacere” e Ippolita Sanzio, votata all’erotica esperienza nel “Trionfo della morte”.

Iginio Ugo Tarchetti, esponente di spicco della Scapigliatura milanese, seppe tratteggiare una delle figure letterarie più intense e perdute che la memoria ricordi, la rappresentante idealmente perfetta della dedizione totale all’oggetto d’amore. 

A onor del vero, Tarchetti non creò l’immagine di Fosca dal nulla, ma s’ispirò a una sua storia personale con una certa Carolina o Angiolina, parente d’un suo superiore quando, a novembre del 1865, a Parma, prestava servizio nel commissariato militare, per poi abbandonare quella carriera dando libero sfogo al suo istinto da scapigliato e scrittore. 

Questa donna, come sarà poi Fosca, era epilettica e malata, prossima alla morte: con lei condivideva anche il sembiante, contraddistinto da occhi grandi e nerissimi e da capelli color ebano. 
Prima dell’incontro con Carolina, Tarchetti aveva intrattenuto una relazione di sette mesi con una donna sposata conosciuta a Milano, che gli fornirà poi lo spunto per il personaggio dell’amata Clara.

Il romanzo gravita ininterrotto attorno all’amore folle di Fosca, finanche dopo la morte della stessa, per Giorgio, giovane ufficiale che ama, riamato, una signora milanese, Clara, sposata, da cui è costretto a staccarsi a causa del proprio trasferimento; Fosca è malata, ma ancor prima del mortifero morbo, ciò che l’offende come donna è la sua indicibile bruttezza, lievemente mitigata dalla folta chioma corvina e dai vivi occhi neri:

Cristo lo ha detto: 
«Beati coloro che piangono perché saranno consolati». 

XV Il mio desiderio fu esaudito: conobbi finalmente Fosca. 
Un mattino mi recai per tempo alla casa del colonnello 
(vi pranzavamo tutti uniti e ad un’ora, ma per la colazione vi si andava ad ore diverse, alla spicciolata) e mi trovai solo con essa. Dio! Come esprimere colle parole la bruttezza orrenda di quella donna! Come vi sono beltà di cui è impossibile il dare una idea, così vi sono bruttezze che sfuggono ad ogni manifestazione, e tale era la sua. Né tanto era brutta per difetti di natura, per disarmonia di fattezze, — ché anzi erano in parte regolari, — quanto per una magrezza eccessiva, direi quasi inconcepibile a chi non la vide; per la rovina che il dolore fisico e le malattie avevano prodotto sulla sua persona ancora così giovine. (*277-78)

Fosca è il simbolo della malattia e della morte, che contagia l’altro e ne assorbe le forze vitali; così epilettica e isterica incarna l’alter ego femminile di Tarchetti, poi morto per tisi e impossibilitato a terminare il suo manoscritto, impugnato dall’amico Salvatore Farina. 

Il contrasto netto tra Clara e Fosca non attiene solo all’aspetto fisico, ma anche alla realtà che le circonda: Clara (nomen omen), ha un aspetto florido e sano e l’amore con Giorgio ha tutte le peculiarità del perfetto e del romantico, idilliaco

Clara rappresenta la luce e la vita, è forza e dolcezza che risana. 
Fosca, suo malgrado, rappresenta il contrario: 
il morbo oscuro e indefinito, l’inquietante mistero ancor prima dell’apparizione, i prodromi di una follia che si manifesta nelle grida…orribilmente acute, orribilmente strazianti e prolungate che echeggiano nella sala da pranzo e a cui Giorgio associa, per la prima volta, l’idea della morte. 

Il tema del dualismo è assai sentito durante il periodo della Scapigliatura, basti pensare alla poesia di Arrigo Boito, “Dualismo” che rappresenta, appunto, la scissione, nell’animo umano, l’anelito all’angelico e la spinta verso il satanico, il paradiso e l’inferno, la purezza e il torbido. Fosca è indubbiamente brutta, poiché la vissuta afflizione (un matrimonio sbagliato, un aborto e la perdita dell’agiatezza) le si riverbera sul viso - imago animi vultus - così magra e provata dalla malattia, con gli zigomi sporgenti al punto da rimandare all’idea di un teschio, con le ossa a vista; tuttavia la sua persona ha una grazia e un’eleganza sorprendenti:

Un lieve sforzo d’immaginazione poteva lasciarne travedere lo scheletro, gli zigomi e le ossa delle tempie avevano una sporgenza spaventosa, l’esiguità del suo collo formava un contrasto vivissimo colla grossezza della sua testa, di cui un ricco volume di capelli neri, folti, lunghissimi, quali non vidi mai in altra donna, aumentava ancora la sproporzione. Tutta la sua vita era ne’ suoi occhi che erano nerissimi, grandi, velati — occhi d’una beltà sorprendente. (ibidem)

Una lupa consapevole di risultare repulsiva, tuttavia dal suo volto strano e imperfetto promana un fascino che finirà per seducere Giorgio, il suo simulacro d’amore, vivo e vitale finché non verrà contagiato della sua stessa malattia e provato dall’abbandono repentino di Clara; un corto circuito emotivo, questo, che finirà per aprirgli, seppur tardivamente, gli occhi sulla meritevole abnegazione di Fosca, e che lo porterà a concederle il tanto agognato atto d’amore. 

È di questa morbosa passione che Giorgio scriverà nel romanzo: 
Più che l’analisi di un affetto
più che il racconto di una passione d’amore, 
io faccio forse qui la diagnosi d’una malattia – 
Quell’amore io non l’ho sentito, l’ho subito”. 

Anche in questo sta la modernità e attualità dello scapigliato Tarchetti: 
la sua donna brutta rinfaccia, a noi lettori, 
l’ingiustizia di una società che impone alle donne 
il ruolo di seduttivi “oggetti d’amore”, perché il copione si ripete:

Tu non sai cosa voglia dire per una donna non essere bella. 
Per noi la bellezza è tutto. Non vivendo che per essere amate, 
e non potendolo essere che alla condizione di essere avvenenti, 
l’esistenza di una donna brutta diventa la più terribile, 
la più angosciosa di tutte le torture.


Fosca appartiene, coesiste in Giorgio, molto più di quanto lui non creda: 
le due donne della sua storia, Fosca e Clara (il buio e la luce), rappresentano la dicotomizzazione della sua personalità o, metaforicamente, l’etico dilemma del buono e del diavolo, come visto in Dr. Jekyll e Mr. Hyde, la teoria dell’ombra, dell’altro. 

Esiste, a mio avviso, un leitmotiv che ricorre nel romanzo e che attiene all’universo femminile e mi riferisco, nello specifico, alla chioma, ai capelli, nella fattispecie a quelli di Fosca: 
innanzitutto la “s-capigliatura”, la corrente letteraria a cui apparteneva Tarchetti
altro non significa che “disvelamento della chioma” e questa sorta di “tricomania sottile” è già ben evidente nella presentazione che lo scrittore fa della malata, come nel passo sopra riportato. 

Fosca possiede ciocche di capelli che, rigogliosamente folti e lunghi, diventano un ricorrente segno di pericolo del “disordine” che lei scatena. La chioma, forse sintomo più tenue degli altri quali la bruttezza e l’isteria, resta qualcosa d’intrattabile, perché è una manifestazione fisica del disordine psichico di cui entrambi, Fosca e Giorgio, soffrono

Poco dopo il loro primo incontro, 
Giorgio mette infatti grande enfasi nel descrivere la testa e i capelli di Fosca:

Ella stessa non mi parve in quel momento sì brutta, come mi era sembrata nei primi giorni della nostra conoscenza […] i suoi capelli neri, folti, lucentissimi, le scendevano scomposti per le spalle e ne incorniciavano il viso, la cui pallidezza e la cui magrezza erano estreme. (318)

Cosa c’è nei capelli di Fosca che cattura Giorgio in questo modo
[...] Nel diciannovesimo secolo il corpo - soprattutto i capelli, gli occhi e i piedi - è diventato un simbolo importante dell’onirologia freudiana

Lo sviluppo di Freud della psicanalisi e il suo lavoro con la sessualità erano essi stessi un riflesso delle trasformazioni del progresso, così come loro influenzavano il corpo e la psiche. 

Le parti del corpo divennero, come Freud provò, simboli molto leggibili e dicibili, 
una voce somatica per la psiche. 

Il topos della chioma, simbolo della Scapigliatura
è ravvisabile anche in un’altra opera di Tarchetti, 
“Le leggende del Castello Nero”: 
il narratore racconta di uno strano evento occorsogli durante la sua giovinezza quando, dopo aver ricevuto un misterioso pacco a casa sua, fece due sogni, in uno dei quali una donna che egli sa essere la “dama del castello nero” che correva “ sola per gli appartamenti coi capelli neri disciolti, col volto e coll’abito bianchi come la neve […]”, la cui descrizione appare molto simile a quella che Giorgio fa di Fosca al momento del loro primo incontro.

In Fosca, il finale e più decisivo evento del leitmotiv dei capelli costituisce un preludio alla scena catartica in cui Fosca tenta di tagliarseli:

Mossi un passo verso Fosca. Ella rivolse il capo con un moto sì risoluto che i capelli, appena trattenuti da una reticella, si sprigionarono e caddero sulle spalle e sul collo. Mi guardò colle pupille scintillanti di passione . . . i capelli nerissimi ed abbondanti che contornavano il suo volto come in una cornice d’ebano… Poi con una specie di civetteria che contrastava stranamente colla sua natura, si accostò alla toletta, si lavò la faccia, aruffò bizzaramente i capelli . . . (415-18);

E ancora:

Si levò d’un balzo, corse ad uno stipo, prese un paio di forbici: poi venne a me, e me le diede; trasse innanzi i suoi capelli, li raccolse in un fascio colle mani, e mi disse sorridendo: “Recidili, mio bello, mio amore, recidili; sono tuoi. E siccome io mi ritrassi, afferrò le forbici e fece atto di reciderli ella stessa. Una parte dei suoi capelli le era sfuggita, tentò di riafferrarli e fu vano; io ebbi tempo di trattenerla. Hai ragione—mi disse ella—hai ragione; più́ tardi”. (422)

Per molti popoli antichi i capelli erano simbolo di forza vitale, quasi emanazione della potenza del cervello: un esempio di questa credenza, a tutti noto, è l’episodio biblico di Sansone, la cui forza si concentrava nella capigliatura. 

Quando Fosca implora Giorgio di tagliarle i capelli, lei gli sta anche pronosticando una fine, 
- ché lei li taglierà prima o poi - lasciandolo a meditare sulle sue parole agghiaccianti. 

Giorgio sa anche che quando Fosca avrà tagliato i capelli, lei morirà, perché lo spirito di ribellione (sessuale) è la sua unica forza vitale. Una particolare simbologia, infatti, connette i capelli al dolore e al lutto
tagliarsi i capelli, lasciarli incolti, cospargersi la testa di cenere o semplicemente coprirsi per un certo periodo i capelli sono atti simbolici stereotipati, di diffusione largamente attestata, con cui si manifestavano in forma visibile il dolore, l’amore non ricambiato o la disperazione
Ancora oggi la locuzione ‘strapparsi i capelli per il dolore’ indica una situazione estrema di sofferenza, tale da spingere l’individuo all’autodegradazione.

Sebbene Fosca non partecipi direttamente al duello tra Giorgio e il colonello, la sua assenza da tutte le altre scene restanti conferma il suo sospetto che, indipendentemente dall’esito del duello, è lei che sarà, in effetti, la perdente e inevitabilmente sottoposta alla soppressione imminente. 
La sua unica soluzione e ultima risorsa è, forse, il più potente di tutti i gesti per la libertà, 
vale a dire il non vivere affatto; un gesto incompiuto, questo, poiché il morbo scelse per lei.


(*Tarchetti, Igino Ugo, Tutte le Opere. Ed. Enrico Ghidetti. 2 vols. Bologna: Cappelli, 1967)
http://www.lastanzadivirginia.com/rivista-letteratura/297-la-fosca-di-tarchetti-tra-delirio-e-caduta.html




L’Elixir dell’immortalità, Igino Ugo Tarchetti e un furto
15 DICEMBRE 2014 di GUEST WHO?!
 
Uno degli esempi di gotico italiano è in realtà un furto narrativo.

Oggi ospitiamo un lungo articolo di Giuseppe Ceddìa, (Bari, 1977) dottorando in Italianistica presso l’Università degli studi di Bari, scrittore, pubblicista, organizzatore di rassegne cinematografiche. Si è occupato di letteratura poliziesca e del movimento scapigliato. Ci parla di un furto, diciamo... [...]

Eppure, accanto al lavoro di creazione e traduzione, vi era un lato di Tarchetti che, giocando con l’ironia che mai lo ha abbandonato, si insinuava tra le righe delle sue opere creando qualcosa di originale ma che originale in realtà non era, basti pensare a due dei Racconti fantastici (raccolta pubblicata postuma nel 1869) dai titoli I fatali e Un osso di morto.

L’operazione che compie l’autore nella stesura di questi racconti non può essere ascrivibile al plagio vero e proprio, anche se Tarchetti rivisita in modo assai fedele gli originali, ossia due racconti del francese Gautier, altro nume tutelare tra le influenze dello scrittore milanese.

I racconti di Gautier sono rispettivamente Jettatura del 1856 e Il piede della mummia del 1840 (quest’ultimo letto da Tarchetti solo nel 1863 nel volume che racchiudeva i racconti del francese dal titolo Romans et contes).

Lo spirito umoristico che già avvolge i racconti del francese è reso ancor più esasperato da Tarchetti, da un lato per la lezione derivante dalla lettura di Sterne, dall’altro per il tono tra il canzonatorio e il dissacrante che sempre permea la narrativa dello scapigliato.

Lì dove l’umorismo di Gautier contiene un omaggio a una civiltà del passato (il piede della mummia è quello di una principessa dell’antico Egitto), dunque è più squisitamente raffinato, l’umorismo tarchettiano si fa beffe della società e delle sue classi sociali, essendo, lo scrittore, alieno alla nuova gerarchia che si crea nel post Unità d’Italia, non si fa problemi dunque a rendere protagonista del suo racconto un osso di un morto umile, ossia la rotula di un inserviente.

Leggendo i Racconti fantastici di Tarchetti, insomma, non si può esimersi dal notare influenze assai pregnanti derivanti dai più svariati autori del fantastico, dal già citato Gautier a Poe, da Hoffmann a Nerval. Probabilmente la vera novità del racconto fantastico di Tarchetti è insita proprio nella sua conclusione che è di carattere scientifico, dunque influenzata dal positivismo imperante in quell’epoca. Ma non solo, assurge a ruolo assai solido nella trama dei suoi racconti anche la componente del quotidiano sul quale si poggia l’architettura fantastica.

Il fenomeno surreale non è da Tarchetti descritto come qualcosa che fuoriesce dalla normalità del vissuto quotidiano, anzi è come se il fantastico fosse esso stesso tassello che lo compone, da qui la denominazione più volte utilizzata per connotare i suoi racconti e caratterizzata da un ossimoro, ossia “realtà soprannaturale”, “realismo fantastico” oppure “umanità soprannaturale”.

Fa notare Gaetano Mariani: «Siamo già nel vivo di quella ricerca del magico naturale, del soprannaturale come espressione della realtà quotidiana che Tarchetti si propone di raggiungere in molti suoi racconti»[1].

E proprio la spiegazione finale di carattere positivistico snatura la stessa radice fantastica dalla quale Tarchetti ha attinto per la composizione dei suoi racconti. Se dunque Gautier, per citare l’esempio suddetto, porta avanti un discorso che pone il fantastico come fil rouge dei suoi racconti e rende anche la conclusione di essi puramente soprannaturale, ecco invece che Tarchetti snatura l’iter del suo racconto nel finale e quindi, dopo una trama puramente fantastica, la chiusa è proprio facente parte di quella categoria dell’ “umanità soprannaturale” condita, a sua volta, dall’infiltrarsi della componente positivistica.

Vengono in mente, a tal proposito, le conclusioni di due romanzi gotici che hanno contribuito allo svilupparsi del genere, The Monk di Matthew Gregory Lewis, pubblicato nel 1796, e The Italian di Ann Radcliffe, dell’anno successivo. Anche qui siamo in presenza di due modalità differenti di sbroglio della matassa. Nel primo caso il finale è soprannaturale, col frate Ambrosio che precipita nelle fauci infernali (gotico irrazionale); la Radcliffe invece propende per un finale realistico riguardo le “nere” vicende del monaco Schedoni (gotico razionale).

Il fatto che Tarchetti sia stato tra i primi autori nostrani a cimentarsi col racconto fantastico di sapore goticheggiante è un dato di fatto. Ma cerchiamo di capire se realmente è così oppure se il caso ha voluto che la realtà non sia esattamente ciò che appare.

Il primo racconto fantastico di Tarchetti non fa parte del volume che andrà sotto il nome di Racconti fantastici, è invece pubblicato sulla “Rivista minima” in due parti nel 1865.

La prima parte (quella pubblicata il 31 Giugno) non viene firmata dall’autore ed è quindi anonima, la seconda invece (31 Agosto) verrà firmata da Tarchetti. Il titolo del racconto è Il mortale immortale (dall’inglese).

Tre anni dopo, nel 1868, lo stesso racconto sarà ristampato, questa volta su “Emporio pittoresco”, con un altro titolo ossia L’elixir dell’immortalità (Imitazione dall’inglese).

Il fatto che Tarchetti decida di ristampare il racconto non è una novità, lo facevano molti scrittori dell’epoca, soprattutto considerando il fatto che gli scritti ospitati su diverse riviste erano spesso soggetti a rimaneggiamenti e rettifiche per mano degli stessi autori.

Quel che invece deve far riflettere è la modifica nel titolo e soprattutto quella parola, “imitazione”, assente nella prima edizione del racconto. Abbiamo già detto che Tarchetti si cimentava con traduzioni dall’inglese, quindi verrebbe da pensare, come espone Ghidetti, che l’autore abbia letto un racconto anonimo in lingua inglese, ne abbia tratto lo spunto e lo abbia pubblicato a suo nome, che in sostanza abbia adottato lo stesso modus operandi con il quale si è rapportato ai racconti di Gautier, come suddetto.

Dice Ghidetti: «La dimensione fantastica che, in seguito, avrebbe finito col prevalere nella narrativa di Tarchetti è annunziata anche da una “imitazione” da un introvabile originale inglese, dal titolo Il mortale immortale […] storia che ripete un topos del primo romanticismo europeo […] quello di un uomo condannato a vivere in eterno una vita immortale»[2].

Ghidetti dunque si limita a dire ciò, non parla di reale imitazione né tantomeno di plagio, fa intuire insomma un’influenza che Tarchetti avrebbe ricevuto dalla lettura in lingua di questo racconto introvabile inglese. Anche Mariani, nelle righe da lui dedicate al racconto tarchettiano, si limita a dire che: «Sullo stesso registro di un’umanità che chiameremo soprannaturale si muove la storia dell’uomo condannato a una perpetua giovinezza che il Tarchetti ci racconta ne L’elixir dell’immortalità»[3].

Mariani non parla per niente, come invece fa Ghidetti, di influenza o imitazione da un originale introvabile inglese; anzi fa risalire la radice della narrazione tarchettiana a tutt’altro, sostenendo che «il precedente immediato e indiscutibile del racconto tarchettiano è senza dubbio il balzacchiano Elixir de longue vie, pubblicato nel 1830 e, meno sensibile o più opaco, L’elixir de jeunesse pubblicato ne L’Artiste del 1833 da Horace Raisson»[4].

Mariani fa notare, a dimostrazione di quanto suddetto riguardo la particolare “umanità” del fantastico tarchettiano, che il tema balzachiano puramente fantastico è reso quotidiano da Tarchetti.

Probabilmente Tarchetti avrà anche letto il racconto di Balzac, ma qui cercheremo di spiegare il perché non è da ricercare lì l’influenza della sua composizione e il perché non si tratta affatto di influenza o plagio ma di ben altro.

Nel 1992 sul supplemento letterario del “New York Times” appare un articolo di Lawrence Venuti, il traduttore in inglese dei racconti fantastici tarchettiani, dal titolo “Un delitto orribile di Igino Ugo Tarchetti”.

Senza mezzi termini Venuti sostiene che il racconto di Tarchetti L’elixir dell’immortalità altro non è se non il calco di un racconto di Mary Shelley dal titolo The mortal immortal (titolo che lo stesso Tarchetti aveva usato per la prima edizione del suo racconto) pubblicato nel 1833 sulla rivista “The Keepsake”.

Ma in che senso calco? Nel senso non di influenza che Tarchetti subisce dalla Shelley, ma bensì di vera e propria traduzione. Ecco allora che il discorso di plagio si fa ambiguo e dissonante in questa precisa situazione.

In sostanza, secondo Venuti, Tarchetti traduce il racconto della Shelley e lo fa suo, facendolo passare per un’opera di sua composizione.

La verità è dunque più vicina alla teoria elaborata da Ghidetti (che almeno parlava di imitazione da un introvabile inglese) che non a quella di Mariani (che parla di influenze balzachiane e non cita minimamente l’eventualità di un calco dall’inglese).

Ciò non toglie che entrambi gli studiosi non parlano affatto di traduzione effettiva da un originale e di plagio nel senso di acquisizione indebita di qualcosa composta da altri e fatta passare per creazione propria.

Eppure, complice la coincidenza, il racconto della Shelley è dello stesso anno di quello di Balzac citato da Mariani, ossia il 1833. Viene da pensare che Tarchetti abbia letto il francese ma poi abbia tradotto l’inglese facendolo passare per opera personale.

E chissà che la decisione di ristampare il racconto con un altro titolo tre anni dopo non sia espediente aduso ad aggirare eventuali accuse di plagio.

Il plagio effettuato da Tarchetti dunque non è da ricondursi alla trama del racconto (come forse, volendo sbizzarrirci, è più plausibile sia avvenuto nei confronti di Gautier) ma bensì dall’appropriazione indebita di qualcosa non sua, ma solo tradotta. Siamo in presenza di un vero e proprio furto narrativo.

Il perché Tarchetti decida di dar vita a questa non certo nobile operazione può vedere tra le sue cause il fatto che un racconto rendeva di più di una traduzione, sia dal punto di vista economico che dal punto di vista della fama dell’artista, come lo stesso Venuti fa notare.

Una cosa è certa, la prima traduzione italiana del racconto di Mary Shelley è proprio quella attribuibile a Tarchetti, ma l’autore preferisce farla passare non per tale ma per un racconto da lui inventato, infatti «nel 1868 si presentò a Tarchetti un’altra opportunità di riconoscere la sua traduzione, opportunità che egli non colse: nel periodo in cui lavorava al periodico Emporio pittoresco ristampò il racconto sotto il suo nome con un titolo diverso, L’elixir dell’immortalità (imitazione dall’inglese)»[5].

Tarchetti sembra quasi voler suggerire con i sottotitoli che connotano le due edizioni del racconto (“dall’inglese” nel primo caso, “imitazione dall’inglese” nel secondo) una volontà, forse non del tutto chiara, di far intendere al lettore che vi sia un’influenza precedente che funge da struttura del racconto, ma non si lascia andare a reali e sincere ammissioni riguardanti la presenza di fonti precedenti alla base della sua creazione.

Come ancora fa notare Venuti: «Tarchetti introdusse alcuni cambiamenti significativi: cambiò una data, usò nomi diversi per i due personaggi principali, omise alcune espressioni e frasi, e ne aggiunse delle sue, operando così una forte trasformazione del testo inglese. Tuttavia […] la sua versione italiana è dominata dal proposito della riproduzione: aderisce così strettamente alle caratteristiche sintattiche e lessicali dell’inglese di Mary Shelley da risultare più una traduzione interlinguistica che “un’ imitazione”»[6].

Poco importa, alla fine, se il protagonista del racconto di Tarchetti ha trecentoventinove anni e quello del racconto della Shelley ne ha trecentoventitrè, se i nomi cambiano, ecc.

Il fattore stesso che pone il racconto non come creazione ma come traduzione annulla già di per sé i sottotitoli parentetici che Tarchetti aveva utilizzato per la sua composizione. Non imitazione dunque ma traduzione vera e propria.

Il successivo plagio quindi è quello che pone Tarchetti come autore del racconto, un’operazione assolutamente volontaria e derivante principalmente, opta Venuti, da motivi finanziari. Quando infatti nel 1869 Tarchetti pubblicò la sua traduzione del romanzo di Charles Dickens di quattro anni prima dal titolo Il nostro comune amico non ebbe alcun problema a farsi riconoscere nel ruolo di traduttore.

In relazione a quanto scoperto da Venuti, il plagio effettuato da Tarchetti sarebbe dunque di duplice fattura, non solo per aver copiato il racconto della Shelley ma anche per averne fatta una traduzione non dichiarata.

Infatti dice Venuti: «Con un plagio costituito da una traduzione egli introduceva un cambiamento decisivo nella forma e, in particolare, nel linguaggio dell’originale; affermando di esserne l’autore mascherava questo cambiamento, ma al tempo stesso indicava che era tanto decisivo da essere sufficiente per designare la creazione di un nuovo testo che nasceva con lui. Il plagio di Tarchetti demoliva velatamente la distinzione che un’idea individualistica di paternità poneva tra autore e traduttore, creatore e imitatore. Ma poiché il plagio non venne scoperto né razionalizzato, continuò a sostenere tale distinzione»[7].

Tarchetti sembra attribuire quasi un valore creativo al concetto stesso di traduzione, non si tratta soltanto di farsi portavoce letterale del messaggio originale inglese ma anche di farsi re-interprete di quel messaggio, adattandolo al contesto della lingua italiana.

Una traduzione creativa quella di Tarchetti che – tramite l’indiscutibile plagio – connota il suo racconto, ne delinea la sequenza, lascia tracce di carattere “italiano” nella stessa stesura dell’opera.

Il racconto di Tarchetti finisce per diventare un nuovo testo di sapore originale, anche se è triste poi ammettere che uno dei primi esempi di gotico italiano nasce non per sua spontanea germogliazione ma per effetto di un plagio, elegante certo, ma sempre plagio consistente in «una traduzione invisibile fatta passare per originale»[8].

Il processo che porta lo scapigliato a scegliere di tradurre proprio un racconto fantastico inglese è probabilmente connesso alla voglia di superamento di certo realismo letterario di stampo romantico imperante all’epoca.

Il fantastico nell’Ottocento italiano era un genere poco frequentato, allora ecco che i modelli europei servono a determinati autori per riuscire nell’intento di stemperare prima, superare poi, certo realismo di impianto tipicamente e squisitamente manzoniano.

Ma l’odio-amore verso il Manzoni è sempre e comunque presente nella stesura delle opere degli autori di questo periodo. Prescindendo dall’esempio di Rovani, che mai ha negato la sua volontà di essere “manzoniano” nello stile ma non nelle tematiche, altri scrittori – tra i quali Tarchetti stesso – optano invece per uno stravolgimento dello stile manzoniano che, in fin dei conti, riesce a metà.

Il tentativo di allontanamento dalla lingua e dallo stile dell’autore dei Promessi sposi finisce per diventare una “variazione sul tema”, ossia un lavoro di destrutturazione e ricomposizione successiva (condita certo di nuove influenze “figlie” delle esperienze europee dell’epoca) della stessa base manzoniana.

Tarchetti pone su questa base manzoniana l’espediente nuovo del fantastico sinora assente in Italia; da un lato quindi un allontanamento dal Manzoni sicuramente volontario, dall’altro la presa d’atto che, anche nel voler essere anti-manzoniani, si finiva con lo scontrarsi con questo esempio assai presente e difficilmente superabile.

Si cerca di destabilizzare una radice assai solida – quella manzoniana – e non riuscendo a compiersi l’operazione di annullamento della stessa, si finisce per innestarla di nuovi parametri che, in questo preciso caso, sono le influenze goticheggianti del fantastico proveniente dall’Inghilterra.

Insomma «dal punto di vista linguistico Tarchetti operava una “deterritorializzazione” interna alla stessa lingua italiana, servendosi del linguaggio manzoniano per stravolgere il discorso narrativo dominante conducendolo decisamente verso il fantastico. In un periodo in cui le traduzioni italiane di romanzi fantastici stranieri era ridotta a pochissimi titoli, Tarchetti irrompeva sul panorama letterario minandolo dall’interno e destabilizzando il modello borghese egemone»[9]. E il modello borghese egemone era assolutamente impregnato di stile manzoniano.

Accanto al processo di superamento linguistico di certi parametri vi è la componente che pone maschilismo e femminismo tra loro in contrasto da un punto di vista squisitamente letterario-ideologico.

Qui una contraddizione rende non poco ingarbugliata l’analisi. Tarchetti, nell’appropriarsi indebitamente di un racconto da lui solo tradotto e peraltro scritto da una donna, nega la creatività della Shelley e rende il suo plagio vagamente ed egoisticamente di sapore maschilista.

Ma, come contraltare, esalta il femminismo dell’autrice inglese «enfatizzando per esempio la satira antimaschilista dell’inetto protagonista maschile»[10].

Si muove a metà Tarchetti, ma se pensiamo a certe sue altre opere, in primis il romanzo Paolina, non si può certo negare una vicinanza dell’autore alle problematiche femminili, una sua particolare sensibilità che lo pone vicino alla mentalità delle donne dell’epoca – soprattutto quelle non altolocate – che, a volte, sono costrette a mercificarsi per rendere vagamente vivibile la propria esistenza.

Ecco allora che il racconto tarchettiano un peso lo assume eccome, e «mediante il plagio, annulla la condizione di secondo grado del testo tradotto presentandolo come il primo racconto gotico scritto nell’italiano del registro realistico più diffuso, e stabilisce la sua identità di scrittore d’opposizione»[11].

Questo essere “scrittore d’opposizione” significa anche essere, in qualche modo, contro la morale benpensante dell’epoca, contro certo maschilismo becero, avversi alla concezione imperante che rende proprietà privata beni, corpi e arte, nemici insomma di un modus vivendi che allo scapigliato stava decisamente stretto.

La pietra da lui lanciata nello stagno della composizione crea successivi cerchi concentrici che saranno le opere gotiche e fantastiche dei fratelli Boito e di Emilio Praga, tasselli che completano il puzzle di questa nuova narrativa fantastica italiana, il cui embrione sta proprio nel racconto-plagio di Tarchetti.

Imprescindibilmente il racconto si erge a capostipite, dunque, di composizione fantastica per eccellenza e, volendo sbizzarrirsi, le associazioni che vengono in mente alla lettura sono tante e legate alle immagini che altri autori hanno delineato con le loro opere.

Pur essendo una traduzione il racconto è intriso di reminiscenze gotiche, fantastiche, metafisiche, provenienti da altre imprese.

Quando il protagonista, in preda a pensieri amorosi verso la sua amata, osserva la boccetta che contiene l’elisir dell’immortalità, mentre lotta con se stesso per assecondare o respingere il desiderio di accostare le sue labbra al portentoso liquido, ecco che le immagini che il suo pensiero partorisce diventano sogno, irrealtà, i luoghi della sua vita diventano lontani ricordi dolorosi ed egli dice di pensare a delle scene meravigliose che mai più si rinnoveranno.

«Mai più! Il mio cuore era lacerato da questa parola: mai più!»[12]. E questa parola come può non ricordare il “mai più” del corvo di Poe, la maestosa solennità macabra con la quale l’uccello sprigiona essenze inquietanti e metafisiche. Così come un tema tarchettiano, presente soprattutto nei romanzi, ossia quello della fuga dal lusso per un ritorno allo stato di povertà (che contiene un ritorno all’umiltà dello stato di natura) si evince anche da questa traduzione; dice la ragazza protagonista del racconto «Oh! Vincenzo […] conducimi alla capanna di tua madre; che io abbandoni tosto questo lusso abborrito, questo carcere dorato…, ridonami alla povertà ed alla felicità!»[13].

Sembra quasi che Tarchetti abbia scelto con cura il racconto da tradurre. Molti dei temi della Shelley sono gli stessi che Tarchetti ha sempre adoperato come suoi, temi che hanno sempre funto da colonna portante della sua composizione e della sua idea di società, topoi che – visti alcuni accostamenti su citati – erano mutuati anche dalle poetiche di altri autori.

C’è allora uno spesso cordone che lega la Shelley a Tarchetti, un legame voluto dall’autore scapigliato nel rendere la sua versione del racconto dell’autrice inglese, ma anche una sorta di sentire comune verso tematiche nuove e inediti generi (il fantastico in questo caso) che, come abbiamo già detto, condiscono il reale di nuove prospettive d’analisi.

Tarchetti, nel dare l’avvio al fantastico italiano, “sceglie” Mary Shelley e un suo racconto, perché esattamente sincronizzato su tematiche a lui care e ottimali al pretesto narrativo.

Il processo nella sua integrità indica, a mio avviso, non un caso ma bensì una netta volontà dell’autore che, seppur spuria, in quanto parto di un’operazione di traduzione, è assolutamente in sintonia con il disegno generale della visione dell’autore concernente la tematica compositiva.

Pazienza se uno dei primi esempi di fantastico italiano è una forma di plagio; un nobile obiettivo può rendere elegante qualcosa che, a una prima e fugace riflessione, sembra non essere tale.



[1] Gaetano Mariani, Storia della scapigliatura, Roma, Salvatore Sciascia editore 1967, p.398.



[2] Enrico Ghidetti, Tarchetti e la scapigliatura lombarda, Napoli, Libreria Scientifica 1968, p.90.



[3] G.Mariani, op.cit, p.399.



[4] Ibidem



[5] Lawrence Venuti, L’invisibilità del traduttore, Roma, Armando 1999, p.21



[6] Ibidem



[7] Ivi, p.219.



[8] Arnaldo Gnisci (a cura di), Letteratura comparata, Milano, Mondadori 2002, p.178.



[9] Ivi, p.179.



[10] Ibidem



[11] Ibidem



[12] I.U.Tarchetti, L’elixir dell’immortalità, in Tutte le opere, Cappelli editori, Bologna 1967, p.120.



[13] Ivi, p.123.

 http://www.finzionimagazine.it/libri/lenzuolate/lelixir-dellimmortalita-igino-ugo-tarchetti-e-un-furto/


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