giovedì 31 agosto 2017

Dracula. Vlad di Valacchia. Lo strumento di tortura preferito da Vlad III era l’impalamento che apprese dai turchi ed i cui metodi erano sostanzialmente due: Il primo consisteva nell’uso di un’asta appuntita che trafiggeva il condannato all’altezza dell’addome per poi issarlo in alto. La morte poteva essere immediata o sopraggiungere dopo ore di agonia. Il secondo metodo d’impalamento consisteva nell’utilizzo di un’asta arrotondata all’estremità che cosparsa di grasso veniva inserita nel retto della vittima che poi veniva issata e tenuta infilzata, il peso stesso del condannato faceva penetrare l’asta all’interno del corpo e la morte sopraggiungeva dopo anche due giorni di lenta agonia. Nella sola città di Sibiu, nel 1460, Vlad Tepes fece impalare 10.000 persone, e cosparse alcuni corpi con miele per attirare ogni tipo di insetto. Si vantò di questo proprio con il re d’Ungheria in una lettera in cui scrisse di avere ucciso con questa tecnica ben 50.883 turchi in soli tre mesi. Si è calcolato che nel corso della sua vita mandò a morte almeno 100.000 persone, escludendo i nemici caduti in battaglia.



VLAD III DI VALACCHIA, LA STORIA DI DRACULA
Nel maggio del 1897 l'irlandese Abraham Stoker pubblicò il suo capolavoro Dracula: 
la principale fonte di ispirazione del libro fu la figura di Vlad III di Valacchia. 

Egli nacque il 2 novembre 1431 e fu voivoda (principe) di Valacchia a più riprese fino al 1476. 
Era figlio di Vlad II Dracu la cui intera famiglia fu insignita della più alta onorificenza data dal sacro romano impero, ossia “l’ordine del drago “. Era noto come Vlad Tepes (Vlad “l’Impalatore” in lingua rumena). Negli anni della Caduta di Costantinopoli, combatté a più riprese contro l’avanzata dell’Impero ottomano nei Carpazi, provocando le ire del sultano Maometto II. Entrato in conflitto con il Regno d’Ungheria, allora retto da Mattia Corvino, venne imprigionato nel 1462 dal sovrano ungherese e ritornò al potere dopo un decennio come suo vassallo. 

Lo strumento di tortura preferito da Vlad III era l’impalamento che apprese dai turchi ed i cui metodi erano sostanzialmente due: Il primo consisteva nell’uso di un’asta appuntita che trafiggeva il condannato all’altezza dell’addome per poi issarlo in alto. La morte poteva essere immediata o sopraggiungere dopo ore di agonia. Il secondo metodo d’impalamento consisteva nell’utilizzo di un’asta arrotondata all’estremità che cosparsa di grasso veniva inserita nel retto della vittima che poi veniva issata e tenuta infilzata, il peso stesso del condannato faceva penetrare l’asta all’interno del corpo e la morte sopraggiungeva dopo anche due giorni di lenta agonia. 

Nella sola città di Sibiu, nel 1460, Vlad Tepes fece impalare 10.000 persone, e cosparse alcuni corpi con miele per attirare ogni tipo di insetto. Si vantò di questo proprio con il re d’Ungheria in una lettera in cui scrisse di avere ucciso con questa tecnica ben 50.883 turchi in soli tre mesi. 

Si è calcolato che nel corso della sua vita mandò a morte almeno 100.000 persone, escludendo i nemici caduti in battaglia. Il castello di Bran che viene presentato ai turisti come il castello di Dracula, in realtà venne costruito dai sassoni di Brasov. Il vero castello di Dracula, ora in rovina, è situato sulle rive dell’Arges ed è la fortezza di Poenari. 

Vlad venne ucciso nel 1476 in una battaglia nei pressi di Bucarest dove sembrava potesse prevalere ma venne tradito. Secondo altre teorie, Vlad sarebbe stato catturato dai nemici e liberato in cambio di un riscatto chiesto alla figlia Maria, sposata con un funzionario della corte napoletana. 
Una volta rilasciato, avrebbe trascorso gli ultimi anni a Napoli e qui sarebbe stato sepolto.


martedì 29 agosto 2017

Lev Tolstoj, Sonata a Kreutzer. La vicenda è ambientata su un treno; un uomo, dopo aver ascoltato una conversazione sull’amore fatta da alcuni sconosciuti, decide di raccontare la propria storia: narra di quando era sposato e di come un giorno ha presentato alla moglie un musicista. Presto, ha iniziato a sospettare che tra i due ci fosse una relazione, sospetto confermato quando ascolta i due eseguire in perfetta armonia la Sonata a Kreutzer di Beethoven; così, spinto dalla gelosia, uccide la moglie.

Era appena iniziata la primavera. Eravamo in viaggio da due giorni. 
Nel vagone c'era un andirivieni di viaggiatori che percorrevano brevi tragitti, ma tre erano saliti, come me, alla stazione di partenza del treno: una donna di una certa età, non bella, fumatrice, con un'espressione di grande stanchezza sul volto, e con un berretto in capo ed un cappotto di taglio quasi maschile indosso; un suo conoscente, un uomo sui quarant'anni, loquace, con tutte le sue valigie nuove e ben curate; e, ancora, un signore, che si teneva un po' in disparte, non molto alto, dai movimenti bruschi, non ancora anziano, ma con i capelli ricci evidentemente incanutiti anzitempo, occhi straordinariamente brillanti che si spostavano velocemente da un oggetto all'altro. Indossava un vecchio cappotto di buon taglio, con il collo di montone e portava in capo un berretto altro, pure di montone. Sotto il cappotto, quando lo sbottonava, s'intravedeva una poddevka ed una camicia russa ricamata. Un'altra particolarità di questo signore era che di tanto in tanto emetteva degli strani suoni, simili ad un raschiamento di gola, o ad un inizio di risata, subito interrotta
Pag. 3

“«Allora vi racconterò che… Ma lo desiderate veramente?». 
Io ripetei che mi interessava molto. Tacque per un po’, si passò le mani sul volto e cominciò: 
«Se devo raccontare, allora devo cominciare dall’inizio: bisogna dire come e perché io mi sposai, chi fossi prima del matrimonio. Fino al matrimonio io vissi come vivono tutti nel nostro ambiente. 
Sono proprietario terriero, laureato all’Università e sono stato anche maresciallo della nobiltà”.
Lev Tolstoj, Sonata a Kreutzer, 1891


Se non fosse sbucato lui, sarebbe stata un altro che avrebbe offerto un pretesto allo scoppio della mia gelosia.

“Battibecchi ed espressioni di odio venivano fuori per il caffè, per la tovaglia, per la carrozza, per una mossa al vint, tutte cose che non potevano avere la minima importanza nè per l’uno nè per l’altra”.
Lev Tolstoj, Sonata a Kreutzer, 1891

“Lei cercava di stordirsi nelle occupazioni sempre intense e incalzanti della casa, dell’arredamento, del vestiario suo e dei bambini, dell’ istruzione e della salute dei figli. Mentre io avevo la mia droga: l’ufficio, la casa, le carte”.
Lev Tolstoj, Sonata a Kreutzer, 1891

« […] io lo definisco un litigio, ma in realtá fu semplicemente la scoperta del profondissimo abisso che ci divideva. L'innamoramento si era esaurito in seguito alla soddisfazione dei sensi, e noi ora eravamo rimasti l'uno di fronte all'altra nel nostro reale reciproco rapporto, e cioè nel rapporto di due egoisti completamente estranei l'uno all'altro e bramosi soltanto di procurarsi quanto più piacere possibile.»
Lev Tolstoj, Sonata a Kreutzer, 1891
Pag. 48

Ora sostengono di rispettare la donna. Le cedono il posto, le raccolgono il fazzolettino, altri riconoscono loro il diritto di esercitare qualsiasi professione, di partecipare al governo, e via di seguito. Fanno tutto questo, ma il loro concetto della donna è rimasto lo stesso. È uno strumento di piacere. Il suo corpo è il mezzo di piacere. Lei lo sa. È come una schiavitù. 
Pag. 14

 ...e alla fine si arrivò ad un punto tale che non era più la discordia ad essere causata dall'ostilità, bensì l'ostilità causa della discordia. Mia moglie riteneva senz'altro di essere sempre nel giusto rispetto a me, ed io ai miei occhi miei occhi apparivo sempre un santo rispetto a lei. 
Pag. 17

"La cosa più importante che persone del genere non capiscono" disse la signora "è che un matrimonio senza amore non è un matrimonio, che solo l'amore rende sacro il matrimonio, e che un matrimonio autentico è solo quello consacrato all'amore." 
Pag. 20

Come un morfinomane, un alcolista o un fumatore, così anche chi ha conosciuto diverse donne per il proprio piacere non è più una persona normale, è rovinato, prigioniero per sempre del vizio. 
Pag. 29

E' sorprendente quanto grande, totale possa essere l'illusione che nella bellezza c'è il bene. 
Pag. 31

“Volete fare di noi soltanto degli oggetti del desiderio fisico: 
bene, in quanto oggetto del desiderio vi renderemo schiavi.”

lei agisce sui sensi dell'uomo, attraverso i sensi lei lo domina in modo tale che solo formalmente è lui a scegliere, in realta è lei. 
Pag. 33

Mi tormentava l'idea spaventosa di essere l'unico a vivere così male con mia moglie, tanto diversamente da come avevo sperato, mentre negli altri matrimoni queste cose non accadevano di certo. A quell'epoca non sapevo ancora che si trattava di una sorte comune ma che tutti, proprio come me, pensano che sia una disgrazia esclusivamente personale e nascondono questa loro sfortuna esclusiva e vergognosa, non solo agli altri ma addirittura a se stessi, insomma non vogliono confessarsela. 
Pag. 37

Le donne, come regine, tengono in schiavitù e incatenati al lavoro il 90% del genere umano. 
E tutto ciò solo perchè sono state umiliate, private di eguali diritti con gli uomini. 
Così si vendicano facendo leva sui nostri sensi, catturandoci con le loro reti. 
Pag. 38

Per quale motivo si proibisce il gioco d'azzardo, mentre alle donne sono consentiti abiti da meretrice che eccitano i sensi? Il pericolo è mille volte maggiore! 
Pag. 39

"Anch'io, dunque, ero finito in trappola. 
Ero, come si suol dire, innamorato." 
Pag. 39

 Tenete presente questo: se il fine dell'umanità è il bene, l'amore, se preferite; se il fine dell'umanità è quello che è stato annunciato dai profeti, e cioè che tutti gli uomini siano congiunti dall'amore, che le lance siano trasformate in in falci, eccetera, qual è l'ostacolo? L'ostacolo sono le passioni. E tra le passioni, la più forte e brutta e ostinata è quella sessuale, l'amore carnale; perciò se si elimineranno le passioni, compreso l'amore carnale, la profezia si avvererà, gli uomini si congiungeranno e l'umanità che avrà raggiunto il suo fine non avrà motivo di vivere. Ma finché l'umanità vive, si pone un ideale e, s'intende, non l'ideale dei conigli e dei porci, che aspirano a riprodursi quanto più possibile, e neppure quello delle scimmie e dei parigini, di usufruire nella maniera più raffinata possibile della passione sessuale, ma l'ideale del bene, che si raggiunge con l'astinenza e la castità. Un ideale a cui gli uomini hanno sempre aspirato e aspirano. Nascondi 
Pag. 43

E' sorprendente quanto totale possa essere l'illusione che la bellezza sia un elemento positivo. 
Una bella donna dice delle stupidaggini, e tu le ascolti senza notarle: vedi soltanto intelligenza. Lei parla, magari dice delle volgarità, e tu vedi soltanto cose piacevoli. Quando poi non dice stupidaggini, nè volgarità, ma è bella, allora ti convinci che sia un vero miracolo di intelligenza e moralità. 
Pag. 43

Eravamo due galeotti, legati alla stessa catena, che si odiavano e avvelenavano reciprocamente l'esistenza, fingendo di non vederlo. Allora non sapevo ancora che il 99% delle coppie sposate vivono nello stesso inferno in cui vivevo io, e che non può essere altrimenti. 
Pag. 64

C'è poco, del resto, che possa rimordersi, perché nel nostro mondo di oggi la coscienza manca del tutto, a parte, se vogliamo chiamarla coscienza, quella dell'opinione pubblica e del codice penale. 
Pag. 66

Quando rimanevamo soli, parlare, di solito, era tremendamente difficile. Che lavoro di Sisifo era mai! Appena avevi escogitato che cosa dire, e lo dicevi, bisognava di nuovo tacere e immaginare qualcosa. Non c'era di che parlare. 
Pag. 39

 Quando eravamo soli, eravamo quasi costretti al silenzio oppure a discorsi come quelli che, ne sono sicuro, possono fare gli animali tra loro: "Che ora è? è tempo d'andare a dormire. Che cosa c'è a pranzo quest'oggi? Dove dobbiamo andare? Che cosa sta scritto sul giornale? Bisogna mandare a chiamare il medico. Maša ha mal di gola". 
Pag. 68

"Non posso suicidarmi e non far nulla a lei, bisogna che soffra almeno un po' che capisca quanto ho sofferto." 
Pag. 94

Dicono che la musica agisca in modo da elevare l’anima: sono sciocchezze, non è vero. Agisce, agisce terribilmente, parlo di me stesso, ma niente affatto in modo da elevare l’anima; non agisce in modo né da elevare, né da abbassare l’anima, ma in modo da eccitare l’anima. Come dirvi? La musica mi costringe a dimenticarmi di me, della mia vera situazione, mi trasporta in una situazione nuova, e che non è la mia; sotto l’influsso della musica mi pare di sentire quello che in realtà non provo, di capire quello che non capisco, di potere quello che non posso. Io lo spiego dicendo che la musica ha la stessa azione dello sbadiglio, del riso: non ho sonno, ma sbadiglio, guardando della gente che sbadiglia; non c’è ragione di ridere, ma rido, sentendo della gente che ride. Essa, la musica, mi trasporta d’un colpo, immediatamente, nello stato d’animo in cui si trovava colui che ha scritto la musica. Mi fondo spiritualmente con lui e insieme a lui passo da uno stato d’animo all’altro. Ma perché lo faccio, non so.
Lev Tolstoj, Sonata a Kreutzer, 1891

"Su di me l'esecuzione di quel pezzo ebbe un effetto terribile: fu come se mi si scoprissero sentimenti nuovi, che mi pareva di non aver mai conosciuto, come se mi si svelassero nuove possibilità di cui fino ad allora non avevo avuto sentore. Fu come se una voce mi parlasse nell'intimo e dicesse: ecco com'è che si deve vivere e pensare, e non come vivevi e pensavi prima! Non potevo assolutamente rendermi conto in che consistesse quella novità che mi si era rivelata, ma la semplice coscienza di questa nuova condizione spirituale mi dava molta gioia. Tutte le persone che avevo lì intorno, compreso lui e mia moglie, mi apparivano adesso in tutt'altra luce". 
Pag. 101

Il mio primo impulso fu di correre dietro Truchacevskij, ma subito mi resi conto che non sarebbe stato molto dignitoso correre dietro all'amante di mia moglie con i soli calzini, e io volevo essere spietato, non ridicolo. Per quanto fossi in preda ad un'ira terribile, continuavo ad avere sempre l'esatta coscienza dell'impressione che potevo produrre sugli altri.
Pag. 101

E' un fatto sorprendente, come permanga piena l'illusione che bellezza significhi bontà. 
Una bella donna dice un sacco di idiozie, e tu l'ascolti, e non avverti le scemenza: 
odi cose spiritosissime. Dice e fa qualche grossolanità, e tu vedi invece qualcosa di garbato. 
Quando poi non dice né idiozie né grossolanità, e per giunta è carina, tu subito ti convinci che sia una specie di prodigio di intelligenza e di moralità.
Lev Tolstoj, Sonata a Kreutzer, 1891

Voi ritenete che le donne nella nostra società nutrano interessi diversi rispetto alle donne delle case di tolleranza, e io vi dimostrerò che è falso. Se le finalità, il contenuto interiore dell'esistenza sono differenti, tale differenza si rifletterà inevitabilmente anche sull'aspetto esteriore, e tale aspetto sarà differente. Ma osservate quelle derelitte e infelici, e poi le dame della più alta società: agghindate, vestite allo stesso modo, gli stessi profumi, le stesse braccia, spalle e seni denudati e il sedere in bella mostra sotto gli abiti attillati, la stessa passione per le pietruzze e gli altri gingilli costosi e luccicanti, gli stessi divertimenti, balli, musica e canti. Sia quelle che queste usano ogni mezzo per sedurre. Non c'è alcuna differenza. A un esame oggettivo si può solo dire che quelle che si prostituiscono per brevi periodi sono di solito disprezzate, e quelle che si prostituiscono più a lungo sono invece riverite
Lev Tolstoj, Sonata a Kreutzer, 1891
cap. VI

Sono convinto che verrà il giorno, e sarà forse molto presto, in cui ci si chiederà con stupore come abbia potuto esistere una società che consentiva azioni così lesive dell'ordine pubblico come quegli abbellimenti corporali che sono permessi alle donne nella nostra società. È come se si mettessero sulle passeggiate o lungo i sentieri trappole di ogni sorta, o peggio! Per quale motivo si proibisce il gioco d'azzardo, mentre alle donne sono consentiti abiti da meretrice che eccitano i sensi? Il pericolo è mille volte maggiore! 
Lev Tolstoj, Sonata a Kreutzer, 1891
cap. IX

Anch'io prima ero sempre in imbarazzo, sotto tensione quando vedevo una damigella imbellettata con il suo abito per il ballo, ma adesso ne ho aperto terrore, e vedo chiaramente qualcosa di pericoloso per l'umanità e contrario alla legge, e avrei voglia di chiamare un gendarme, chiedere aiuto contro il pericolo, pretendere che quella minaccia sia allontanata, rimossa. 
Pag. 38

“Soltanto noi uomini non lo sappiamo e non lo sappiamo perché non vogliamo saperlo; le donne sanno benissimo che l’amore più elevato, più poetico, come lo definiamo noi, non dipende dalle qualità morali, ma dalla vicinanza fisica e perfino dalla pettinatura, dal colore, dal taglio dell’abito…l’uomo mente quando parla di sentimenti elevati: a lui interessa solo il corpo, ecco perché perdona qualsiasi bassezza ma non perdona un abito fatto male, di cattivo gusto, di un brutto colore. Una civetta ne è conscia, ma qualsiasi ragazza innocente lo sa inconsciamente, come sanno gli animali.” 
Lev Tolstoj, Sonata a Kreutzer, 1891

“Provate a domandare a un’esperta civetta, intenzionata a conquistare qualcuno, se preferisca rischiare di essere accusata, in presenza di quello che vuole sedurre, di falsità, crudeltà o anche dissolutezza, o di mostrarsi in un brutto abito mal cucito: tutte preferiranno la prima evenienza. Sanno bene che tutti noi mentiamo parlando degli elevati sentimenti, che tutti gli uomini hanno solo bisogno del corpo, e perciò perdoneranno ogni schifezza, ma non un abito malfatto, inadeguato e di cattivo gusto.”. 
Lev Tolstoj, Sonata a Kreutzer, 1891
cap. VI

"Per le persone infelici vivere in città è meglio. 
In città un uomo può vivere anche cent'anni senz'accorgersi di essere ormai morto e putrefatto da un pezzo. In città si è sempre occupati e non c'è mai temo per riflettere un po' su se stessi. Ci sono gli affari, i rapporti sociali, le mostre d'arte, le cure per la propria salute e per quella dei figli, nonché le preoccupazioni per la loro educazione. Ora bisogna ricevere i tali e tal'altri conoscenti; ora invece bisogna recarsi in visita da certi altri; ora bisogna andare a vedere questa, o ad ascoltare questo o quest'altra. (...) E poi bisogna curarsi, o se stesso o qualcuno di famiglia; eppoi ci sono gl'insegnanti, i ripetitori, le governanti, e la vita scorre sempre più vuota". 
Pag. 78


“Guardai i bambini, lei con i lividi sul viso e per la prima volta mi dimenticai di me stesso, delle mie ragioni, del mio orgoglio, per la prima volta vidi in lei un essere umano. E così insignificante mi apparve tutto ciò che mi aveva ferito, la mia gelosia e così significativo mi apparve ciò che avevo fatto, tanto che avrei voluto affondare il mio volto nella sua mano e chiedere: Perdonami!, ma non osavo.
Lev Tolstoj, Sonata a Kreutzer, 1891




“La Sonata a Kreutzer” è una delle opere più cupe di Tolstoj, che appartiene all’ultimo periodo della sua vita. Egli aveva già scritto un racconto, “L’assassino della moglie”. che riprende in occasione di un avvenimento accaduto nel 1888 a casa sua, dove viene eseguita la “Sonata a Kreutzer” di Beethoven. Il turbamento che ne deriva fa sì che Tolstoj lanci una sfida: l’attore Andreev Burlak e il celebre pittore Repin oltre a lui ovviamente, avrebbero dovuto rappresentare con la propria arte le emozioni provocate dall’ascolto. Solo Tolstoj rispettò la promessa, dando vita a questo un racconto drammatico e provocatorio sull’onda del bisogno di autodenuncia di una condizione di tormento e sofferenza personale.
http://www.gliamantideilibri.it/la-sonata-a-kreutzer-lev-tolstoj/


La vicenda è ambientata su un treno; un uomo, dopo aver ascoltato una conversazione sull’amore fatta da alcuni sconosciuti, decide di raccontare la propria storia: narra di quando era sposato e di come un giorno ha presentato alla moglie un musicista. Presto, ha iniziato a sospettare che tra i due ci fosse una relazione, sospetto confermato quando ascolta i due eseguire in perfetta armonia la Sonata a Kreutzer di Beethoven; così, spinto dalla gelosia, uccide la moglie.
http://libri.robadadonne.it/libro/sonata-a-kreutzer/

https://youtu.be/aQAG6cD81xs

sabato 26 agosto 2017

La battaglia di Crécy. Dopo sedici terribili cariche, Filippo VI dovete riconoscere la terribile disfatta e ritirarsi, lasciando sul campo circa duemilatrecento balestrieri e millecinquecento cavalieri. Caddero, tra gli altri, il fratello del re, Carlo II d'Alençon (1297-1346), il Duca di Lorena, Rodolfo il Valoroso (1320-1346), e il Re di Boemia Giovanni I di Lussemburgo (1296-1346) che, ormai cieco, combatteva legato a due cavalieri. Da parte inglese si distinse per il coraggio dimostrato in battaglia il Principe di Galles, Edoardo il Principe Nero (1330-1376), di soli sedici anni: quando si trovò accerchiato, il padre si rifiutò di inviargli soccorsi, asserendo che il ragazzo doveva guadagnarsi gli speroni. Dopo questa vittoria, Edoardo III poté puntare indisturbato su Calais, che avrebbe tosto posto sotto assedio.

La battaglia di Crécy del 1346, grande battaglia della Guerra dei Cent'Anni (1337-1453). 

Una precedente battaglia s’era già svolta a Sluys, il 23 Giugno 1340, risoltasi in una vittoria secca dell’esercito inglese; in seguito, il Re d’Inghilterra Edoardo III Plantageneto (1312-1377) aveva tentato di invadere la Francia passando per le Fiandre, ma non era riuscito a costruire un solido sistema di alleanze, sicché nel 1346 si era risolto a sbarcare in Normandia: dopo una vittoria a Caen, il 26 Luglio, contro un piccolo contingente francese, l’esercito inglese si era visto braccato dal grosso dell’esercito francese, guidato personalmente dal Re di Francia Filippo VI il Fortunato (1293-1350), ma era riuscito a forzare il blocco postogli da una piccola armata che intendeva chiuderlo in una tenaglia. 

Vincendo la battaglia di Blanchetaque, il 24 Agosto, Edoardo III era riuscito a evitare l’accerchiamento e a passare la Somme, attestandosi sulla collina di Crécy all’alba di un giorno umido, dopo una notte piovosa. Benché le fonti non siano sempre concordi, sui numeri, si dice che gli Inglesi contassero circa sedicimila uomini, dei quali quattromila cavalieri, settemila arcieri con arco lungo e cinquemila fanti; i Francesi contavano invece circa quarantamila uomini, dei quali dodicimila cavalieri, seimila balestrieri genovesi e oltre ventimila fanti

La battaglia iniziò con uno scambio di dardi tra i temuti balestrieri genovesi e gli arcieri inglesi: questi ultimi ebbero nettamente la meglio, sia per la posizione più elevata, sia per la maggior frequenza di tiro, sia perché avevano protetto dalla pioggia le corde dei loro archi smontandole, mentre le corde delle balestre non s’erano potute smontare; inoltre, i genovesi avevano lasciato i loro pavesi con le salmerie e la granaiola di frecce inglesi li sterminarono. 

Spazientiti, i cavalieri francesi si lanciarono alla carica, travolgendo gli stessi loro balestrieri, ma i loro cavalli arrancarono sul terreno pesante della collina di Crécy e furono sterminati essi stessi dalle frecce inglesi; più e più volte la cavalleria francese si lanciò alla carica, affrontata strenuamente dai cavalieri inglesi. Dopo sedici terribili cariche, Filippo VI dovete riconoscere la terribile disfatta e ritirarsi, lasciando sul campo circa duemilatrecento balestrieri e millecinquecento cavalieri

Caddero, tra gli altri, il fratello del re, Carlo II d'Alençon (1297-1346), il Duca di Lorena, Rodolfo il Valoroso (1320-1346), e il Re di Boemia Giovanni I di Lussemburgo (1296-1346) che, ormai cieco, combatteva legato a due cavalieri. Da parte inglese si distinse per il coraggio dimostrato in battaglia il Principe di Galles, Edoardo il Principe Nero (1330-1376), di soli sedici anni: quando si trovò accerchiato, il padre si rifiutò di inviargli soccorsi, asserendo che il ragazzo doveva guadagnarsi gli speroni. Dopo questa vittoria, Edoardo III poté puntare indisturbato su Calais, che avrebbe tosto posto sotto assedio.


Edoardo III e la battaglia di Crecy.
Fu re d'Inghilterra e d'Irlanda per esattamente cinquant'anni, dal 1327 al '77.
Le ostilità tra Francia e Inghilterra si perpetravano dal '37 per la contesa del trono di Bretagna.
Nel 1346 Edoardo sbarca in Normandia con un esercito di 20.000 uomini, guidato da Goffredo d'Hancourt, un normanno, e alleatosi con i fiamminghi passa Abbeville e si posiziona sull'altopiano di Crecy con 12.000 unità. Filippo VI, re di Francia arriva con quasi 60.000 guerrieri, di cui circa 13.000 erano cavalieri pesanti (la stima dipende dalle fonti).
Era il 26 agosto e i vessilli francesi cominciarono a risalire il crinale sotto pioggia battente, appesantiti da armature e fango. L'assalto fu guidato da 15.000 balestrieri genovesi con l'obiettivo di decimare le forze britanniche, accompagnati da strumenti musicali che provocavano un frastuono assordante, con lo scopo di terrorizzare il nemico. Ma fu inutile, le corde delle balestre erano bagnate dalla pioggia e la loro potenza di fuoco (2 o tre dardi l minuto) era nettamente inferiore a un arco lungo inglese (12 frecce al minuto). Gli arcieri inglesi infatti si disposero ai fianchi e con fuoco incrociato misero in fuga i genovesi, decimati da frecce nemiche e da lame amiche francesi, che credendoli codardi avviarono una carneficina.
La cavalleria francese caricò, riesco solo ad immaginare cosa significasse assistere a uno spettacolo così: 12.000 enormi cavalli da guerra come non se ne vedono più, appesantiti da armature e protezioni, con cavalieri protetti da piastre aggiuntive rinforzate, superavano la tonnellata di peso, immagino la terra tremare. Si infranse sulle lance nemiche e sulla cavalleria che, appiedata, affrontò la carica spalla a spalla con la fanteria. Tra quelle fila c'era anche John Hawkwood conosciuto in Italia come Giovanni Acuto, mi premeva citarlo.
I francesi caricarono 16 volte, con scarsi risultati, fiaccati dal terreno fangoso, per di più in salita, dagli ostacoli, dai paletti, dall'incessante pioggia di frecce.
Fu così che un terzo della nobiltà francese morì, passati dalle "misericordie" della fanteria inglese, lunghi coltelli ricurvi conficcati nelle giunture delle armature, una cosa mai vista prima che degli straccioni uccidessero dei sangue blu, andava contro ogni regola del codice cavalleresco.
Il figlio di Eduardo III, il principe nero, si trovò più volte in difficoltà, circondato da soldati nemici, ma il padre decise di non inviare soccorsi perché doveva "guadagnarsi gli speroni", tant'è che appena sedicenne seppe rivelarsi un ottimo combattente.
L'evento più celebre della battaglia di Crecy fu certamente la carica di re Giovanni di Boemia, famosissimo vincitore di tornei, che era cieco da anni. Si fece legare al suo cavallo indossando la sua armatura migliore, e dopo essersi fatto posizionare di fronte ai vessilli del Galles partì alla carica urlando "Morirò di spada non prima di aver impugnato la mia, un'ultima volta!".
In serata l'esercito di Filippo VI si ritirò lasciando sul campo quasi 20.000 uomini.
Edoardo III si avviò verso Calais, stringendola in assedio e conquistandola, dando agli inglesi una base su territorio francese.
Fu così che la Guerra dei Cent'Anni ebbe ufficialmente inizio, e l'era della cavalleria conobbe il principio della sua fine.
post di The Art of Francesco Saverio Ferrara.



venerdì 18 agosto 2017

La Guerra del Peloponneso, crepuscolo della Grecia classica.

La Guerra del Peloponneso, crepuscolo della Grecia classica.

Schieramenti

Long walls
La guerra del Peloponneso è stata il primo vero conflitto “mondiale” della storia umana. Con i suoi trent’anni di scontri, tregue, cambi di alleanze, rivolte, battaglie ed eccidi di civili ha molto in comune con le guerre della prima metà del XX secolo.
Il contrasto tra ideologia democratica e imperialista di Atene e oligarchica e conservatrice di Sparta ricorda le divisioni ideologiche tra gli opposti schieramenti della Prima e della Seconda Guerra Mondiale.
Persino singoli eventi, come l’invasione fallita della Sicilia (che può rimandare alla catastrofe di Gallipoli o a quella di Stalingrado) o l’assedio di Atene che resisteva grazie al suo porto e alla superiorità sul mare (come i britannici contro Hitler che aveva conquistato la Francia) possono essere letti in chiave moderna.
Ma quali sono le ragioni di un conflitto che, per la prima volta, mise i greci tutti contro tutti, in una guerra fratricida che insanguinò il mondo classico che si era salvato – più o meno unito – dalle ripetute invasioni persiane del 490 e del 480 a.C.?
Giusto cinquant’anni prima Sparta e Atene, l’una dotata del più potente esercito terrestre della Grecia e l’altra della migliore marina, avevano ridimensionato la superpotenza mondiale dell’epoca, la Persia.
Ancora oggi i nomi di Maratona, Termopoli, Platea e Salamina richiamano alla memoria lo scontro tra autocrazia orientale e libertà occidentale.
Ad ogni modo, soprattutto nel conflitto del 480, Sparta e Atene si erano poste alla guida delle póleis elleniche, conducendole ad un’insperata vittoria sulla macchina da guerra del Re dei Re persiano, Serse.
Quella guerra aveva unito i greci, ma aveva evidenziato anche i loro punti di forza e debolezza: la potenza lacedemone era fortemente militarista e conservatrice, aveva una divisione per caste ferrea e solo in pochissimi – gli spartiati – godevano di pieni diritti politici; Atene, al contrario, era una società raffinata, multiculturale e orientata ai traffici commerciali. Entrambe avevano gustato il sapore della vittoria e del potere che ne derivava e, ora che il pericolo persiano si era allontanato, si iniziavano a confrontare nella prima Guerra Fredda della storia umana.
Tutte e due le polis avevano stretto patti di alleanza con altri centri più o meno piccoli, creando nel tempo delle reti di alleanze che si trasformarono in schieramenti contrapposti.
Come Stati Uniti e Unione Sovietica più di duemila anni dopo, Sparta e Atene non vennero alle armi direttamente, ma all’inizio fecero cozzare tra loro le città minori, sostenendole in piccoli conflitti locali e al massimo protestando con i rispettivi ambasciatori.
Schieramenti.
Le prove generali della Guerra del Peloponneso iniziarono intorno al 460, appena vent’anni dopo la vittoria contro i persiani. 
Atene aveva creato la Lega di Delo per unire varie póleis marittime per prevenire una nuova invasione. Era la NATO dell’epoca e ne condivideva molte caratteristiche: a capo indiscusso dell’alleanza stava una sola città, Atene, mentre le altre fornivano contingenti minori di uomini e navi oppure solo denaro, che serviva a finanziare il potenziamento della flotta militare ateniese. 
Dal 478, anno di fondazione, fino al 454, la cassa comune della lega venne posta nell’isola sacra di Delo, dentro un tempio. In quell’anno, viste le stringenti necessità belliche e pubbliche di Atene, il tesoro venne trasferito sull’acropoli e divenne una vera e propria tassa di città suddite a quello che stava diventando l’impero ateniese.
Pericle, capo supremo della sempre più florida e orgogliosa metropoli, aveva creato una sofisticata democrazia che con l’America attuale condivide la volontà di potenza, la ricerca di nuovi mercati commerciali, l’imposizione della democrazia nelle città alleate e un forte apparato militare navale.
Tutti ricordano l’Atene d’oro di Pericle, faro di cultura e bellezza – tutte cose verissime -, ma dimentica con che cosa queste venissero finanziate e il malcontento generale che, pian piano, iniziò a covare sotto le ceneri tra gli alleati.
Ad ogni modo negli anni ’50 del V secolo a.C. Atene era indubbiamente il centro del mondo greco, in uno stato di grazia tale da portarla all’egemonia sull’Egeo, all’alleanza con Argo e la Tessaglia che gli garantivano anche un buon esercito terrestre e perfino a tentare di strappare l’intero Egitto alla Persia, per consegnarlo nelle mani di una dinastia autoctona amica – o meglio dire vassalla – di Atene.
La città aveva ancora un solo punto debole: 
il suo cuore, l’acropoli, era distante dai suoi porti commerciali e militari del Pireo e del Falero. Con una geniale scelta strategica gli ateniesi decisero di innalzare delle mura – chiamate makrá téiche – lunghe sei chilometri. Un possente bastione in pietra a nord e uno a sud proteggevano una strada militare interna che garantiva il collegamento di Atene al suo polmone vitale: il mare. Con la costruzione delle lunghe mura Atene diveniva simile ad un’isola fortificata, nel senso che non poteva essere catturata da un esercito solo terrestre visto che con le dotazioni degli eserciti dell’antica Grecia era pressoché impossibile espugnare una città fortificata, se non inducendola alla resa con un lungo assedio.
Sparta, al contrario, era alle prese con una pesante crisi interna dovuta alla rivolta dei messeni, un popolo del Peloponneso sconfitto da tempo e posto in condizione di schiavitù dagli spartani.
Questo stato di cose, che metteva la città dell’Attica in netto predominio, mutò dopo la sconfitta nell’avventura egiziana e una serie di rivolte dovute alla sempre più netta trasformazione della Lega di Delo in un impero.
Nel 447 Atene perse il predominio sulla Beozia per mano di Tebe, alleata di Sparta, che cacciò i regimi democratici da vari centri della regione. La Tessaglia le rimase alleata, ma tiepidamente, e di sicuro non sarebbe scesa più in guerra al suo fianco. In più l’intera isola Eubea, tradizionale amica di Atena, si rivoltò e dovette essere inviato esercito e flotta per pacificarla.
La goccia che fece traboccare il vaso fu però l’interessamento ateniese sui traffici marittimi con le colonie della Magna Grecia, l’attuale sud Italia, cosa che andava a cozzare con gli interessi di Corinto, potente alleata di Sparta. Corinto convocò nel 432 l’intera Lega del Peloponneso, antagonista di quella di Delo come il Patto di Varsavia lo fu del Patto Atlantico, per richiedere provvedimenti decisivi contro l’arroganza e la superbia di Atene.
In pratica Atene stava mettendo il becco tra Corcira – l’attuale Corfù – ed Epidamno – l’attuale Durazzo, in Albania -, cercando di favorire in entrambi dei governi democratici. L’area però era considerata da Corinto come sua zona d’influenza, anche perché Corcira era una sua vecchia colonia. A complicare le cose la potente capitale dell’Attica stava assediando Potidea, altra colonia di Corinto sulla penisola calcidica e impediva ai cittadini di Megara, polis strategica tra l’Attica e il Peloponneso, di commerciare con le città-stato della Lega di Delo, puntando a creare un embargo commerciale che la strozzasse economicamente, facendola cadere sotto la sua influenza.
Si giunse ad un ultimatum: Atene doveva smettere con la sua politica aggressiva e lasciare in pace gli interessi di Corinto e di Megara. Perikles, che aveva in pugno l’assemblea della sua città, convinse gli ateniesi a rigettare orgogliosamente le minacce di Sparta e dei suoi alleati e fu la guerra.
Perikles aveva un piano ben preciso. 
La fanteria di Sparta era notoriamente la migliore della Grecia e la seconda in ordine di disciplina era quella di Tebe. Unite assieme creavano una falange oplitica virtualmente invincibile, perciò sarebbe stato folle tentare di opporsi a loro in campo aperto. Partendo da questo presupposto, sapendo di poter contare di una città fortificata inespugnabile grazie alle lunghe mura e di una ricchezza economica basata sui commerci e la flotta militare, l’idea vincente sarebbe stata una guerra di logoramento.
Atene avrebbe accolto tutta la popolazione dell’Attica dentro i suoi bastioni e avrebbe lasciato agli spartani un territorio che, ulivi a parte, non era particolarmente florido. Mentre questi si sarebbero potuti accanire solo contro le casupole di contadini abbandonate, la marina da guerra ateniese avrebbe attaccato con contingenti di opliti e fanteria leggera le coste del Peloponneso, bruciando i campi coltivati su cui si basava la molto più povera economia spartana.
Insomma, entro qualche anno gli alleati peloponnesiaci si sarebbero trovati con eserciti frustrati, un territorio devastato e risorse finanziarie ridotte a zero, dovendo chiedere un’ignominiosa pace.
Fu in questo modo che, nel 431 a.C., Atene e Sparta fecero sprofondare l’intera Grecia in guerra.
L’inizio fu uno strepitoso successo della strategia ad ampio respiro di Perikles: Archidamos II, uno dei due re di Sparta, cercò di attirare le truppe ateniesi fuori dalle mura saccheggiando campi e villaggi abbandonati, poi trattò con Siracusa e perfino con il vecchio nemico persiano per disporre di navi da opporre a quelle ateniesi. Mentre i suoi tentativi venivano frustrati ripetutamente Perikles guidava una flotta di 150 triremi intorno al Peloponneso, devastando ogni città non sufficientemente presidiata e prendendo Egina, un isoletta dirimpettaia e antagonista di Atene, che venne colonizzata con cittadini fedeli.
Sembrava fatta, ma la natura ci mise lo zampino: 
la polis non era fatta per contenere al suo interno l’intera popolazione dell’Attica. Le precarie condizioni igieniche di quell’assedio prolungato furono il ricettacolo perfetto per un epidemia di peste emorragica – o forse tifo – che tra il 430 e il 429 flagellò Atene, causando la morte di 1/3 dell’intera popolazione cittadina, compreso Perikles.
Con la perdita del grande leader la situazione degenerò. 
La fazione democratica passò sotto la guida di Kleon, fautore di una politica aggressiva e intransigente contro la fazione interna favorevole alla pace – guidata dall’aristocratico Nikias – e contro gli alleati riottosi.
L’esempio più drammatico fu l’assedio di Mitilene, ricca città marinara facente parte della Lega di Delo che aveva manifestato la volontà di sottrarsi all’alleanza.
Kleon, per dare un esempio durissimo a tutti coloro che potevano anche solo supporre di abbandonare la lega, inviò flotta ed esercito ad espugnare la cittadina e, una volta presa, convinse l’assemblea a decretare una sentenza atroce: soppressione di tutti i cittadini maschi e la riduzione in schiavitù di donne e bambini. Era troppo e la mattina successiva la decisione fu almeno in parte rivista, con la condanna a morte di “soli” 1.000 cittadini di Mitilene, considerati i fautori della rivolta, la distruzione delle mura e la consegna della flotta.
La democrazia di Atene si stava trasformando sempre più in una feroce tirannia, cosa che venne confermata dai disordini di Corcira, città che solo pochi anni prima aveva fatto degenerare la situazione politica dell’Ellade fino al conflitto.
La polis sita nella moderna isola di Corfù era una colonia di Corinto ma da tempo aveva un governo democratico filoateniese. Con la guerra vi erano stati dei cambiamenti politici e il partito oligarchico, salito al potere, dichiarò la neutralità della città e proclamò di voler evitare spargimenti di sangue tra i suoi cittadini.
Atene inviò una piccola flotta che venne allontanata da una potente squadra spartano-corinzia, ma appena questa si allontanò soddisfatta arrivarono i rinforzi ateniesi che diedero via libera agli esponenti del partito democratico di Corcira, che iniziarono una spietata caccia all’uomo degli oligarchi filospartani.
“Imperava la morte, con i suoi volti infiniti: 
e come di norma accade in circostanze simili, si raggiunse e superò di molto ogni argine d’orrore. Il padre accoltellava il figlio: dagli altari si svellevano i supplici e lì sul posto si crivellavano di colpi. Alcuni furono murati e soppressi nel tempio di Dioniso.(…) Dunque, al seguito delle sommosse civili, l’immoralità imperava nel mondo greco, rivestendo le forme più disparate. La semplicità limpida della vita che è il terreno più fertile per uno spirito nobile, schernita, s’estinse. Dilagò e s’impose nei personali rapporti, in profondo, un’abitudine circospetta al tradimento. Non valeva il sincero impegno verbale a distendere i cuori, né il terrore di violare un giuramento. Ognuno, quando aveva dalla sua la forza, vagliando volta per volta il proprio stato, certo che nessuna garanzia di sicurezza era degna di fiducia, con fredda meticolosità si disponeva piuttosto a munirsi in tempo d’adeguata difesa che concepire, sereno, d’aprir l’animo suo agli altri. Ed erano gli intelletti più rudi a conquistare di norma, il successo. Attanagliati dalla paura che il loro breve ingegno soccombesse all’acume dei propri antagonisti, alla loro destrezza di parola, nell’ansia d’esser trafitti prima d’avvedersene, dalla loro insidiosa mobilità inventiva, si slanciavano all’azione, con disperato fervore. I loro avversari invece, colmi di sdegnoso sprezzo, certi di prevenire ogni mossa nemica con una percezione istintiva, ritenevano superflua ogni concreta tutela fondata sulla forza fisica, e così scoperti perivano, fitti di numero”
Tucidide, La Guerra del Peloponneso, III, 83-85
Negli anni successivi la guerra proseguì con alti e bassi, con battaglie, scontri e massacri che si estesero anche al mondo greco delle colonie, come in Sicilia e nell’Italia meridionale, dove le póleis si schierarono per Atene o per Sparta.
Nel 425 gli ateniesi conquistarono Pilo nel Peloponneso e iniziarono a fortificarla per creare una base avanzata per le incursioni in Messenia, terra sempre riottosa al dominio spartano. Gli spartani decisero di effettuare una prova di forza e dare scacco a quell’operazione nemica assediando la guarnigione ateniese. Per bloccare Pilo inviarono un contingente scelto di opliti spartani nell’isola di Sfacteria e attaccarono senza successo il contingente ateniese, comandato da Demosthenes.
Le fortificazioni ben studiate e lo spazio angusto, oltre che l’utilizzo di truppe leggere di supporto, favorì gli ateniesi, che si ritrovarono vittoriosi e con la possibilità di assediare a loro volta il contingente di spartiati a Sfacteria.
Arrivò per giunta Kleon con i rinforzi e subito, mantenendo fede al suo carattere aggressivo, assaltò Sfacteria, pregustando una vittoria contro le invincibili truppe spartane. Alla testa di truppe fresche occupò prima la spiaggia dell’isola e costrinse gli spartiati a ritirarsi all’interno e poi, dopo un duro assedio, li indusse ad arrendersi e a consegnarsi prigionieri, fatto mai accaduto prima nella storia di Sparta. 
Lo shock sul mondo greco fu impressionante, un mito era caduto contro truppe leggere come arcieri e peltasti armati di giavellotto.
Questo successo in terra peloponnesiaca, unito ad ulteriori conquiste di basi e città, costrinse gli spartani a tenere nella regione una parte importante delle loro forze, riducendo la loro capacità di invadere l’Attica o di sostenere alleati lontani.
Ma la marea, che sembrava tornata in favore degli ateniesi, cambiò nei due anni successivi: nel 424 Brasidas, generale spartano dotato di buon intuito strategico, decise di partire per la Tracia in modo da attaccare le ricche basi ateniesi della regione e restituire pan per focaccia ad Atene.
All’inizio questi ultimi, credendo che gli spartani non avessero la loro visione generale, sottostimarono la sua iniziativa e si dedicarono ad affrontare Tebe per il predominio sulla Beozia.
Fieri della vittoria contro gli spartani a Sfacteria pensarono di bissarla con un confronto in campo aperto contro i tebani, ma vennero duramente sconfitti a causa della superiorità numerica nemica in truppe leggere e cavalleria. Allo stesso tempo Brasidas aveva approfittato della poca attenzione ateniese per cogliere successi su successi tra Macedonia – dove si era alleato con il sovrano locale, Perdikkas – e Tracia, assediando e catturando l’importantissima piazzaforte di Anfipoli, che gli regalò la supremazia nella regione.
Nel 422 fu Kleon a muovere a nord, con l’obiettivo dichiarato di spazzar via Brasidas e riprendere Anfipoli. Riuscì a far cambiare partito a Perdikkas di Macedonia e ottenne il sostegno del re dei traci. 
Brasidas, ben conscio che l’unione degli alleati lo avrebbe posto in grave inferiorità numerica, assaltò con rapidità gli ateniesi, che si sfaldarono. Fu uno scontro caotico dalla mischia uscì una netta vittoria spartana, ma anche la morte di entrambi i comandanti, Brasidas e Kleon.
Scomparsi i più grandi protagonisti del conflitto Sparta e Atene si accorsero che la guerra stava dissanguando le loro casse e falcidiando la rispettiva gioventù. Per questo motivo si giunse alla Pace di Nikias, che prese il nome dall’aristocratico ateniese che era fautore di un accomodamento generale. Venne stabilito che i belligeranti avrebbero restituito i territori occupati nel corso del conflitto, entrambe le parti avrebbero restituito i prigionieri, i santuari comuni sarebbero stati riaperti (e quello di Apollon a Delfi avrebbe recuperato l’indipendenza) e che tali accordi avrebbero avuto una validità di cinquant’anni.
In verità, la tanto pomposa pace fu più che altro una tregua temporanea per rifiatare, riarmarsi e individuare nuovi leader per dare di nuovo la parola alle armi. Il più grande e controverso tra loro emerse ad Atene nella figura di Alkibiades. Questi era di nobilissime origini, facente parte della famiglia degli Alcmeonidi che vantavano statisti del rango di Kleisthenes e di Perikles.
Alkibiades aveva ereditato il carisma, la capacità oratoria e l’intuito militare da Perikles, ma non la moderazione e la saggezza e fu perciò causa dei peggiori disastri della sua città. Con infuocati discorsi fece sua l’assemblea e sabotò la pace in ogni modo.
Il punto di svolta della guerra si verificò in Sicilia. 
Anch’essa era divisa tra alleati e simpatizzanti di Atene o di Sparta. 
La più potente polis era Siracusa, dotata di un esercito, una flotta e un’economia di primo piano. Alkibiades propose agli ateniesi di muovere guerra contro quest’ultima, impadronirsi delle ricchezze della Magna Grecia per finanziare il confronto finale con Sparta.
I preparativi ricordano molto la campagna alleata di Gallipoli, dove i britannici tentarono di tagliar fuori l’impero ottomano dal primo conflitto mondiale conquistando audacemente i Dardanelli e la capitale Costantinopoli, investendo ampie risorse della marina e della fanteria australiana e neozelandese. Il risultato, come andremo a vedere assieme, fu in entrambi i casi un disastro.
Atene schierò per l’impresa siciliana 134 triremi con un equipaggio di 25.000 uomini e 6.400 truppe da sbarco. Il comando fu affidato ad Alkibiades, a Nikias e a Lamachos. La flotta doveva partire nel giugno del 415 a.C. ma nella notte tra il 6 e il 7 di quel mese avvenne lo scandalo della mutilazione delle erme.
Le erme erano delle statue particolari con teste scolpite su pilastrini quadrangolari, sui quali a volte erano rappresentati anche i genitali maschili. Legate al culto della fertilità, la loro dissacrazione fu vista da molti come un segno premonitore di sventura per la spedizione imminente. Il peggio fu che divise i comandanti e ne indebolì il prestigio: Nikias fu sconvolto dal fatto perché era terribilmente superstizioso e religioso, ai limiti del bigottismo e della creduloneria; Alkibiades, vero ispiratore e leader della spedizione, ma conosciuto per il suo cinismo e per le bravate goliardiche, fu da molti individuato come l’ispiratore della mutilazione.
Alkibiades, a fronte del grave atto di accusa, chiese di farsi giudicare subito da un tribunale, in modo da eliminare ogni ostacolo alla partenza della spedizione. L’assemblea però decise di rinviare il dibattimento, consentendo a quest’ultimo di partire.
Da che mondo e mondo in guerra è meglio avere un solo comandante supremo, ma Atene in questo dimostrò poca attenzione. Lamachos, Alkibiades e Nikias avevano ognuno una strategia, chi più aggressiva chi più attendista. In più Alkibiades fu raggiunto dalla notizia che il processo sulle erme che si stava svolgendo ad Atene in sua assenza stava volgendo tutto suo sfavore, rischiando di trasformarsi in una condanna all’esilio o peggio a morte. Per questa ragione abbandonò l’esercito e la sua città natale e si rifugiò dai nemici spartani.
La combinazione del tradimento del nipote di Perikles e la proverbiale prudenza di Nikias condannarono fin da principio l’impresa già di per sé ambiziosa e piena di rischi. Mentre l’alcmeonide si prodigava per svelare i dettagli strategici, le ambizioni e i caratteri dei capi ateniesi alla mortale nemica peloponnesiaca, incitando ad inviare navi, generali e uomini in Sicilia, Nikias e Lamachos tentavano di stringere in una morsa Siracusa.
All’inizio, soprattutto grazie alla perizia di Lamachos e all’inesperienza sul campo dei coscritti siracusani, le cose andarono bene e ben presto parve che gli ateniesi avrebbero prevalso, aggiudicandosi la città più prospera del mondo greco dopo Atene stessa. Eppure tutto cambiò quando questi cadde durante una sortita degli assediati e Nikias, totalmente inadatto ad audaci tattiche offensive, perse l’occasione favorevole. Il suo perdere tempo e l’atteggiamento titubante diedero modo ai siracusani di riprendersi dagli scontri perduti, fare esperienza e preparare la riscossa.
In più Sparta inviò infine Ghylippos, comandante esperto che seppe forgiare le truppe, rinforzate da alcuni veterani spartani, corinzi e peloponnesiaci. Questo cambio di rotta condusse ad una vittoria sul campo dei siracusani, che alleggerirono l’assedio. Atene, allora, decise di inviare un ulteriore contingente di soldati e navi agli ordini di Demosthenes, in modo da aiutare l’inetto Nikias e cogliere la vittoria decisiva.
Questa fase ha un parallelo con la titanica battaglia di Kursk, dove i tedeschi tentarono di cambiare le sorti della guerra impiegando il meglio delle loro divisioni corazzate e la fanteria d’élite per spezzare la macchina bellica sovietica. Un grande azzardo, un giocare il tutto per tutto che costò loro – nonostante la vittoria tattica a caro prezzo – l’iniziativa sul fronte orientale, condannandoli a mantenere la difensiva per il resto della guerra, perdendo pezzo per pezzo tutto quello che avevano conquistato.
Con altre 73 triremi da guerra, 5.000 opliti scelti e 3.000 truppe leggere Demosthenes forzò Nikias all’assalto finale. Eppure l’assalto notturno, dopo un iniziale successo, finì di nuovo in stallo grazie ai veterani di Ghylippos che seppero infondere sufficiente desiderio di resistenza nelle truppe siracusane.
Quest’ultimo insuccesso fiaccò il morale degli ateniesi, a cui si sommò anche un’epidemia che decimò gli assedianti, che pensarono infine di ritirarsi prima di subire una totale disfatta. La partenza era ormai pronta quando, il 27 agosto del 413 a.C., si verificò un’eclissi di luna che suscitò il panico tra le truppe e Nikias, consultandosi con i suoi auguri, ritenne opportuno attendere il nuovo ciclo lunare non avendo visto la luna tornare limpida dopo il fenomeno. Quest’attesa permise a Siracusa di radunare rinforzi sia sul mare che sulla terra, cosa che porterà alla vittoria navale degli assediati e alla resa, dopo una mal guidata ritirata, oltre 7.000 uomini. Demosthenes e Nikias vennero uno ucciso in battaglia e l’altro giustiziato e i prigionieri morirono di fame o di stenti oppure vennero utilizzati come schiavi. Fu una catastrofe senza precedenti per Atene, che la portò al limite del collasso politico, sociale e militare.
A questo fatto, già di per se gravissimo, si aggiunse il perfido consiglio di Alkibiades che consigliò agli spartani l’occupazione della fortezza di Decelea, in Attica, che tagliò fuori Atene dai suoi rifornimenti di grano locali e soprattutto dal vitale argento estratto nelle miniere del Laurio, fondamentale per armare eserciti e flotte. Fu il colpo più basso mosso dall’acrimonioso esule alla sua città natale.
La debolezza della polis attica fu fiutata, come da un branco di lupi su un grande cervo ferito, dalle città della Lega di Delo, che proposero a Sparta una pace separata, l’uscita dall’alleanza e una sollevazione contro Atene. Persino il satrapo persiano dell’Asia Minore propose finanziamenti e supporto militare per schiacciare l’orgogliosa signora dell’Egeo.
Ma Atene aveva un ultimo asso da giocare. 
Da uomo saggio e previdente quale era, Perikles aveva fatto depositare nel Partenone un tesoro di 1.000 talenti – cifra astronomica per l’epoca, che equivale a circa 23 milioni di euro attuali – che si sarebbe dovuto utilizzare solo per gravissime emergenze. L’assemblea decise che il momento era arrivato e con quel denaro poté armare una nuova flotta, che doveva contrastare la sempre più numerosa marina nemica.
Le cose stavano girando male anche per Alkibiades, che al tradimento verso Atene stava aggiungendo anche quello contro Sparta, trattando in segreto con il satrapo Tissaphernes per far prolungare la guerra e non danneggiare troppo Atene, in modo da non trasformare la città lacedemone nella nuova superpotenza ellenica. Questo doppio gioco, infine scoperto, lo obbligò a fuggire sotto la protezione dei persiani e a riallacciare i contatti con la sua città natale tradita, proponendo finanziamenti e un cambio di sostegno del potente impero fondato da Cyrus il Grande se fosse stato riammesso ad Atene.
Ci furono conflitti interni nella città tra le fazioni oligarchiche, che volevano la pace e i democratici intransigenti, che credevano ancora nella possibilità di una vittoria finale. Dalla parte di questi ultimi cospirò anche il deterioramento dei rapporti tra spartani e Tissaphernes – con buona probabilità istigato da Alkibiades, che in quanto a capacità oratorie e di intrigo non aveva eguali -, che peggiorò la qualità della loro flotta e delle loro finanze, “dopate” dall’oro persiano ma mai state floride.
Pochi mesi dopo il governo democratico venne pienamente restaurato e si preparò a riaccogliere Alkibiades, il quale, tuttavia, preferì procrastinare il suo rientro in città solo dopo aver ottenuto un trionfo militare. Ora che era di nuovo alla guida della flotta la campagna che promosse nel 411-410 fu un pieno successo: tre chiare vittorie navali contro gli spartani e i siracusani permisero ad Atene di riottenere la superiorità sul mare e riconquistare molte città ribelli, forzandole a rientrare nella lega.
Gli spartani, demoralizzati, chiesero di intavolare trattative di pace, ma l’orgoglio degli ateniesi era tornato dopo lo smacco siciliano e questi chiesero una resa incondizionata che le avrebbe riconsegnato intatto il potente impero che deteneva all’inizio del conflitto. Perciò gli spartani chiesero, promettendo alla Persia la cessione dell’intera Ionia al loro dominio – un tradimento grave alla causa greca –, nuovo denaro per armare una flotta e reclutare rematori e marinai esperti da opporre ai veterani ateniesi. Il comando fu preso da Lysandros, protagonista della fine del conflitto.
Questi, futuro astro nascente spartano, seppe approfittare della poca esperienza di un comandante di Alkibiades per infliggere una sconfitta alla sua flotta presso Nozio. Questi, ben consapevole della leggerezza di aver lasciato ben 80 triremi nelle mani di un inetto e temendo un ennesimo processo, fuggì di nuovo, indebolendo per l’ennesima volta, in un momento delicato e decisivo, la leadership ateniese.
L’assemblea destituì tutti i comandanti che avevano fino a quel momento condotto delle buone operazioni difensive e offensive e li sostituì con dieci strategoi tra cui spiccava Perikles il giovane, figlio illegittimo del grande leader ateniese. Abbiamo già visto che in guerra è importante che a decidere sia un uomo solo e non dei comandanti con pari grado e che esercitano il comando a rotazione, ma si vede che Atene non aveva voluto imparare proprio nulla dall’esperienza siciliana.
Si arrivò così al 406, quando il successore di Lysandros, Kallikratidas, con un’imponente forza di 140 navi da guerra mise alle strette la flotta ateniese così mal guidata, minacciando di schiacciarla a Mitilene. Nella città attica scoppiò il caos nato dal terrore della fine. Con un ultimo guizzo di spirito patriottico fu deciso di giocarsi il tutto per tutto: 
vennero fuse le statue d’oro e fu garantita la libertà e i pieni diritti agli schiavi e ai meteci che avessero servito nella flotta. Nel giro di un mese vennero così equipaggiate oltre 100 triremi, inviate con celerità in soccorso degli assediati a Mitilene.
Kallikratidas, sicuro della vittoria, lasciò un pugno di navi a proseguire l’assedio e mosse con il grosso della flotta verso i rinforzi nemici, puntando alla gloria eterna. Spinti dall’intelligenza e dallo spirito che si accende nei momenti di disperazione, gli ateniesi elaborarono un’efficace tattica che mise a mal partito gli spartani. Alla fine della giornata erano andate a fondo solo 25 navi attiche contro le 70 lacedemoni e anche il generale nemico era caduto, regalando una boccata di insperato ossigeno agli ateniesi.
La vittoria poteva essere risolutiva ma i contrasti politici e l’esasperazione degli animi vanificarono il vantaggio acquisito: 
difatti gli strategoi vittoriosi vennero accusati di non aver prestato soccorso ai naufraghi e, giudicati davanti al tribunale popolare, vennero condannati a morte.
Per trovare un altro caso di suicidio politico-militare simile bisognerà aspettare fino al 454 d.C., anno in cui Valentinianus III assassinerà di sua mano il proprio magister militum Flavius Aetius durante il crepuscolo dell’Impero Romano d’Occidente.
Eppure, nonostante anche questo gravissimo sviluppo, le cose potevano finire ancora bene per Atene. La pesante sconfitta aveva riacceso a Sparta le voci di chi chiedeva una pace di compromesso con Atene. Dopo aspre discussioni il governo spartano offrì alla nemica la resa del forte di Decelea, il ritiro dall’Attica ed il ripristino dello status quo ante bellum. Assurdamente, l’assemblea ateniese rifiutò, speranzosa di una vittoria finale completa sul campo.
A questo punto anche Sparta decise di giocarsi il tutto per tutto, richiamò Lysandros, ottenne il sostegno del nuovo satrapo persiano Cyrus e mise in mare un’ultima flotta. 
Un vero armageddon si stava per profilare all’orizzonte.
Rafforzata la marina da guerra e consolidate le sue posizioni in Ionia, l’ammiraglio spartano intraprese una campagna di sistematica conquista delle città e delle isole alleate di Atene. Per sviare l’avversario volse la prua verso Atene, simulò un attacco ad Egina e a Salamina e proseguì fino alla città di Lampsaco, nell’Ellesponto, che cadde nelle sue mani. 
In questo modo, fu troncata la principale via di rifornimento per Atene e gli ateniesi non poterono far altro che inviare la loro intera flotta di 180 triremi nei pressi del fiume Egospotami, il più vicino possibile a Lampsaco, in modo da controllare le mosse dell’avversario.
Stupidamente i comandanti ateniesi, visto che Lysandros pareva poco propenso ad attaccare, fecero sbarcare i marinai per riposare e procurarsi del cibo di cui c’era carenza.
Secondo Xenophon, futuro eroe della marcia dei 10.000 che trascrisse nella sua Kyrou Anabasis, l’ultima orgogliosa flotta di Atene uscì in mare aperto, come era solita fare, mentre Lysandros restava nelle sue posizioni. Quando gli ateniesi tornarono al campo e si dispersero in cerca di cibo, allora il comandante lacedemone, senza colpo ferire, catturò le navi spiaggiate e fece prigionieri gran parte dei marinai.
Fu la catastrofe ultima, da cui Atene non si poteva più riprendere, né in termini materiali né in termini psicologici. Su quasi 200 navi all’orgogliosa potenza marinara rimanevano appena nove triremi. Lysandros era diventato il padrone dell’Egeo e conquistò, praticamente senza incontrare resistenza, la gran parte delle isole e delle città che erano state alleate di Atene e sostituì i governi democratici con regimi di tipo oligarchico.
A questo punto le lunghe mura non servivano più a niente perché Sparta poteva assediare Atene per terra e per mare, interrompendo i suoi rifornimenti in via definitiva. Dopo quasi un anno di assedio per terra e mare, nel marzo del 404 a.C., un Atene stremata e timorosa di rappresaglie decise di arrendersi.
Alcuni alleati di Sparta, rancorosi e inaspriti dal lunghissimo e sanguinoso conflitto, proposero la distruzione della polis, l’uccisione dei suoi cittadini maschi e la schiavitù per donne, vecchi e bambini.
Lysandros, conscio del prestigio della nemica sconfitta, fu più clemente: gli ateniesi vennero obbligati a consegnare la flotta tranne 12 triremi, dovettero sciogliere la Lega Delio-Attica, abbattere le Lunghe Mura, accettare al Pireo una guarnigione spartana e allineare la propria politica estera e interna – venne abolita la democrazia e stabilità l’oligarchia con il governo dei Trenta Tiranni – a quella della città lacedemone.
Era l’umiliante fine del sogno egemonico di Atene.
La guerra del Peloponneso cambiò il volto della Grecia antica: 
Atene, che dalle guerre persiane aveva visto crescere enormemente il proprio potere, dovette sopportare alla fine dello scontro con Sparta un gravissimo crollo in favore della forza egemone del Peloponneso.
Tutta la Grecia interessata dalla guerra risentì fortemente del lungo periodo di devastazione, sia dal punto di vista della perdita di vite umane sia da quello economico e, proprio per questo motivo, il conflitto viene considerato da molti storici come evento finale del secolo d’oro della civiltà ellenica.
In ultimo contribuì a creare quella convulsa fase di mancanza di leadership politica che aprì le porte a Philippos il Macedone e a suo figlio Alexandros, i soli che, da sovrani di un popolo considerato semi-barbaro dagli elleni, seppero unire con le loro falangi quello che Atene e Sparta non avevano saputo fare.

Alberto Massaiu

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Ellade in fiamme – Prima parte
Come già raccontato nei precedenti articoli dedicati allo scontro fra greci e persiani, le vittoriose battaglie di Maratona (vedi articolo NIke! Nike!) e Salamina (vedi articolo Molòn labè! – Venite a prenderle!) avevano dato ad Atene la consapevolezza della propria forza. Alla base della potenza ateniese vi era la flotta, che aveva sfidato e vinto le squadre navali del Gran Re.

Negli anni dopo la guerra Atene  riuscì così a riunire intorno a sé un’alleanza di poleis che si estendeva su gran parte delle isole e delle  coste del mare Egeo. Si trattava di una coalizione all’interno della quale Atene godeva di una posizione di assoluta preminenza al punto che a partire dal 454 a.C. il tesoro della Lega, alimentato dai contributi annuali di tutti gli alleati, venne trasferito dall’isola di Delo, dov’era custodito nel tempio di Apollo, ad Atene.

Qui il denaro fu speso per dare lustro alla capitale dell’Attica. Risalgono infatti proprio a quel periodo i lavori di ricostruzione e abbellimento dell’acropoli, saccheggiata dai persiani, con l’erezione del Partenone, lo splendido tempio dedicato ad Atena “Parthenos” (“vergine”), patrona della città, di cui ancora oggi ammiriamo le imponenti rovine.

Artefice della potenza ateniese fu Pericle, che dal 461 a.C. e per i successivi trent’anni fu il dominatore incontrastato della scena politica ateniese. Egli godette sempre di un largo consenso popolare, testimoniato dal fatto che dal 443 a.C. fu ininterrottamente eletto ogni anno alla carica di “stratego” (cioè membro dello stato maggiore ateniese) sino alla morte, avvenuta nel 429. Durante tutti quegli anni egli fu di fatto per Atene un vero e proprio re senza corona. Per questi motivi il trentennio che precede lo scoppio della guerra del Peloponneso è chiamato dagli storici
Età di Pericle”.

La guerra del Peloponneso può essere considerata come una conflagrazione”globale” all’interno del sistema internazionale ellenico in quanto coinvolse la quasi totalità degli stati cittadini greci.
Il carattere globale della contesa é evidenziato anche dalla vastità del teatro delle operazioni che coinvolsero un’area compresa fra l’Asia Minore e la Sicilia.

Le ragioni dello scontro tra Atene e Sparta sono innanzitutto da ricercarsi nei timori crescenti di quest’ultima di fronte alla progressiva espansione dell’influenza ateniese, che i lacedemoni ritenevano pericolosa per il mantenimento dello status quo e del loro modello politico oligarchico.

Le tensioni accumulatesi nel corso degli anni giunsero ad un punto di rottura nel 432 a.C. allorché Atene sostenne anche attraverso l’invio di una flotta l’adesione alla Lega delio-attica di Corcira (l’odierna Corfù), colonia di Corinto, polis alleata di Sparta. A questo si aggiunga che gli ateniesi decretarono il divieto di accesso ai porti della Lega contro le navi di Megara, altra potente partner degli spartani. Esasperati per gli affronti subiti corinzi e megaresi si rivolsero a Sparta che intimò ad Atene di sospendere ogni azione che danneggiasse gli interessi dei membri della Lega peloponnesiaca. Gli ateniesi, Pericle in testa, respinsero l’ultimatum. 
La guerra a quel punto fu inevitabile.

Mappa Guerra del Peloponneso 431 AC It.svg
Mappa Guerra del Peloponneso 431 AC 
Atene e alleati (in giallo) e Sparta e alleati (in rosso)

Gli spartani diedero inizio alle ostilità nell’estate del 431 a.C. inviando in Attica un esercito di circa 24 mila soldati al comando del Re Archidamo II. Pericle lasciò che i guerrieri lacedemoni devastassero le campagne mentre la popolazione della regione trovava scampo entro le mura di Atene, la cui flotta fu inviata a compiere scorrerie sulla costa del Peloponneso.
Archidamo si ritirò con l’arrivo della cattiva stagione, senza che il suo esercito avesse ottenuto nulla: Atene era stata dotata di un formidabile sistema di mura difensive, le “Lunghe Mura”, che la univano al porto del Pireo, costantemente rifornito dalla flotta della lega, il che garantiva alla città la possibilità di resistere potenzialmente ad oltranza.

Partiti gli spartani, nel 430 a.C. una nuova minaccia, ancor più tremenda, si abbatté sulla capitale dell’Attica: La peste. A dispetto del nome, con ogni probabilità si trattava di una forma di febbre tifoide, un morbo quasi certamente giunto in città dall’Egitto o dalla Siria tramite una nave che aveva fatto scalo al Pireo. L’epidemia ebbe effetti devastanti, maggiorati dal sovraffollamento causato dal gran numero di profughi che dalla campagna aveva trovato scampo entro le mura: si calcola che a causa di essa perirono quasi i due terzi della popolazione ateniese. Ma forse la scomparsa più sciagurata per Atene fu quella di Pericle, la cui fibra eccezionale non lo salvò dal contagiò. il vecchio stratego si spense all’età di sessantacinque anni nell’autunno del 429. Con Pericle Atene perdeva la sua guida più autorevole con gravi ripercussioni sulla conduzione del conflitto, in parte anche a causa del fatto che i suoi successori non dimostrarono qualità altrettanto eccelse.

La scomparsa di Pericle portò all’ascesa politica della figura di Cleone, leader “massimalista”, violentemente anti spartano e fautore della continuazione a oltranza della guerra.

Per Atene intanto la situazione sul piano militare si faceva sempre più difficile:
nel 429 a.C.,  truppe spartane e tebane assediarono e rasero al suolo la piccola città beotica di Platea, alleata degli ateniesi fin dai tempi della battaglia di Maratona. L’anno successivo la polis di Mitilene, situata sull’isola di Lesbo, tentò, anche cercando l’aiuto della lega peloponnesiaca, di scrollarsi di dosso l’egemonia di Atene approfittando delle difficoltà in cui si dibatteva quest’ultima in quel momento. Gli ateniesi, dopo vani tentativi diplomatici, furono costretti a usare la forza per ricondurre Mitilene sotto la propria influenza.


Sulla brulla isola di Sfacteria gli ateniesi circondarono gli spartani costringendoli ad arrendersi.
Nel 425 a.C. Il nuovo Re di Sparta Agide II invase l’Attica come già aveva fatto suo padre Archidamo, a cui era recentemente succeduto. Come risposta gli ateniesi assediarono ed espugnarono Pilo, città situata lungo la costa occidentale del Peloponneso, costringendo re Agide a lasciare l’Attica. Gli spartani assediarono a loro volta Pilo, facendo sbarcare un piccolo contingente sulla vicina isola di Sfacteria per isolare completamente gli assediati. Tuttavia l’ammiraglio ateniese Demostene di Afidna, avvisato per tempo, reagì sbarcando contingenti di truppe armate alla leggera sull’isola: gli spartiati, completamente circondati, furono costretti ad arrendersi, venendo condotti prigionieri ad Atene: Era la prima volta che dei guerrieri spartani gettavano le armi di fronte al nemico, quindi la notizia suscitò senza dubbio grande impressione in tutto il mondo greco.

Nonostante l’indubbio successo dei loro avversari, gli spartani non si persero d’animo:
Nel 424 a.C. il condottiero lacedemone Brasida guidò un contingente attraverso la Grecia fino alla base ateniese di Anfipoli, occupandola. Per Atene fu un colpo durissimo: da Anfipoli passavano i carichi di grano del Mar Nero diretti verso la città, senza i quali Atene sarebbe stata ridotta alla fame. Il successo di Brasida portò altre città dell’area a ribellarsi contro Atene, che rispose nel 422 a.C. con l’invio di un esercito contro Anfipoli, alla cui testa si mise lo stesso Cleone. Davanti alla città l’armata ateniese diede battaglia contro quella spartana, che prevalse. Cleone si comportò valorosamente e cadde in combattimento, un destino che toccò anche a Brasida, tra i pochi caduti spartani dello scontro.

La morte dei due condottieri unita al senso di spossatezza dovuta dalle perdite umane e materiali subite in dieci anni di guerra, spinsero entrambe parti a intavolare finalmente trattative per arrivare alla cessazione delle ostilità. Nel 421 a.C. fu così firmata una pace cinquantennale che ristabiliva lo status quo precedente lo scoppio delle ostilità. Si concludeva, almeno apparentemente, la contesa tra Atene e Sparta con la reciproca restituzione delle posizioni conquistate da ciascuno nel corso del conflitto. L’accordo passò alla Storia con il nome di Pace di Nicia, dal nome del magistrato ateniese che ne negoziò i termini con gli spartani.

Presto però tra i due contendenti ricominceranno le recriminazioni e le accuse in un nuovo crescendo di tensioni. Dopo appena sette anni i venti di guerra avrebbero ripreso a soffiare sulla Grecia.


Ellade in Fiamme – Seconda parte
La pace conclusa grazie all’opera di mediazione di Nicia apparve da subito assai fragile. Immediatamente dopo la fine dei negoziati cominciarono gli scambi di accuse e le recriminazioni di entrambe le parti. Gli ateniesi in particolare erano riluttanti a cedere la strategica roccaforte di Pilo, ancora intatta. La pace, o meglio la tregua, come a questo punto converrebbe chiamarla, saltò definitivamente a soli sette anni dalla sua stipulazione. La spinta decisiva verso la ripresa delle ostilità venne da Atene per iniziativa di un politico giovane, ambizioso e alquanto spregiudicato: Alcibiade. A trentaquattro anni questo ex allievo di Socrate era considerato da molti come il degno erede di Pericle, di cui era nipote per parte di madre.

Grazie alle sue straordinarie doti oratorie, nel 415 a.C. Alcibiade convinse gli ateniesi a gettarsi in un’azzardata avventura militare nella lontana Sicilia, a migliaia di chilometri dalla loro città. L’intervento venne giustificato da una richiesta di aiuto rivolta ad Atene da parte di Segesta, sua vecchia alleata, che era stata attaccata da Selinunte, a sua volta alleata di Siracusa, colonia di Corinto e partner di Sparta in terra sicula. Fu quindi per riattizzare il confronto con l’arcinemica che Atene si intromise nelle lotte interne alle poleis siceliote.

L’assemblea popolare rispose entusiasticamente alla proposta di Alcibiade mettendo in mare una flotta di 134 triremi su cui fu imbarcato un esercito di cinquemila opliti oltre a millecinquecento fanti leggeri. Si trattava di un contingente di tutto rispetto per la cui preparazione erano stati profusi sforzi enormi. La guida della spedizione fu affidata ad Alcibiade stesso, coadiuvato dagli strateghi Nicia e Lamaco.

Proprio alla vigilia della spedizione ad Atene fu compiuto un grave sacrilegio interpretato da tutti gli abitanti come un presagio di sventura: la mutilazione delle erme di Dioniso, cippi di marmo sormontati dal busto della divinità dai quali sporgeva un vistoso membro in erezione. La mutilazione, che molto probabilmente ebbe come bersaglio proprio i falli, non costituiva solo un grave atto di  vandalismo ma si configurava anche come un gesto di spregio verso la divinità per il quale erano previste pene assai severe, fino a quella capitale.

Pur in mancanza di testimoni i sospetti degli inquirenti si concentrarono subito su Alcibiade, sul quale già circolavano voci circa l’avere profanato, rivelandoli, i Misteri Eleusini, legati al culto di Demetra, dea dell’agricoltura. Alla fine però, data l’imminenza della partenza per la Sicilia, si preferì sospendere il giudizio su Alcibiade, che fu lasciato libero di salpare con l’esercito.

Spedizione in sicilia it.svg

La spedizione cominciò male:
nessuna polis della costa italiana fornì aiuti alla flotta ateniese, non volendo inimicarsi la potente Siracusa. Gli ateniesi fecero allora vela su Catania, che venne occupata per essere utilizzata come base per l’attacco contro i siracusani. In quei mesi arrivò una nave con l’ordine di prelevare Alcibiade perché fosse condotto ad Atene dove ad attenderlo c’era un processo per sacrilegio.
Il comandante ateniese ubbidì all’ordine di rientro ma nel corso del viaggio riuscì a scappare. Approdato sulla costa del Peloponneso chiese asilo politico a Sparta che glielo accordò di buon grado.


Pubblicato da manub1991


https://lavocedellafenice.wordpress.com/2018/03/03/ellade-in-fiamme-prima-parte/

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Ada Luz Marquez. Disse la vecchia guaritrice dell'anima: Non fa male la schiena, fa male il carico. Non fanno male gli occhi, fa male l'ingiustizia. Non fa male la testa, fanno male i pensieri. Non fa male la gola, fa male quello che non si esprime o si esprime con rabbia. Non fa male lo stomaco, fa male quello che l'anima non digerisce. Non fa male il fegato, fa male la rabbia. Non fa male il cuore, fa male l'amore. Ed è proprio lui, L' amore stesso, Che contiene la piu ' potente medicina.

Le dissero: – Non sarai in grado di sopportare l’uragano.
Lei rispose: – Io sono l’uragano.
Ada Luz Márquez

Disse la vecchia guaritrice dell'anima:
Non fa male la schiena, fa male il carico.
Non fanno male gli occhi, fa male l'ingiustizia.
Non fa male la testa, fanno male i pensieri.
Non fa male la gola, fa male quello che non si esprime o si esprime con rabbia.
Non fa male lo stomaco, fa male quello che l'anima non digerisce.
Non fa male il fegato, fa male la rabbia.
Non fa male il cuore, fa male l'amore.
Ed è proprio lui,
L' amore stesso,
Che contiene la piu ' potente medicina.
Ada Luz Marquez


Non insistere, il fiore non sboccia
prima del giusto tempo.
Neanche se lo implori,
neanche se provi ad aprire i suoi petali,
neanche se lo inondi di sole.
La tua impazienza ti spinge a cercare la primavera;
quando avresti solo bisogno
di abbracciare il tuo inverno.
Ada Luz Màrquez


Non regalarmi fiori recisi,
anche se sono di un immensa bellezza.
Non accetto più niente,
nella mia vita,
che non abbia radici.
Ada Luz Marquez



Credimi figlia mia, la grande avventura della vita è quella di essere te stessa, senza lasciarti condizionare da quello che gli altri vogliono tu sia, per la loro pace mentale, per la loro utilità, per ciò che ritengono essere adeguato.
Probabilmente la tua Libertà di Essere, scatenerà isolamento, solitudine, tentativi di manipolazione, gelosie e incomprensioni.
Ricorda che tutto questo è parte del seme, fa parte del processo di apertura del guscio, è il rumore della schiusa, è il seme che fiorendo lascia andare tutto ciò che era prima. Osare fiorire oggi, in questi tempi di deserto, presuppone un grande coraggio, un grande potere, è la più Alta Rivoluzione. 
E sai perchè figlia? perchè quando tu fiorisci, fiorisce anche la speranza.
Ada Luz Márquez, Hermana Águila



Le rughe dei miei occhi sono raggi di sole.
Le rughe sulle mie guance sono onde del mare.
Le rughe della mia fronte sono onde di sabbia.
Il mio viso è una tela dove è impresso il paesaggio che ho vissuto,
la grande opera infinita che è la vita.
Il mio viso è la poesia di Madre Terra,
scritta sulla mia pelle.
Le mie risate e le mie lacrime, i miei canti ed i miei silenzi,
la vita vissuta ad ogni respiro.
Amo le mie rughe e le mie cicatrici,
perché mi ricordano che sono stata,
che sono e che sarò sempre più grande di ogni possibile dolore.
Ada Luz Márquez


La felicità non è un traguardo
è il sentiero,
è l’atto stesso della gestazione di un sogno.
E’ deliziarsi con l’odore del pane
che si sta impastando,
è il costruirsi le ali e sentire mentre si intessono
l’immensa gratitudine di essere già in volo.
Ada Luz Márquez



Ada Luz Márquez, Ode alle donne imperfette.
"Le donne imperfette con orgoglio onorano le rughe e le cicatrici, perché con esse ricordano che sono state, sono e saranno più forti del dolore. Le donne imperfette hanno il coraggio di sognare ad alta voce, muovendosi in sincronia da vari mondi, creando una nuova tela in cui sono necessari tutti i colori e l'accettazione dei loro errori come apprendimento prezioso. Le donne imperfette rispetto tutta la vita e chiedono rispetto e giustizia per loro. Le donne portano radici imperfette ai piedi, ancorate alla Madre Terra. Hanno nei loro passi le antenate, sorelle, figlie e nipoti. Danzano attorno ai falò per mantenere viva la fiamma di tutte le donne che sono stati bruciate nel loro essere più imperfetto . Le donne imperfette celebrano l'immenso dono che la vita ha dato loro essere donne, godono della loro sessualità e difendono il diritto fondamentale di possedere i loro corpi e le loro vite. Le donne imperfette onorano l'altro, si tengono per mano e si sostengono celebrando i successi delle altre e piangendo insieme per i propri dolori. Le donne imperfette scelgono gli uomini imperfetti, sensibili, che camminano sul loro stesso sentiero. Le donne imperfette imparano che le loro mestruazioni sono un dono, una potente apertura in altri mondi. Esse comprendono che il dolore è segno di connessione con tutte le donne che le hanno precedute e comporta la riconciliazione con il proprio grembo e il grembo di Madre Terra. Le donne imperfette iniziano a ricordano che il sangue non è spazzatura, il proprio sangue è sacro e porta l'alchimia della vita Le donne imperfette chiedono giustizia in silenzio per i propri diritti e per la propria femminilità, perchè il silenzio contiene il grido di tutte le donne e il grido di ogni donna ha l'eco di tutte le canzoni, il cielo e tutti i voli, il seme di tutti i fiori. Nelle loro pance portano una canzone antica e sono incinte di speranza . Partoriscono le stelle perchè hanno bisogno di Luce. le donne imperfette dicono forte e chiaro che non hanno paura, camminano senza paura e senza amnesia in un mondo pieno di paura. Le donne non sono proprietà di chiunque perchè imperfette loro sono proprietà di loro stesse, non sono la costola di nessuno o l'oggetto del desiderio, nè sono invisibili. Sono donne e vogliono essere chiamate Donne. Le donne sono incredibilmente perfette quando hanno il coraggio di essere imperfette, quando hanno il coraggio di essere, né più né meno, di essere. Donne imperfette iniziano a sentire il desiderio di ristabilire il contatto con altre donne imperfette e ricordano a tutti che l'anima non dimentica. Ricordano che non sono sole, che non lo sono mai state,e non lo saranno mai. Perché essere imperfette le rende uniche, Uniche per il mondo, per loro stesse e per la loro Libertà". Ada Luz Márquez, Ode alle donne imperfette.










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