La pedagogia nera. Dal '600 a quello che ne rimane, ancora, oggi.
C'era qualcosa in lui, qualcosa di selvaggio, di sregolato, di barbarico, che bisognava prima spezzare; una fiamma pericolosa, che bisognava prima calpestare e spegnere. L'uomo, come la natura lo crea, è qualcosa di imprevedibile, di impenetrabile, di pericoloso. È un fiume che erompe da monti sconosciuti; è una selva primordiale che non ha né vie né ordine. E come una foresta deve essere sfoltita e ripulita e chiusa di forza entro confini precisi, così la scuola deve spezzare, vincere, chiudere di forza entro limiti precisi l'uomo naturale; il suo compito è di trasformarlo in un utile membro del consorzio umano secondo principi approvati dall'autorità; di destare in lui le qualità il cui compiuto sviluppo verrà poi coronato dall'accurata disciplina della caserma.
Hermann Hesse, Sotto la ruota.
Il termine “pedagogia nera” viene ripreso da Alice Miller da un testo curato dalla sociologa Katharina Rutshky, Schwarze Pädagogik, una antologia critica della letteratura pedagogica popolare dalla quale Miller attingerà molto materiale per i suoi testi a favore di un risveglio verso la responsabilità che gli adulti hanno nei confronti dei bambini.
Il testo della Rutshky raccoglie una serie di scritti di pedagogisti della fine del ‘600 fino ad arrivare a quelli di tempi più recenti (fino alla metà del ‘900), nei quali sono descritti metodi di condizionamento precoce delle persone, ma in particolare del bambino, diffusi in tutti gli strati sociali. Di fatto molte di queste pratiche sono ancora oggi presenti in metodologie considerate “educative” che hanno alla base il concetto di punizione e obbedienza.
Per gli autori citati nel testo, l’educazione può essere riassunta come una guerra contro il bambino[1], e come in ogni guerra contano non solo la violenza (la verga e la cintura raccomandate come mezzi privilegiati), ma anche la strategia, l’astuzia, la capacità di ingannare, ossia la violenza psicologica. Il bambino deve cedere, diventare docile, sottomesso, obbediente. Ai genitori, al padre in primis (poiché la donna è considerata troppo emotiva e fragile per occuparsi dell’educazione del figlio che spesso può ingannarla e sedurla con pianti, capricci e tenere richieste) è assegnato il compito di prepararli all’obbedienza fin dalla più tenera infanzia, consegnando al maestro di scuola (primo adulto che valuterà l’educazione ricevuta in famiglia) un bambino privo di qualsiasi rivoltosità. Il maestro a sua volta non risparmierà la bacchetta o l’umiliazione davanti ai compagni, quando necessario. Dopo anni di un simile trattamento, il bambino diventerà un adulto obbediente allo Stato.
Oggi sembra incredibile, ma per secoli il bambino non è stato percepito come lo percepiamo oggi: un essere in sviluppo, fragile, ricco di potenzialità, che necessita del soddisfacimento di bisogni particolari, contatto umano, protezioni, comunicazione, appartenenza senza i quali si generano, oggi sappiamo, traumi che possono lasciare il segno nella vita.
Fino a cinquant’anni fa il bambino era percepito come un piccolo uomo in un corpo non sviluppato, i cui umori capricciosi erano solamente espressione di una volontà di potere per sopraffare l’adulto e piegarlo ai propri capricci. Fino a pochi anni fa la vita natale e neonatale del bambino era considerata come poco importante.
Qualcuno ha anche pensato di specularci sopra, spingendo, per esempio, l’allattamento al biberon col latte in polvere (anche quando non necessario), ritenendo che l’allattamento al seno non fosse importante. Fra i lettori, qualcuno conosce sicuramente un amico o un parente che pensa che lasciare piangere un bambino senza consolarlo sia il miglior modo per educarlo: sia mai che venga viziato! Molte neo mamme si sentono ancora dire che non devono tenere troppo in braccio i loro bambini, altrimenti ne pagheranno le conseguenze. Lasciare piangere il bambino di notte senza intervenire viene ancora considerato da alcuni un buon sistema per abituarlo a non chiedere aiuto, e lasciare dormire in pace i genitori, senza minimamente considerare che il pianto notturno porta con sé la sua comunicazione. Qualcosa che il bambino non può ancora esprimere a parole e compito del genitore è solamente quello di dire “Eccomi, sono qui. Non sei solo”.
Questi sono pochi ma attuali esempi di come i fumi della pedagogia nera siano ancora presenti nell’immaginario delle credenze comuni.
Questi sono, in sintesi, principi fondamentali della pedagogia nera:
I genitori e gli adulti meritano SEMPRE rispetto. Il bambino è tenuto a rivolgersi con referenza, dando del “voi” ed obbedire incondizionatamente all’adulto. Il senso di rispetto viene spesso indotto con la violenza, ma anche col senso di colpa (perché fai soffrire tua madre? Sapessi che sacrifici ha fatto per te! Sei un ingrato!).
L’obbedienza fortifica, quindi punire è consigliabile.
Si punisce per il bene del bambino. Quanto più ti punisco, quanto più dimostro l'amore che ho verso di te.
Il bambino non deve provocare l'adulto, ne sfidarlo.
La severità e la freddezza (distacco emotivo) costituiscono un efficace allenamento alla vita.
Il bambino si deve adattare il prima possibile alla vita dell’adulto. La vita del bambino è solo di passaggio, quindi meno importante. La vita veramente importante è quella dell’adulto produttivo e disciplinato.
Miller, da psicanalista[2], ha potuto entrare in contatto con il mondo dei bambini non visti, non ascoltati, non considerati (tutti sofferenti dei rispettivi traumi derivanti da questa tipologia di 2educazione”) attraverso le testimonianze dei suoi pazienti e sulla base della propria esperienza personale di figlia su cui è stata agita violenza psicologica. La pedagogia nera non era una corrente vera e propria: era l’intero sistema educativo occidentale, e non solo[3], che si basava su questi principi, favorevoli alla violenza educativa.
Miller scandaglia buona parte degli scritti pedagogici rivolti ai genitori con l’aiuto dell’ antologia curata dalla Rutshky. Così in questi scritti “ritroviamo il caso del dottor Schreber, padre di quel Daniel Paul Schreber che diventerà uno dei più noti casi clinici di Freud, autore delle Memorie di un malato di nervi[4].
Per quest’uomo, i cui libri incontrarono un grandissimo successo, il bambino va piegato fin dalla primissima infanzia, per far sì che giunga ad essere «comandato da un semplice sguardo dei genitori»[5].
E se per Schreber per ottenere questo fine bastano parole severe e gesti minacciosi, accompagnati magari da «moderati avvertimenti corporali», purché precoci, Johann Sulzer non manca di sottolineare l’importanza della verga per piegare fin da subito l’ostinazione dei bambini e farne figli docili ed obbedienti: «Se si riesce a privarli della loro volontà in quel periodo [nei primi tre anni], poi essi non ricorderanno mai più di averne avuta una, e il rigore di cui si dovrà far uso, proprio per questo motivo non avrà conseguenze deleterie»[6].Oggi vengono i brividi nel leggere il passo di un certo Peter Villaume, che riporta il suo dialogo con un ragazzino, terrorizzato affinché stia alla larga dalla pratica della masturbazione, mentre un certo Oest suggerisce, per avviare l’educazione sessuale, l’esposizione del bambino alla vista di cadaveri nudi, in modo che l’immagine dei genitali dell’altro sesso sia immediatamente associata al ribrezzo. In una pagina di tale Salzmann c’è uno spiraglio su una famiglia settecentesca: si è ripromesso di non educare il figlio ricorrendo alla violenza, ma un giorno il piccolo Corrado si è messo a far capricci, ed il padre non ha trovato altra soluzione che chiuderlo in una stanza e picchiarlo con la verga. Ma il peggio per il bambino viene quando, finita la punizione, corre dalla madre, che lo respinge: «Va’ via! Non sei più il mio bravo bambino!».”[7]
Qualche anno fa un saggio della scrittrice Amy Chua “Il ruggito della mamma tigre”, divenne un best seller. Corsi a comprarlo, poiché a detta di qualcuno conteneva, finalmente, sagge linee guida per una corretta educazione.
Non userò mezze parole per dire quanto ne rimasi delusa e profondamente contrariata, poichè non feci altro che trovare in questo libro, pubblicato nel 2011, gli stessi dettami della pedagogia nera.
L’autrice, il cui intento era quello di scagliarsi contro il permissivismo dello stile educativo americano, contrapponeva, attraverso la narrazione della propria storia e dell’eccellenza dei propri figli, il metodo “mamma tigre”, di tradizione cinese.
Non ho mai trovato nel testo le parole amore, comprensione, bisogno, compassione, coccola, riposo. Non si accenna mai alla felicità dei bambini, se non travisandola completamente (mia figlia, quando vince i concorsi, è contentissima). In compenso ho trovato molte espressioni legate alla privazione (non ho mai permesso ai miei figli di dormire fuori con gli amici, niente TV, niente internet, niente cartoni, solo cose utili), eccellenza (mia figlia è solita di violino a soli 9 anni), all’orgoglio dell’adulto (molti si complimentano con me e mi chiedono come io abbia fatto ad avere figli così bravi), alla competizione, al raggiungimento dell’obiettivo più alto. Compito dei figli è portare orgoglio alla famiglia. Leggere Sartre ad una bambina di cinque anni per stimolarne l’attività intellettuale è, dal mio punto di vista, un’espressione di mancanza di rispetto del mondo del bambino, ignorandone contemporaneamente le tappe di sviluppo.
Di fatto, la stessa autrice ammette che quando le sue figlie raggiunsero l’età dell’adolescenza, le presentarono un conto ben salato da pagare, anche attraverso la ribellione.
Molti lettori hanno “perdonato” questa mamma tigre per le ammissioni di esagerazione che ha fatto alla fine del libro.
Mamma perdonata, ma i bambini?
Chi può restituire loro la felicità di questo tempo perduto?
E’ un po’ la stessa posizione presa dagli adulti sostenitori della pedagogia nera: i bambini dimenticano.
Certo, dimenticano talmente bene che nella generazione successiva molti di loro non fanno altro che ripetere lo stile educativo ricevuto, con le stesse regole di obbedienza, sottomissione, punizione[8].
L’Europa, dopo le due guerre mondiali, è passata da uno stile educativo intransigente al polo opposto (permissivismo). La rivoluzione del ’68 che ha rotto culturalmente con l’idea del padre padrone, con la Legge educativa oppressiva e con la sottomissione, ha lasciato però un buco strutturale che è stato pagato dalle generazioni successive. Se lo stile “padre padrone” ha fatto i suoi danni, altrettanti ne ha creati lo stile “genitore amico”.
Il presente educativo è caratterizzato da una moltitudine di stili, che rappresentano diverse modalità di organizzazione del “sistema famiglia”.
Come sempre sono le polarità (normalmente più rigide e refrattarie all’adattamento) che rischiano di incidere maggiormente in maniera traumatica: l’eccessivo permissivismo degli ultimi 30 anni, e lo stile pedagogia nera che riscontriamo ancora oggi in Italia (in particolare nelle famiglie gerarchico patriarcali) e in numerosissimi casi di maltrattamento in famiglia.
L’Italia, nonostante sia stata una fervida sostenitrice insieme alla Germania di questo tipo di educazione, ha avuto la fortuna di essere influenzata da Maria Montessori, i cui insegnamenti pedagogici sono tutt’ora utilizzati in molte parti del mondo.
Maria Montesori, con Alice Miller, Bowlby e gli studiosi della Infant Research rappresentano il punto di svolta che può salvare la delicata infanzia dell’essere umano.
Articolo di Monica Bonsangue
Psicoterapeuta, psicotraumatologa
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[1] Le emozioni, di cui il bambino è ricchissimo, sono considerate entità selvaggia da sottomettere il prima possibile, invece che preziose forme comunicative, come scoperto più di recente.
[2] A. Miller, come Bowlby, rompe con la tradizione psicoanalitica di prima generazione secondo la quale i racconti di maltrattamento da parte dei bambini appartengono ad un mondo interiore del bambino (proiezioni fantastiche), piuttosto che ad eventi reali. Miller e Bowlby sono fra i primi a riconsegnare verità alle parole dei bambini.
[3] Ancora oggi in molte, e troppe, parti del mondo i bambini vengono cresciuti attraverso questi dettami.
[4] Schreber 2006.
[5] Miller 2007b, 7
[6] Miller 2007b, 14
[7] Estratto da http://educazionedemocratica.org/archives/1357
[8] A. Miller, La persecuzione del bambino. Le radici della violenza, Bollati Boringhieri.
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