martedì 29 maggio 2018

Bellezza e bruttezza nella fiaba.

Bellezza e bruttezza nella fiaba.
Giovanna Zoboli

Nei tempi antichi, quando desiderare serviva ancora a qualcosa, c’era un re, le cui figlie erano tutte belle, ma la più giovane era così bella che perfino il sole, che pure ha visto tante cose, sempre si meravigliava, quando le brillava in volto. Vicino al castello del re c’era un gran bosco tenebroso e nel bosco, sotto un vecchio tiglio, c’era una fontana. Nelle ore più calde del giorno, la principessina andava nel bosco e sedeva sul ciglio della fresca sorgente. E quando si annoiava, prendeva una palla d’oro, la buttava in alto e la ripigliava; e questo era il suo gioco preferito.
Ora avvenne un giorno che la palla d’oro della principessa non ricadde nella manina ch’essa tendeva in alto, ma cadde a terra e rotolò proprio nell’acqua. La principessa la seguì con lo sguardo, ma la palla sparì, e la sorgente era profonda, profonda a perdita d’occhio. Allora la principessa cominciò a piangere, e pianse sempre più forte, e non si poteva proprio consolare. E mentre così piangeva, qualcuno le gridò: 
“Che hai, principessa? Tu piangi da far pietà ai sassi.” Lei si guardò intorno, per vedere donde venisse la voce, e vide un ranocchio, che sporgeva dall’acqua la grossa testa deforme.“Ah, sei tu, vecchio sciaguattone!” disse, “piango per la mia palla d’oro, che m’è caduta nella fonte.

Con questa folgorante apertura ha inizio non solo Il principe ranocchio o Enrico di ferro, ma l’intera raccolta delle Fiabe dei Grimm

Una ventina di righe nelle quali l’armamentario più sontuoso, ambiguo, scintillante e torbido della fiaba si dispiega agli occhi del lettore con lo scopo poco nascosto di una seduzione immediata e irresistibile. 

Presi nelle maglie splendenti del racconto non possiamo che cedere. 
Un po’ come se le parole fossero strumenti di precisione, aghi capaci di centrare i punti nevralgici del nostro immaginario, per metterne in moto le linfe stagnanti, gli organi passivi, le funzioni impigrite, gli arti irrigiditi, restituendo agilità ai movimenti del desiderio e del pensiero. C’è una bella e c’è una bestia. C’è un castello e un bosco nero. C’è un tiglio antico e una fonte. C’è la noia e una palla d’oro. C’è un pianto inconsolabile e una grossa testa deforme: poli di meraviglia che costringono l’attenzione a oscillare fra presenze contrastanti, disorientandoci nel gioco facile dell’identificazione. Siamo chiamati a deporre più che l’incredulità, la vacuità di opinioni fondate quasi esclusivamemente sull’abitudine, per farci, a un tempo, selva e palazzo, bestia e candore, luce e buio, superficie e abisso, spocchia e umiltà, privilegio e malaugurio. Diventiamo lettori anfibi capaci di rimanere in vita nell’ambiente irrespirabile di mondi contrapposti e apparentemente inconciliabili. 

 

Fratelli Grimm, Il Principe Ranocchio o Enrico di Ferro. Illustrazioni di P.J. Lynch, Walter Crane, Maurice Sendak. 

Capiamo subito quel che ci viene offerto: 
più che l’evasione in un mondo di sogno, la verità resa leggibile dalla nitida visione della finzione. Sappiamo subito, per una istantanea e un po’ misteriosa forma di intuizione, di che fonti, di che alberi, di che animali qui si tratti. Sappiamo di che bellezza si parli. A indicarne la natura è, fra le altre cose, la continguità col sole che ci richiama alla mente con immediatezza parole celebri: 
Chi è costei che si leva come l’aurora, bella come la luna fulgida come il sole.” 

In una vertiginosa stratificazione di significati, simboli, tradizioni, culture, epoche, in questa esaltazione della luminosità come principale attributo della bellezza della principessa, troviamo accanto al Cantico del cantici, antichissimi culti del sole e della luna, in cui alla luce era associata l’idea stessa di bene; ci imbattiamo nel concetto di claritas, elaborato da Tommaso d’Aquino che identificava la bellezza con proporzione, integrità e chiarezza; ricordiamo le fronti, le chiome, gli sguardi lucenti delle donne lontane dei trovatori e della madonne oneste degli stilnovisti, fino alla Dulcinea di Cervantes, di “bellezza sovrumana, perché in essa si realizzano tutti gli impossibili e chimerici attributi che i poeti danno alla loro dame”: capelli d’oro, occhi come soli, guance di rose, pelle di neve.

È interessante notare che qui il parallelo fra la bellezza della principessa e il sole non è diretto, come accade per esempio in Richetto dal ciuffo di Perrault, dove si dice che “la primogenita era più bella del sole”, o in La sposa bianca e la sposa nera, dei Grimm, in cui la protagonista alla richiesta divina di esprimere tre desideri risponde: 
“Vorrei diventare bella e chiara come il sole.” E subito fu bianca e bella come la luce del giorno.” 

Nel Principe ranocchio, la relazione fra luce e bellezza si fa più sottile. Il sole, esperto conoscitore di ogni meraviglia terrestre, alla vista della principessa continua a soprendersi per qualcosa che sopravanza la misura del visibile: il segno di una bellezza sovrannaturale. Si annuncia in questo punto un aspetto cruciale della presenza della bellezza nelle fiabe, il suo esistere in una zona incerta, labile, ambigua, soggetta a metamorfosi, pericoloso e scivoloso luogo di confine fra visibile e invisibile. 

Giuseppe Maria Crespi, Amore e Psiche, 1707.

La contrapposizione fra bellezza e mostruosità, fra le quali si stende una zona di oscurità cieca e gravida di segreti, è un tema cardine in alcune tipologie di fiaba. Nella capostipite delle fiabe letterarie – Amore e Psiche di Apuleio – il sembiante del protagonista maschile tocca tutti e tre i gradi della trasformazione: dapprima annunciato come mostruoso, poi sfuggente e invisibile, quindi divinamente bello. Nelle fiabe sullo sposo misterioso accade spesso che il principe sia un mostro, come per esempio nelle innumerevoli versioni di La Bella e la Bestia. Nelle fiabe sullo sposo animale, invece, il principe, per un maleficio, vive nel corpo di una bestia, secondo le versioni: rana, porcospino, orso, serpente, uccello… In queste fiabe, la protagonista, spesso presentata come la minore e più bella di tre principesse sorelle, riscatta la mostruosità o bestialità del futuro sposo sottoponendosi con umiltà e pazienza a diverse prove che supera con successo, la più celebre delle quali consiste nel bacio alla forma orrenda sotto cui si presenta l’identità maschile. 

Anche nel Principe ranocchio, è la principessina a operare la trasformazione del principe da animale a uomo, ma la metamorfosi avviene sotto il segno della rabbia: dopo aver accettato con malcelato disgusto, sotto ingiunzione paterna, che il ranocchio sieda alla sua tavolina e mangi dal suo piattino d’oro, di fronte alla richiesta dell’animale di dormire con lei nel suo lettino, la protagonista perde il controllo: “Allora la principessa andò in collera, lo prese e lo gettò con tutte le sue forze contro la parete: - Adesso starai zitto, brutto ranocchio! - Ma quando cadde a terra, non era più un ranocchio: era un principe dai begli occhi ridenti.”In questo caso, la bellezza della protagonista non sembra affatto coincidere con una virtù salvifica. Il lettore, benché informato che nelle fiabe una eccezionale beltà femminile possa essere lo specchio di una perfezione interiore, ne aveva già qualche sospetto. Fin dall’inizio ha intuito l’eccentrica personalità della protagonista. Uno degli elementi di maggior fascino di questa ragazzina meravigliosa sta nel frequentare d’abitudine uno dei meandri più tenebrosi del regno, la selva, nell’annoiarcisi e, nei pressi di una profondità d’abisso, nel giocare, solitaria, con una palla d’oro. Nientemeno. Disposta, pur di riavere la palla smarrita nella fonte nera, a cedere al ranocchio i suoi vestiti, le sue perle e i suoi gioielli, magari la sua corona d'oro, ma non il suo tavolo, il suo piatto, il suo bicchiere e il suo letto (dimostrando una scala di priorità magari non saggia, ma di ogogliosa consapevolezza), fa promesse con disinvoltura per poi, con altrettanta disinvoltura, disattenderle. Non ci soprende dunque che costei, infuriata, scagli contro il muro il ranocchio testone, determinato a ottenere quanto gli spetta. Un gesto di inaudita violenza, ma, forse, per questo, anche più coraggioso di un bacio. Non per nulla, a proposito di questa fiaba ne Il mondo incantato Bettelheim commenta: “La fiaba ammettendo che la rana (o quale che sia l’animale in questione) è ripugnante, ottiene la fiducia del bambino, e quindi può ingenerare in lui la ferma certezza che, come essa racconta, a tempo debito questa repellente rana si rivelerà come il più affascinate compagno per la vita.” Che il principe, in questa versione dello sposo animale, abbia più bisogno di un brutale rifiuto che di una benevola accettazione, lo dimostrano i “begli occhi ridenti” che sfoggia alla sua prima apparizione: quel che meno ci aspetteremmo, a questo punto della storia. E quello che, disorientandoci per l’ennesima volta, fa zampillare l’incanto di una prospettiva di pensiero del tutto nuova.



Jeanne-Marie Leprince de Beaumont, La Bella e la Bestia. Illustrazioni di Angela Barrett, Eleanor Vere Boyle, Walter Crane. 

La profonda ironia di cui è imbevuto l’immaginario fiabesco si mostra in altre storie in cui bellezza e bruttezza vanno in coppia. È il caso di Richetto dal ciuffo di Charles Perrault dove una splendida principessa così sciocca da far cadere le braccia a chiunque le parli è contrapposta sia a una sorella brutta ma di rara brillantezza d’ingegno, sia a un protagonista maschile di sopraffina intelligenza ma “così brutto e deforme da far dubitare che avesse sembianze umane”. Avendo ricevuto al momento della nascita, dalla medesima provvidenziale fata, lei il dono di far diventare bello colui che sceglierà, lui il potere di dare ingegno alla ragazza amata, i due dopo varie vicissitudini, disguidi e promesse mancate, finiscono per fronteggiarsi esponendosi le reciproche ragioni: “Se avessi a che fare con uno scostumato, con un uomo privo di ingegno,” dice la bella, “certo mi troverei in difficoltà. Mi direbbe che una principessa ha una parola sola e che devo sposarlo perché ho promesso di farlo, ma dato che l’uomo a cui sto parlando è la persona più arguta del mondo, sono certa che ascolterà le mie ragioni. Sapete bene che, quando ero solo una sciocca non riuscivo a decidermi a sposarvi; ora come volete che, possedendo l’ingegno offertomi da voi, che mi rende ancora più esigente con gli uomini di quanto non lo fossi prima, io prenda una decisione che non ho saputo prendere allora? Se pensavate davvero di sposarmi avete fatto molto male a privarmi della mia stupidità, e a permettermi di vederci più chiaro.”

La vicenda, dopo uno scambio di argutissime battute, si conclude felicemente: i due convolano a giuste nozze, mentre Perrault si chiede se, più che l’incantesimo di una fata, non sia stato l’amore, “attrattiva invisibile”, a mutare gli occhi strabici, la gobba, la zoppìa, e il naso grosso e rubizzo dello sposo in seducenti qualità fisiche. Il che dimostrerebbe che nemmeno l’ingegno più fine può nulla contro la cecità procurata dall’innamoramento: ennesimo, brusco rovesciamento di prospettiva, tenuto conto che solo qualche riga prima la principessa affermava “di vedere più chiaro” grazie alla sua intelligenza nuova di zecca.
Oppure, e questo la fiaba, saggiamente ambigua, non lo chiarisce, lasciandoci nel dubbio, siamo in presenza di una principessa di scuola platonica, capace di vedere con gli occhi della mente? Così dotta da ricordare le parole del Fedro di Platone: “Perché la vista è il più acuto dei sensi permessi al nostro corpo, essa però non vede il pensiero. Quali straordinari amori ci procurerebbe se il pensiero potesse assicurarci una qualche mai chiara immagine di sé da contemplare!”

 
Charles Perrault, Enrichetto dal ciuffo. Illustrazioni di Henry Morin, Gustave Doré.

La compresenza di bellezza e bruttezza nella fiaba, come sistema simmetrico che ordina per opposizione tutto ciò che entra nel racconto, che siano figure di primo piano o elementi di sfondo - fratelli, sorelle, sposi, genitori, figli, regni, selve, palazzi, montagne, animali, fiori, alberi, laghi fiumi, gioielli, oggetti – sembra suggerire anche una parentela con quella visione tipicamente medievale del cosmo in cui bene e male, bello e brutto sono elementi convenienti l’uno all’altro, necessari all’armonia del tutto, secondo quanto afferma Giovanni Scoto Eriugena in un passo del De divisione Naturae: “Infatti ciò che viene considerato deforme per se stesso in una parte del tutto, nella totalità non solo si fa bello, perché è bene ordinato, ma è anche causa della generale Bellezza; così la sapienza si illumina dalla relazione con l’insipienza…” 
Vale anche la pena di sottolineare come spesso nelle fiabe la bruttezza sia indicata come deformità: ritroviamo in questa definizione del brutto come “privo di forma”, emblema del disordine e del caos, - in oppozione alla bellezza come ordine, proporzione esatta, misura perfetta che dà testimonianza dell’opera divina – una concezione della bellezza del corpo che attraversa le epoche, secondo diverse e a volte contrapposte formulazioni, dalla Grecia antica al Medioevo al Rinascimento fino alle astrazioni algide del Novecento. 

Da sempre, è la forma del corpo a fornire, nei racconti di epoche più o meno passate, - visivi nel caso dell’arte, verbali in quello della letteratura, - la rappresentazione più immediata e diretta di attitudini spirituali e morali, negative o positive, altrimenti difficilmente descrivibili e soprattutto comunicabili (è l’equivoco a cui allude la frase appena citata del Fedro). Del resto non sono i volti e i corpi che nella vita di tutti i giorni si offrono alla nostra lettura, e dai quali traiamo notizie sui caratteri e l’identità di chi ci sta intorno? In questo coincidere di “dentro” e “fuori”, risuona immediatamente il concetto greco di Kalokagathìa: la bellezza delle forme coincide con la bontà d’animo. 
Che bellezza e bruttezza abbiano a che fare con una dimensione più nascosta e invisibile dell’essere, insomma, è un dato di fatto. Ma nella fiaba la rappresentazione della bellezza non è poi tanto scontata, al contrario di quanto voglia l’opinione corrente, supportata da innumerevoli versioni di celebri fiabe semplificate a beneficio della loro spettacolarizzazione e comercializzazione. 
Se la bellezza di innumerevoli principesse – da Cenerentola in avanti – coincide con la loro mitezza, la bruttezza dei principi mostri o animali sta a segnalare una bellezza nascosta rivelata solo a chi possiede una vista migliore, oppure accetta di farsi cieco per vedere con altri organi (cuore? intelletto?). Vi sono poi principesse eccentriche, belle e insofferenti, che facendo il male fanno il bene. Vi sono principesse belle e stupide. E allora? Bisogna credere alla bellezza? E alla bruttezza? Biancaneve, si fida della bruttezza della strega, scambiandola per quella, accettabile, di una decrepita vecchina, e non si accorge che quel che vede è il volto vero e turpe della sua malvagia, ma splendida, matrigna. Insomma il gioco è dinamico, la bellezza e la bruttezza nella fiaba non rispondono a una regola unica, ma cambiano continuamente le carte in tavole, così come nell’esistenza umana soggetti a mutamento sono i volti e i corpi, che dalla nascita alla morte cambiano di continuo, e di noi danno agli altri immagini sempre diverse, e ambigue, di quel che siamo.

Edwin Landseer, Scene from A Midsummer Night's Dream. Titania and Bottom, 1851.

In origine, tuttavia, per i greci bellezza e bontà d’animo sono separate. E quello di bello non è un concetto assoluto. Kalòn è, semplicemente, “ciò che piace”,. 
La “cosa bella” prima di coincidere con “la cosa buona”, è quella “amata”, che suscita ammirazione, attrae lo sguardo: materializzazione di un desiderio soggettivo, movimento della psiche quanto mai sfuggente. La fiaba, nella sua forma sorgiva legata all’oralità, nel suo stesso farsi, è profondamente legata a questa dimensione effimera della bellezza come seduzione, in quanto vincolata alle attitudini personali, alla soggettività del narratore, alla sua capacità di catturare l’attenzione degli ascoltatori attraverso un equilibrato gioco fra attesa e sorpresa, costruito con l’ausilio di uno scintillante armamentario di scena che nutre il repertorio del meraviglioso di continue invenzioni. Dunque la fiaba si fa interprete anche di questa bellezza fugace e volubile, di cui dà mobile e raffinata rappresentazione. Lo suggerisce Beatrice Solinas Donghi in Fiaba come racconto quando scrive: “Le fiabe, che furono inventate apposta per essere ricordate senza dover necessariamente esser messe per iscritto, alla memoria distratta di noi non-analfabeti, risultano abbastanza difficili da ricordare in tutti i dettagli: è una traccia scolorita e generica quella che per lo più rimane nella memoria. Su questa traccia stranamente uguale per tutti, una specie di denominatore comune, lavora il moderno rimaneggiatore del mito; ignorando, o trascurando come inutilizzabile, gran parte della fiaba. Parallelamente allo sfruttamento del mito di Cenerentola, continua, un po’ in disparte, l’esistenza della fiaba salvata da un saccheggio grazie alla facilità di sorvolarla. A nessuna Cenerentola teatrale o cinematografica, nemmeno a quella di Walt Disney (carina, del resto), è ancora accaduto di essere rivestita d’oro e d’argento da un uccellino bianco tra i rami di un nocciolo, o da un ramo di dattero in un vaso prezioso zappettato con zappetta d’oro, annaffiato con secchiello d’oro, asciugato (immagine di una cura spinta fino alla squisitezza) con un tovagliolo di seta. Simili delizie sono riservate ad altra sede.”

Bellezza e bruttezza, infine, anche come terribili segnali indicatori di quanto di più imprendibile e nascosto si dia: il destino, concetto tanto labile quanto opinabile. Bellezza e bruttezza come indizi di cambiamenti ineluttabili e bufere all’orizzonte, sintomi di esistenze in cui il buio si appresta a divorare la luce e poi la luce a disperdere il buio, avvisi di metamorfosi e rinascite, spie di alterità che infrangono l’ordine e la misura delle cose, alterazioni necessarie perché prenda avvio il movimento conturbante di una storia: catena di eventi o, meglio, macchina del racconto che ci terrà incollati ad ascoltare di fatti e personaggi che ci vengono descritti: orrori e meraviglie di cui, come Pische, possiamo ascoltare, ma non vedere. Solo immaginare, con gli occhi della mente.
Nella fiaba la dimensione estetica, la bellezza – non solo quella che riguarda l’aspetto di principesse e principi, ma quella che tocca ogni ambito della narrazione, a cominciare dalla parola stessa - agisce come un fluido sistema di riferimenti e significati in cui ogni dettaglio del racconto è implicato, e che a ogni riga sorprende per l’accavallarsi e il confondersi di spunti, linguaggi, suggestioni, concetti, idee. Un sistema difficile da decifrare e approfondire per la ricchezza inesauribile di senso. Come se le fiabe fossero grandi spiagge ai bordi dell’immaginario umano su cui le diverse epoche storiche hanno abbandonato strati di affascinanti relitti: pensieri, credi, costumi, opere, abitudini, riti – a volte tanto più splendidi, quanto più incomprensibili, esotici, lontani.
Viene da chiedersi quanto di questo fulgore faccia ancora parte del patrimonio genetico di quell’orda minacciosa di principesse che si affaccia dagli scaffali dei centri commerciali sotto forma di film, lungometraggi e cortometraggi animati, giochi, bambole fumetti, libri, riviste, e merchandising di ogni genere. Un gineceo blasonato e conformista di cui l’immaginario mediatico sembra non poter fare a meno, oggi più che mai.

Articolo uscito sul numero 23 della rivista «Hamelin. Storie, figure, pedagogia».


http://www.doppiozero.com/rubriche/1543/201703/bellezza-e-bruttezza-nella-fiaba

giovedì 24 maggio 2018

Ken Wilber. La proiezione è molto facile da identificare sul piano dell’ego: se qualcosa o qualcuno nel nostro ambiente ci informa, probabilmente non stiamo proiettando; se invece ci turba, ci sono buone possibilità che siamo vittime delle nostre stesse proiezioni.

«La proiezione è molto facile da identificare sul piano dell’ego: 
se qualcosa o qualcuno nel nostro ambiente ci informa, probabilmente non stiamo proiettando; 
se invece ci turba, ci sono buone possibilità che siamo vittime delle nostre stesse proiezioni.» 
Ken Wilber – Meeting The Shadow

mercoledì 23 maggio 2018

Battaglia di Arbedo, 30 giugno del 1422. La battaglia di Arbedo ebbe luogo a ridosso della città fortificata di Bellinzona il 30 giugno del 1422, tra le truppe del Carmagnola, inviate da Filippo Maria Visconti a riconquistare Bellinzona, e i Confederati.

Nel 1422 4000 svizzeri avevano attraversato il San Gottardo dirigendosi verso Bellinzona e Domodossola, Carmagnola, al comando di un esercito milanese di 5000 cavalieri e 3000 fanti li affrontò ad Arbedo. Gli elvetici formarono un quadrato di picche, ma furono subito circondati. 
Il Carmagnola fece scendere da cavallo i suoi armigeri e li lanciò contro il quadrato svizzero. […] Rifiutata la resa offerta dagli svizzeri, egli li fece completamente a pezzi e fu quello un colpo di cui in Svizzera durò il ricordo per molti anni […].”
Michael Mallett, Signori e mercenari, la guerra nell’Italia del Rinascimento, 1983, p. 236-237


Battaglia di Arbedo, 30 giugno del 1422.
La battaglia di Arbedo ebbe luogo a ridosso della città fortificata di Bellinzona il 30 giugno del 1422, tra le truppe del Carmagnola, inviate da Filippo Maria Visconti a riconquistare Bellinzona, e i Confederati.


Filippo Maria Visconti, che con l'entrata in possesso da parte confederata di Bellinzona, si sentiva direttamente minacciato, cercò da prima di riacquistare la città, ma, non trovando un accordo con gli Svizzeri, si decise a riprendersela con la forza. Nella primavera del 1422 il Carmagnola, forte di un esercito di 16 000 uomini, riprese Bellinzona e le valli. A questa aggressione i Confederati, dopo varie discussioni in sede federale e senza il sostegno di Berna, reagirono inviando un contingente di circa 2 500 soldati arruolati in Leventina, Nidvaldo, Lucerna e Zurigo.

Tentarono l'assedio di Bellinzona ma vennero respinti. Allora le truppe elvetiche si accamparono nei pressi di Arbedo, in attesa di rinforzi. Le truppe elvetiche erano mal condotte e poco disciplinate, un gruppo di oltre seicento uomini abbandonò il campo per darsi a saccheggi nella vicina valle Mesolcina.

Il 30 giugno il comandante Carmagnola, accortosi dell'assottigliarsi delle file nemiche, decise il contrattacco. Le truppe elvetiche investite dalla cavalleria riuscirono per alcune ore a tenere l'urto abbattendo molti cavalli; a quel punto il Carmagnola, resosi conto della grande abilità dei fanti Svizzeri nel contrastare la cavalleria, diede ordine di far scendere i cavalieri da cavallo e di affrontare il nemico a piedi: con questo stratagemma mise gli Svizzeri alle strette.


https://it.wikipedia.org/wiki/Battaglia_di_Arbedo


Francesco Bussone, detto il Carmagnola (Carmagnola 1385 - 5 maggio 1432)
Nacque a Carmagnola da umile famiglia, probabilmente intorno al 1385. 
Dei suoi primi anni di vita mancano notizie: sappiamo soltanto che abbandonò la città natale appena fu in grado di arruolarsi nell'esercito di Facino Cane, al cui servizio rimase fino alla morte di questo (16 maggio 1412). 

Più tardi il Bussone dichiarò che come prima condotta aveva ricevuto il comando di duecento lance: il che può servire a calcolare il grado che il Bussone dovette raggiungere alla morte di Facino. 

Passò, quindi, al servizio di Filippo Maria Visconti e fu uno dei capitani che conquistarono Milano (16 giugno 1412). Ben presto si guadagnò particolare considerazione presso il nuovo duca: testimone a un atto di governo il 23 giugno 1412, il 19 settembre dello stesso anno era già consiliarius ducalis, un anno più tardi generalis marescalcus, e infine - al più tardi intorno al 1416 - generalis capitaneus al comando supremo delle armate ducali. 

In una pressocché ininterrotta serie di campagne, dal 1412 al 1422, il Bussone eliminò i signori che dominavano le città lombarde e restaurò l'autorità del Visconti sull'intera regione
Per raggiungere tale scopo il Bussone condusse all'inizio le operazioni militari nella fascia più vicina a Milano, assediando le fortezze che minacciavano direttamente la città, come Monza, che capitolò nelle sue mani nel 1413, Lodi, dove entrò il 20 agosto 1416, e la potente fortezza di Trezzo, che si arrese l'11 gennaio 1417.Quando Alessandria si ribellò nel 1415, il Bussone, grazie alla rapidità della sua azione, la riconquistò in una settimana. 

Nella primavera del 1417 Filippo Maria Visconti, consolidato il suo potere in Milano e con maggiori mezzi a disposizione, utilizzò il Bussone in una serie di campagne ben più ambiziose, dirette contro i nemici ancora rimastigli nella regione i quali avevano stretto tra loro una lega contro di lui. 

In questa seconda fase il Bussone combinò operazioni di assedio su larga scala con rapidi movimenti intesi a impedire il congiungimento delle forze nemiche. Filippo Arcelli abbandonò Piacenza, dopo aver subito un lungo assedio, nel giugno del 1418; i Beccaria furono cacciati dai loro feudi nell'Oltrepò; Bergamo fu presa nel luglio del 1419 e Gabrino Fondulo si arrese a Cremona nel gennaio del 1420. Nel frattempo Niccolò III d'Este aveva abbandonato l'alleanza antiviscontea e restituito Parma al duca milanese: il Bussone ebbe perciò la possibilità di concentrare le proprie forze per attaccare nel Bresciano. Il 16 marzo 1421 entrò trionfalmente a Brescia, mentre Pandolfo Malatesta, privato dell'aiuto veneziano dall'abilità diplomatica di Filippo Maria Visconti, si ritirava in Romagna. 

Il Bussone passò allora con il suo esercito in Liguria e il 2 nov. 1421 raggiunse un accordo con Tommaso Campofregoso per la resa di Genova al Visconti. Nella primavera del 1422 il duca lo inviò a cacciare gli Svizzeri dalle valli alpine che essi avevano occupato: il Bussone conquistò Bellinzona e riprese la Val Levantina. Quando un corpo nemico, forte di 4.000 uomini, si lanciò in un prematuro contrattacco, il Bussone, con forze di gran lunga superiori, li attese attestato su una posizione accuratamente scelta ad Arbedo. La battaglia, combattuta il 30 giugno 1422, fu lunga e aspra; ma la superiorità numerica ebbe la meglio e gli Svizzeri furono ricacciati con gravi perdite.

Arbedo coronò dieci anni di ininterrotti successi in battaglia, e consolidò la fama del Bussone come il più brillante condottiero dell'Italia settentrionale. Ben poco si conosce dei suoi metodi. 
Nota è la ferrea disciplina che egli imponeva alle sue truppe e che probabilmente favoriva la rapidità di movimento dell'esercito di cui il Bussone si avvalse specialmente nelle campagne del 1417 e del 1418. 

Rapidità di movimento che può essere stata facilitata dalla preferenza che il Bussone aveva allora per colonne poco numerose di uomini particolarmente addestrati: preferenza che non gli impedì ad Arbedo, quando le circostanze lo richiesero, di operare abilmente con grandi forze dispiegate. 

Nei racconti relativi agli assedi posti alle città nemiche - soprattutto quelli di Trezzo e di Piacenza - viene messa in risalto la cura con la quale il Bussone preparava il blocco delle città. Nel complesso egli dava prova di grande capacità professionale, di dedizione e di inflessibile crudeltà. Favorite dalle crescenti risorse di Milano e dal complicato e sottile gioco diplomatico condotto dal Visconti, tali sue qualità riuscirono a dargli la superiorità sugli uomini che doveva battere. 

Non sappiamo se egli collaborasse all'elaborazione della strategia politico-militare per la riconquista della Lombardia. È certo che i contemporanei ritenevano che il duca prestasse ascolto ai suoi consigli e in quegli anni il Bussone appare in veste di testimone o procuratore in numerosi atti di governo. 
Nel 1414 gli fu conferito il titolo di conte di Castelnuovo (Scrivia), con il diritto di usare lo stemma ducale e il cognome Visconti; il 14 febbraio 1417 sposò Antonia Visconti, lontana parente del duca. Nel 1421, anno in cui il duca gli confermò tutti i feudi che gli aveva concesso, il Bussone possedeva numerose proprietà sparse nel ducato, per una rendita complessiva che il Biglia stimava superiore a 40.000 ducati annui. Aveva ottenuto la cittadinanza milanese e acquistato il Broletto nuovo, dove dette inizio a grandiosi lavori di miglioria.

Vittorioso in guerra, sposato con una nobile, immensamente ricco, onorato perfino dal papa, il Bussone aveva raggiunto nell'Italia settentrionale una posizione troppo forte per la tranquillità di un sovrano dotato di temperamento sospettoso. 

Il 9 novembre 1422 Filippo Maria lo creò governatore di Genova, probabilmente dietro suggerimento degli stessi Genovesi. Non c'era nel ducato carica più onorifica e il Bussone non dovette aver dubbi sull'accettarla. Il nuovo incarico, d'altra canto, non lo allontanava dalla guerra, poiché il Visconti, pronto ora per un più pesante intervento negli affari italiani, si avvalse proprio del prestigio goduto dal Bussone presso i Genovesi per ottenere da questi ultimi una potente flotta destinata all'azione contro il Regno. Grande dovette essere, quindi, la delusione del Bussone - come grande fu, a detta dello Stella, lo "stupore" dei Genovesi quando il Visconti affidò il comando della flotta non al Bussone, ma a Guido Torello. 

Per quanto se ne sappia il Bussone, tuttavia, non protestò, e lasciata la carica di governatore partì da Genova il 5 ottobre 1424, sicuro di assumere il comando di una nuova armata destinata alla Puglia. Ma la spedizione venne annullata un mese dopo. 

È senza dubbio leggenda il racconto del Biglia secondo il quale ad Abbiate il Bussone fu protagonista di una scena tempestosa quando il duca rifiutò di riceverlo; ma è certo, tuttavia, che egli si trovò allora senza una carica, senza un comando, tenuto lontano dal duca da persone della cui gelosa ostilità doveva essere ben conscio, e senza alcuna sicura prospettiva per il futuro. 

Egli abbandonò allora, in tutta segretezza, il ducato visconteo e, dopo una breve sosta a Carmagnola e ad Ivrea - ove ebbe uno scambio di messaggi con il duca di Savoia - mosse verso oriente prendendo la strada delle montagne e con poche guardie del corpo giunse a Venezia il 23 febbraio 1425, lasciando la famiglia e tutte le proprietà nelle mani del Visconti. 

La sua reputazione lo sostenne in questo periodo di crisi. 
Dopo settimane di contrattazioni accettò da Venezia una condotta di 300 lance. 
Quando fu chiamato dal Senato ad esprimersi circa un'alleanza con Firenze contro Milano, il Bussone si dichiarò favorevole alla guerra contro il Visconti, il quale aveva preso parte ad un complotto per avvelenarlo

L'alleanza fu conclusa e il Bussone venne nominato capitano generale degli eserciti veneziani 
(9 febbraio 1426). Per qualche tempo egli aveva avuto contatti con alcuni elementi dissidenti di Brescia; questi riuscirono a prendere il controllo della città in nome di Venezia il 16-17 marzo, e il Bussone giunse tre giorni dopo per assumere il comando militare. La campagna del 1426 fu limitata al Bresciano e alla stessa Brescia, dove le guamigioni viscontee resistettero nelle fortezze e nelle cittadelle fino al 20 novembre e dove il Bussone con la sua solita scrupolosità costruì un grosso fossato e un doppio bastione di cinque miglia di lunghezza intorno alla città. 

Le operazioni belliche furono riprese all'inizio del 1427. 
Il Bussone sembrava deciso a non correre rischi combattendo contro condottieri della tempra di Francesco Sforza e di Giacomo Piccinino; non scese in campo fino alla metà del mese di maggio, quando, con un esercito forte di 20.000 cavalli e 8.000 fanti, gli era assicurata la superiorità numerica. 

Il che non gli evitò, tuttavia, di essere colto di sorpresa nei pressi di Gottolengo dal Piccinino che gli inflisse alcune perdite (29 maggio). Comunque, i suoi progressi nel Bresciano e nel Cremonese tra giugno e luglio allarmarono seriamente il Visconti e alimentarono in Venezia la speranza di poter assalire Cremona o di impadronirsi di un caposaldo sull'Adda da cui poter compiere incursioni fino a Milano. Invece, dopo una lunga, ma non risolutiva, battaglia svoltasi nei pressi di Cremona (12 luglio) e un poco chiaro combattimento che il Visconti salutò come una vittoria (30 luglio), il Bussone si ritirò nel Bresciano per difenderlo contro le incursioni del nemico. I due eserciti al completo si scontrarono a Maclodio il 12 ottobre. Il Bussone attirò il nemico in un temerario attacco lungo un angusto terrapieno che attraversava un terreno paludoso ove la sua fanteria attendeva in agguato, mentre la cavalleria, numericamente superiore, avvolgeva l'esercito nemico frontalmente e lo inseguiva dalla retroguardia, per completare la disfatta milanese. La vittoria fece sorgere nuove speranze in Venezia, ma da quel momento il Bussone limitò la sua attività al Bresciano.

Nei negoziati di pace tra le due parti la difesa dei diritti e degli interessi del Bussone fece sorgere serie difficoltà; la pace di Ferrara (19 aprile 1428) gli assicurò alla fine le proprietà e i crediti che aveva in Lombardia, e con un atto del 6 agosto 1428 Filippo Maria lo liberò da tutte le sentenze comminate contro di lui, e lo restaurò nel suo precedente stato e grado. 

Anche Venezia lo aveva ricompensato. 
Nel maggio 1426 il Bussone ottenne un titolo nobiliare per sé e per i suoi eredi, e divenne membro del Gran Consiglio; la Repubblica si impegnò a provvederlo "de tali nido de citro vel ultra Abduam in quo honorifice et bene possit stare". Dopo Maclodio ricevette in dono un palazzo sul Canal Grande e la signoria di Castenedolo nel Bresciano. 

Il Bussone aveva, è vero, conquistato Bergamo e Brescia, ma con un esercito eccezionalmente numeroso non era riuscito ad ottenere risultati decisivi sul campo di battaglia. Ed egli stesso dovette essere consapevole di non aver risposto in pieno alle aspettative, dato che cercò di conferire alla sua vittoria un eccessivo risalto, proponendo l'erezione di un grandioso monumento sul campo di battaglia di Maclodio

A vero che la sua salute non era buona; tra l'altro non si era mai rimesso completamente da una frattura di un braccio procuratagli da una caduta da cavallo nel 1425. È vero anche che la cautela da lui dimostrata nella conduzione delle operazioni militari poteva essere giustificata dal fatto che egli si trovava ad affrontare per la prima volta nella sua carriera alcuni dei maggiori condottieri italiani; ed è vero, infine, che mancano fondati elementi per sospettarlo di aver deliberatamente indugiato nell'incalzare il nemico. Ma la sua posizione politica andava anche al di là del campo strettamente militare: Filippo Maria Visconti aveva cominciato a tempestarlo di messaggi, almeno a partire dal maggio del 1426, per convincerlo ad assumere il ruolo di arbitro tra le parti contendenti, ruolo che male si conciliava con la lealtà che egli doveva a Venezia. 

All'inizio del 1429, durante un periodo di pace per Venezia, il Bussone manifestò il desiderio di non rinnovare la propria condotta. Ma il governo, temendo che egli volesse cercare servizio altrove, lo riassoldò come capitano generale per altri due anni (15 febbraio 1429) e gli concesse inoltre il feudo di Chiari, con il titolo di conte e una rendita annua valutata a 6.000 ducati. 

Il Bussone tuttavia aspirava ad ottenere di più: e quando Venezia iniziò i preparativi per riprendere la guerra contro Milano, pretese una parte del bottino. Il Senato si impegnò (1º settembre 1430) a concedergli, in caso si fosse giunti allo smembramento del ducato milanese, una qualsiasi città al di là dell'Adda, con relativo comitato, a sua scelta con la sola esclusione di Milano. 

La guerra ebbe inizio ai primi del 1431. 
Venezia ancora una volta sollecitava l'attraversamento dell'Adda, ma il Bussone, lasciatosi attirare a Soncino, fu colto di sorpresa e sconfitto. Allora non si mosse più dal Bresciano, e soltanto alla fine di maggio avanzò verso Cremona. 

Il 22 giugno la flotta veneziana sotto il comando di Niccolò Trevisan fu attaccata dal nemico fuori Cremona e pressoché distrutta, mentre il Bussone, accampato sulla riva opposta in ingannevole attesa di un attacco da parte dello Sforza e del Piccinino, non si mosse in suo aiuto. Il Trevisan fu ritenuto responsabile del disastro, mentre il Bussone fu assolto da ogni biasimo. Il suo esercito rimase intatto ma inattivo. Solo quando egli dichiarò che avrebbe dovuto portarsi nei quartieri d'inverno fin dalla fine di agosto, per la prima volta il Senato contestò apertamente il suo piano e rifiutò di accettare la sua decisione. Il Bussone rimase fermo e non prese alcuna iniziativa, e in ottobre il Senato discusse il problema "qualiter vivere habeamus et non stare in his perpetuis laboribus et expensis", senza però trovare una soluzione. Alcune proposte per incoraggiarlo, anche in merito alla speranza - che si riteneva egli nutrisse - di rendersi signore di Milano, furono discusse durante l'inverno, ma vennero poi differite o rifiutate. Alla fine, il 27 marzo 1432, mentre l'esercito visconteo attaccava il Bergamasco e il Bresciano riportando alcuni successi, il Consiglio dei dieci avocò a sé la questione del Bussone, già affidata ai Pregadi. Convocato a Venezia per un consiglio di guerra, il Bussone lasciò Brescia il 6 aprile, e giunse a Venezia il pomeriggio successivo. Fu scortato fino al palazzo ducale per un incontro con il doge, separato dalla sua guardia del corpo e imprigionato

A Brescia era stata presa ogni precauzione per evitare disordini, sua moglie era stata arrestata, venne intercettata la sua corrispondenza, e ogni sua proprietà fu sequestrata. Venne costituito un "Collegio di esamina", come richiesto dalla legge, e il procedimento contro di lui fu aperto in forma segreta il 9 aprile. Si dice che il Bussone, sottoposto a tortura, confessasse subito la sua colpa. Il Consiglio dei dieci ricevette il 5 maggio il rapporto del Collegio, condannò il Bussone come pubblico traditore dello Stato e con un voto di maggioranza emise contro di lui la sentenza di morte. Nello stesso pomeriggio, imbavagliato e con le braccia legate, fu decapitato tra le due colonne in piazza S. Marco. Il suo corpo fu sepolto in S. Maria dei Frari.

Venezia fornì spiegazioni sulla natura dell'accusa formulata contro il Bussone in una lettera dell'8 aprile 1432 inviata ai suoi alleati. Egli aveva deliberatamente mancato di proseguire la guerra, differendola in collusione con il Visconti, a danno dello Stato. La sorte del Bussone dette luogo a numerosi commenti e a divergenti opinioni e continua ad alimentare varie speculazioni. Secondo l'uso le prove che potevano essere esistite contro di lui non furono rese note, e gli atti del Collegio non sono stati conservati. La questione della sua colpevolezza rimane ancora aperta. Se la sicurezza di Venezia richiedeva la sua morte, è improbabile che il Consiglio dei dieci avrebbe esitato. Ma le relazioni politiche che il Bussone manteneva poste in relazione con le sue aspirazioni territoriali (egli aveva espresso la speranza di ottenere uno Stato per sé) offrono elementi per credere a una sua colpevolezza. Egli non poteva attendersi che la Repubblica di Venezia rinunciasse a territori propri nella misura necessaria per soddisfarlo, e d'altra parte non poteva sperare seriamente di riuscire a smembrare i territori viscontei a proprio vantaggio. Nonostante ciò, manteneva aperti i canali di comunicazione con Milano. 

Cristoforo Ghilini, un maestro delle Entrate del duca, aveva avuto l'incarico di amministrare le proprietà del Bussone in Lombardia nel 1425. Egli visitò varie volte il Bussone nel 1429-30 e fu uno dei tutori delle figlie nominati dal Bussone nel testamento redatto nel 1429. 

Filippo Maria Visconti continuò a corteggiarlo anche dopo la ripresa della guerra e i messaggi del Ghilini lo raggiunsero fino al febbraio 1432. È vero che il Bussone metteva regolarmente Venezia a conoscenza di questi messaggi, ma la possibilità di più segreti contatti (la cui esistenza è stata sostenuta dal Porro) non può essere esclusa. 

Per il Bussone, il mezzo meno improbabile per realizzare le sue ambizioni consisteva nel premio che Filippo Maria sarebbe stato disposto ad offrirgli per la riconquista di Bergamo e Brescia. Il Bussone, oltre a una figlia illegittima (andata sposa a Riccardolo Anguissola nel 1424), ebbe da Antonia Visconti quattro figlie. Una andò sposa a Luigi Dal Verme, e le altre tre trovarono in seguito marito a Milano, nelle nobili famiglie Castiglioni, San Severino e Visconti. 

I feudi del Bussone, compresi Chiari, Castenedolo (venduto all'asta nel 1435 per lire 35.520) e Sanguinetto, e la sua ricchezza personale "in capsis sive cofanis", stimata 308.000 ducati, furono confiscati dopo il suo arresto. 

Vennero presi provvedimenti a favore della vedova, che si diceva avesse fornito prove contro di lui, ma con l'obbligo di risiedere a Treviso. Ella fuggì a Milano nel 1434 e stabilì la sua residenza in "casa Carmagnola" (il Broletto nuovo). La difesa dei suoi interessi economici nello Stato milanese costò la vita al Bussone, ma assicurò un futuro agiato alla sua famiglia. Le sue spoglie furono più tardi trasferite a Milano e sotterrate in una tomba marmorea, costruita lui vivente nella chiesa di S. Francesco, dove rimasero, insieme con quelle di Antonia Visconti, finché la chiesa non fu distrutta nel 1798. Un ritratto, ritenuto del Bussone, opera del Ferramola, ora nella fondazione Ugo da Como a Lonato, mostra un uomo grosso e pesante di media altezza. Le grosse, corte dita, il viso accuratamente sbarbato, la faccia collerica con il labbro inferiore sporgente, gli occhi fieri, il naso piatto costituiscono una fisionomia attendibile di questo forte e spietato comandante, assurto dal popolo al supremo comando militare. 

Di temperamento irascibile, brusco nel parlare e di indubbio coraggio, egli aveva spiccate doti naturali di condottiero, di capo severo e di organizzatore efficiente, ma non contribuì in nessun modo, per quanto ne sappiamo, alla formazione di una scuola. o allo sviluppo di nuove tecniche militari. 
Il Bussone aveva appreso l'arte militare sotto Facino Cane prima che Braccio e lo Sforza avessero elaborato nel Sud i loro sistemi. Il Bussone raggiungeva il successo con l'adattarsi alle circostanze e col porre grande attenzione ai dettagli. 

Le sue vittorie ad Arbedo e a Maclodio furono ottenute dalla concentrazione di forze preponderanti dispiegata su un terreno attentamente scelto. La sua riluttanza a impegnare troppo in profondità il proprio esercito nelle campagne del 1427 e del 1431 sottolineava la crescente cautela subentrata nella sua tattica militare. I piani di queste campagne mostrano scarsa originalità, ed egli (come, d'altra parte, molti condottieri del suo tempo) non sapeva sfruttare le sue vittorie. 

Il Decembrio sostiene (cfr. Battistella) che i primi successi del Bussone furono dovuti specialmente al genio politico di Filippo Maria Visconti; il giudizio è forse attribuibile al desiderio del Decembrio di adulare il Visconti, ma è indubbio che dopo che il Bussone abbandonò il servizio dei Visconti declinarono anche le sue doti di condottiero

Al presente, sono da accettarsi le riserve espresse su di lui da storici moderni quali il Fossati. 
Il Bussone fu un buon soldato, ma la reputazione che acquistò nei primi tempi della sua carriera esagera alquanto le sue reali capacità di condottiero.

La genesi.
Nel corso del Quattrocento l'Italia non conobbe nella generalità del suo territorio alcuna grande invasione di eserciti stranieri, almeno fino al 1494. In quell'arco di tempo ben pochi furono i condottieri che non fossero di origine italiana. 

Tuttavia, come già abbiamo visto, una consistente percentuale dei connestabili di fanteria erano stranieri e dagli anni Ottanta molti furono gli stradioti albanesi e anche i turchi che servirono nella cavalleria leggera degli eserciti italiani. 

Inoltre, ricordiamo che le vicende del regno di Napoli nel Quattrocento furono quelle caratterizzate da un conflitto continuo tra Aragonesi e Angioini. Così, parecchi corpi di spedizione angioini penetrarono in Italia durante il Quattrocento e il nerbo delle forze armate con cui Alfonso d'Aragona si conquistò la corona di Napoli era costituito da spagnoli; ma l'attività di francesi e spagnoli che si batterono per Napoli non si limitò di fatto al solo regno. 

Lungo tutto il secolo sappiamo che ci furono diversi scontri in cui soldati italiani avevano fronteggiato soldati stranieri, a cominciare dalla battaglia di Brescia nel 1401, quando forze armate di Milano sconfissero un contingente tedesco, fino alla comparsa del duca di Lorena con 250 lance francesi tra i condottieri assunti da Venezia al tempo della guerra di Ferrara. 

La battaglia di Brescia nel 1401 fu l'unico episodio in cui si ebbe un intervento massiccio sul suolo italiano di forze armate tedesche e quella volta la cavalleria tedesca venne battuta da Facino Cane e da Jacopo Dal Verme.  [...]

La battaglia.
Quattromila svizzeri, infatti avevano varcato il passo del San Gottardo per attaccare Bellinzona stessa e Domodossola; il Carmagnola si fece loro incontro con un esercito forte, tra l'altro, di cinquemila cavalieri e tremila fanti. Gli svizzeri formarono alla loro maniera tradizionale un quadrato di picche, ma si videro ben presto circondati
Il Carmagnola li attese attestato su una posizione accuratamente scelta ad Arbedo e, una volta fatti scendere da cavallo i suoi armigeri, li lanciò contro il quadrato svizzero con una tattica che ricordava quella di Giovanni Acuto. La battaglia, combattuta il 30 giugno 1422, fu lunga e aspra; ma alla fine la superiorità numerica italiana ebbe la meglio. Rifiutando la resa offerta dagli svizzeri, egli li fece completamente a pezzi e fu quello un colpo di cui in Svizzera durò il ricordo per molti anni e forse contribuì in qualche modo a trattenere gli svizzeri da fare altre comparse, se non sporadiche, in Italia per tutto il resto del secolo.

Le conseguenze.
Arbedo coronò dieci anni di ininterrotti successi in battaglia, e consolidò la fama del Carmagnola come il più brillante condottiero dell'Italia settentrionale. E' nota la ferrea disciplina che egli imponeva alle sue truppe e che probabilmente favoriva la rapidità di movimento dell'esercito di cui il Bussone si avvalse specialmente nelle campagne del 1417 e del 1418. Rapidità di movimento che può essere stata facilitata dalla preferenza che il Carmagnola aveva allora per colonne poco numerose di uomini particolarmente addestrati: preferenza che non gli impedì ad Arbedo, quando le circostanze lo richiesero, di operare abilmente con grandi forze dispiegate. La battaglia fece registrare pesanti perdite in entrambi gli schieramenti. I cantoni di Uri e di Obvaldo persero il controllo sui territori situati a sud della gola del Piottino. Con il trattato di pace del 1426 i Confederati riottennero comunque la franchigia doganale nel Ducato.
http://www.arsbellica.it/pagine/battaglie_in_sintesi/Arbedo.html


martedì 22 maggio 2018

Christos Yannaras.Se ti sei innamorato una volta, sai ormai distinguere la vita da ciò che è supporto biologico e sentimentalismo, sai ormai distinguere la vita dalla sopravvivenza. Sai che la sopravvivenza significa vita senza senso e sensibilità, una morte strisciante

"Se ti sei innamorato una volta, 
sai ormai distinguere la vita da ciò che è supporto biologico e sentimentalismo, 
sai ormai distinguere la vita dalla sopravvivenza. 
Sai che la sopravvivenza significa vita senza senso e sensibilità, 
una morte strisciante
mangi il pane e non ti tieni in piedi, 
bevi acqua e non ti disseti, 
tocchi le cose e non le senti al tatto, 
annusi il fiore e il suo profumo non arriva alla tua anima. 
Se però l’amato è accanto a te, 
tutto, improvvisamente, risorge, 
e la vita ti inonda con tale forza 
che ritieni il vaso di argilla della tua esistenza incapace a sostenerla. 
Tale piena della vita è l’Eros. 
Non parlo di sentimentalismi e di slanci mistici, ma della vita, 
che solo allora diventa reale e tangibile, 
come se fossero cadute squame dai tuoi occhi 
e tutto, attorno a te, si manifestasse per la prima volta
ogni suono venisse udito per la prima volta, 
e il tatto fremesse di gioia alla prima percezione delle cose
Tale eros non è privilegio né dei virtuosi né dei saggi, 
è offerto a tutti, con pari possibilità. 
Ed è la sola pregustazione del Regno, 
il solo reale superamento della morte. 
Perché solo se esci dal tuo Io, 
sia pure per gli occhi belli di una zingara, 
sai cosa domandi a Dio e perché corri dietro di Lui."
Christos Yannaras, teologo greco-ortodosso

lunedì 21 maggio 2018

Eraclito. L'armonia nascosta è migliore di quella apparente. L'opposizione porta l'accordo. Dalla discordia nasce l'armonia più bella. E' nel mutamento che le cose trovano quiete. La gente non capisce come ciò che è in disaccordo con se stesso porti in sé armonia. Esiste un'armonia nell'attrito come nel caso dell'archetto e della lira. L'archetto si chiama vita ma lavora per la morte Osho, L'Armonia nascosta. Discorsi sui Frammenti di Eraclito, ECIG, Genova 2003, p. 15.

Non si può discendere due volte nel medesimo fiume e non si può toccare due volte una sostanza mortale nel medesimo stato, ma a causa dell'impetuosità e della velocità del mutamento si disperde e si raccoglie, viene e va.
Eraclito, Frammenti, VI-V sec. a.e.c.


Pánta rêi (in greco πάντα ῥεῖ), tradotto in tutto scorre, è il celebre aforisma attribuito a Eraclito, ma in realtà mai esplicitamente formulato in ciò che dei suoi scritti conosciamo, con cui la tradizione filosofica successiva ha voluto identificare sinteticamente il pensiero di Eraclito con il tema del divenire, in contrapposizione con la filosofia dell'Essere propria di Parmenide.
La fonte principale di questa attribuzione risalirebbe a Platone, che nel suo Cratilo scrive: «Dice Eraclito "che tutto si muove e nulla sta fermo" e confrontando gli esseri alla corrente di un fiume, dice che "non potresti entrare due volte nello stesso fiume"». Il riferimento è al frammento 91DK del trattato Sulla natura, dove si può constatare che l'espressione "tutto scorre" non è presente:
« Non si può discendere due volte nel medesimo fiume e non si può toccare due volte una sostanza mortale nel medesimo stato, ma a causa dell'impetuosità e della velocità del mutamento essa si disperde e si raccoglie, viene e va. »
(91 Diels-Kranz)

In questo frammento Eraclito sottolinea come l'uomo non possa mai fare la stessa esperienza per due volte, giacché ogni ente, nella sua realtà apparente, è sottoposto alla legge inesorabile del mutamento.

Ogni giorno,
quello che scegli,
quello che pensi
e quello che fai,
è ciò che diventi.
Eraclito


Non troverai mai la verità se non sei disposto ad accettare anche ciò che non ti aspetti.
Eraclito

«Ciò che si oppone conviene, e dalle cose che differiscono si genera l'armonia più bella, e tutte le cose nascono secondo gara e contesa. »
Eraclito, Frammenti

Il vecchio Eraclito, che era veramente un grande saggio, ha scoperto la più portentosa di tutte le leggi psicologiche, cioè la funzione regolatrice dei contrari. L'ha definita enantiodromia, il convergere l'uno verso l'altro, con la qual cosa intendeva che tutto sfocia nel suo contrario.
Carl Gustav Jung

Πόλεμος πάντων μὲν πατήρ ἐστι 
Polemos pantōn men patēr esti
"La guerra è padre di tutte le cose."
- Secondo Eraclito il principio del mondo sta nel continuo rivolgimento, nel continuo passaggio da un polo a un altro.
"Πόλεμος πάντων μὲν πατήρ ἐστι, πάντων δὲ βασιλεύς, καὶ τοὺς μὲν θεοὺς ἔδειξε τοὺς δὲ ἀνθρώπους, τοὺς μὲν δούλους ἐποίησε τοὺς δὲ ἐλευθέρους."
"Il conflitto è padre di tutte le cose, signore di tutte le cose, mostra gli uni come dei, gli altri come uomini, rende gli uni schiavi, gli altri uomini liberi.
Eraclito


Panta Rei. Tutto scorre, nulla rimane fermo.
Eraclito

È nel mutamento che le cose trovano quiete.
Eraclito

Difficile è la lotta contro il desiderio, poiché ciò che esso vuole lo acquista a prezzo dell’anima.
Eraclito

È necessario che il popolo combatta per la legge
come per le mura della città.
Eraclito frammento 44




Siamo il tempo. Siamo la famosa
parabola di Eraclito l’Oscuro.
Siamo l’acqua, non il diamante duro,
che si perde, non quella che riposa.
Siamo il fiume e siamo anche quel greco
che si guarda nel fiume. Il suo riflesso
muta nell’acqua del cangiante specchio,
nel cristallo che muta come il fuoco.
Noi siamo il vano fiume prefissato,
dritto al suo mare. L’ombra l’ha accerchiato.
Tutto ci disse addio, tutto svanisce.
La memoria non conia più monete.
E tuttavia qualcosa c’è che resta
E tuttavia qualcosa c’è che geme
Jorge Luis Borges


L'armonia nascosta
è migliore di quella apparente.
L'opposizione porta l'accordo.
Dalla discordia nasce
l'armonia più bella.
E' nel mutamento
che le cose trovano quiete.
La gente non capisce
come ciò che è in disaccordo con se stesso
porti in sé armonia.
Esiste un'armonia nell'attrito
come nel caso dell'archetto e della lira.
L'archetto si chiama vita
ma lavora per la morte
Osho, L'Armonia nascosta. 
Discorsi sui Frammenti di Eraclito, ECIG, Genova 2003, p. 15.


Dalla discordia nasce sempre l'armonia più bella.
E' nel mutamento che le cose trovano quiete
Eraclito


Difficile è la lotta contro il desiderio, 
poichè cio che esso vuole, 
lo compera a prezzo dell'anima 
Eraclito


Il vecchio Eraclito, che era veramente un grande saggio, ha scoperto la più portentosa di tutte le leggi psicologiche, cioè la funzione regolatrice dei contrari. L'ha definita enantiodromia, il convergere l'uno verso l'altro, con la qual cosa intendeva che tutto sfocia nel suo contrario.
Carl Gustav Jung


L'anima è tinta del colore dei suoi pensieri...
Pensa solamente a quelle cose che sono in linea con i tuoi principi
e che possono sopportare la luce piena del giorno.
Tu puoi scegliere il contenuto della tua personalità.
Giorno dopo giorno divieni ciò che scegli, ciò che pensi e ciò che fai.
La tua integrità è il tuo destino. Essa è la luce che illumina il tuo sentiero.
Eraclito


Per quanto tu possa camminare,
e neppure percorrendo intera la via,
tu potresti mai trovare i confini dell’anima:
così profondo è il suo lógos.
Eraclito frammento 45 (Diels-Kranz)



Il risveglio apre un mondo comune,
il sonno invece riporta ognuno a un mondo suo proprio.
Eraclito

Eraclito. Gli svegli e i dormienti.
Ricorre nel pensiero filosofico di Eraclito la contrapposizione fra i desti e i dormienti:
è «unico e comune il mondo per coloro che sono svegli», ossia quelle persone, che, andando oltre le apparenze, sanno cogliere il senso intrinseco delle cose, mentre «agli altri uomini rimane celato ciò che fanno da svegli, allo stesso modo di quando non sono coscienti di quel che fanno dormendo», riferendosi alla mentalità degli uomini comuni, i dormienti appunto. Eraclito intende per filosofi tutti quelli che sanno indagare a fondo la loro anima, che, essendo illimitata, offre all’interrogando la possibilità di una ricerca altrettanto infinita. Il pensiero eracliteo è quindi aristocratico, in quanto egli definisce la maggioranza degli uomini superficiali, poiché tendono a dormire in un sonno mentale profondo che non permette loro di comprendere le leggi autentiche del mondo circostante. Secondo Eraclito infatti «rispetto a tutte le altre una sola cosa preferiscono i migliori: la gloria eterna rispetto alle cose caduche; i più invece pensano solo a saziarsi come animali».
http://it.wikipedia.org/wiki/Eraclito


Questo mondo è stato fatto né dagli dei né dagli uomini, 
ma è sempre esistito, esiste, e sempre esisterà.
Eraclito


Quest'ordine, che è identico per tutte le cose, non lo fece nessuno degli Dei né gli uomini, ma era sempre ed è e sarà fuoco eternamente vivo, che secondo misura si accende e secondo misura si spegne.
Eraclito


La stesso cosa sono il vivente e il morto, lo sveglio e il dormiente, il giovane e il vecchio:
questi infatti mutando sono quelli e quelli di nuovo mutando sono questi.
Eraclito, Frammenti. Fr.88

Panta Rei. Tutto scorre, nulla rimane fermo.
Eraclito

E’ impossibile che un uomo si bagni due volte nello stesso fiume, perché l’acqua del fiume non è più la stessa acqua, e l’uomo non è più lo stesso uomo. Tutto scorre, cambia senza sosta
Eraclito

Io stesso muto nell'istante in cui dico che le cose mutano
Eraclito

Il sole è nuovo ogni giorno.
Eraclito

È nel mutamento che le cose trovano quiete.
Eraclito


Sapere molte cose non insegna ad avere intelligenza:
l'avrebbe altrimenti insegnato ad Esiodo, a Pitagora e poi a Senofane e ad Ecateo.
Eraclito


Spesso gli uomini odono ma non intendono, come i sordi. 
Per loro vale il famoso detto: sono qui ma sono via.
Eraclito


Assomigliano a sordi coloro che, anche dopo aver ascoltato, non comprendono, di loro il proverbio testimonia: “Presenti, essi sono assenti”.
Eraclito



Come il ragno stando al centro della tela non appena una mosca ne rompa un qualche filo se ne accorge e svelto vi accorre come se sentisse male per la rottura del filo, così l'anima dell'uomo, quando una parte del corpo è ferita, rapida vi si reca come se non sopportasse la lesione del corpo a cui è congiunta stabilmente e secondo un determinato rapporto. Allo stesso modo dunque che i carboni accostandosi al fuoco diventano incandescenti per mutazione e una volta lontani dal fuoco si spengono, così quella parte del mondo circostante raccolta nei nostri corpi, distaccandosi dal resto, diviene quasi incapace di intendere, mentre ricongiungendosi naturalmente attraverso il maggior numero di pori diventa omogenea al tutto.
Eraclito

venerdì 18 maggio 2018

L'universalità delta famiglia. Lévi-Strauss (1967), «l'unione più o meno durevole, socialmente approvata, di un uomo, una donna e i loro figli, e un fenomeno universale, presente in ogni e qualunque tipo di società».

Parentela, famiglia, genere
Dispensa didattica per il corso di Antropologia culturale
A cura di Fabio Dei
Alino accademico 2016-17

http://fareantropologia.cfs.unipi.it/wp-content/uploads/2017/02/Dispensa-parentela-famiglia-genere.pdf



Pierpaolo Donati, Manuale di sociologia della famiglia
Gius.Laterza & Figli Spa - 310 pagine

3.2. L'universalità della famiglia. Per dirla con Lévi-Strauss (1967), «l'unione più o meno durevole, socialmente approvata, di un uomo, una donna e i loro figli, e un fenomeno universale, presente in ogni e qualunque tipo di società». Molti altri autori sono arrivati alla stessa conclusione sulla base di indagini empiriche. Tra di essi vanno menzionati, in particolare, G.P. Murdock (1968), R.N. Anshen (1974), J. Askhain (1984).
Va ribadito, a costo di essere noiosi, che dire che la famiglia nucleare è universale non significa affermare ne che essa sia la sola forma esistita o esistente, né che si riscontri necessariamente ovunque. Significa, più semplicemente, affermare che la si riscontra come modalità di riferimento empirico significativo in ogni società umana conosciuta, a prescindere dal fatto che in essa sia o meno il modello prevalente. Infatti, nonostante tutte le difficoltà di classificare e comparare le forme familiari, le scienze umane sono diventate via via più consapevoli dei presupposti e delle norme pratiche che costituiscono le condizioni di esistenza, le strutture, i processi e le funzioni della famiglia intesa come specifica forma sociale che ha i caratteri di un «universale culturale» (Brown 1991). Dire universale culturale non significa dire universale «empirico», come è del resto per il tabù (o divieto) di incesto, che è appunto una norma sociale, non un meccanismo automatico, e quindi può essere violata.

Questo e il senso della tesi di G.P. Murdock (1968), il quale, comparando 250 società differenti di ogni epoca storica., ha mostrato che la famiglia nucleare è universale in quanto pre-requisito funzionale e istituzionale che assolve alcune funzioni fondamentali non surrogabili da altre istituzioni sociali. Senza una tale istituzione, la società non potrebbe sopravvivere. Benché la famiglia nucleare possa ampliarsi e anche frammentarsi, e comunque possa assolvere anche altre funzioni, egli ritiene che nessuna società abbia sinora sviluppato un modello istituzionalizzato che possa validamente sostituire la famiglia nucleare nel compimento di tali funzioni. Dalla sua indagine risulta che la famiglia nucleare è un gruppo primario universale, caratterizzato dalla residenza comune, dalla cooperazione e dalla riproduzione

La tesi della universalità è stata ideologicamente contestata da storici come M. Anderson (1980) e antropologi come R.M. Netting-R.R. WilkJ. Arnould (1984), ma e evidente che questi  autori   l'hanno  confusa  con   la  tesi   di   una  presunta «onnipresenza»  e «immutabilità» della famiglia nucleare. Di fatto, la ricerca di Murdock non ha ricevuto sostanziali smentite sul piano empirico: i pochi casi di realtà sociali conosciute in cui non è esistita famiglia nucleare (come i Nayar nell'India del Sud e la tribù degli Ashanti nell'Africa meridionale) sono risultati essere situazioni atipiche, che non corrispondono a vere e proprie società, autonome a tutti gli effetti. La tribù dei Nayar è stata, storicamente, una società sacerdotale fatta di soli uomini che vivevano separati dalle donne; di fatto, i bambini nascevano perché gli uomini visitavano le donne che abitavano in un altro villaggio, ma poi la famiglia nucleare non si costituiva; cosicché, l'organizzazione sociale è risultata essere incapace di riprodursi socialmente ed economicamente, prima ancora che biologicamente. Tra gli Ashanti, popolazione rigidamente matrilineare, la famiglia nucleare non poteva essere costituita a causa della struttura di potere, che conferiva l'assoluta dominanza sulla coppia madre-bambino allo zio materno; anche qui, la mancanza di un'unità domestica separata ha giocato negativamente agli effetti delle possibilità di sopravvivenza della tribù. Il che conferma la tesi di Murdock, secondo cui una società, per essere abbastanza auto-sufficiente e capace di sopravvivenza, non può fare a meno della famiglia nucleare. 

Nei tre tipi distinti di organizzazione familiare che egli riscontra, e cioè la famiglia nucleare, quella poligama e quella estesa si ha sempre che il marito, la moglie e i figli immaturi costituiscono una unità separata dal resto della comunità. Tale unità fa fronte a quattro fondamentali funzioni: sessuate, economica, riproduttiva ed educativa. Secondo Murdock. se non si provvedesse alla prima e alla terza di queste funzioni la società si estinguerebbe; senza la seconda la vita stessa verrebbe meno, senza la quarta avrebbe fine la cultura.

Quanto alla divisione del lavoro intrafamiliare, Murdock afferma:

"Grazie alle loro differenze primarie di sesso, uomo e donna costituiscono una unità di cooperazione eccezionalmente efficiente [...] Tutte le società umane conosciute hanno sviluppato una specializzazione e una cooperazione fra i sessi più o meno secondo questa linea di divisione biologicamente determinata. Non occorre invocare differenze psicologiche innate per spiegare la divisione del lavoro per sesso: le differenze indiscutibili delle funzioni riproduttive sono sufficienti a tracciare le linee principali di divisione. Via via che sorgono nuovi compiti, essi vengono assegnati all'una o all'altra sfera di attività, secondo l'opportunità e il precedente" (Murdock 1971: 14).

Siamo nella linea della sociologia organica (H. Spencer, E. Durkheim), secondo la quale l'universalità storica della famiglia poggia in primo luogo, dal punto di vista sociologico, sui vantaggi inerenti la divisione del lavoro per sessi, da intendersi però non in maniera meramente utilitaristica, bensì in relazione all'espletamento complesso delle quattro funzioni sopra menzionate.

In effetti, la famiglia ha sempre dovuto combattere contro forti spinte che hanno teso ad annullarla. Nel passato, essa era soprattutto oggetto di forze che tendevano ad assorbirla in entità collettive (il fenomeno antico e moderno delle «comuni»). Nella società attuale, le forze che tendono ad assorbirla hanno piuttosto un carattere opposto, nel senso che tendono a frammentarla attraverso processi di individualizzazione degli individui.

Altrettanto chiare sono le ragioni sociologiche che hanno fiuto fallire e tuttora fanno fallire questi tentativi. Per quanto riguarda il passato, senza famiglia nucleare la comunità non ha potuto svilupparsi o sopravvivere come «società» auto-sufficiente, e prima o poi ha dovuto (ri)costituire la famiglia oppure perire come forma di vita sociale: è il caso delle tribù o comunità primitive di dimensioni assai limitate - per esempio la tribù Nayar nell'India meridionale — in cui la famiglia non era prevista come relazione normativa di piena reciprocità fra i sessi e fra le generazioni; la stessa cosa è avvenuta in quelle forme di «comunità» che hanno cercato di eliminare volontaristicamente la famiglia — come le «comuni» del Nord-America nell'Ottocento o ancora alcuni esperimenti storici come quello dei Kibbutz in Israele. Nel secondo caso, cioè l'attuale tendenza a far prevalere i processi di individualizzazione, si ha l'emergere di stili di vita altamente problematici o auto-distruttivi (come è testimoniato da un tasso di riproduzione della popolazione che non è sufficiente a rigenerarla).

Rispetto a chi abbraccia il relativismo culturale ed enfatizza il venir meno della famiglia nucleare come punto di riferimento simbolico universale (Fruggeri 1997), va ribadito che la famiglia è un gruppo sociale-umano primario, ma non uno qualunque. Definirne la specificità (come distinzione tra famiglia e non-famiglia) significa produrre un'osservazione interpretativa di come una società (una cultura o sub-cultura) traccia i confini socialmente vincolatiti (o legittimi o ammessi) o meno per quanto riguarda le relazioni intime fra i sessi e le relazioni fra genitori e figli nelle loro reciproche determinazioni, cioè per quanto concerne la procreazione e inculturazione delle nuove generazioni.

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