giovedì 3 novembre 2016

Hermann Hesse, Sotto la ruota. Così, di scuola in scuola, si ripete lo spettacolo della lotta fra lo spirito e la legge, e noi vediamo di continuo la scuola e lo stato che si affannano a troncare alla radice le poche intelligenze profonde, di autentico valore, che spuntano tutti gli anni. E sono sempre gli odiati dai maestri, quelli che vengono puniti più spesso, quelli che scappano, o che vengono cacciati di scuola per arricchire il patrimonio spirituale del nostro popolo. Certuni però – e chi potrebbe dire quanti? – si struggono in un silenzioso sdegno e vanno picco.

Così, di scuola in scuola, si ripete lo spettacolo della lotta fra lo spirito e la legge, e noi vediamo di continuo la scuola e lo stato che si affannano a troncare alla radice le poche intelligenze profonde, di autentico valore, che spuntano tutti gli anni. E sono sempre gli odiati dai maestri, quelli che vengono puniti più spesso, quelli che scappano, o che vengono cacciati di scuola per arricchire il patrimonio spirituale del nostro popolo. Certuni però – e chi potrebbe dire quanti? – si struggono in un silenzioso sdegno e vanno picco.
Hermann Hesse, Demian, 1919, p. 327


"la scuola deve spezzare l'uomo naturale, vincerlo e limitarlo con la violenza: il suo scopo è di farne un membro della società, secondo i princìpi sanciti dallo stato, e di destare in lui quelle qualità il cui perfezionamento sarà poi coronato dall'accurata disciplina della caserma". La missione affidata dalle autorità al maestro è "domare e annientare le grezze energie naturali e i desideri dei ragazzi, per seminare al loro posto ideali tranquilli, moderati e riconosciuti ufficialmente"' 
Hermann Hesse, Sotto la ruota, p. 64


C'era qualcosa in lui, qualcosa di selvaggio, di sregolato, di barbarico, che bisognava prima spezzare; una fiamma pericolosa, che bisognava prima calpestare e spegnere. L'uomo, come la natura lo crea, è qualcosa di imprevedibile, di impenetrabile, di pericoloso. È un fiume che erompe da monti sconosciuti; è una selva primordiale che non ha né vie né ordine. E come una foresta deve essere sfoltita e ripulita e chiusa di forza entro confini precisi, così la scuola deve spezzare, vincere, chiudere di forza entro limiti precisi l'uomo naturale; il suo compito è di trasformarlo in un utile membro del consorzio umano secondo principi approvati dall'autorità; di destare in lui le qualità il cui compiuto sviluppo verrà poi coronato dall'accurata disciplina della caserma. 
Hermann Hesse, Sotto la ruota



Hermann Hesse, Il Giuoco delle perle di vetro 
[...] Il romanzo è ambientato nell'anno 2200 nell'utopistica Provincia Pedagogica di Castalia, dove pensatori, artisti e scienziati vivono in isolamento per recuperare e coltivare le idee e i valori fondamentali dell'umanità, distrutti da un lungo periodo di guerre e di oscurantismo morale e culturale; è chiaro il riferimento al nefasto periodo del nazismo ma non solo, poichè Hesse fa intendere con chiarezza la sua avversione per tutte le guerre e le forme di violenza che hanno contraddistinto l'era precedente. La degenerazione culturale e morale è però iniziata molto prima, nel 1700, secolo in cui prevalsero la teologia, la civiltà ecclesiastica e la filosofia dell'Illuminismo; al contrario, nella civiltà della Castalia sono fondamento la Matematica e la Musica, con cui il pensiero raggiunge l'equilibrio, l'ordine, l'armonia tra cielo e terra per creare, nel momento più alto, il Gioco delle perle di vetro; di questo gioco non vengono spiegate con esattezza le regole, ma il lettore ne intuisce il fascino misterioso, la bellezza  trascendente, l'assoluta perfezione che rimanda ad un ideale da raggiungere come meta ultima della ricerca spirituale. 
Il gioco delle perle di vetro, ispirato ad un antico gioco cinese, è "un simbolo dell'armonia, dell'unità che governa la molteplicità", è l'apice dell'esistenza contemplativa e ascetica della Castalia, contrapposta al flusso della vita reale, con tutto il suo carico di incertezze e sofferenze, da cui la Castalia è  isolata dalla cerchia protettiva delle sue mura; ma queste non basteranno a tenere Joseph Knecht al sicuro, lontano da quell'intensa vita reale della quale vuole far parte per sentirsi intero, completo; così Joseph lascerà il sogno platonico di Castalia per inoltrarsi nel nuovo cammino [...].

Quanto maggiore è la cultura di un uomo, quanto più ampi i suoi privilegi, tanto più grandi devono essere, nel momento del bisogno, i suoi sacrifici: noi speriamo che un giorno queste cose saranno ovvie per tutti i castalii. Ma se anche siamo disposti a sacrificare il nostro benessere, la comodità e la vita al popolo in pericolo, non vuol dire che si sia pronti a sacrificare lo spirito stesso, la tradizione e la morale della nostra spiritualità agli interessi del giorno, del popolo o dei generali. Vigliacco chi si sottrae alle fatiche, ai sacrifici e ai pericoli che il suo popolo deve affrontare, ma non meno vigliacco e traditore chi vien meno ai principi della vita spirituale per amore di interessi materiali, chi, per esempio, è disposto a lasciare ai potenti la decisione su quanto faccia due per due. Sacrificare il senso della verità, l'onestà intellettuale, l'osservanza delle leggi e dei metodi dello spirito a qualunque altro credo, anche a quello patriottico, è tradimento. Quando, nel conflitto di interessi e frasi fatte, la verità corre il rischio di essere svalutata, svisata e violentata come l'individuo, come il linguaggio, come le arti e ogni cosa organica e genialmente coltivata, il nostro unico dovere è quello di reagire e di salvare la verità, cioè l'aspirazione alla verità che è il nostro credo supremo
Hermann Hesse, Il Giuoco delle perle di vetro 
http://www.uaarlivorno.it/index.php?option=com_content&view=article&id=104:il-gioco-delle-perle-di-vetro&catid=34:recensioni&Itemid=56



Nel nostro giuoco delle perle di vetro noi scomponiamo quelle opere dei saggi e degli artisti, ne ricaviamo regole stilistiche, tracciati formali, interpretazioni raffinate che usiamo come fossero perle per costruire”.


Il giuoco delle perle di vetro
Nulla si sottrae tanto alla rappresentazione mediante la parola e d'altro canto nulla è tanto necessario porre davanti agli occhi dell'uomo quanto certe cose, la cui esistenza non è né dimostrabile né probabile, le quali però appunto perché uomini pii e coscienziosi le trattano quasi fossero cose esistenti, si avvicinano un poco all'essere e alla possibilità di nascere.

[...] Sotto l'alterna egemonia di questa o di quell'altra scienza o arte, il Giuoco dei giuochi era diventato una specie di linguaggio universale col quale i giuocatori erano in grado di esprimere valori mediante simboli e di metterli in vicendevole rapporto.


Hermann Hesse, 1943, "Das Glasperlenspiel", Il giuoco delle perle di vetro



https://www.youtube.com/watch?v=uMbkQTFc2FQ



Laboratori PLS
"Il giuoco delle perle di vetro"
http://nid.dimi.uniud.it/pages/materials/projects/pls_11_12.html




…non entia enim licet quodammodo levibusque hominibus faciliusatque incuriosius verbis reddere quam entia, verumtamen piodiligentique rerum scriptori plane aliter res se habet: nihil tantum repugnat ne verbis illustretur, at nihiladeo necesse est antehominum oculos proponere ut certas quasdam res, quas esse nequedemonstrari neque probari potest, quae contra eo ipso, quod piidiligentesque viri illas quasi ut entia tractant, enti nascendique,facultati paululum appropinquant. ALBERTUS SECUNDUS tract. de cristall. spirit. ed Clangor et Collof. Iib. 1. cap. 28.

Traduzione manoscritta di Joseph Knecht:
…poiché, quand’anche in certo qual modo e per uomini leggerile cose non esistenti possano rappresentarsi con parole più facilmente e con minore responsabilità delle esistenti, allo storico pio e coscienzioso accade esattamente il contrario: nulla si sottrae tanto alla rappresentazione mediante la parola e d’altro canto nulla è tanto necessario porre davanti agli occhi dell’uomo quanto certe cose, la cui esistenza non è né dimostrabile né probabile, le quali però appunto perché uomini pii e coscienziosi le trattano quasi fossero cose esistenti, si avvicinano un poco all’essere e alla possibilità di nascere.
http://www.dicoseunpo.it/E-BOOK_files/Il%20giuoco%20delle%20perle%20di%20vetro.pdf



Piergiorgio Odifreddi, HERMANN HESSE logica come salvezza dell'Occidente, Maggio 1992
La scuola
L'educazione di Hesse, nel seminario di Maulbronn, fu talmente traumatizzante che egli ne fuggì quindicenne dopo soli sette mesi, tentò il suicidio, e fu rinchiuso in diverse case di cura, da cui scrisse lancinanti lettere ai genitori. 

In seguito raccontò come la scuola possa spezzare una personalità ed una vita nel suo secondo romanzo Sotto la ruota, pubblicato nel 1906. lo stesso anno de I turbamenti del giovane Tórless di Robert Musil (un altro devastante racconto di 'educazione').

Secondo Hesse. 
"la scuola deve spezzare l'uomo naturale, vincerlo e limitarlo con la violenza: il suo scopo è di farne un membro della società, secondo i princìpi sanciti dallo stato, e di destare in lui quelle qualità il cui perfezionamento sarà poi coronato dall'accurata disciplina della caserma". La missione affidata dalle autorità al maestro è "domare e annientare le grezze energie naturali e i desideri dei ragazzi, per seminare al loro posto ideali tranquilli, moderati e riconosciuti ufficialmente" (p. 64).

Ancora nel 1919. nel Demian, Hesse scriverà che "di scuola in scuola, si ripete lo spettacolo della lotta fra lo spirito e la legge, e noi vediamo di continuo la scuola e lo stato che si affannano a troncare alla radice le poche intelligenze profonde, di autentico valore, che spuntano tutti gli anni. E sono sempre gli odiati dai maestri, quelli che vengono puniti più spesso, quelli che scappano, o che vengono cacciati da scuola ad arricchire il patrimonio spirituale del nostro popolo" (p. 327).

Negli anni della vecchiaia, con le turbe emotive dell'adolescenza ormai lontane. Hesse propone il suo modello di società sotto forma di utopia, ne Il giuoco delle perle di vetro. Può ora distinguere fra educazione ("la lotta con la personalità degli studenti, l'acquisto e l'esercizio dell'autorità") ed insegnamento (
 "la gioia che ci viene dal trapiantare nostre conquiste spirituali in altre menti e vederle trasformarsi in forme e irradiazioni del tutto nuove") (p. 215). [...]
'Rappresentazioni meno emotive dell'educazione di un giovane sono in Deinian e Animo infantile, entrambi del 1919.
Piergiorgio Odifreddi, HERMANN HESSE logica come salvezza dell'Occidente, pag. 2, Maggio 1992


Ma è nel Lupo della steppa che il suo disgusto esplode. 
Egli si lamenta di quanto sia "diffìcile trovare la traccia divina in mezzo alla vita che facciamo, in questo tempo così soddisfatto, così borghese, cosi privo di spirito, alla vista di queste architetture, di questi negozi, di questa politica, di questi uomini". Confessa di trovarsi in "un mondo del quale non condivide alcuna meta, delle cui gioie non vi è alcuna che gli arrida", di "non resistere a lungo né in un teatro né in un cinema, non riuscire quasi a leggere il giornale'", "non capire quale piacere vadano a cercare gli uomini nelle ferrovie affollate e negli alberghi, nei caffè zeppi dove si suonano musiche asfissianti e invadenti, nei bar e nei teatri di varietà delle eleganti citte di lusso, nelle esposizioni mondiali, alle conferenze per i desiderosi di cultura, nei grandi campì sportivi", di sentirsi un "animale sperduto in un mondo a lui estraneo e incomprensibile, che non trova più la patria, l'aria, il nutrimento" (pp. 38-39).

[...] Per sua natura dunque il borghese è una creatura di debole slancio vitale, paurosa, desiderosa di evitare rinunce, facile da governare. Perciò ha sostituito al potere la maggioranza, alla violenza la legge, alla responsabilità la votazione'" (pp. 11-15 della Dissertazione).

Dal punto di vista esteriore, la civiltà occidentale si concretizza nelle macchine.
Hesse constata che "c'è troppa gente al mondo. Prima non lo si notava tanto. Ma ora che ciascuno non solo vuole l'aria per respirare, ma pretende anche l'automobile, ora lo si nota" (p. 170). Il Lupo della steppa si conclude allora con una simbolica "lotta fra gli uomini e le macchine", che lascia "dappertutto automobili schiacciate, contorte, mezzo bruciacchiate". "Su tutti i muri vi erano manifesti eccitanti che, a lettere cubitali, ardenti come fiaccole, esortavano la nazione a prendere finalmente la parte degli uomini contro le macchline", "a incendiare finalmente le fabbriche e a ripulire e spopolare la terra violentata affinchè vi ricrescesse l'erba, e quel mondo polveroso di cemento potesse ridiventare prato, foresta, brughiera, fiume e palude" (pp. 162-162).

[...] Ma il vero colpo di grazia per la cultura Hesse lo sferra ne Il giuoco delle perle di vetro, con parole attualissime e di forza inaudita. Come le macchine erano il simbolo della civiltà tecnologica, così egli individua nelle terze pagine dei giornali il simbolo della cultura di massa. Esse "erano diffuse a milioni, come parte prediletta della stampa quotidiana, formavano l'alimento principale dei lettori bisognosi di cultura, parlavano, o meglio 'chiaccheravano' di mille argomenti del sapere.'' "Gli autori di quei futili giochetti o appartenevano alle redazioni dei giornali o erano 'liberi' scrittori, spesso avevano persino il nome di poeti, ma pare che molti fossero anche scienziati e addirittura professori universitari di gran fama. Gli articoli trattavano di preferenza aneddoti tratti dalla vita di uomini e donne celebri e i loro carteggi." "Ci si meraviglia, non tanto che esistessero uomini i quali le trangugiavano come lettura quotidiana, quanto piuttosto che autori di grido, di alta levatura e di buona preparazione culturale" vi contribuissero. "In certi momenti erano particolarmente in auge interviste di cospicue personalità su problemi del giorno", e "si trattava unicamente di appaiare un nome conosciuto con un tema di attualità". "Su tutti i fatti del giorno si riversava una marea di fervide scribacchiature e la raccolta, il vaglio, la forma di tutte quelle comunicazioni recavano l'impronta della merce in serie, prodotta in fretta e senza responsabilità" (p. 16-17).

[...]  banalizzazione della cultura. Non si devono dimenticare le "conferenze in gran numero, e non già soltanto in forma di discorsi commemorativi in occasioni particolari, ma in un turbine di concorrenza e in quantità quasi incomprensibile.'" "In quelle conferenze l'ascoltatore era del tutto passivo e vi si presupponeva tacitamente qualche suo rapporto con l'argomento, una capacità di comprensione che nella maggior parte dei casi non c'erano." "Si ascoltavano conferenze su scrittori dei quali non si erano mai lette o non si aveva intenzione di leggere le opere, si chiedeva che fossero accompagnate anche da proiezioni e si cercava, esattamente come nella terza pagina dei giornali, di raccapezzarsi in un diluvio di isolati e quindi insulsi valori culturali e frammenti di scienza" (pp. 18-19).

La critica alla società occidentale ci pare comunque l'elemento unificante della produzione di Hesse [...]: in Sotto la ruota (1906) è il sistema scolastico-educativo a ricevere le prime sferzanti critiche; in Siddharta (1922) è il turno della religione cristiana, a cui viene contrapposta la via indiana; nel lupo della steppa (1927) si passa alla società tecnologica, e alla lotta contro le macchine; infine, nel giuoco delle perle di vetro (1913) è l'intero sistema culturale ad essere sotto tiro.
[...] il lupo della steppa e il giuoco delle perle di vetro sono dunque il giudizio di Hesse su pensiero scientifico e matematico, rispettivamente.

Piergiorgio Odifreddi, HERMANN HESSE logica come salvezza dell'Occidente,  Maggio 1992



Hermann Hesse, Sotto la ruota
Hans non riusciva ad addormentarsi. Prestava orecchio al respiro dei suoi vicini e dopo un po’ colse un rumore stranamente inquietante, che proveniva da due letti più in là del suo: c’era qualcuno che piangeva, con la coperta tirata fin sopra i capelli, e quel lieve singhiozzare, quasi un eco da molto lontano, eccitò Hans in modo straordinario. Non provava nostalgia, ma gli dispiaceva per la sua tranquilla cameretta; a ciò si aggiungeva la paura del nuovo e dei molti compagni. Prima di mezzanotte nella camerata dormivano tutti. I ragazzi addormentati giacevano l’uno accanto all’altro, col volto affondato nei guanciali a righe, gli affranti e i tenaci, gli esuberanti e i timidi, sopraffatti da un medesimo dolce oblio, da un medesimo bisogno di sosta.
Sugli alti tetti a punta, sulle torri, sui chiusi balconi sporgenti, sui pinnacoli, sulle mura merlate e sugli archi a sesto acuto dei ballatoi si alzò una pallida mezzaluna; la sua luce indugiava sui cornicioni e sulle soglie, scivolava sulle finestre gotiche e sui portali romanici e tremolava, color oro pallido, sulla nobile vasca della fonte in mezzo al chiostro.
Qualche raggio di luce giallastra penetrava anche dalle tre finestre della camerata Ellade, sostando accanto ai sogni dei ragazzi assopiti con la stessa intimità con cui un tempo aveva sostato presso i monaci.
Il giorno seguente, nell’oratorio, si svolse la solenne cerimonia dell’ammissione. 
C’erano tutti gli insegnanti, in finanziera, il rettore tenne un discorso, gli allievi se ne stavano, pensierosi, sulle loro sedie e di tanto in tanto cercavano di lanciare un’occhiata ai genitori, seduti molto più indietro. Le madri guardavano i loro figli meditabondi e sorridenti; i padri stavano impettiti, ascoltavano il discorso e avevano un aspetto serio e deciso. Sentimenti di orgoglio e di compiacimento e belle speranze gonfiavano i loro petti; a nessuno venne in mente che stava vendendo suo figlio in cambio di un vantaggio finanziario. In conclusione, gli allievi vennero chiamati per nome, uno alla volta uscirono dalle file e furono accolti dal rettore con una stretta di mano: se si fossero comportati bene, lo Stato avrebbe provveduto al loro sostentamento per il resto dei loro giorni. Che tutto ciò non poteva essere gratis, non venne in mente a nessuno, come non era venuto in mente ai loro padri.
Per loro fu molto più serio e commovente il momento in cui dovettero separarsi dai genitori. In parte a piedi, in parte in carrozza, in parte su veicoli d’ogni sorta occupati in fretta, essi scomparvero alla vista dei figli, rimasti indietro; bianchi fazzoletti sventolarono a lungo nella mite aria settembrina; quando furono inghiottiti dal bosco, i figli fecero ritorno, muti e pensosi, nel monastero.



“..Il corso, e particolarmente la camerata Hellas, ebbe ancora motivo di divertirsi prima della partenza. Avevano stabilito d’invitare gl’insegnanti a una festicciola, che si doveva svolgere per l’appunto nella camerata Hellas, la più spaziosa: un discorsetto d’apertura, la recitazione di due poesie, un assolo di flauto e un duo di violino. Però era assolutamente necessario inserire nel programma un numero umoristico. Discussero a lungo, avanzarono e respinsero proposte senza riuscire ad accordarsi. A un tratto Karl Hamel buttò là, tanto per dire, che la cosa più divertente sarebbe stato un assolo di violino eseguito da Emil Lucius. Il seme attecchì. Preghiere, promesse e minacce costrinsero alla resa il povero musicista, sicché sul programma inviato agl’insegnanti con un cortese biglietto d’invito si leggeva che il numero straordinario sarebbe stato ‘Stille Nacht, esecuzione per violino di Emil Lucius, virtuoso da camera’. Questo attributo gli derivava dalle diligenti esercitazioni nella sala appartata. Il rettore, i professori, gl’istitutori, il maestro di musica e il capo dei sorveglianti accettarono l’invito. Il maestro di musica cominciò a sudar freddo quando Lucius si presentò con un sorrisino tutto modesto, in una giacca nera con le falde presa a prestito da Hartner, azzimato e ben pettinato: bastò l’inchino di saluto per suscitare allegria. Sotto le sue dita Stille Nacht diventò un lamento compassionevole, un gemito di dolore straziante. Ricominciò due volte, sminuzzando la melodia, affannandosi a batter il tempo col piede e faticando come un boscaiolo in una giornata di gelo. Il rettore inviò un cenno divertito al maestro di musica, che si era fatto pallido d’indignazione. Lucius, dopo che ebbe attaccato la canzone per la terza volta, arenandosi di nuovo, abbassò il violino, si rivolse agli spettatori e si scusò: – Non va. Ma ho incominciato a suonare soltanto in autunno -. – Sta bene, Lucius – esclamò il rettore. – La ringraziamo per la sua buona volontà. Continui a studiare. Per aspera ad astra -..”
Hermann Hesse, SOTTO LA RUOTA, @ Unterm Rad, 1906, traduzione di Lydia Magliano, Introduzione, pp.5-17, di Alberto Bevilacqua. In copertina: Edvard Munch, Autoritratto, 1882-83, Oslo, Bymuseum. Milano, Rizzoli, 1992, pp.1-197



Hans sotto la ruota
Hans seguitò a campare per qualche tempo ancora grazie a quello che aveva studiato in precedenza, come una marmotta con le provviste accumulate per l’inverno. Poi cominciò una vita di stenti, penosa, inframmezzata da brevi slanci privi di energia, la cui inanità appariva derisoria a lui stesso. La smise di faticare senza costrutto, lasciò perdere Omero e il Pentateuco, l’algebra e Senofonte  e assistette impassibile al graduale tramonto del suo prestigio agli occhi dei maestri, da ottimo a soddisfacente, da soddisfacente a mediocre e infine a insufficiente. Quando non aveva il mal di testa che costituiva di nuovo la regola, pensava a Hermann Heilner, si perdeva nei suoi sogni a occhi aperti e seguiva per ora il filo di pensieri appena abbozzati. Ai rimproveri sempre più fitti dei maestri rispondeva con un sorriso umile buono. L’istitutore Wiedrich giovane e cordiale era l’unico che provasse pietà di quel sorriso smarrito, l’unico che trattasse il ragazzo fuorviato con affettuosa comprensione. Gli altri insegnanti erano indignati lo punivano trascurandolo, o tentavano sporadicamente di risvegliare la sua ambizione assopita con lo stimolo dell’ironia.

“Se per caso in  questo momento non avesse voglia di dormire, 
potrei pregarla di leggere questo brano?”.

Il rettore lasciava trasparire una dignitosa  riprovazione. Vanitoso com’era confidava molto nella   potenza del suo sguardo e andava fuori di sé quando Giebenrath opponeva al suo  cipiglio regale e minaccioso il solito sorriso rassegnato pieno d’umanità, che a poco a poco finì con l’innervosirlo. “Non sorrida così stupidamente. Avrebbe di che piangere piuttosto”. 

Maggior effetto ottenne una lettera di suo padre che lo supplicava spaventatissimo, di migliorare. 
Il rettore aveva scritto a Giebenrath padre, e questo era rimasto inorridito. 
La lettera che Hans ricevette era un compendio di tutte le esortazioni incoraggianti e di tutti gli appelli morali di cui il brav’uomo era capace, ma lasciava trasparire involontariamente un accoramento piagnucoloso che gli fece male.

Tutte queste guide della gioventù votate al dovere, dal rettore ai professori e agl’istitutori fino a Giebenrath padre, vedevano in Hans un ostacolo ai loro desideri, qualcosa  d’inceppato e di pigro ch’era necessario riportare a forza sulla buona strada

Nessuno, tolto forse quell’istitutore compassionevole, comprendeva che il sorriso smarrito dell’affilato volto giovanile celava la sofferenza di un’anima che stava affogando, e che si  guardava intorno con disperata angoscia.  E nessuno  pensava che la scuola e la barbarica vanagloria di un padre e di alcuni insegnanti  avevano spinto a tal punto la fragile creatura. 

Perché l’avevano costretto a lavorare quotidianamente fino a tarda sera, proprio negli anni così sensibili e pericolosi dell’adolescenza? 

Perché l’avevano privato dei suoi consigli, perché  l’avevano allontanato di proposito dai compagni di ginnasio, perché gli avevano proibito lo  svago della pesca, perché gli avevano iniettato il vacuo basso ideale d’una meschina, estenuante ambizione. Perché non gli avevano concesso neppure le  sudate vacanze dopo gli esami?

Ora il puledro affiancato dal gran correre si era accasciato al margine della strada, e non c’era più niente da fare per lui.

Verso l’inizio dell’estate il medico dichiarò di nuovo che si trattava d’una debolezza nervosa provocata soprattutto dallo sviluppo. Hans avrebbe dovuto seguire una buona cura durante le ferie estive, nutrirsi  in abbondanza e trascorrere le giornate nei boschi e sarebbe guarito  in breve tempo. 

Purtroppo non arrivò fino all’estate. Mancavano tre settimane alle vacanze quando Hans durante una lezione pomeridiana, si attirò una severa reprimenda dal professore. Mentre questi continuava a rimproverarlo, Hans si arrovesciò all’indietro nel banco scosso da un tremito d’angoscia, e scoppio in un pianto convulso che non finiva più e che mandò all’aria la lezione, lo fecero restare mezza giornata a letto.

Alcuni  giorni dopo, l’insegnante di matematica lo chiamò alla lavagna perché disegnasse una figura geometrica e dimostrasse un teorema. Uscì dal banco, ma davanti alla lavagna fu colto da una vertigine armeggiò con il gesso e con la squadra, tracciando linee senza senso li  lasciò cadere entrambi e come si chinò per raccattarli finì a terra in  ginocchio, incapace di rialzarsi.

Il medico era piuttosto irritato col paziente che gli giocava tiri simili. Non si pronunciò chiaramente sui sintomi, ordinò un periodo immediato di riposo e caldeggiò il consulto di uno specialista per le malattie nervose.

“C’è il pericolo che gli venga il ballo di san Vito” sussurrò al rettore, che accennò di sì  con la testa e giudicò opportuno di cambiare l’espressione accigliata e irosa del volto in una paternamente addolorata, che gli riusciva facile e gli si addiceva.

Sia lui sia il medico scrissero ciascuno una lettera al padre di Hans, la infilarono in tasca al ragazzo e lo spedirono a casa. La collera del rettore si era trasformata in una grave preoccupazione… che cos’avrebbero pensato le autorità scolastiche, ancora scombussolate per la faccenda di Heilner di questo nuovo guaio? 
(tratto dal romanzo Sotto la ruota di Hermann Hesse)



Hans Giebenrath, adolescente fragile e sensitivo, finito sotto la ruota della scuola d’impronta prussiana, si suicida.




Siamo a cavallo tra Ottocento e Novecento, Hans Giebenrath è un giovane di belle speranze che abita nella provincia tedesca. Il padre, l'intera comunità in cui vive lo mandano in un famoso collegio per studiare; è il vanto di un'intera comunità, il suo successo è il successo un po' di tutti. Ma Hans non è solamente un giovane dotato per gli studi; ospita dentro di sé un dissidio, lo stesso che ritroviamo in tanto protagonisti dei romanzi di Hermann Hesse. Cultura e natura, ragione e passione, rispetto dell'autorità e desiderio di libertà cozzano dentro di lui e lui stesso si scontra con il rigido ambiente del sistema scolastico di quei tempi. Il principio che guidava quel sistema (soprattutto di area protestante) era improntato alla Leistungsethik, all’etica del massimo rendimento; così doveva comportarsi ogni alunno, ogni studente pena la fuoriuscita dal sistema stesso con tutto il carico di sensi di colpa e di delusione che questo comporta. Così capita a Hans, viene schiacciato dalla ruota di questo sistema. Da sotto la ruota ne uscirà una persona nuova, “rotta” nello spirito e che non riuscirà più a integrarsi nella vita paesana. Hans Giebenrath morirà gettandosi (cadendo?) in un fiume.
I sistemi scolastici contemporanei non sono certo improntati alla Leistungethik, né gli insegnanti dei nostri giorni, nella maggior parte dei casi, riescono ad avere in aula quel controllo sulla classe come viene descritto in questo e in tanti romanzi simili. È anzi patrimonio culturale condiviso (anche se da qualcuno mal digerito) che un insegnante deve curare oltre all’aspetto didattico anche quello relazionale, educativo con l’allievo. Capitano ancora però, e i mass media sono sempre molto puntuali nel riportare la notizia, i casi di suicidio da scuola; adolescenti che si gettano da finestre o sotto i treni per paura di una bocciatura o di qualche debito formativo. Basterebbe così poco per evitarli, un cambio di scuola, un supporto psicologico o anche la fine del percorso scolastico e l’ingresso nel mondo del lavoro. Basterebbe far passare l’idea che loro sono ben altro che degli studenti scadenti, che la loro personalità, così “fresca”, così in divenire (e perciò ancora così ricca di possibilità) non si ferma in questo momento di crisi scolastica, ma andrà ben oltre. “Tu non sei solo questo - così si dovrebbe dire a questi ragazzi - altre cose ti aspettano: a un periodo di buio e di depressione ne verranno degli altri, più luminosi”. Ce la sentiamo di dire questo ai nostri allievi, ai nostri figli anche se ci deludono e ci irritano?
01/01/2004 - Nicola Rabbi

http://www.accaparlante.it/articolo/hans-sotto-la-ruota





Rosanna Pizzo:
Grazie Ivano, per gli spunti splendidi che questo bellissimo post suscita e che condivido!
La buona scuola, anche se non improntata alla "Leistungethik", caro Ivano, continuerà, sotto mentite spoglie, ad operare danni incalcolabili sui giovani,perché manca completamente di quei requisiti che tu giustamente indichi, e cioè il fatto "che un insegnante deve curare oltre all’aspetto didattico anche quello relazionale, educativo con l’allievo". Mi viene in mente, in proposito,che l’espressione epimèleia heautoù, risalente in particolare alla filosofia di Socrate, connessa al famoso (gnòthi seauton) (conosci te stesso), rinvia alla conoscenza, cura e formazione non solo di sé, ma anche dell’altro, del mondo, significa, quindi, anche attenzione verso l’altro, dal momento che la nostra identità si gioca sempre nel contesto relazionale. Socrate stesso dice in uno dei famosi dialoghi, Alcibiade, che la cura di sé può avvenire solo nella relazione, nell’ambito di un dialogo e di uno scambio tra due anime. Testualmente “Ebbene, o caro Alcibiade, anche l’anima se vuole conoscere se stessa deve guardare in un’altra anima e precisamente in quella parte di essa nella quale risiede la virtù dell’anima, la sapienza, o in altro a cui questa parte dell’anima sia simile”. Chi dovrebbe indicare ai ragazzi la strada per coltivare l'epimèleia heautoù, quando gli insegnanti non sanno nemmeno cosa significa e ne sono loro sprovvisti, in una società come la nostra nel pieno di una deriva, di un vero e proprio "De profundis"?!



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