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sabato 19 dicembre 2015

Se dai un pesce a un uomo, egli si ciberà una volta sola. Ma se tu gli insegni a pescare, egli si nutrirà per tutta la vita.

Se dai un pesce a un uomo,
egli si ciberà una volta sola.
Ma se tu gli insegni a pescare,
egli si nutrirà per tutta la vita.

Se fai progetti per un anno, semina il grano.
Se i tuoi progetti si estendono a dieci anni,
pianta un albero.
Se i progetti abbracciano cento anni,
istruisci un popolo.

Seminando un grano alla volta,
ti assicuri un raccolto.
Se pianti un albero, tu farai dieci raccolti.
Se istruisci un popolo
tu raccoglierai per sempre.

Kuang-Tsen, VII sec. a.C.

martedì 20 maggio 2014

David Foster Wallace. Quasi nessuna delle cose importanti ti accade perché l’hai progettata così. Il destino non ti avverte; il destino sbuca sempre da un vicolo e, avvolto nell’impermeabile, ti chiama con un “psss” che di solito non riesci neppure a sentire perché stai correndo da o verso qualcosa di importante che hai cercato di pianificare

Cenni sull'autore: David Foster Wallace (1962-2008), scrittore e saggista statunitense. 
Laureato in filosofia e letteratura inglese con specializzazione in logica modale e matematica. Tre i suoi romanzi: "La scopa del sistema", pubblicato a soli 24 anni, "Infinite Jest" e l'incompleto "Il re pallido" pubblicati in Italia da Einaudi. Numerosi inoltre i suoi racconti reperibili in varie raccolte, cito "La ragazza dai capelli strani" e "Verso l'occidente l'impero dirige il suo corso" pubbicati in Italia da Minimum fax.  Tra i saggi cito "Una cosa divertente che non farò mai più", "Tennis, tv, trigonometria, tornado", "Considera l'aragosta" e "Come diventare se stessi".

http://www.youbookers.it/articolo/2013-03-27/la-scopa-del-sistema-di-david-foster-wallace


Tieni a mente che un linguaggio è sia una mappa del mondo che un mondo in se stesso con le proprie zone d'ombra e i crepacci -luoghi dove le espressioni che sembrano obbedire a tutte le regole del linguaggio- sono nonostante tutto impossibili da gestire.
David Foster Wallace



La vostra preoccupazione per ciò che gli altri pensano di voi scompare una volta che capite quanto di rado pensano a voi .
David Foster Wallace


Come è che David Foster Wallace iniziava il suo racconto più struggente,
“Caro vecchio neon”, in Oblio?
Per tutta la vita sono stato un impostore. E non esagero. 
Ho praticamente passato tutto il mio tempo a creare un’immagine di me da offrire agli altri, più che altro per piacere o per essere ammirato. Forse è un po’ più complicato di così. Ma se andiamo a stringere il succo è quello: piacere, essere amati. Ammirati, approvati, applauditi, fai un po' tu.
Ci siamo capiti.
David Foster Wallace, "Oblio", “Caro vecchio neon”


«Nel mondo reale tutti soffriamo da soli; la vera empatia è impossibile.
Ma se un'opera letteraria ci permette, grazie all'immaginazione, di identificarci con il dolore dei personaggi, allora forse ci verrà più facile pensare che altri possano identificarsi con il nostro.
Questo è un pensiero che nutre, che redime: ci fa sentire meno soli dentro».
David Foster Wallace , “Un antidoto contro la solitudine. Interviste e conversazioni”



Quasi nessuna delle cose importanti ti accade perché l’hai progettata così
Il destino non ti avverte; il destino sbuca sempre da un vicolo e, avvolto nell’impermeabile, ti chiama con un “psss” che di solito non riesci neppure a sentire perché stai correndo da o verso qualcosa di importante che hai cercato di pianificare.
David Foster Wallace


Il Postmoderno in una metafora.
Questi ultimi anni dell’era postmoderna mi sono sembrati un po’ come quando sei alle superiori e i tuoi genitori partono e tu organizzi una festa. Chiami tutti i tuoi amici e metti su questo selvaggio, disgustoso, favoloso party, e per un po’ va benissimo, è sfrenato e liberatorio, l’autorità parentale se n’è andata, è spodestata, il gatto è via e i topi gozzovigliano nel dionisiaco. Ma poi il tempo passa e il party si fa sempre più chiassoso, e le droghe finiscono, e nessuno ha soldi per comprarne altre, e le cose cominciano a rompersi e rovesciarsi, e ci sono bruciature di sigaretta sul sofà, e tu sei il padrone di casa, è anche casa tua, così, pian piano, cominci a desiderare che i tuoi genitori tornino e ristabiliscano un po’ d’ordine, cazzo… Non è una similitudine perfetta, ma è come mi sento, è come sento la mia generazione di scrittori e intellettuali o qualunque cosa siano, sento che sono le tre del mattino e il sofà è bruciacchiato e qualcuno ha vomitato nel portaombrelli e noi vorremmo che la baldoria finisse.
L’opera di parricidio compiuta dai fondatori del postmoderno è stata importante, ma il parricidio genera orfani, e nessuna baldoria può compensare il fatto che gli scrittori della mia età sono stati orfani letterari negli anni della loro formazione. Stiamo sperando che i genitori tornino, e chiaramente questa voglia ci mette a disagio, voglio dire:
c’è qualcosa che non va in noi?
Cosa siamo, delle mezze seghe?
Non sarà che abbiamo bisogno di autorità e paletti? 
E poi arriva il disagio più acuto, quando lentamente ci rendiamo conto che in realtà i genitori non torneranno più – e che noi dovremo essere i genitori.
David Foster Wallace, in L. McCaffery, An Interview with David Foster Wallace, “Review of Contemporary Fiction”, vol. XIII, n. 2, Summer 1993
http://www.storiadellafilosofia.net/davidfosterwallace/il-postmoderno-in-una-metafora/




Ci sono due giovani pesci che nuotano e a un certo punto incontrano un pesce anziano che va nella direzione opposta, fa un cenno di saluto e dice: - Salve, ragazzi. Com’è l’acqua? - I due pesci giovani nuotano un altro po’, poi uno guarda l’altro e fa: - Che cavolo è l’acqua?
Remo Bodei, David Forster Wallace

***


I pensieri e i timori di David Wallace
nei racconti inediti di Questa è l’acqua di Massimo Vecchi
«Ci sono due giovani pesci che nuotano e a un certo punto incontrano un pesce anziano che nuota nella direzione opposta. Fa un cenno di saluto e dice; “Buongiorno ragazzi, com’è oggi l’acqua?”. I due pesci giovani nuotano un altro po’, poi uno guarda l’altro e fa: 
“Ma che cavolo è l’acqua?». 

Con questa storiella aveva inizio il discorso che David Foster Wallace,
il celebre scrittore americano morto suicida un anno fa, rivolse ai giovani del Kenyon College, Ohio, nel giorno del conferimento delle lauree, il 21 maggio 2005.
Intendeva che siamo tutti come quei due giovani pesci, nasciamo, viviamo, moriamo immersi in una realtà di cui non sappiamo.
Sono così i mille personaggi creati da David Wallace nei suoi libri,
tanto esasperatamente egocentrici da non rendersi conto del mondo che li circonda.

Poco più avanti lo scrittore inseriva nel discorso un’altra «storiella didascalica».
 Eccola:
«Ci sono due tizi seduti a un bar nel cuore selvaggio dell’Alaska.
Uno è credente, l’altro è ateo, e stanno discutendo l’esistenza di Dio con quella foga tutta speciale che viene fuori dopo la quarta birra.

L’ateo dice:
“Guarda che ho le mie buone ragioni per non credere in Dio.
Ne so qualcosa anch’io di Dio e della preghiera.
Appena un mese fa mi sono lasciato sorprendere da una spaventosa tormenta di neve lontano dall’accampamento, non vedevo niente, non sapevo più dov’ero, c’erano quarantacinque gradi sotto zero e così ho fatto un tentativo: mi sono inginocchiato nella neve e ho urlato:
Dio, sempre ammesso che Tu esista, mi sono perso nella tormenta e morirò se non mi aiuti!”.

A quel punto il credente guarda l’ateo confuso:
“Allora non hai più scuse per non credere – dice – sei qui vivo e vegeto”.
L’ateo sbuffa come se il credente fosse uno scemo integrale:
“Non è successo un bel niente, a parte il fatto che due eschimesi di passaggio mi hanno indicato la strada per l’accampamento”».

DFW commentava:
«La stessa identica esperienza può significare due cose completamente diverse per due persone diverse che abbiano due diverse impostazioni ideologiche e due diversi modi di attribuire un significato all’esperienza».

Le conclusioni della “lectio magistralis” ai laureandi era la seguente:
«Qui la morale, la religione. il dogma o le grandi domande stravaganti sulla vita dopo la morte non c’entrano. La Verità con la V maiuscola riguarda la vita prima della morte.
Riguarda il fatto di toccare i trenta, magari i cinquanta, senza il desiderio di spararsi un colpo in testa. Riguarda il valore vero della vostra cultura, dove voti e titoli di studio non c’entrano, c’entra solo la consapevolezza pura e semplice: la consapevolezza di ciò che è così reale e essenziale, così nascosto in bella vista sotto gli occhi di tutti da costringerci a ricordare di continuo a noi stessi:
Questa è l’acqua, questa è l’acqua; dietro questi eschimesi c’è molto di più di quel che sembra”».

LA PAROLA NON BASTA
Queste citazioni servono per tentare di illustrare il modo d’essere e il modo di scrivere di David Wallace. Tentativo arduo, considerata la complessità del suo sentire, la sua eterna insoddisfazione [...] 

La sorella Amy descrive gli ultimi giorni del fratello e dà la propria opinione sul suo gesto finale:
 «Il fatto di essere amato così tenacemente dai suoi amici, dalla sua famiglia, da sua moglie, non riusciva a penetrare la paura e la solitudine. Semplicemente, David ha esaurito la forza di sperare che domani forse sarebbe andata un po’ meglio». E ancora: «Sebbene fosse spaventatissimo, non dormisse e perdesse tantissimo peso, credo che a consumarlo, alla fine, sia stata la paura di non essere mai più abbastanza in salute per scrivere». [...]


Riguardando le opere di David Wallace dopo che si è tolto la vita si possono individuare non pochi riferimenti alla morte, al momento del trapasso e anche al suicidio.

Nella raccolta di racconti Oblio, ce n’è uno dal titolo Caro vecchio neon, scritto in prima persona, il cui protagonista è un giovane che si definisce un impostore perché fin da piccolo fa soltanto quello che può fargli fare bella figura.

È un’altra citazione che si giustifica perché vi si trovano alcuni dei temi fondamentali della narrativa e dell’esistenza di DFW: l’accusa alla parola di inadeguatezza, le ipotesi su quello che avviene nell’istante in cui si passa dalla vita alla morte, il suicidio. Dopo molti anni da impostore attraverso numerose vicende di vario genere e quasi altrettanti anni trascorsi in analisi per cercare di cambiare, il protagonista decide che l’unica via d’uscita che gli resta è togliersi di mezzo. [...]

È L’ORA DI FARLA FINITA
A un certo punto del racconto, la svolta:
«Dopo colazione chiamai l’ufficio per darmi malato e rimasi a casa da solo tutto il giorno.
Sapevo che se avessi incontrato qualcuno sarei caduto automaticamente nell’impostura.
Avevo deciso di prendere un flacone intero di Benadryl e poi quando mi fossi sentito davvero rilassato e sonnolento sarei andato a tutto gas con la macchina su una strada di campagna all’estrema periferia occidentale puntando dritto contro la spalla di cemento di un ponte.
Il Benadryl mi rende estremamente confuso e sonnolento, lo ha sempre fatto.
Ho passato quasi tutta la mattinata a scrivere lettere all’avvocato e al ragioniere collegiato, e brevi notarelle al capo creativo e socio amministrativo che a suo tempo mi aveva fatto entrare nella Samieti e Cheyne. Il nostro gruppo creativo era nel mezzo dei preparativi per una campagna alquanto rognosa e volevo comunque scusarmi per il fatto di piantarli in asso».
E più avanti: «Prima di prendere il primo Benadryl passai quasi due ore a scrivere a mano un biglietto per mia sorella Fern. Nel biglietto mi scusavo per l’eventuale dolore che il mio suicidio e la mia disonestà e/o incapacità di amare che lo avevano affrettato avrebbero potuto causare a lei e al mio patrigno». Qui ricorda episodi del passato, incomprensioni, cattiverie concludendo che così facendo «si scopre che un biglietto di suicidio ti dà modo di discutere cose che in altri frangenti sembrerebbero troppo stonate».

Poi un elenco delle cose che tutti quelli sul punto di affrontare la morte finiscono per pensare:
«“Questa è l’ultima volta che mi allaccio le scarpe”,
“Questa è l’ultima volta che guardo il ficus sopra lo stereo”,
“Come sembra deliziosa questa boccata d’aria”,
“Questo è l’ultimo bicchiere di latte che berrò”»
e ancora «“Non sentirò mai più il rumore lamentoso del frigorifero in cucina”,
“Domattina non vedrò sorgere il sole né osserverò la stanza che esce dal vago e si viene precisando”».

Qualche pagina dopo il narratore dialoga con il protagonista:
«Bene, e siamo arrivati a quanto ti avevo promesso facendoti un riassunto noiosissimo di quello che c’è voluto per arrivarci senza perdere la fiducia.
Cioè com’è morire, che cosa succede. Giusto?
È quello che vogliono sapere tutti.
Anche tu, dammi retta...

Dal quadro d’insieme, come si suol dire, risulta che tutto questo apparentemente interminabile andirivieni fra noi due ha fatto avanti e indietro nello stesso istante in cui Fern mescola una pentola che bolle sul fuoco per il pranzo... e David Wallace sbatte le palpebre mentre sfoglia oziosamente le foto dei corsi sull’annuario scolastico della scuola superiore Aurora West» e trova nel 1981 la piccola foto di quel tizio «che era un anno avanti a lui, sempre circondato da un’aureola, che sembrava quasi al neon, di superiorità scolastica e atletica e di popolarità e successo con le donne, e (ricordi) legati anche a ogni osservazione tagliente o anche minimo gesto o espressione disgustata da parte di quel tipo ogni volta che David Wallace si faceva eliminare al terzo strike nelle partite di baseball dell’American Legion o aveva un’uscita infelice a una festa». Nelle ultime righe «essendo ormai passato parecchio tempo dal 1981, naturalmente, e David Wallace è uscito da anni di conflitti letteralmente indescrivibili con se stesso con una potenza di fuoco alquanto superiore rispetto ai tempi della scuola ad Aurora West» lo scrittore narratore si chiede come «la parte più reale, più tollerante e sentimentale di lui» possa riuscire «a imporre all’altra parte di tacere come se la guardasse negli occhi dicendo, quasi a voce alta: “Non una parola di più”».

http://www.retididedalus.it/Archivi/2009/ottobre/LIBROSFERA/mix.pdf

martedì 13 maggio 2014

Chi desidera porsi in modo realistico in relazione al Lavoro, deve iniziare con la definizione dei suoi obbiettivi. Non puoi compiere il primo passo del tuo viaggio, a meno che tu non sappia dove vuoi andare. Come definire i nostri obbiettivi? Io sono uno schiavo; miro a diventare un padrone. Vivo in un mondo di sogni; miro ad entrare nel mondo reale. Sono immerso nelle menzogne; voglio conoscere la verità. Io sono molti; il mio scopo è di divenire Uno. Io sono un ego separato; il mio scopo è di fondermi con il Tutto. Queste definizioni descrivono degli scopi a lungo termine. Sono troppo generali e troppo vaghe per fornire una base di lavoro pratico quotidiano. Il Lavoro è sia un'arte, sia una scienza. - È creativo ed in questo senso è analogo al lavoro dell'artigiano, dell'artista o del costruttore. - Ma è anche un'attività di esplorazione, analogamente al lavoro di uno scienziato ricercatore. Al centro di tutto sta la verità che non conosciamo noi stessi e per tale ragione non siamo padroni di noi stessi. Dunque il Lavoro deve cominciare con un lungo periodo di osservazione di noi stessi.

Chi desidera porsi in modo realistico in relazione al Lavoro, deve iniziare con la definizione dei suoi obbiettivi. 

Non puoi compiere il primo passo del tuo viaggio, a meno che tu non sappia dove vuoi andare. 

Come definire i nostri obbiettivi? 
Io sono uno schiavo; miro a diventare un padrone. 
Vivo in un mondo di sogni; miro ad entrare nel mondo reale. 
Sono immerso nelle menzogne; voglio conoscere la verità. 
Io sono molti; il mio scopo è di divenire Uno. 
Io sono un ego separato; il mio scopo è di fondermi con il Tutto. 

Queste definizioni descrivono degli scopi a lungo termine. 
Sono troppo generali e troppo vaghe per fornire una base di lavoro pratico quotidiano. 

Il Lavoro è sia un'arte, sia una scienza. 
- È creativo ed in questo senso è analogo al lavoro dell'artigiano, dell'artista o del costruttore. 

- Ma è anche un'attività di esplorazione, analogamente al lavoro di uno scienziato ricercatore. 

Al centro di tutto sta la verità che non conosciamo noi stessi e per tale ragione non siamo padroni di noi stessi. Dunque il Lavoro deve cominciare con un lungo periodo di osservazione di noi stessi

Ma chi effettua l'osservazione? 
Siamo una molteplicità, una folla di Io, molti dei quali hanno scopi in conflitto reciproco. 
Abbiamo bisogno di un Osservatore che osservi oggettivamente ed impari a distinguere la fauna dello zoo. Ma come si può riuscire a creare l'Osservatore? L'Osservatore non esiste, io debbo crearlo; ma cos'è questo “io”? L'allegoria della casa piena di servi disordinati ci suggerisce che essi possono scegliere uno di loro che faccia da sovrintendente, da maggiordomo capo, per mantenere un minimo di ordine in attesa che il Padrone si faccia vivo. 
Ma... chi sceglie il maggiordomo e da quale fonte questa entità trarrà il suo potere? 
Possiamo concludere solo che il Maggiordomo si elegge da solo. Egli/ella è il solo/la sola tra i servi che ha una certa comprensione delle priorità. Gli altri servi perseguono i loro obbiettivi e si dedicano ai propri giochi. Uno vuol giocare al Gioco del Denaro, un altro al Gioco della Fama, un altro può fantasticare sul Gioco della Scienza o su quello dell'Arte. Ma il Maggiordomo capisce che l'unico gioco che valga la pena di esser giocato è il Gioco Principale** e che tutti gli altri giochi passano in secondo piano. Egli ha la difficile responsabilità di dover spiegare questo fatto agli altri servi, che spesso si ribellano e non vogliono accettare la sua autorità.



Chi desidera porsi in modo realistico in relazione al Lavoro, deve iniziare con la definizione dei suoi obbiettivi.

Non puoi compiere il primo passo del tuo viaggio, a meno che tu non sappia dove vuoi andare.

Come definire i nostri obbiettivi?
Io sono uno schiavo; miro a diventare un padrone.
Vivo in un mondo di sogni; miro ad entrare nel mondo reale.
Sono immerso nelle menzogne; voglio conoscere la verità.
Io sono molti; il mio scopo è di divenire Uno.
Io sono un ego separato; il mio scopo è di fondermi con il Tutto.

Queste definizioni descrivono degli scopi a lungo termine. Sono troppo generali e troppo vaghe per fornire una base di lavoro pratico quotidiano.

Il Lavoro è sia un'arte, sia una scienza.
- È creativo ed in questo senso è analogo al lavoro dell'artigiano, dell'artista o del costruttore.
- Ma è anche un'attività di esplorazione, analogamente al lavoro di uno scienziato ricercatore.

Al centro di tutto sta la verità che non conosciamo noi stessi e per tale ragione non siamo padroni di noi stessi. Dunque il Lavoro deve cominciare con un lungo periodo di osservazione di noi stessi. Ma chi effettua l'osservazione? Siamo una molteplicità, una folla di Io, molti dei quali hanno scopi in conflitto reciproco. Abbiamo bisogno di un Osservatore che osservi oggettivamente ed impari a distinguere la fauna dello zoo.

Ma come si può riuscire a creare l'Osservatore?
L'Osservatore non esiste, io debbo crearlo; ma cos'è questo “io”?
L'allegoria della casa piena di servi disordinati ci suggerisce che essi possono scegliere uno di loro che faccia da sovrintendente, da maggiordomo capo, per mantenere un minimo di ordine in attesa che il Padrone si faccia vivo.

Ma... chi sceglie il maggiordomo e da quale fonte questa entità trarrà il suo potere?

Possiamo concludere solo che il Maggiordomo si elegge da solo. Egli/ella è il solo/la sola tra i servi che ha una certa comprensione delle priorità. Gli altri servi perseguono i loro obbiettivi e si dedicano ai propri giochi.
Uno vuol giocare al Gioco del Denaro,
un altro al Gioco della Fama,
un altro può fantasticare sul Gioco della Scienza o su quello dell'Arte.
Ma il Maggiordomo capisce che l'unico gioco che valga la pena di esser giocato è il Gioco Principale** e che tutti gli altri giochi passano in secondo piano. Egli ha la difficile responsabilità di dover spiegare questo fatto agli altri servi, che spesso si ribellano e non vogliono accettare la sua autorità.




Mario Fabi Il Viandante ha condiviso la foto di Paolo Lopiano.


venerdì 31 gennaio 2014

Evitate di parlare dei vostri problemi. Non andate in cerca di comprensione, perché il bisogno di autocommiserarsi provoca ancora più infelicità. Vincete l'impulso di esagerare le difficoltà, perché non fareste altro che peggiorare la situazione. Alcuni sostengono che parlare di una sofferenza guarisce : non credeteci. Se viene piantato il seme di un problema, diventerà un albero. Se parlate di malattia o di scarsità di denaro, oppure di amicizia e di libertà, quello che dite è proprio ciò che otterrete. Sradicate tutti questi discorsi. I discorsi negativi sono come trappole per orsi che scattano a qualunque cosa si avvicini. Il dolore che provereste sarebbe insopportabile, perciò tenetevi lontani. Parlate invece di ricchezza e di cose buone e tutto ciò sarà vostro

Le ferite bisogna nasconderle, attirano gli squali.
Vjollca Lika


Evitate di parlare dei vostri problemi. Non andate in cerca di comprensione, perché il bisogno di autocommiserarsi provoca ancora più infelicità. Vincete l'impulso di esagerare le difficoltà, perché non fareste altro che peggiorare la situazione. Alcuni sostengono che parlare di una sofferenza guarisce : non credeteci. Se viene piantato il seme di un problema, diventerà un albero. Se parlate di malattia o di scarsità di denaro, oppure di amicizia e di libertà, quello che dite è proprio ciò che otterrete. Sradicate tutti questi discorsi. I discorsi negativi sono come trappole per orsi che scattano a qualunque cosa si avvicini. Il dolore che provereste sarebbe insopportabile, perciò tenetevi lontani. Parlate invece di ricchezza e di cose buone e tutto ciò sarà vostro. 
Joyce Sequichie Hifler Cherokee 



sono d'accordo...però c'è anche lo sfogo di un momento, cioè se ipotesi purtroppo accade qualcosa di brutto è normale parlarne subito con le persone care..altro è il lamento continuo, il fossilizzarsi sui problemi.





I problemi si affrontano parlandone. Le ingiustizie sociali se le neghi si moltiplicano. Nascondersi le cose brutte, anzichè cercare il modo di cambiarle, non mi è mai piaciuto. E' la tecniche dello struzzo, che usi solo quando non hai abbastanza forza per modificare ciò che non ti piace.




Parlare dei propri incubi, a volte, è liberatorio, per me è l'unico sistema per tenerli a distanza ed esorcizzarli...e non sempre si può accettare un problema senza prima lottare in modo disperato per far sì che non diventi troppo insopportabile





Ma se parlando dei problemi , dolori, x me è un modo di liberarli, di vederli "meglio", di viverli "meglio". Non per questo rompo le scatole agli altri sempre e a chiunque. Ci mancherebbe. So perfettamente gestirmi.



si, parlarne con qualcuno (non con chi capita) ti da la sensazione, nel momento stesso che ne parli, che sia una sciocchezza che la soluzione sia proprio a portata di mano e spesso parlare di un grande dispiacere o dolore fa si che non si radichi dentro di noi crescendo fino a divenire inestirpabile





Parlare di un malessere a volte veramente può evocarlo e diventare una profezia che si autodetermina.





Io so solo che certe volte la sofferenza interiore è tanto forte da uccidere.
Come si fa a non chiedere aiuto, magari solo piangendo (senza far scenate, piangendo compostamente) per far uscire quella disperazione che ti artiglia la gola? Beati i forti, quelli che sanno tenere a bada tutto quello che scrivono nei loro commenti qui sopra, beati gli stoici razionali e i filosofi maestri di vita. Io prendo coscienza del mio dolore e quando è troppo forte ,posso solo annullarmi nel dolore stesso, per arrivare a un vuoto liberatorio e salvifico.


La "via del dolore annientante" é proprio quella proposta da Castaneda: "la via del guerriero".
Pare sia la migliore. Non si tratta di masochismo in quanto il "guerriero" sa che la sofferenza é finalizzata alla totale liberazione (da tutti gli schemi mentali appresi o "tonal o "ego"). Non a caso don Juan ricorda all'allievo Carlos che noi diamo il meglio di noi stessi quando abbiamo le spalle al muro e di andarsi a cercare i peggiori rompicoglioni (pinches tiranos). Chi arriva liberarsi dalla falsa identità si é fatto un mazzo tanto. Bisogna stare attenti a non farsi il mazzo per nulla. Purtroppo capita spesso, a chi segue certe direttrici psicologiche e spirituali. Consigliamo, a tal proposito, di andarsi a leggere qualcosa di Abraham Maslow e sulla psicologia transpersonale.





Don Juan rimproverava sempre a Castaneda questo atteggiamento piagnucoloso che chiamava "indulgere". Assai poco adatto al guerriero. [...]
Il guerriero, castanedianamente inteso, é un socialmente impresentabile.
Un asociale impegnato in un combattimento perpetuo contro il proprio "senso di importanza personale".

 L'unico, e definitivo, modo di eliminare i problemi é quello di liberarsi dell'ego, quello che la dottoressa J. B. Taylor chiama il "narratore malevolo", che si "annida" fra i neuroni dell'area del linguaggio. Castaneda chiama questa, tonificante, estirpazione egoica "perdita della forma umana" o "cancellazione della storia personale". Il buddista parlerebbe di uscita dal samsara, il cristiano di entrata nel Regno dei Cieli, lo gnostico di ritorno al Pleroma.di Noi lo definiamo "Fuga da Flatland".


L'importanza personale non è qualcosa di semplice e ingenuo" spiegò. "Da un lato, è il nucleo di tutto ciò che in noi ha valore, dall'altro il nucleo di tutto il nostro marciume. Disfarsi dell'importanza personale richiede un capolavoro di strategia. I veggenti di tutte le epoche hanno espresso i più alti apprezzamenti per coloro che ci sono riusciti.
Castaneda. Il fuoco dal profondo


"Non c'è nulla di sbagliato nel sentirsi impotenti" disse don Juan, "ma indulgere nel piangere e nel lagnarsi è un'altra faccenda".
Castaneda. L'isola del tonal


Ti ho sentito dire che i tuoi genitori hanno ferito il tuo spirito. Io penso che lo spirito dell'uomo possa essere ferito molto facilmente, sebbene non dagli stessi atti che tu definisci lesivi. Credo che i tuoi genitori ti abbiano ferito facendo di te una persona che si lascia andare, molle e propensa ad indulgere.
Castaneda. Una realtà separata





Fuga da Flatland Dopo l'approccio sciamanico alla crisi, adesso quello quantistico.
"Una intelligenza globale, e per globale potremmo persino intendere qualcosa che riguardi l'intero pianeta, scaturisce dal basso verso lalto, prendendo cioè spunto da interazioni meramente locali. E' un po come dire che la vera intelligenza, quella che guida l'economia americana, non è nelle mani, (o nelle teste) dei politicanti di Washington, ma è invece sparpagliata nelle conversazioni notturne dei camionisti che si incontrano agli autogrill, nelle domande dei clienti ai negozianti e nelle loro pronte risposte, nelle chiacchierate amichevoli dei vicini che discutono di affitti e mutui."
Jeffrey Satinover - "Il cervello quantico"







mercoledì 8 febbraio 2012

Jean Paul Sartre. La vita non ha senso a priori. Prima che voi la viviate, la vita di per sé non è nulla; sta a voi darle un senso, e il valore non è altro che il senso che scegliere

Il Nobel è un biglietto per il proprio funerale.
Nessuno ha fatto niente dopo averlo ricevuto.
Thomas Stearns Eliot

http://www.raistoria.rai.it/articoli/sartre-rifiuta-il-nobel/11117/default.aspx

La volta che Sartre rifiutò il Nobel.
Cinquant'anni fa lo scrittore e filosofo francese rifiutò il Nobel per la Letteratura,
per via del socialismo e perché non voleva «trasformarsi in un'istituzione».


Il 22 ottobre di cinquant’anni fa il premio Nobel per la Letteratura venne assegnato a Jean Paul Sartre, scrittore e filosofo francese, che però lo rifiutò. Per la Francia fu un vero e proprio scandalo, che costò a Sartre molte critiche e accuse; la più divertente fu probabilmente quella dello scrittore francese André Maurois: sostenne che Sartre non aveva accettato «perché incapace di indossare uno smoking».

La prima lettera di Sartre.
Il rifiuto di Sartre fu comunque un evento annunciato.
Nel settembre del 1964, un mese prima dell’assegnazione del premio Nobel, quando avevano cominciato a circolare notizie sull’attribuzione del riconoscimento proprio a 
Sartre, questo scrisse una prima lettera all’Accademia svedese in cui diceva:


«Signor Segretario,
da alcune informazioni di cui ora sono venuto a conoscenza, avrei qualche possibilità, quest’anno, di ottenere il premio Nobel. Benchè sia presuntuoso discutere di una votazione prima ancora che abbia avuto luogo, mi prendo la libertà di scriverle per dissipare o evitare un malinteso. Intanto, signor Segretario, le assicuro subito la mia profonda stima per l’accademia svedese e per il premio con cui ha onorato tanti scrittori. Tuttavia, per alcune ragioni del tutto personali e per altre che sono più oggettive, non desidero comparire nella lista dei possibili candidati e non posso né voglio né nel 1964 né dopo accettare questa onorificenza.
La prego, Signor Segretario, di accettare le mie scuse e di credere alla mia altissima considerazione».

Sulla lettera circolano però diverse storie, tra cui quella che non fu mai né aperta né letta.

Le Monde riportò che un giornale svedese, il 21 ottobre, aveva scritto che Sartre aveva rinunciato in anticipo al premio per non privare qualcun altro di poterlo ricevere, ma anche che il segretario e il presidente dell’Accademia avevano dichiarato di non aver mai ricevuto una lettera da parte di Sartre. Comunque sia andata, la notizia del possibile rifiuto di Sartre era già in circolazione.

Nel 1964 Sartre aveva pubblicato alcuni dei suoi libri più importanti (La nausea, Il muro, L’età della ragione) ma soprattutto era diventato per molti, soprattutto giovani, un simbolo della “ribellione” e dell’anticonformismo nel Dopoguerra. Era presente e riconosciuto nel dibattito pubblico del tempo: aveva fondato la rivista Les Temps Modernes in cui, insieme ad altri intellettuali come Simone de Beauvoir e Merleau-Ponty, condivideva le proprie idee per esempio contro l’imperialismo americano; aveva sostenuto, almeno in un primo momento, la Rivoluzione cubana; aveva espresso posizioni favorevoli a Mao in Cina; aveva dato il suo appoggio al Partito comunista francese e intrapreso una lotta radicale a favore della causa nazionalista anticolonialista algerina.

L’assegnazione e il rifiuto ufficiale.
Il 22 ottobre del 1964 la Fondazione Nobel assegnò a Sartre il premio, motivando la scelta dicendo che «con la sua opera ricca di idee e piena di spirito di libertà e ricerca della verità» Sartre aveva «esercitato un’influenza di vasta portata» per il tempo presente.

Il giorno dopo, il 23 ottobre 1964, Jean-Paul Sartre diede un’intervista alla stampa svedese in cui confermava il suo rifiuto. Questo secondo testo venne inviato anche alle redazioni di diversi quotidiani francesi. Sartre iniziava dicendo di essere «profondamente dispiaciuto» che la questione avesse «assunto l’aspetto di uno scandalo: un premio mi è stato assegnato e io l’ho rifiutato». Confermava di aver inviato la sua prima lettera all’Accademia e precisava con più chiarezza le motivazioni personali e oggettive che l’avevano spinto alla rinuncia. Avevano a che fare con il senso del suo essere scrittore e con il ruolo politico dell’intellettuale.

«Le ragioni per cui ho rinunciato al premio non riguardano l’Accademia svedese, né il premio Nobel in sé, come ho spiegato nella mia lettera all’Accademia dove ho richiamato due tipi di motivazioni: personali e obiettive.

Le ragioni personali sono le seguenti: il mio rifiuto non è un atto di improvvisazione. 
Ho sempre declinato gli onori ufficiali. Quando nel Dopoguerra, nel 1945, mi è stata proposta la Legione d’Onore, ho rifiutato malgrado avessi degli amici al governo. Ugualmente non ho mai desiderato entrare al Collège de France, come mi è stato suggerito da qualche amico. (…) Lo scrittore deve rifiutare di lasciarsi trasformare in un’istituzione, anche se questo avviene nelle forme più onorevoli, come in questo caso.
Le mie ragioni obiettive sono le seguenti: la sola lotta possibile sul fronte della cultura, in questo momento, è quella per la coesistenza pacifica di due culture, quella dell’est e quella dell’ovest. Non voglio dire che bisogna abbracciarsi – so bene che il confrontarsi di queste due culture prende necessariamente la forma di un conflitto – ma che la coesistenza deve avvenire tra gli uomini e tra le culture, senza l’intervento delle istituzioni. (…) Le mie simpatie si rivolgono innegabilmente verso il socialismo e a ciò che viene chiamato il blocco dell’est, ma io sono nato e sono stato allevato in una famiglia borghese. Spero tuttavia, sia chiaro, che “vinca il migliore”: cioè il socialismo.
Questo è il motivo per cui io non posso accettare le onorificenze conferite dalle alte istanze culturali, sia all’ovest che all’est, anche se capisco con chiarezza la loro ragione di esistere. Anche se tutte le mie simpatie sono dalla parte dei socialisti sarei incapace di accettare, per esempio, il premio Lenin se qualcuno me lo volesse dare, ma non è questo il caso. Durante la guerra d’Algeria, quando abbiamo firmato il “Manifesto dei 212”, avrei accettato il premio con riconoscenza perché non avrebbe onorato solo me ma la libertà per cui si lottava. Ma questo non è successo, ed è solo alla fine della guerra che mi si è assegnato il premio».

Lo scrittore svedese Lars Gyllensten, che dal 1966 al 1989 aveva fatto parte della fondazione che conferisce i Nobel, nel suo libro di memorie ha raccontato di essere stato informato dalla segreteria dell’accademia che Sartre si era rivolto loro nel settembre del 1975 attraverso un intermediario per valutare la possibilità di ottenere l’assegno che undici anni prima non aveva ritirato (i vincitori del Nobel ricevono anche un premio in denaro: oggi l’equivalente di circa 900mila euro). Jean-Paul Sartre avrebbe voluto destinare il denaro a un’iniziativa umanitaria. La sua domanda fu rifiutata, racconta Gyllensten, perché i soldi del premio erano stati investiti nella fondazione.
Annie Cohen-Solal, biografa di Sartre, ritiene che questo fatto non sia veritiero.
Nella storia del premio Nobel, istituito nel 1901, quello di Sartre fu un caso unico ed eccezionale.

Nel 1958 anche il poeta e scrittore russo Boris Pasternak scrisse all’accademia svedese che non poteva accettare il premio, ma per motivi che non dipendevano da una sua libera scelta (il rifiuto fu infatti motivato con l’ostilità del suo paese, la Russia, dai cui servizi segreti aveva ricevuto varie minacce e avvertimenti).

Il terzo caso di rifiuto, infine, fu un rifiuto a metà:
George Bernard Shaw nel 1925 accettò il Nobel ma rifiutò di ricevere il premio in denaro che questo prevedeva, chiedendo che venisse utilizzato per la traduzione dallo svedese all’inglese di alcune opere.

Sartre

http://www.ilpost.it/2014/10/22/jean-paul-sartre-rifiuto-nobel/





"Quando Dio tace, gli si può far dire quello che si vuole"
"La società rispettabile credeva in Dio per evitare di doverne parlare"
Jean-Paul Sartre

«Non sento di essere il prodotto del caso, un granello di polvere nell’universo, ma qualcuno che era aspettato, preparato, prefigurato. In breve, un essere che solo un Creatore potrebbe mettere qui. E questa idea di una mano creatrice si riferisce a Dio»
(da “Nouvel Observateur”, 1980)
La “scandalosa” conversione di Jean-Paul Sartre pochi mesi prima di morire.
«Come si potrebbe spiegare questo senile atto di un voltagabbana? Tutti i miei amici, tutte le “Sartreans”, e la redazione di “Les Temps Modernes” mi hanno sostenuto nella mia costernazione». La sua amante femminista Simone de Beauvoir

La vita non ha senso a priori. Prima che voi la viviate, la vita di per sé non è nulla; sta a voi darle un senso, e il valore non è altro che il senso che scegliere
Jean Paul Sartre 

L’uomo non è niente altro che quello che progetta di essere; egli non esiste che nella misura in cui si realizza; non è, dunque, niente altro che l’insieme delle sue decisioni.
Jean-Paul Sartre


L’uomo è condannato ad essere libero: condannato perché non si è creato da se stesso, e pur tuttavia libero, perché, una volta gettato nel mondo, è responsabile di tutto ciò che fa
Jean Paul Sartre


È la corrente che ti trascina, è la vita; non si può giudicare, né capire, non c’è che lasciarsi andare
Jean Paul Sartre 

L'uomo è in primo luogo ciò che si slancia verso un avvenire e ciò che ha coscienza di progettarsi verso l'avvenire
Jean Paul Sartre


L'atto di immaginazione è un atto magico.  E' un incantesimo destinato a far apparire l'oggetto al quale si pensa, la cosa che si desidera, in modo da poterne prendere possesso.
Jean Paul Sartre...

Le ideologie sono libertà mentre si fannooppressione quando sono fatte.
Jean-Paul Sartre


Il mondo è iniquità: se lo accetti sei complice, se lo cambi sei carnefice.
Jean-Paul Sartre

E' vero che non sei responsabile di quello che sei, ma sei responsabile di quello che fai di ciò che sei
Jean Paul Sartre

L'uomo non è la somma di quello che ha, ma la totalità di quello che non ha ancora, di quello che potrebbe avere.
Jean-Paul Sartre

Bisogna cercare di spiegare che il mondo di oggi, per quanto orribile, è soltanto un momento del lungo svolgimento della storia, che in qualsiasi rivoluzione o insurrezione la speranza è sempre stata una delle forze dominanti e come la speranza rimanga la mia concezione del futuro.
Jean-Paul Sartre. L’Espoir maintenant, Les entretiens de 1980
Benny Lévy - Jean-Paul Sartre

Mentre riconosco la necessità di un'organizzazione, confesso di non vedere come possano risolversi i problemi che qualsiasi struttura stabilizzata porta con sé.
Jean-Paul Sartre, settembre 1969.
in: Rossana Rossanda, Quando si pensava in grande, 2013 Einaudi, pag.64.
Non facciamo quello che vogliamo e tuttavia siamo responsabili di quel che siamo
Jean-Paul Sartre



Non si poteva contare su un trattato di filosofia per persuadere le persone ch’esse non esistono
Jean-Paul Sartre

Altre carte continuano a cadere, le mani vanno e vengono.
Che curiosa occupazione, non sembra né un GIOCO, né un RITO, né un'ABITUDINE.
Credo ch'essi lo facciano per OCCUPARE IL TEMPO, semplicemente.
Ma IL TEMPO E' TROPPO VASTO, NON SI LASCIA RIEMPIRE.
Tutto ciò che uno vi getta s'ammollisce e si stira (…).
Jean-Paul Sartre


«Sono invecchiati in un altro modoVivono in mezzo alle cose ereditate, ai regali, ed ogni mobile per loro è un ricordo. Pendole, medaglie, ritratti, conchiglie, fermacarte, paraventi, scialli. Hanno armadi pieni di bottiglie, di stoffe, di vecchi vestiti, di giornali, hanno conservato tuttoIl passato è un lusso da proprietariEd io dove potrei conservare il mio? Non ci si può mettere il passato in tascabisogna avere una casa per sistemarveloIo non possiedo che il mio corpoun uomo completamente solo, col suo corpo soltanto, non può fermare i ricordi, gli passano attraversoNon dovrei lagnarmi: il mio solo desiderio è stato d'esser libero».
Jean-Paul Sartre

Adesso non penso più a nessuno; non mi curo nemmeno di cercare parole. Tutto scorre in me più o meno svelto, non fisso nulla, lascio correre. La maggior parte del tempo, in mancanza di parole cui attaccarsi, i miei pensieri restano nebulosi. Disegnano forme vaghe e piacevoli, e poi sprofondano, e subito li dimentico.
Jean-Paul Sartre, La nausea


Ciascuno ha la sua piccola fissazione personale che gli impedisce di accorgersi che esiste. […] 
Tutti questi tipi passano il loro tempo a spiegarsi, a riconoscere felicitandosene che sono della stessa opinione. Quanta importanza attribuiscono, mio Dio, a pensare tutti quanti le stesse cose. Mi sembra d’appartenere ad un’altra specie. Escono dagli uffici, dopo la giornata di lavoro, guardano le case e le piazze con un’aria soddisfatta, pensano che è la “loro” città, una “bella città borghese”. Non hanno paura, si sentono a casa loro. Non hanno mai visto altro che l’acqua addomesticata che esce dai rubinetti, che la luce che sprizza dalle lampade quando si preme l’interruttore, che gli alberi meticci, bastardi, che vengono sorretti con i pali. Hanno la prova, cento volte al giorno, che tutto si fa meccanicamente, che il mondo obbedisce a leggi fisse e immutabili. I corpi abbandonati nel vuoto cadono tutti con la stessa velocità, il giardino pubblico viene chiuso tutti i giorni alle sedici d’inverno, e alle diciotto d’estate, il piombo fonde a 335 gradi, l’ultimo tram parte dal municipio alle ventitrè e cinque. Son pacifici, un po’ malinconici, pensano a Domani, cioè, semplicemente, ad un altro oggi; le città non dispongono che d’una giornata che ritorna sempre uguale ogni mattina. La si impennacchia un po’ la domenica. Che imbecilli. Mi ripugna pensare che sto per rivedere le loro facce ottuse e piene di sicurezza.
Jean-Paul Sartre,  La Nausea



Io vedo l'avvenire. E' là, posato sulla strada, appena un po' più pallido del presente. Che bisogno ha di realizzarsi? Che cosa ci guadagna?... Non distinguo più il presente dal futuro, e tuttavia la cosa continua, si realizza a poco a poco... Questo è il tempo, né più né meno che il tempo, giunge lentamente all'esistenza, si fa attendere, e quando viene si è stomacati perché ci si accorge che era già lì da un pezzo... Mai come oggi ho provato così forte la sensazione di essere senza dimensioni segrete, limitato al mio corpo, ai pensieri lievi che da esso affiorano come bolle. Costruisco i miei ricordi col mio presente. Sono respinto, abbandonato nel presente. Il passato tento invano di raggiungerlo: non posso sfuggire a me stesso.
Jean-Paul Sartre, La nausea


«Il mondo... questo grosso essere assurdo. Non ci si poteva nemmeno domandare da dove uscisse fuori, tutto questo, né come mai esisteva un mondo invece che niente. Non aveva senso, il mondo era presente dappertutto, davanti, dietro. Non c'era stato niente prima di esso. Niente. Non c'era stato un momento in cui esso avrebbe potuto non esistere. Era appunto questo che m'irritava: senza dubbio non c'era alcuna ragione perché esistesse, questa larva strisciante. Ma non era possibile che non esistesse. Era impensabile: per immaginare il nulla occorreva trovarcisi già, in pieno mondo, da vivo, con gli occhi spalancati, il nulla era solo un'idea nella mia testa, un'idea esistente, fluttuante in quella immensità: quel nulla non era venuto prima dell'esistenza, era un'esistenza come un'altra e apparsa dopo molte altre».
Jean-Paul Sartre, La nausea



Come posso sperare di salvare il passato di un altro, 
io che non ho avuto la forza di trattenere il mio?
Jean-Paul Sartre, La nausea



Sono libero: non mi resta più alcuna ragione di vivere, tutte quelle che ho tentato hanno ceduto e non posso più immaginarne altre. Sono ancora abbastanza giovane, ho ancora abbastanza forza per ricominciare. Ma che cosa bisogna ricominciare? Soltanto ora comprendo quanto contassi su Anny per salvarmi, in mezzo ai miei più forti terrori, alle mie nausee. Il mio passato è morto. […] Sono solo in questa strada bianca fiancheggiata da giardini. Solo e libero. Ma questa libertà assomiglia un poco alla morte.” 
Jean-Paul Sartre, “La nausea”



“Sono solo in mezzo a queste voci gioiose e ragionevoli. Tutti questi tipi passano il loro tempo a spiegarsi, a riconoscere felicitandosene che sono della stessa opinione. 
Quanta importanza attribuiscono a pensare tutti quanti le stesse cose”.
Jean-Paul Sartre, La nausea


L'essenziale è la contingenza. Voglio dire che, per definizione, l'esistenza non è la necessità. ESISTERE è essere lì, semplicemente: gli esistenti appaiono, si lasciano incontrare ma non li si può mai dedurre. C'è qualcuno, credo, che ha compreso questo. Soltanto ha cercato di sormontare questa contingenza inventando un essere necessario e causa di sé. Orbene, non c'è alcun essere necessario che può spiegare l'esistenza: la contingenza non è una falsa sembianza, un'apparenza che si può dissipare; è l'assoluto, e per conseguenza la perfetta gratuità. Tutto è gratuito, questo giardino, questa città, io stesso. E quando vi capita di rendervene conto, vi si rivolta lo stomaco e tutto si mette a fluttuare... ecco la Nausea. 
Jean-Paul Sartre,  La nausea 


Che cosa succederebbe se qualcosa dovesse accadere?
Cosa succederebbe se all'improvviso qualcosa palpitasse?
Jean Paul Sartre, La nausea


Ecco che cosa ho pensato: affinché l'avvenimento più comune divenga un'avventura è necessario e sufficiente che ci si metta a raccontarlo. È questo che trae in inganno la gente: un uomo è sempre un narratore di storie, vive circondato delle sue storie e delle storie altrui, tutto quello che gli capita lo vede attraverso di esse, e cerca di vivere la sua vita come se la raccontasse".
Jean Paul Sartre, La nausea



Se ti senti solo quando sei da solo, sei in cattiva compagnia
Jean Paul Sartre


Quanto a me, vivo solo, completamente solo. Non parlo con nessuno, mai; non ricevo niente, non do niente. Ci sarebbe Francesca, la padrona del Ritrovo dei ferrovieri. Ma le parlo forse? Qualche volta, dopo mangiato, quando mi serve un gotto, le domando: "Avete tempo, stasera?"
Lei non dice mai di no, ed io la seguo in una delle grandi camere al primo piano, che affitta a ore o alla giornata. Non la pago: facciamo l'amore alla pari. Lei vi prende piacere (le occorre un uomo al giorno e ne ha molti oltre me) e io mi purgo così di certe malinconie di cui conosco fin troppo bene la causa. Ma scambiamo appena qualche parola. A che scopo? Ciascuno per sé; per lei, d'altronde, io resto anzitutto un cliente del suo caffè. Togliendosi i vestiti mi dice: "Dite, conoscete per caso un aperitivo che si chiama Bricot? Perché ci son stati due clienti, questa settimana. La piccola non ne sapeva niente ed è venuta a dirmelo. Erano viaggiatori, l'avranno bevuto a Parigi. Ma non mi piace comprare senza sapere. Se non vi fa nulla tengo le calze."
Una volta, ancora per molto tempo dopo che m'ebbe lasciato, pensavo ad Anny. Adesso, non penso più a nessuno: non mi curo nemmeno di cercare le parole. Tutto scorre in me più o meno svelto, non fisso nulla, lascio correre. La maggior parte del tempo, in mancanza di parole cui attaccarsi, i miei pensieri restano nebulosi. Disegnano forme vaghe e piacevoli, e poi sprofondano, e subito li dimentico.
Jean-Paul Sartre, "La Nausea"


Lo so. So che non incontrerò mai più niente né nessuno che m’ispiri della passione.
Lo sai, mettersi ad amare qualcuno, è un’impresa.
Bisogna avere un’energia, una generosità, un accecamento…
c’è perfino un momento, al principio, in cui bisogna saltare un precipizio:
se si riflette non lo si fa. Lo so che non salterò mai più.
Jean-Paul Sartre, La nausea




Quanto mi sento lontano da loro, su questa collina. Mi sembra di appartenere a un'altra specie. Escono dai loro uffici dopo un giorno di lavoro, guardano le case e le piazze con espressione soddisfatta, pensano che questa è la loro città. Una 'buona e solida città borghese'. Non hanno paura, si sentono a casa. Hanno visto solo acqua ammaestrata che esce dai rubinetti, luce che riempe le lampadine quando si accende l’interruttore. [...] Hanno la prova, un centinaio di volte al giorno, che tutto avviene meccanicamente, che il mondo obbedisce a fisse e immutabili leggi. I corpi lanciati in uno spazio vuoto cadono tutti alla stessa velocità, il parco pubblico chiude ogni giorno alle quattro in inverno, alle sei in estate, il piombo si scioglie a trecentotrentacinque gradi centigradi, l'ultimo tram parte dall'Hotel de Ville alle ventitré e cinque. Sono tranquilli, talvolta un po' cupi, e pensano al domani, in altre parole un nuovo oggi. Le città hanno solo un giorno a disposizione che ritorna sempre uguale ogni mattina.
Che cosa succederebbe se qualcosa dovesse accadere? 
Cosa succederebbe se all'improvviso qualcosa palpitasse?
Jean-Paul Sartre, La nausea




Lo so. So che non incontrerò mai più niente né nessuno che m’ispiri della passione. 
Lo sai, mettersi ad amare qualcuno, è un’impresa
Bisogna avere un’energia, una generosità, un accecamento… 
C’è perfino un momento, al principio, in cui bisogna saltare un precipizio: 
se si riflette non lo si fa. Io so che non salterò mai più.
Jean Paul Sartre



«Le carezze sono appropriazione del corpo dell’altro; è evidente che, se le carezze non consistessero che nello sfiorare o toccare, non potrebbero avere alcun rapporto con il potente desiderio che pretendono di colmare; rimarrebbero alla superficie, come gli sguardi, e non potrebbero rendermi padrone dell’altro (…) Perché la carezza non è un semplice sfiorare: ma un foggiare. Carezzando l’altro, io faccio nascere la sua carne con la mia carezza, sotto le mie dita. La carezza fa parte dell’insieme di cerimonie che incarnano l’altro (…) La carezza fa nascere l’altro come carne per me e per lui (…) Così la carezza non si distingue per nulla dal desiderio: carezzare con gli occhi o desiderare è la stessa cosa; il desiderio si esprime con la carezza come il pensiero col linguaggio».
Jean-Paul Sartre, “L’essere e il nulla”






dovevo leggere da Sartre una descrizione così "sinceramente" erotica delle carezze...


Jean Paul Sartre analizzando la dichiarazione "Penso, dunque sono", si rese improvvisamente conto che, per dirlo con le sue parole, "la coscienza che dice IO SONO non è la coscienza che pensa". Che cosa intendeva con questo? Quando siete consapevoli che state pensando, quella consapevolezza non è parte del pensiero. E' una diversa dimensione della coscienza. Ed è quella consapevolezza che dice "IO SONO". Se in voi non ci fossero altro che pensieri, non sapreste nemmeno che state pensando. Sareste come un sognatore che non sa di stare sognando. Sareste così identificati con ogni pensiero come il sognatore lo è con ogni immagine del sogno.



Niente più caratteri: gli eroi sono altrettante libertà prese in trappola, come tutti noi. 
Quali sono le vie d’uscita? Ogni personaggio non sarà che la scelta di una via d’uscita e varrà la via d’uscita scelta (...) In un certo senso ogni situazione è una trappola da sorci; muri da ogni parte
Jean-Paul Sartre, Che cos’è la letteratura?


"Ho chiuso lo Spirito Santo nella cripta e l'ho scacciato. L'ateismo è un'impresa crudele e di lungo respiro ...io vedo chiaro, sono disincantato ...sono un uomo che si sveglia, .,. e che non sa più che farsene della vita ...Scrivo ...Che altro fare? ...A lungo ho preso la penna per una spada: oggi riconosco la mia impotenza ...la cultura non salva niente né nessuno, non giustifica ...il mio solo problema è di salvarmi ...col lavoro e la fede ...Se ripongo l'impossibile salvezza nel magazzino degli attrezzi, che cosa rimane? Solo un uomo". 
Jean Paul Sartre, Le parole 


“Avevo trovato la mia religione: nulla mi parve più importante di un libro. 
La libreria, vi vedevo un tempio.”
Jean Paul Sartre, Le parole 


Ho cominciato la mia vita come senza dubbio la terminerò: tra i libri
Nell’ufficio di mio nonno ce n’era dappertuttoera fatto divieto di spolverarli, tranne una volta all’anno, prima della riapertura delle scuole. Non sapevo ancora leggere, ma già le riverivo queste pietre fitte: ritte o inclinate, strette come mattoni sui ripiani della libreria o nobilmente spaziate in viali di menhir, io sentivo che la prosperità della nostra famiglia dipendeva da esse. [...] Non ho mai razzolato per terra, non sono mai andato a caccia di nidi, non ho erborizzato nè tirato sassi agli uccelli. Ma i libri sono stai i miei uccelli e i miei nidi, i miei animali domestici, la mia stalla e la mia campagna; la libreria era il mondo chiuso in uno specchio; di uno specchio aveva la profondità infinita, la varietà, l’imprevedibilità.” 
Jean Paul Sartre, Le parole


Sono un cane: sbadiglio, mi vengono giù le lacrime, le sento scendere. 
Sono un albero, il vento si attacca ai miei rami e li scuote vagamente. 
Sono una mosca, m’arrampico lungo un vetro, cado giù, riprendo ad arrampicarmi. 
Talvolta sento la carezza del tempo che passa, talvolta – molto più spesso – lo sento che non passa affatto. Tremanti minuti si sprofondano, mi inghiottono e non cessano di agonizzare; putridi ma ancora vivi, vengono spazzati via, altri minuti prendono il loro posto, più freschi, altrettanto vani; questi disgiunti si chiamano la felicità; mia madre ripete che sono il più fortunato tra quelli della mia età. Come non crederlo dato che è vero? Al mio abbandono non penso mai; primo, non c’è parola che lo possa designare; secondo, io non riesco a vederlo: mi stanno tutti sempre intorno. E’ la trama della mia vita, la stoffa dei miei piaceri, la carne dei miei pensieri. Io vivo la morte.
Jean-Paul Sartre, Le parole

"I nostri ospiti si congedavano, io rimanevo solo, evadevo da quel banale cimitero, andavo a ritrovare la vita, la follia nei libri. Mi bastava aprirne uno per riscoprirvi il pensiero, inumano, inquieto, le cui pompe e le cui tenebre erano oltre le mie capacità di comprendere, il pensiero che saltava da un'idea all'altra, così veloce che mollavo la presa, cento volte a pagina, e lo lasciavo andar via, stordito, perduto." 
Jean-Paul Sartre, Le parole 



"Non ho mai razzolato per terra, non sono mai andato a caccia di nidi, non ho erborizzato nè tirato sassi agli uccelli. Ma i libri sono stati i miei uccelli e i miei nidi, i miei animali domestici, la mia stalla e la mia campagna; la libreria era il mondo chiuso in uno specchio; di uno specchio aveva la profondità infinita, la varietà, l’imprevedibilità."
Jean-Paul Sartre, Le Parole


Si tratta dei colloqui (o testamento spirituale) che Sartre, già ricoverato in clinica per la malattia che lo porterà alla morte, intrattenne con Benny Levy, suo segretario ed uno dei più importanti filosofi del maggio francese. Essi apparvero dapprima su Le Nouvel Observateur, in tre puntate tra il 10 e 30 marzo 1980.
Alla prima e alla terza puntata i redattori posero il titolo di "L’Espoir, maintenant", alla seconda Violence e fraternité, individuandone così i nuclei tematici.

Testo di notevole importanza nella ricostruzione del pensiero sartriano; un documento tanto significativo e, per certi versi, innovativo, che, appena apparve in Francia, i più stretti collaboratori del filosofo lo ritennero poco credibile. In Italia, il primo ad accorgersi delle novità contenute in questa vera e propria confessione laica del filosofo francese fu Italo Mancini, filosofo e teologo urbinate.
da Diogene 2008


Jean-Paul Sartre ( 1905 – Parigi, 15 aprile 1980) filosofo, scrittore, drammaturgo e critico letterario francese.
Nel 1964 fu insignito del Premio Nobel per la letteratura, che però rifiutò, motivando il rifiuto col fatto che solo a posteriori, dopo la morte, sia possibile esprimere un giudizio sull'effettivo valore di un letterato. 
Nel 1945 aveva già rifiutato la Legion d'onore e, in seguito, la cattedra al Collège de France.
Morì nel 1980 al culmine del suo successo di intellettuale "impegnato", quando ormai era diventato icona della gioventù ribelle e anticonformista del dopoguerra, in modo particolare della frazione maoista di cui era diventato leader insieme a Pierre Victor (pseudonimo di Benny Lévy). Si stima che al suo funerale presenziarono cinquantamila persone. È sepolto nel cimitero di Montparnasse a Parigi.
Sartre è stato uno dei massimi esponenti dell'esistenzialismo e uno studioso le cui idee sono sempre state ispirate a un pensiero politico orientato verso la sinistra internazionale. 
Ha diviso con Simone de Beauvoir - conosciuta nel 1929 all'École Normale Supérieure - la propria vita sentimentale e professionale.
(*Stella)










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