La maledizione del poeta.
I dieci autori dannati della letteratura mondiale.
Arthur Rimbaud, Charles Baudelaire, Charles Bukowski, Edgar Allan Poe, Ernest Hemingway, Ezra Pound, Francis Scott Fitzgerald, Oscar Wilde, Paul Verlaine, Zelda Fitzgerald, Friedrich Nietzsche...
”Se guarderai a lungo nell’abisso, l’abisso guarderà dentro di te”. L’affermazione, del celeberrimo filosofo tedesco Friedrich Nietzsche, sembra rappresentare bene la condizione esistenziale di alcune grandi personalità della letteratura…
Dotati di una sensibilità fuori dal comune per tutte le sfumature della vita e dell’animo umano, scrittori e poeti esplorano sentimenti ed emozioni fin nei loro lati più profondi, oscuri e inquietanti, venendone non di rado divorati.
L’idea di una “maledizione del poeta” domina la visione della poesia di tutta le seconda metà dell’Ottocento.
A incarnare questa figura in maniera emblematica è Paul Verlaine,
che proprio a “I poeti maledetti” (“Les Poètes maudits” in francese)
dedica l’omonima opera del 1884, intendendo con questa definizione la cerchia dei poeti a lui vicini, frequentati personalmente, tra cui l’amante Arthur Rimbaud, altro famoso “dannato” della letteratura.
I due hanno una relazione tormentata a partire dal 1871,
quando Rimbaud manda al ventisettenne Verlaine, già noto come poeta, alcuni suoi componimenti.
Verlaine ospita a casa sua Rimbaud – allora diciassettenne, fuggito dalla sua città per venire a Parigi – e poi scappa con lui per darsi a una vita di vagabondaggio, abbandonando la moglie e il figlio appena nato.
Viaggiano in Inghilterra e in Belgio, ma il loro rapporto è segnato da continui litigi finché nel 1873, durante una lite, Verlaine spara all’amante ferendolo lievemente a una mano.
Degli anni con Verlaine Rimbaud parla in “Una stagione all’inferno”, capolavoro della letteratura mondiale che ha contribuito a fare di Rimbaud un mito.
Qui il poeta racconta di come scrivessero seguendo la tecnica della voyance, una percezione dilatata che oltrepassa le barriere dei cinque sensi, aiutata dalle esperienze allucinatorie indotte da alcol e droghe.
Ancor prima di loro Charles Baudelaire, poeta parigino nato nel 1821, contribuì a creare il mito del bohémien, del genio che si accompagna alla sregolatezza. Anche lui dedito a esperienze al limite, tra cui l’uso di droghe, Baudelaire vive passioni strazianti, tra cui quella per la sua amante Jeanne Duval, attrice e danzatrice di teatro figlia illegittima di una prostituta, con cui il poeta inizia una relazione nel 1842.
Per lei, che rappresenta l’amore carnale e peccaminoso, dilapida la metà del patrimonio del padre. Ma Baudelaire sperimenta anche l’amore mistico, puro, ideale, nella relazione con Madame Sabatier. Di amore e di morte, del male di vivere e della tensione verso l’ideale, il divino – un sentimento che il poeta chiama “Spleen” –, si parla nei componimenti de “I fiori del male”, il cui titolo allude alla seduzione e fascinazione che il male sa esercitare su di noi.
Ma la figura del genio dannato non è nata a Parigi, anzi, non ha patria né tempo.
Già Edgar Allan Poe, nato a Boston nel 1809, sembrava portare in sé il marchio di una maledizione. Rimasto orfano a 2 anni, nel 1826 rompe con il padre adottivo, che non vuole coprire i debiti contratti durante gli anni trascorsi all’Università della Virginia a causa della sua vita dissipata.
Si sposa con Sarah Elmira Royster, un amore ostacolato dal padre di lei, e si guadagna da vivere scrivendo.
Alla morte della moglie, solo e ridotto in miseria,
sprofonda nella depressione e cade preda dell’alcolismo.
Maestro del racconto gotico, oltre che essere uno dei capostipiti del romanzo poliziesco, nelle sue opere dominano spesso tinte inquietanti e una dolorosa introspezione.
Dall’America alla Irlanda, Oscar Wilde, nato a Dublino nel 1854, incarna forse più di chiunque altro l’immagine dell’esteta stravagante ed eccessivo. Nella vita come nella sua opera, coltiva il gusto del paradosso e il culto della bellezza come valore in sé, rovesciando i canoni della morale a lui contemporanea. Omosessuale, si lascia travolgere dalla passione sofferta per Alfred Douglas, che lo inizia al mondo della prostituzione.
Processato e condannato per la sua omosessualità,
sconta alcuni anni in carcere.
Gli ultimi anni della sua vita sono segnati da difficoltà economiche e dalla malattia, ma nonostante questo, fino alla morte, sopraggiunta nel 1900, non rinuncia a bere champagne ogni giorno.
Ancora a Parigi vive negli anni Venti del Novecento un’altra generazione di “scrittori maledetti”, nota come “la generazione perduta”.
Così la chiama lo scrittore e giornalista Ernest Hemingway, che ne è uno dei più noti rappresentanti, in “Festa mobile”. Amante delle esperienze al limite, dotato di una personalità spiccatamente narcisista e segnata da un forte senso della morte, Hemingway ha una vita molto turbolenta.
Questa sua indole lo spinge ad arruolarsi per combattere nella prima guerra mondiale, a viaggiare, a esporsi a situazioni di pericolo in cui mettersi costantemente alla prova. Dopo la guerra, a Parigi, conosce Gertrude Stein, che nel suo studio, condiviso con il fratello, mette insieme una delle più vecchie collezioni di arte cubista e ospita numerosi artisti e scrittori. È lei che lo inizia alle avanguardie e alla carriera letteraria e lo spinge nel 1924 a partecipare alla festa di San Firmino a Pamplona.
Da questa esperienza trae numerose spunti per il romanzo “Fiesta”,
il suo primo romanzo, dove segue le vicende di un gruppo di letterati e giornalisti espatriati dall’America a Parigi, dove trascorrono il tempo in squallidi caffè a bere alcolici, fino al viaggio a Pamplona per assistere all’Encierro, la corsa dei tori per le strade della città.
Uno degli incontri fondamentali nella vita di Hemingway è quello con il poeta Ezra Pound, altro espatriato americano a Parigi – anche lui frequenta gli ambienti della generazione perduta ed Hemingway lo considera un maestro. Nato in America, trascorre la maggior parte della vita in Europa e negli anni Venti è nella capitale francese, dove frequenta Gertrude Stein, conosce artisti come Georges Braque e Pablo Picasso, scrive e partecipa a quello stile di vita che Hemingway chiama “Festa mobile”.
Sempre a Parigi in quegli anni sono Francis Scott Fitzgerald e sua moglie Zelda Fitzgerald, protagonisti di una delle più tormentate storie d’amore della letteratura. I due viaggiano a lungo per l’Europa, in Inghilterra, in Italia, in Francia, dove nella capitale frequentano il salotto di Gertrude Stein. Irrequieta, psichicamente instabile, Zelda è stata a lungo considerata la causa della rovina dell’autore, che avrebbe obbligato a tenere un folle tenore di vita.
Ma recenti testimonianze hanno fatto emergere un’immagine diversa dell’autore de “Il grande Gatsby”, quella di un uomo incline all’alcolismo fin dagli anni universitari a Princeton, autoritario e intransigente,
che impedisce alla moglie di esprimersi, la accusa di plagio.
Il romanzo di lei, “Save the Waltz”, scritto mentre è ricoverata in clinica psichiatrica, manda lui su tutte le furie.
Entrambi sono figure illustri di “scrittori maledetti”, ed entrambi vanno incontro a una tragica fine: lui muore per un attacco di cuore nel 1940, a soli 44 anni, lei perde la vita nel 1948, a 48 anni, in un incendio scoppiato nell’ospedale dove è ricoverata.
Erede della “maledizione del poeta” più vicino ai nostri giorni è lo scrittore e poeta americano Charles Bukowski, autore di centinaia di racconti – tra cui quelli della raccolta “Storie di ordinaria follia”, dalla quale è stato tratto l’omonimo film –, di sei romanzi e migliaia di poesia. Nei suoi libri, più di sessanta, parla della sua vita, della sua dipendenza dall’alcol, delle sue relazioni burrascose, delle sue esperienze sessuali. Morto a 73 anni nel 1994 per una leucemia fulminante dopo aver terminato il romanzo “Pulp”, Bukowski è ignorato dai critici accademici, ma piace al grande pubblico. Sulla sua tomba è scritta una frase che riassume la sua idea della letteratura, e dice molto della sua personalità anticonformista:
“Don’t try”, non provare.
Bukowski pensava infatti che non ci si dovesse sforzare di scrivere,
che bisognasse soltanto aspettare. L’ispirazione viene da lui paragonata a un insetto in cima al muro. Quando si avvicina abbastanza, o lo si uccide, oppure si decide di farne il proprio animale domestico.
10 novembre 2016
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