sabato 5 novembre 2016

Tocqueville sulla democrazia in America. Ciò di cui Tocqueville ha timore è la tirannia esercitata sulle opinioni, più che sulle persone. Egli paventa che tutta l'individualità di carattere, e l'indipendenza di pensiero e di sentimento, siano messe in ginocchio di fronte al giogo dispotico della pubblica opinione

Alexis de Tocqueville, nascita: 29 luglio 1805 - morte: 16 aprile 1859.
Nato a Parigi da famiglia aristocratica, il visconte Alexis Henri Charles de Clérel de Tocqueville è considerato uno dei padri del pensiero liberale, principio ispiratore della sua preziosa attività di filosofo, politico e storico.
Il fine di individuare un sistema politico liberale, da prendere a modello in Francia, lo spinse a un lungo soggiorno negli Stati Uniti d'America, insieme all'amico Gustave de Beaumont. Qui oltre a studiare il sistema penitenziario (motivo ufficiale della visita), ne osservò da vicino il sistema politico e sociale, nel quadro di una più generale riflessione sulle basi della democrazia che coinvolgeva anche le esperienze europee della Rivoluzione francese e dell'ancien regime.

Le conclusioni di questo studio vennero messe nero su bianco nell'opera più importante, La democrazia in America, pubblicata in due parti nel 1835 e nel 1840. Ammesso come membro onorario alla prestigiosa Académie Française, Tocqueville morì a Cannes nel 1859.
http://www.mondi.it/almanacco/voce/1218002



Ciò di cui Tocqueville ha timore è la tirannia esercitata sulle opinioni, più che sulle persone
Egli paventa che tutta l'individualità di carattere, e l'indipendenza di pensiero e di sentimento, siano messe in ginocchio di fronte al giogo dispotico della pubblica opinione.
John Stuart Mill, “Tocqueville sulla democrazia in America” (1935)





LA DEMOCRAZIA IN AMERICA (GUARDANDO ALL’EUROPA)
Democrazia, Europa, Stati Uniti, Tocqueville
di Alexis De Tocqueville -


Pubblichiamo l’introduzione del filosofo francese alla sua Democrazia in America, un’opera che ancora oggi andrebbe letta e meditata. Non tanto per leggervi in trasparenza le vicende attuali del grande paese d’Oltreoceano, quanto per ritrovare nelle parole di Tocqueville lo sguardo su ciò che era e per certi aspetti è ancora l’Europa. Al netto delle considerazioni specifiche sulle vicende americane e francesi dell’epoca, sono le riflessioni sui rischi del conformismo e di un astratto egualitarismo, unite alla denuncia della debolezza di una società smarrita e priva di slancio  a rendere straordinariamente efficace questa introduzione. Un piccolo saggio in un classico del pensiero politico.

Tra le novità che attirarono la mia attenzione durante la mia permanenza negli Stati Uniti, nessuna mi ha maggiormente colpito dell’uguaglianza delle condizioni. Senza fatica constatai la prodigiosa influenza che essa esercita sull’andamento della società: essa dà allo spirito pubblico una determinata direzione, alle leggi un determinato indirizzo, ai governanti dei nuovi princìpi, ai governati abitudini particolari.
Subito mi accorsi che questo fatto estende la sua influenza assai oltre la vita politica e le leggi, e che domina non meno la società civile che il governo: infatti crea opinioni, fa sorgere sentimenti, suggerisce usanze e modifica tutto ciò che non crea direttamente.
Pertanto, più studiavo la società americana, più vedevo nell’uguaglianza delle condizioni la forza generatrice da cui pareva derivare ogni fatto particolare; e me la ritrovavo continuamente davanti come un punto centrale, in cui convergevano tutte le mie osservazioni.

Ripensai allora al nostro emisfero, e mi parve di scorgervi qualche analogia con lo spettacolo che mi offriva il Nuovo Mondo. Constatai che anche qui l’uguaglianza delle condizioni, pur senza aver raggiunto come negli Stati Uniti i suoi estremi limiti, vi si avvicinava tuttavia ogni giorno di più; mi sembrò inoltre che questa stessa democrazia che regna sulle società americane, anche in Europa avanzasse rapidamente verso il potere.

Fin da quel momento cominciai a pensare al libro che ora leggerete.
Una grande rivoluzione democratica si sta infatti attuando tra noi: tutti la vedono, ma non tutti la giudicano nello stesso modo. Alcuni infatti, considerandola una novità puramente accidentale, sperano di riuscire ancora a fermarla; mentre altri pensano che niente e nessuno possa più resisterle, perché la considerano il fenomeno storico più continuo, più antico, più duraturo che si conosca.

Risalgo un attimo a considerare le condizioni della Francia, quali erano settecento anni fa: la trovo divisa tra un ristretto numero di famiglie che possiedono la terra e governano gli abitanti; il diritto di comandare viene trasmesso, in questo periodo, di generazione in generazione insieme al patrimonio ereditario; gli uomini hanno un solo mezzo per prevalere gli uni sugli altri, la forza; non c’è che un’unica fonte di potere, la proprietà fondiaria.

Ma ecco che il potere politico del clero si afferma e rapidamente si estende.
Il clero apre le sue file a tutti, al povero come al ricco, al plebeo come al nobile; attraverso la Chiesa l’uguaglianza comincia a penetrare in seno al governo e colui che, nella sua condizione di servo, avrebbe vegetato in un’eterna schiavitù, ora, come prete, ha il suo posto tra i nobili e spesso si asside anche al di sopra dei Re.

Con l’andare del tempo la società diventa sempre più stabile e più civile, di conseguenza più complessi e più vari si fanno anche i diversi rapporti tra gli uomini. Il bisogno di leggi civili si fa sentire fortemente: appaiono allora i legisti, che escono dall’aula oscura dei tribunali e dal ridotto polveroso delle cancellerie per andare a prendere posto nella corte del principe, accanto ai baroni feudali coperti di ermellino e di ferro.

I Re vanno in rovina per portare a termine grandi imprese; i nobili s’indeboliscono nelle guerre private; i plebei invece si arricchiscono con il commercio. L’influenza del denaro comincia a farsi sentire anche sugli affari di Stato. Il commercio è ormai una nuova fonte di potenza e i finanzieri divengono un potere politico disprezzato, ma adulato.

Poco per volta, diffondendosi il sapere, si nota un risveglio dell’amore per la letteratura e per le arti; la cultura diviene ora un elemento di successo, la scienza un mezzo per governare, l’intelligenza una forza sociale: gli uomini di lettere arrivano al maneggio degli affari politici.

Frattanto, insieme all’aprirsi di nuove vie attraverso le quali giungere al potere, si può notare un regresso dell’importanza che prima veniva attribuita alla nascita. Nell’XI secolo infatti la nobiltà aveva un valore incalcolabile, nel XIII la si può già comprare; la prima concessione di nobiltà risale al 1270, e così l’uguaglianza viene a introdursi nel governo per mezzo dell’aristocrazia stessa.

Durante questi ultimi settecento anni accadde talvolta che i nobili diedero un potere politico al popolo, per farsene un alleato contro l’autorità del sovrano o nelle lotte per togliere il potere ai loro rivali.

Ancora più spesso sono stati gli stessi Re ad innalzare al governo le classi sociali inferiori per umiliare l’aristocrazia.

In Francia i Re si sono dimostrati i livellatori più attivi e più costanti: quand’erano ambiziosi ed energici, si adoprarono per portare il popolo allo stesso livello dei nobili; quand’erano moderati e deboli, permisero addirittura che il popolo si ponesse al di sopra di loro stessi. I primi sono stati d’aiuto alla democrazia con le loro capacità, i secondi con i loro vizi. Luigi XI e Luigi XIV cercarono di rendere tutti uguali al disotto del trono, Luigi XV ha finito per scendere lui stesso nella polvere con tutta la sua corte.

Da quando i cittadini cominciarono a possedere la terra in modo diverso dalla «tenure» feudale e da quando la ricchezza mobiliare, ormai conosciuta, poté a sua volta creare l’influenza politica e dare il potere, non ci furono scoperte nelle arti, né vennero apportati perfezionamenti in campo commerciale e industriale, che non divenissero altrettanti elementi di uguaglianza tra gli uomini.

A partire da questo momento tutti i metodi che si scoprono, i bisogni che sorgono, i desideri che richiedono di essere soddisfatti, sono altrettanti progressi verso il livellamento universale. Il gusto del lusso, l’amore per la guerra, l’impero della moda, tutte le passioni del cuore umano, dalle più superficiali alle più profonde, sembrano lavorare di comune accordo per impoverire i ricchi e arricchire i poveri.

Da quando le attività intellettuali divennero fonte di potenza e di ricchezza, si guardò a ogni sviluppo della scienza, a ogni nuova scoperta, a ogni nuova idea come a uno strumento di potere messo alla portata del popolo. La poesia, l’eloquenza, la memoria, le doti spirituali, il fuoco dell’immaginazione, la profondità del pensiero, tutti questi doni distribuiti a caso dal Cielo, giovarono alla democrazia; e, anche quando si trovarono in possesso dei suoi avversari, servirono ancora la sua causa, ponendo in rilievo la grandezza naturale dell’uomo. Le conquiste della democrazia si estesero, dunque, parallelamente a quelle della civiltà e del sapere, e la letteratura divenne un arsenale aperto a tutti, in cui i deboli e i poveri si recarono ogni giorno a cercare delle armi.

Se si scorrono le pagine della nostra storia, si può dire che non s’incontra un solo avvenimento di particolare importanza che in questi ultimi settecento anni non si sia risolto in favore dell’uguaglianza sociale.

Le crociate e le guerre con gli Inglesi decimano i nobili e dividono le loro terre; il costituirsi dei comuni introduce la libertà democratica in seno alla monarchia feudale; l’invenzione delle armi da fuoco rende uguali il plebeo e il nobile sul campo di battaglia; la stampa offre le medesime risorse alla loro intelligenza; la posta porta le notizie alla soglia della capanna del povero come alla porta dei palazzi; il protestantesimo sostiene che tutti gli uomini sono ugualmente in grado di trovare la via del Cielo. La scoperta dell’America apre mille strade nuove alla fortuna e offre ricchezza e potere all’oscuro avventuriero.

Se, partendo dall’XI secolo, esaminate gli avvenimenti che si svolgono in Francia di cinquanta in cinquant’anni, dovrete constatare che, alla fine di ognuno di questi periodi, si è operata una duplice rivoluzione nelle condizioni sociali. Il nobile sarà indietreggiato nella scala sociale, il plebeo vi sarà avanzato; l’uno scende, l’altro sale. Ogni mezzo secolo li avvicina e ben presto si troveranno fianco a fianco.

Questa non è una caratteristica della sola Francia. Infatti, da qualsiasi parte si guardi, si vede sempre la stessa rivoluzione che continua in tutto il mondo cristiano.
Dappertutto si è visto come i diversi avvenimenti della vita dei popoli contribuiscano alla fortuna della democrazia. Tutti gli uomini l’hanno aiutata con i loro sforzi, quelli che si proponevano di contribuire al suo successo, e quelli che non pensavano affatto a servirla, quelli che per essa hanno combattuto, e quelli che si sono dichiarati suoi nemici: tutti sono stati spinti alla rinfusa sulla stessa via e hanno lavorato insieme, gli uni loro malgrado, gli altri a propria insaputa, ciechi strumenti nelle mani di Dio.

Il graduale sviluppo dell’uguaglianza delle condizioni è pertanto un fatto provvidenziale; e ne ha i caratteri essenziali: è universale, duraturo, si sottrae ogni giorno alla potenza dell’uomo; tutti gli avvenimenti, come anche tutti gli uomini, ne favoriscono lo sviluppo.

Sarebbe quindi saggio credere che un movimento sociale, che ha così lontane origini, potrà essere arrestato dagli sforzi di una generazione? C’è forse qualcuno che può pensare che la democrazia, dopo aver distrutto il feudalesimo e aver vinto i Re, indietreggerà poi davanti ai borghesi e ai ricchi? È possibile che si arresti proprio ora che è divenuta tanto forte e i suoi avversari tanto deboli?

Dove ci stiamo dunque dirigendo?
Nessuno saprebbe rispondere, perché ci mancano ormai i termini di confronto: le condizioni sono più uguali oggi tra i cristiani di quanto lo siano mai state in altre epoche o presso altre nazioni del mondo; così la grandiosità di ciò che è già stato fatto impedisce di prevedere che cosa si potrà ancora fare.

Tutto il mio libro, appunto, è stato scritto sotto l’impressione di una specie di terrore religioso, sorto nella mia anima alla vista di questa rivoluzione irresistibile, che progredisce da tanti secoli, sormontando qualsiasi ostacolo, e che ancor oggi avanza in mezzo alle rovine che essa stessa ha prodotte.

Non è necessario che sia Dio in persona a parlare, per scoprire i segni sicuri del suo volere; basta esaminare il cammino abituale della natura e la tendenza costante degli avvenimenti. So, senza bisogno che me lo dica il Creatore, che gli astri seguono nello spazio le orbite che il suo dito ha tracciato.

Se lunghe osservazioni e meditazioni sincere portassero gli uomini del nostro tempo a riconoscere che lo sviluppo graduale e progressivo dell’uguaglianza rappresenta nello stesso tempo il passato e l’avvenire della loro storia, questa constatazione darebbe, da sola, a una tale evoluzione il carattere sacro della volontà del signore sovrano. Allora, voler arrestare il cammino della democrazia apparirebbe come lottare contro Dio stesso, e perciò alle nazioni non resterebbe che adattarsi alla condizione sociale loro imposta dalla Provvidenza.

Mi sembra che i popoli cristiani offrano ai nostri giorni uno spettacolo sconcertante; il movimento che li trascina è già troppo forte perché lo si possa fermare, e d’altra parte non è ancora abbastanza rapido, perché si debba perdere ogni speranza di poterlo dirigere: il destino di questi popoli è nelle loro mani, ma ad esse ben presto sfuggirà.

Educare la democrazia, rianimare, se è possibile, le sue fedi, purificare i suoi costumi, regolare i suoi movimenti, sostituire, poco per volta, la scienza degli affari all’inesperienza, la conoscenza dei suoi reali interessi ai suoi ciechi istinti; adattare il suo governo ai tempi e ai luoghi, modificarlo secondo le circostanze e gli uomini: questo è il principale dovere che oggi s’impone ai nostri governanti.

È necessaria una scienza politica nuova per un mondo ormai completamente rinnovato.
Ma proprio a questo compito noi non pensiamo affatto: posti in mezzo a un fiume vorticoso, ci ostiniamo a fissare qualche rottame che ancora si scorge sulla riva, mentre la corrente ci trascina e ci sospinge indietro verso gli abissi.

Non c’è un popolo in Europa presso il quale la grande rivoluzione sociale, che ho appena delineata, abbia compiuto progressi più rapidi che presso di noi; ma essa è sempre avanzata a caso.
Mai i capi di Stato si sono preoccupati di prepararle anticipatamente il terreno; essa si è compiuta loro malgrado o a loro insaputa. Le classi più potenti, più intelligenti e più morali della nazione non hanno mai cercato di impadronirsi della democrazia, onde poterla dirigere. Così essa è stata abbandonata ai suoi istinti selvaggi; è cresciuta come quei bambini che, rimasti privi delle cure paterne, crescono da soli nelle strade delle nostre città, e che della società non conoscono altro che i vizi e le miserie. Sembrava che nessuno si fosse ancora accorto della sua esistenza, quando si è impadronita improvvisamente del potere. Tutti allora si sono sottomessi servilmente ai suoi più piccoli desideri, adorandola come la personificazione della forza; ma quando, in séguito, i suoi stessi eccessi la indebolirono, i legislatori concepirono l’imprudente progetto di distruggerla, invece di tentare di educarla e di correggerla: non volendo insegnarle a governare, non pensarono che a respingerla dal governo.

Ne è derivato che la rivoluzione democratica si è effettuata nell’assetto materiale della società, senza che si verificasse nelle leggi, nelle idee, nelle abitudini e nei costumi quel cambiamento che sarebbe stato necessario per rendere questa rivoluzione utile e positiva.

Così noi abbiamo la democrazia, senza avere ciò che dovrebbe attenuarne i difetti e farne risaltare i naturali pregi: mentre scorgiamo i mali che essa reca con sé, non ci rendiamo ancora conto dei beni che potrebbe apportarci.

Quando il potere regio, appoggiandosi sull’aristocrazia, governava in pace i popoli europei, la società, pur in mezzo alle proprie miserie, godeva di vantaggi di vario genere, che difficilmente si possono concepire e apprezzare ai giorni nostri.

La potenza di alcuni sudditi innalzava barriere insormontabili alla tirannide del principe; e i Re, sentendo di essere agli occhi della folla rivestiti d’un carattere quasi divino, trovavano, nel rispetto stesso che si creavano attorno, la ragione per non abusare affatto del proprio potere.

I nobili, posti ad un’enorme distanza dal popolo, dimostravano tuttavia nei suoi confronti quel particolare interesse benevolo e tranquillo, che il pastore ha per il suo gregge, e, pur senza vedere nel povero un proprio pari, vegliavano sulla sua sorte come su un deposito ad essi affidato dalla Provvidenza.

Il popolo, non avendo ancora concepito l’idea di un assetto sociale diverso dal suo, né immaginando di poter mai uguagliare i propri capi, accoglieva i loro benefici e non contestava affatto i loro diritti.

Li amava, quand’erano clementi e giusti, e si sottometteva senza fatica e senza bassezza ai loro rigori, come a dei mali inevitabili inviati da Dio. Gli usi e i costumi avevano d’altra parte posto dei limiti alla tirannide e fondato una specie di diritto in mezzo alla stessa forza.

Il nobile non pensava che gli si volessero togliere dei privilegi che riteneva legittimi; il servo accettava la propria inferiorità come un effetto dell’ordine immutabile della natura: si comprende come si sia potuta stabilire una reciproca benevolenza tra queste due classi tanto nettamente separate dalla sorte. A quel tempo si potevano trovare nella società ingiustizia e miseria, ma non degradazione spirituale.

Non è infatti l’uso del potere o l’abitudine all’obbedienza che deprava gli uomini, ma l’uso di un potere illegittimo e l’obbedienza a un potere che si ritiene usurpatore ed oppressore.

Da un lato c’erano le ricchezze, la forza, gli agi, e con essi la ricerca del lusso, le raffinatezze del gusto, i piaceri dello spirito, il culto delle arti; dall’altro il lavoro, la volgarità e l’ignoranza.
Eppure in mezzo a questa folla ignorante e grossolana si potevano trovare passioni forti, sentimenti generosi, fedi profonde e virtù primitive. Il corpo sociale così organizzato avrebbe potuto avere stabilità, potenza e, soprattutto, gloria.
Ma ecco che i ranghi si confondono, che le barriere innalzate tra gli uomini si abbassano; si dividono le proprietà, si divide il potere, la civiltà si diffonde, le intelligenze si uguagliano; l’assetto sociale diviene democratico e l’impero della democrazia si stabilisce infine facilmente nelle istituzioni e nei costumi.
Io immagino, così, una società in cui tutti, considerando la legge come opera propria, l’amerebbero e vi si sottometterebbero senza fatica, e in cui, essendo l’autorità del governo rispettata non in quanto divina, ma perché necessaria, l’amore verso il capo dello Stato non sarebbe una passione, ma un sentimento ragionevole e tranquillo. Quando ciascuno avesse dei diritti e la sicurezza di poterli conservare, verrebbe a stabilirsi tra tutte le classi una fiducia sincera e una sorta di reciproca condiscendenza, lontana sia dall’orgoglio che dalla bassezza.
Il popolo, educato ai suoi veri interessi, capirebbe che, per trarre profitto dai vantaggi della società, bisogna sottomettersi alle sue esigenze. La libera associazione dei cittadini potrebbe allora sostituire la potenza individuale dei nobili, e lo Stato sarebbe al sicuro dalla tirannide e dalla licenza.
Capisco che in uno Stato democratico, così costituito, la società non rimarrà immobile, ma i necessari movimenti del corpo sociale potranno essere regolati e graduali; se vi si troverà meno splendore che in un sistema aristocratico, vi si troveranno però anche meno miserie; i godimenti saranno meno eccessivi, ma il benessere sarà più generale; le scienze eccelleranno meno, ma l’ignoranza sarà più rara; i sentimenti meno energici, ma le abitudini più dolci; ci saranno più vizi, ma meno delitti.
In mancanza dell’entusiasmo e dell’ardore della fede, l’educazione e l’esperienza faranno fare talvolta ai cittadini grandi sacrifici; ogni uomo, essendo ugualmente debole, sentirà un uguale bisogno dei suoi simili; e, sapendo di poter contare sul loro aiuto solo a condizione di prestar loro a sua volta appoggio, scoprirà senza fatica che per lui l’interesse particolare si confonde con quello generale.
La nazione, considerata nel suo insieme, avrà forse meno splendore, meno gloria, meno forza; ma la maggioranza dei cittadini godrà di un benessere maggiore, e il popolo si dimostrerà tranquillo, non perché disperi di poter star meglio, ma perché sa di star bene.
Se poi non tutto sarà buono e utile in un simile stato di cose, la società tuttavia potrà godere di ciò che di buono e di utile si potrà presentare, e gli uomini, abbandonando per sempre i vantaggi sociali che può dare l’aristocrazia, trarrebbero dalla democrazia tutto il bene che essa può loro offrire.
Invece noi, abbandonando l’ordine sociale dei nostri avi, eliminando alla rinfusa le loro istituzioni, le loro idee e i loro costumi, cosa vi abbiamo sostituito?
Il prestigio del potere regio è svanito, senza che fosse sostituito dalla maestà delle leggi; oggi il popolo disprezza l’autorità, ma la teme, e la paura ottiene da lui più di quanto ottenessero in passato il rispetto e l’amore.
Mi accorgo che abbiamo distrutta le forze individuali che potevano lottare separatamente contro la tirannide; ma vedo che solo il governo ha assorbito tutte le prerogative tolte alle famiglie, alle corporazioni, agli uomini: alla forza talvolta oppressiva, ma spesso conservatrice, di un ristretto numero di cittadini, è così seguita la debolezza di tutti.
La divisione delle fortune ha accorciato la distanza che separava il povero dal ricco, ma in questo avvicinamento essi sembrano aver trovato nuove ragioni per odiarsi. Temendosi e invidiandosi reciprocamente, si respingono a vicenda dal potere: per l’uno come per l’altro l’idea dei diritti non esiste affatto, e la forza appare ad entrambi come la sola ragione del presente e l’unica garanzia per l’avvenire.
Il povero ha conservato la maggior parte dei pregiudizi dei suoi avi e non la loro fede, la loro ignoranza e non le loro virtù; ha accettato, come regola delle sue azioni, la dottrina dell’interesse senza conoscerne la scienza, e il suo egoismo è sprovvisto di discernimento, quanto lo era un tempo la sua devozione.
La società è tranquilla, non perché abbia coscienza della propria forza e del proprio benessere, ma, al contrario, perché si sente debole e inferma; teme di morire facendo uno sforzo: tutti sentono il male, ma nessuno ha il coraggio e l’energia necessari per cercare il meglio. Si hanno desideri, rimpianti, dolori, gioie che non producono nulla di visibile o di duraturo, simili del tutto alle passioni senili che finiscono nell’impotenza.
Così abbiamo abbandonato tutto quello che vi poteva esser di buono nel vecchio stato senza acquistare quello che lo stato attuale poteva offrire di utile; abbiamo distrutto una società aristocratica e, fermandoci compiacentemente in mezzo alle rovine dell’antico edificio, crediamo di poterci rimanere per sempre. Quello che succede nel mondo intellettuale non è meno deplorevole.
La democrazia francese, osteggiata nella sua marcia o abbandonata senza appoggio alle sue passioni disordinate, ha rovesciato tutto quello che trovava sul suo passaggio e spezzato tutto quello che non distruggeva. Essa non si è impadronita a poco a poco della società per stabilirvi pacificamente il suo dominio, ma ha sempre camminato in mezzo al disordine e all’agitazione della lotta. Nel calore di questa lotta, spinta al dì là dei limite ritenuto necessario, forse per le opinioni e gli eccessi degli avversari, ognuno perde di vista il fine stesso delle sue azioni ed usa un linguaggio che mal risponde al suo vero sentimento e al suo segreto istinto.
Di qui la strana confusione di cui siamo forzatamente i testimoni.
Io cerco inutilmente nei miei ricordi qualcosa capace di eccitare più dolore e pietà di quello che oggi si verifica; sembra che si sia rotto il legame naturale che unisce le opinioni ai gusti e gli atti alla fede; la concordanza che in ogni tempo si riscontra fra i sentimenti e le idee degli uomini sembra distrutta e si direbbe che siano abolite tutte le leggi dell’analogia morale.
Si trovano ancora presso di noi dei cristiani pieni di zelo, la cui anima religiosa ama nutrirsi delle verità dell’altra vita; costoro si orientano senza dubbio in favore dell’umana libertà, fonte di ogni grandezza morale. Al cristianesimo, che ha reso tutti gli uomini eguali di fronte a Dio, non ripugnerà vedere tutti i cittadini eguali dinanzi alla legge. Ma, per un concorso di strani avvenimenti, la religione si trova momentaneamente unita alle potenze nemiche della democrazia e sovente respinge l’eguaglianza che essa ama e maledice la libertà come un avversario mentre, prendendola per mano, potrebbe santificarne gli sforzi.
Accanto a questi uomini religiosi ne scopro altri che rivolgono lo sguardo verso la terra piuttosto che verso il cielo: partigiani della libertà, non solo perché vedono in essa l’origine delle più nobili virtù, ma soprattutto perché la considerano come la fonte dei più grandi beni, essi desiderano sinceramente assicurarne la vittoria e farne gustare agli uomini i benefici: comprendo che questi chiamerebbero volentieri la religione in loro aiuto poiché dovrebbero sapere che non si può stabilire il regno della libertà senza quello dei buoni costumi, né creare buoni costumi senza la fede ma, vedendo la religione accomunata ai loro avversari, la considerano come nemica, attaccandola o quanto meno non curandosi di difenderla.
I secoli passati videro anime basse e venali preconizzare la schiavitù e contemporaneamente spiriti indipendenti e generosi lottare, pur senza speranza, per salvare la libertà umana. Ma ai nostri giorni si trovano sovente uomini che, pur essendo di natura nobile e fiera, ostentano opinioni in diretta opposizione con i loro gusti e vantano la servilità e la bassezza, che però non hanno mai per loro stessi conosciute. Altri, al contrario, parlano di libertà come sentissero veramente quel che vi è di santo e di grande in essa e reclamano rumorosamente, in favore dell’umanità, quei diritti che essi poi hanno sempre disconosciuto.
Si trovano spesso uomini virtuosi e tranquilli e levati naturalmente a posti di comando per la purezza dei loro costumi e la loro saggezza.
Pieni di un amore sincero per la patria, essi sono pronti a qualunque sacrificio, e tuttavia sono spesso avversari della civiltà, poiché ne confondono gli abusi con i benefici, e nella loro mente l’idea del male è indissolubilmente unita a quella della novità.
Vicino a questi ve ne sono altri che, in nome del progresso, si sforzano di materializzare l’uomo, volendo raggiungere l’utile senza occuparsi del giusto, o tengono lontana la scienza dalla fede, il benessere dalle virtù: costoro si dicono i campioni della civiltà moderna e si mettono insolentemente alla sua testa, usurpando il posto trovato vuoto e dal quale dovrebbero essere scacciati per indegnità.
Dove siamo dunque arrivati?
Uomini religiosi combattono la libertà, mentre amici della libertà combattono le religioni; spiriti nobili e generosi vantano la schiavitù e anime basse e servili preconizzano l’indipendenza; cittadini onesti e colti sono nemici di ogni progresso, mentre uomini senza patriottismo e senza costumi si fanno apostoli della civiltà e della scienza.
Tutti i secoli hanno rassomigliato al nostro? L’uomo ha sempre avuto sotto gli occhi, come noi, un mondo in cui tutto è slegato, in cui la virtù è senza il genio, il genio è senza l’onore, l’amore dell’ordine si confonde con il gusto della tirannide e il culto santo della libertà con il disprezzo delle leggi; in cui la coscienza getta solo una luce dubbiosa sulle azioni umane e nulla sembra più vietato o permesso, onesto o disonorevole, vero o falso?
Dovrò pensare che il Creatore abbia fatto l’uomo per lasciarlo dibattersi senza tregua in mezzo alle miserie intellettuali che ci circondano? Non posso crederlo: Dio prepara alle società europee un avvenire più stabile e più calmo; ignoro i suoi disegni, ma non smetterò di credervi solo perché non posso penetrarli, e preferisco dubitare della mia intelligenza piuttosto che della sua giustizia.
Vi è un paese nel mondo in cui la grande rivoluzione sociale di cui parliamo è quasi giunta al suo limite naturale e vi si è compiuta in modo semplice e facile, o piuttosto si può affermare che questo paese ha visto i risultati della rivoluzione democratica che si manifesta presso di noi, senza avere avuto la rivoluzione stessa.
Gli emigranti che vennero a stabilirsi in America al principio del secolo diciassettesimo liberarono in certo modo il principio della democrazia da tutte quelle forze contro cui lottava nelle vecchie società europee, trapiantandolo da solo sulle coste del nuovo mondo. Là esso ha potuto crescere liberamente e, camminando di conserva con i costumi, svilupparsi pacificamente nelle leggi.
Mi sembra fuor di dubbio che presto o tardi arriveremo anche noi, come gli americani, all’eguaglianza quasi completa delle condizioni; ma non concludo affatto che anche noi dovremo un giorno trarre da un simile assetto sociale le conseguenze politiche che ne hanno tratto gli americani. Sono ben lontano dal credere che essi abbiano trovato la sola forma di governo che possa darsi la democrazia; ma basta il fatto che in due paesi la causa generatrice delle leggi e dei costumi sia la medesima perché in noi debba sorgere un immenso interesse a conoscere quel che essa ha prodotto in ciascuno.
Non è dunque solo per soddisfare una curiosità, d’altronde legittima, che ho studiato l’America, ma per trovarvi degli insegnamenti utili per noi. Sbaglierà grossolanamente chi penserà che io abbia voluto fare un panegirico e spero che chiunque leggerà questo libro resterà convinto che tale non è stata la mia intenzione; il mio scopo non è stato neppure quello di propugnare una tale forma di governo in generale, poiché io sono tra coloro che credono non esservi mai nelle leggi una assoluta bontà, né ho voluto giudicare se questa rivoluzione sociale, la cui marcia mi sembra irresistibile, sia vantaggiosa o funesta all’umanità; bensì ho ammesso questa rivoluzione come un fatto compiuto, o vicino a compiersi, e ho cercato, fra i popoli che l’han vista operarsi nel loro seno, quello nel quale essa è giunta al grado più alto di sviluppo, allo scopo dì discernerne con chiarezza le naturali conseguenze e vedere, se possibile, quali siano i mezzi per renderla profittevole all’umanità.
Confesso che nell’America ho visto qualcosa più dell’America; vi ho cercato un’immagine della democrazia, del suo carattere, dei suoi pregiudizi, delle sue passioni e ho voluto studiarla per sapere quello che noi dobbiamo sperare o temere da essa.
Nella prima parte di quest’opera mi sono dunque sforzato di mostrare l’influenza che la democrazia, abbandonata in America quasi senza ostacoli ai suoi istinti, ha avuto nelle leggi, le direttive che essa imprime al governo e, in genere, la potenza che essa ha negli affari politici. Ho voluto esaminare i beni e i mali da essa prodotti, ricercare le precauzioni adottate dagli americani per dirigerla e distinguere le cause che le permettono di governare la società.
Volevo dipingere poi, in una seconda parte, l’influenza che l’eguaglianza delle condizioni e il governo democratico esercitano in America nella società civile, nelle abitudini, nelle idee e nei costumi, ma comincio a sentire meno ardore al compimento di questo disegno.
Prima che io possa finire il compito propostomi, questo lavoro sarà diventato inutile. Un altro mostrerà presto ai lettori i principali elementi dei carattere americano e, nascondendo sotto un velo leggero la gravità dei quadri, darà alla verità le attrattive che io non sarei mai capace di dare.
Non so se riuscirò a far conoscere quel che ho visto in America, ma assicuro di aver avuto sinceramente questo desiderio e di non aver mai ceduto consapevolmente al bisogno di adattare i fatti alle idee in luogo di sottomettere queste a quelli.
Quando qualche punto poteva essere stabilito con l’aiuto di documenti scritti, ho avuto cura di ricorrere ai testi originali e ad opere autentiche e stimate. Ho indicato le mie fonti in nota e ciascuno potrà verificarle. Quando si è trattato di opinioni, di usi politici, di osservazioni, di costumi, ho cercato di consultare gli uomini più istruiti.
Se la cosa era importante e incerta, non mi sono contentato di un solo testimone ma ho cercato molte testimonianze e da queste ho tratto le mie conclusioni. A questo riguardo bisogna che il lettore mi creda sulla parola. Avrei potuto citare in appoggio alle mie affermazioni nomi autorevoli e a lui noti, ma mi sono ben guardato dal farlo. Lo straniero apprende spesso dal suo ospite importanti verità, che questi nasconderebbe forse anche all’amico; con lui si può rompere un silenzio obbligato, non si teme la sua indiscrezione perché egli non rimane.
Ognuna di queste confidenze è stata da me annotata, ma non uscirà mai dalle mie carte; preferisco nuocere al successo delle mie opere che aggiungere il mio nome alla lista di quei viaggiatori che ricambiano con noie ed imbarazzi la generosa ospitalità ricevuta.
So bene che, malgrado le mie cure, sarà molto facile criticare questo mio libro, se qualcuno vorrà farlo. Quelli che l’osserveranno da vicino troveranno in quest’opera un’idea madre che incatena per così dire ogni sua parte. Ma la diversità degli oggetti che ho avuto da trattare è tanto grande che chi vorrà opporre un fatto isolato all’insieme dei fatti, un’idea isolata all’insieme delle idee, vi riuscirà senza fatica. Vorrei dunque che mi si facesse la grazia di leggermi con lo stesso spirito che ha presieduto al mio lavoro e si giudicasse il libro dall’impressione generale che lascia, poiché anch’io mi sono deciso a scrivere spinto, non da una sola ragione, ma da un insieme di ragioni.
Non bisogna poi dimenticare che un autore che voglia farsi comprendere è obbligato a spingere ogni sua idea fino alla sua ultima conseguenza teorica e spesso fino al limite del falso e dell’impraticabile; infatti, se è qualche volta necessario abbandonar la logica nelle azioni, non si saprebbe far lo stesso nei libri; e l’uomo trova quasi altrettanta difficoltà a essere inconseguente nelle parole quanto ad essere conseguente negli atti.
Voglio finire segnalando io stesso quello che molti lettori giudicheranno il difetto principale di quest’opera. Questo libro non si mette in modo deciso al seguito di alcuno; scrivendolo non ho inteso servire o combattere alcun partito; mi sono sforzato soltanto di vedere, non già diversamente, ma più lontano dei vari partiti; e, mentre essi si occupano del domani, io ho voluto pensare all’avvenire.

Per saperne di più

Alexis De Tocqueville (a cura di N. Matteucci), La democrazia in America – UTET, Torino 2013
Alexis De Tocqueville (a cura di C. Vivanti), La democrazia in America – Einaudi, Torino 2006
M. Zetterbaum, Tocqueville and the Problem of Democracy – Stanford University Press, Stanford (California), 1967
Vittorio de Caprariis, Profilo di Tocqueville, a cura di Ernesto Paolozzi – Guida, Napoli, 1996

http://www.storiain.net/storia/la-democrazia-in-america-e-leuropa/

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