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mercoledì 19 luglio 2017

Vasilij Grossman. Tutto scorre. non aveva più bisogno di santi apostoli, di costruttori frenetici, indemoniati, di adepti pieni di fede. Nemmeno di servi aveva più bisogno il nuovo Stato: esso non aveva bisogno che di funzionari, di impiegati

Vasilij Grossman. Tutto scorre. 


Tornare a casa dopo trent’anni di gulag e scoprire che là fuori il regime è più pericoloso che dentro. Perché adesso si chiama “dovere”.

«Solo Dante – nel racconto del conte Ugolino e dei suoi figli straziati dalla fame dopo essere stati rinchiusi in una torre – è riuscito a scrivere della morte per fame con uguale forza». 
Robert Chandler, scrittore, traduttore, tra i più grandi esperti delle opere di Vasilij Grossman, paragona le pagine più drammatiche di Tutto scorre, quelle in cui viene descritta la dekulakizzazione, al XXXIII canto dell’Inferno di Dante. Come Dante nell’episodio dell’«orrido pasto», richiamato in quelle pagine dallo stesso scrittore russo, Grossman vuole ammonire il lettore: «Se non piangi, di che pianger suoli?». È una compassione, una sorta di pietà per l’uomo, il sentimento da cui nasce Tutto scorre, l’ultimo romanzo di Vasilij Grossman. [...]

Tutto scorre è la storia di Ivan Grigor’evic che torna in libertà dopo trent’anni di lager
Dopo la morte di Stalin, infatti, il regime liberò molti detenuti nell’intento di correggere alcune cosiddette “deviazioni” del dittatore e cercando di recuperare fiducia tra il popolo e negli ambienti internazionali. Grossman, cosciente dell’inganno del regime, senza esitazione non solo non rinuncia a giudicare il passato con un’acuta originalità, ma avverte i lettori che la lotta per la libertà, dopo Stalin, deve assumere forme più attente e incisive. L’ideologia al di là del filo spinato può essere ancora più pericolosa perché prende posizione nella mente degli uomini.

Né santi né servi, ma funzionari.
In Tutto scorre l’ideologia è fotografata dal vivo, così da non destare mai nel lettore l’atteggiamento del giudice. Ciò che porta alle scelte ideologiche, ai giudizi standardizzati, alla rinuncia della propria personalità, è un processo che, con lo sguardo dell’autore russo, possiamo scorgere nelle discussioni di tutti i giorni. Perché gli uomini rinunciano ad un giudizio originale e ripetono un giudizio dato dal “capo? Grossman non ha dubbi: per una “affermazione di sé” (pagina 49). 

Mettere in dubbio ciò che dice la persona che in quel momento ha il potere vuol dire mettere in crisi se stessi, il proprio potere, il proprio ruolo nel mondo, piccolo o grande che sia. Vuol dire rischiare di “perdere la fiducia” di una persona o istituzione che ti afferma, vuol dire contrastare un “senso del dovere” che ogni appartenenza richiede, vuol dire non cedere a una sorta di illusoria paternità sotto la quale l’uomo “acquisisce forza”. 
http://www.tempi.it/abbronzatevi-con-questo-tutto-scorre-di-vasilij-grossman#.WW-CyBXyjIV



E improvvisamente, il cinque marzo, Stalin morì. […]. Stalin morì senza che ciò fosse pianificato, senza istruzione degli organi direttivi. Morì senza l’ordine personale dello stesso compagno Stalin” (p.33).


Era assurdo adesso […] inorgoglirsi di quello di cui si era sempre inorgoglito: di non aver mai fatto delle denunce; che, convocato alla Lubjanka, si era rifiutato di dare informazioni compromettenti su un collega arrestato; che incontrando per strada la moglie di un compagno deportato, non si era voltato dall’altra parte, ma le aveva stretto la mano, informandosi sulla salute dei bambini.
Cosa c’era da inorgoglirsi…” 
(p.37)


Quante cose aveva visto la Russia nei mille anni della sua storia. Negli anni sovietici, poi, aveva veduto formidabili vittorie militari, grandiosi cantieri, nuove città, dighe che sbarravano il corso del Dnepr e del Volga, un canale che univa i mari, e possenti trattori, e grattacieli… 
Una sola cosa la Russia non aveva visto in mille anni: la libertà” 
(p.59)

Grossman descrive la posizione di molte persone che lottano contro il loro dubbio: 
«Egli credeva o, più esattamente: voleva credere; più esattamente ancora: non poteva non credere. V’era qualcosa, in questa oscura faccenda, che non gli piaceva, ma che volete: il dovere!» 
(pagina 74). 

Persino nei lager si trovavano pochissime persone che erano disposte a criticare il regime
Quando parlavano della loro ingiusta pena o delle macroscopiche ingiustizie perpetrate dicevano: «Quando si abbattono gli alberi, le schegge volano, ma la verità del partito è sempre verità, e sta al di sopra dei guai» 
(pagina 102).

Le vicende di Ivan si intrecciano nella Russia post staliniana in cui il comunismo, come ogni storia nata da grandi ideali e che teme di non reggere il confronto con l’inizio, «non aveva più bisogno di santi apostoli, di costruttori frenetici, indemoniati, di adepti pieni di fede. Nemmeno di servi aveva più bisogno il nuovo Stato: esso non aveva bisogno che di funzionari, di impiegati» 
(pagina 179).

La pseudo normalizzazione dell’Unione Sovietica, dice Grossman, non attenua, ma compie il processo di eliminazione della libertà del popolo. Diventa il perfezionamento della schiavitù che per secoli i potenti russi hanno voluto. In tale processo il genio del male, colui che ha portato il totalitarismo in Russia e in Europa, è stato Lenin, l’uomo da molti considerato puro ma che Grossman osa additare come maestro di Stalin e predecessore di Hitler

[...] Il protagonista fuori dal lager si accorge non solo della potenza dell’ideologia, ma anche della vastità della libertà. Il suo giudizio si approfondisce e diventa più lucido: 
«Un tempo pensavo che la libertà fosse la libertà di parola, di stampa, d’opinione. Ma la libertà è tutta la vita di tutta la gente» 
(pagina 96). 

durante gli anni trascorsi nei lager […] aveva appreso molte cose sulle debolezze umane, ed ora vedeva quante ce ne fossero da ambedue le parti del filo spinato” 
(p.99)


«La libertà era immortale. Nella piccola città Ivan Grigor’evic cominciò a percepire più ampio, più forte il concetto di libertà. (…) Nella battaglia per il diritto di confezionare stivali, di sferruzzare una blusetta di lana, nell’aspirazione a seminare ciò che il contadino preferiva, si manifestava quel naturale, indistruttibile desiderio di libertà insito nella natura umana» 
(pagina 106).

“Si, tutto scorre, tutto muta, impossibile salire sullo stesso, immutabile convoglio” 
(p.107)

«Eppure in quegli stessi lager, gli uomini conservano il loro amore per le mogli, per le madri; mentre le fidanzate per corrispondenza (…) erano pronte a qualsiasi tortura pur di restare fedeli al misero promesso sposo del lager, pur di credere a quella immaginaria finzione. Qualcosa si può perdonare all’uomo se, nel fango e nel fetore della violenza concentrazionaria, egli resta pur sempre un uomo» (pagina 112). 

Uno è il castigo del carnefice: lui, che non considera la sua vittima un uomo, cessa di essere uomo lui stesso; egli uccide l’uomo che è in lui, è il suo proprio carnefice; la vittima, invece, resterà un uomo nei secoli, per quanto tu lo distrugga” 
(p.135).


«Niente è rimasto. Dov’è andata a finire quella vita? Dove quelle orribili sofferenze? 
Possibile che non sia rimasto nulla? Possibile che nessuno paghi per tutto ciò? 
Ma allora tutto sarà dimenticato, senza una parola? (…) Come ha potuto accadere tutto questo?» 
(pagina 153).

“sta al di sopra di tutto, non v’è al mondo obiettivo degno del sacrificio della libertà dell’uomo
(p.180)

La libertà è vita, e sconfiggendo la libertà Stalin uccideva la vita” 
(p.214)


 «Felicità è spartire con te quel peso che con nessuno potrei spartire, se non con te» 
(pagina 221). 

Nel momento del trionfo più completo della disumanità, si è fatto evidente che tutto quanto è basato sulla violenza è assurdo e inutile, non ha futuro, né lascia traccia. E’ questa la mia fede” 
(p.222)


 Il vecchio maestro. 
[...] avviandosi alle fosse comuni per essere massacrati dai nazisti il maestro porta in braccio la piccola Katja chiedendosi “come posso tranquillizzarla?”. A quel punto però
“nel silenzio improvviso che era sceso il vecchio sentì la sua voce:
‘Maestro’ disse ‘non guardare da quella parte, se no ti spaventi’ 
e come una madre gli coprì gli occhi con le sue manine”.
Vasilij Grossman. Tutto scorre. 

https://nonsoloproust.wordpress.com/2011/06/22/il-bene-sia-con-voi-vasilij-grossman/




"Le donne si dimostravano più forti degli uomini, si attaccavano alla vita con più rabbia. Eppure toccava loro il peggio: è alle madri che i bambini domandano da mangiare."


"Hai mai visto sui giornali i bambini nei lager tedeschi? Identici: teste pesanti come palle di cannone, colli sottili come quelli delle cicogne, nelle mani e nei piedi potevi vedere il movimento di ogni ossicino, sotto la pelle, come son congiunti quelli doppi; lo scheletro era tutto fasciato dalla palle, tesa come una garza gialla. [...] Non erano più visi umani."



«La felicità è spartire un peso con qualcuno». 

Centro studi Vasilij Grossman – Torino


Tutto scorre di Vasilij Grossman (Adelphi) 

un romanzo che in parte si svolgeva appunto all’interno di un gulag nella regione della Kolyma.


In questo gulag ha trascorso parecchi anni il protagonista del romanzo di Grossman Tutto scorre, Ivan Grigor’evic, che torna a Mosca nel 1954, subito dopo la morte di Stalin, ma trova che i suoi amici e compagni di un tempo – che intanto si sono sistemati, hanno fatto carriera nei ministeri – lo hanno dimenticato (o meglio: si sono impegnati a dimenticarlo). Lascia allora la capitale e trova ospitalità in una cittadina del sud presso una vedova di guerra, Anna Sergeevna. I due si innamorano, ma lei dopo poco muore di cancro. Ivan allora riparte verso sud, per rivedere un’ultima volta, dopo tanti anni, la casa dei genitori, morti da tempo.

Le pagine che seguono sono tratte dal tredicesimo capitolo del libro, e sono insieme strazianti e meravigliose. Ci troviamo in un gulag femminile nella regione della Kolyma, e al centro della scena c’è Maša, una giovane donna che, insieme al marito, e senza alcun motivo plausibile, è stata accusata di tradimento della patria, e – come scrive Grossman – è sprofondata «per novemila chilometri […] fino al sepolcro della notte siberiana». Sua figlia Julja, di tre anni, le è stata tolta e messa in un orfanotrofio.

"… Tutte queste donne – pure o cadute, esauste o con sette spiriti – vivevano nel mondo della speranza. Una speranza ora sveglia, ora sopita, ma che non le abbandonava mai. Anche Maša sperava – d’una speranza tormentosa; ma la speranza permette di respirare anche quando tormenta. Dopo il regime duro dell’inverno siberiano, lungo come una condanna al lager, era arrivata una pallida primavera, e Maša era stata mandata, insieme ad altre due donne, a riparare la strada che portava alla «cittadina socialista» dove abitavano, in villette di legno, i comandanti del lager e il personale salariato.

Da lontano le era parso di scorgere, alle alte finestre, le sue tendine di quando abitava sull’Arbat, e la sagoma del ficus. Vide una fanciullina con la cartella di scuola salire i gradini del ballatoio esterno ed entrare nella casa del dirigente amministrativo del lager a regime duro. La guardia di scorta aveva detto: «Ehi tu. sei venuta a vedere il cinema?». Quando poi, alla luce del crepuscolo, tornarono al lager, verso il deposito della segheria, la radio di Magadan prese a suonare. Maša e le due donne che con lei sì trascinavano, scalpicciando nel fango, misero giù le pale e si fermarono. Sullo sfondo del cielo scolorito si rizzavano le torri di vedetta, e in esse, come mosconi intirizziti, stavano le sentinelle nei loro neri pellicciotti a vita, mentre le tozze baracche sembravano essere spuntate dalla terra, incerte se rientrarvi nuovamente.

La musica non era triste, era una musica allegra, da ballo, e Maša cominciò a piangere, ascoltandola, come le pareva di non avere mai pianto in vita sua. Anche le due donne al suo fianco – una di loro era una dekulakizzata, la seconda invece era una di Leningrado, anziana, con gli occhiali dalle lenti screpolate – piangevano, ritte accanto a Maša. E sembrava che le screpolature sulle lenti degli occhiali fossero segni lasciati dalle lacrime. L’uomo di scorta rimase interdetto: le detenute piangevano di rado, i loro cuori erano rappresi dal gelo, come la tundra. Con una spinta alla schiena l’uomo le sollecitò: «Basta adesso, piantatela, andate a farvi fottere, donnacce, ve lo chiedo come un favore». Seguitava a guardarsi attorno, mai gli sarebbe venuto in mente che le donne piangevano a causa della radio.

Maša stessa, del resto, non capiva perché il suo cuore si fosse improvvisamente riempito d’angoscia e disperazione; come se tutto ciò che era accaduto nella sua vita si fosse unito in un solo groppo: l’amore della mamma, l’abito di lana a quadretti che le stava così bene, Andrjuša, i bei versi, il grugno del giudice istruttore, l’aurora con l’improvviso scintillio del sole sul mare azzurro, a Kelasuri, vicino a Suchum, il chiacchiericcio di Jul’ka, Semisotov, le vecchie monache, gli sfrenati litigi delle donne-uomo, l’angoscia che le veniva dal fatto che la caposquadra, socchiudendo gli occhi, aveva preso a fissare lo sguardo su Maša, allo stesso modo con cui la guardava Semisotov. Perché mai, d’un tratto, al suono allegro di quella musica da ballo ella aveva cominciato a sentire cosi intensamente sulla pelle la sporcizia della camicia, e le scarpe pesanti come rozzi ferri da stiro, il puzzo di sudore della giubba; perché all’improvviso, fendendole il cuore come un rasoio, quella domanda: perché, perché era capitato a lei, Maša, perché proprio a lei quel freddo gelido, quella depravazione spirituale, quella progressiva accettazione del suo destino di ergastolana?

La speranza, che sempre le era gravata sul cuore con il suo vivo peso, era scomparsa, morta. Al gaio suono di quella musica da ballo Maša aveva perduto per sempre la speranza di rivedere Julja, smarrita tra gli orfanotrofi, gli istituti per l’infanzia abbandonata, le colonie, gli asili, nell’immensa Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Al gaio suono di quella musica ballavano i ragazzi, nelle case dello studente e nei club studenteschi. E Maša capi che suo marito non si trovava in nessun posto, che era stato fucilato, e che lei non l’avrebbe rivisto mai più.

Ed ella rimase senza speranza, assolutamente sola… Mai avrebbe riveduto Julja, né oggi, né da vecchia con i capelli bianchi, mai. Dio, Dio, abbi misericordia di lei; Signore, abbine pietà, proteggila Tu.

Un anno dopo Maša usci dal lager. Prima di tornare in libertà essa giacque sull’assito di legno d’abete di una gelida baracca seminterrata; nessuno la sollecitava perché andasse al lavoro, nessuno la insultava; gli inservienti della baracca sanitaria distesero Maša Ljubimova in una cassa rettangolare fatta di assi inchiodate, di quelle che il reparto tecnico di controllo aveva scartato, gettarono un ultimo sguardo al suo viso – v’era in esso un’espressione di dolce estasi infantile e di sbigottimento, quella stessa con cui aveva ascoltato, nei pressi della segheria, quella gaia musica, dapprima rallegrandosi, e poi comprendendo di non avere più speranza."

Fino alla frase «la radio di Magadan prese a suonare» Grossman racconta una storia banale, per quanto drammatica. È iniziata una pallida primavera, e la vita nel gulag si fa un po’ più leggera. Maša e due altre carcerate vengono mandate a riparare la strada che porta al villaggio. Mentre sbrigano il lavoro, Maša guarda le finestre di uno dei villini di legno che ospitano gli ufficiali, e si ricorda della sua casa sull’Arbat, una delle strade principali di Mosca. Ma questo non la commuove. Il capovolgimento, l’ingresso nella tragedia, non è dato da una memoria dolorosa, dall’involontario confronto tra la sua vita passata e quella presente, ma da un dettaglio piacevole: una radio che si mette a suonare un motivetto allegro. A questo suono, come se si fossero messe d’accordo, Maša e le altre due donne mettono giù le pale e cominciano a piangere, e a farle smettere non servono neppure le minacce delle guardie. «Sembrava – scrive Grossman in una frase di mirabile forza emotiva – che le screpolature sulle lenti degli occhiali fossero segni lasciati dalle lacrime».

Che cos’è successo? Che questo frammento di dolcezza, apparso per caso in mezzo alla disumanità del gulag, ha fatto crollare il muro che Maša e le altre si sono costruite attorno per proteggersi dall’orrore di cui ogni giorno sono testimoni. La violenza (il freddo, la fame, le botte, «gli sfrenati litigi delle donne-uomo», cioè delle lesbiche che comandano nel gulag) non era bastata ad abbattere quel muro; ci voleva qualcosa di bello – e quindi di totalmente estraneo al mondo del gulag – perché le condannate ‘prendessero coscienza’, e, intanto si vedessero dall’esterno: abbrutite, luride, puzzolenti. Questa visione dall’esterno porta con sé una chiarezza che prima non c’era, e cancella la speranza: Maša capisce che non rivedrà mai più né suo marito, certamente fucilato, né sua figlia Julja: «né oggi, né da vecchia con i capelli bianchi, mai». Da allora, Maša cessa di combattere: e un anno dopo esce dal gulag, ma in una bara.

http://www.claudiogiunta.it/2016/04/si-ma-cosa-ce-dentro-6-tutto-scorre-di-vasilij-grossman/


lunedì 14 ottobre 2013

I principi ermetici sono sette. Colui che ne ha conoscenza possiede la chiave magica con la quale si aprono tutte le porte del tempio





« I principi ermetici sono sette. Colui che ne ha conoscenza possiede la chiave magica con la quale si aprono tutte le porte del tempio » 

1 « Tutto è mente – L’Universo è mentale » 

2 « Com’è al di sopra,così è al di sotto; com’è sotto, così è sopra » 

3 «Tutto si muove,tutto vibra; niente è in quiete, chi impara ad usare il principio di vibrazione, ha in mano lo scettro del mondo» 

4 « Tutto è duale; tutto è polare: per ogni cosa c’è la sua coppia di opposti. Come simile e dissimile sono uguali, gli opposti sono identici per natura e differiscono solo di grado. Così gli estremi si toccano; tutte le verità non sono che mezze verità e ogni paradosso può essere conciliato » 

5 « Ogni cosa fluisce e rifluisce, ogni cosa ha fasi diverse; tutto s’alza e cade; in ogni cosa è manifesto il principio del pendolo: l’oscillazione di destra è pari a quella di sinistra: tutto si compensa nel ritmo» 

6 « Ogni effetto ha la sua causa, ogni causa il suo effetto tutto avviene in conformità di una legge, il caso è il nome dato ad una legge che non si conosce; pur se esistono diversi piani di causalità, niente sfugge alla legge » 

7 « Il genere si manifesta in ogni cosa e su tutti i piani; ogni cosa ha il suo principio maschile e femminile »

giovedì 19 settembre 2013

Distaccati da ogni pensiero e da ogni ogni emozione, distaccati da ogni cosa proprio come se fosse un sogno.


Distaccati da ogni pensiero e da ogni ogni emozione, distaccati da ogni cosa proprio come se fosse un sogno. In realtà l'universo non è altro che uno straordinario sogno in cui l'amore è il collante di ogni forma di vita. Con questo distacco tutto diventa possibile e divieni un silenzioso meditatore che osserva un fiume. Non cerchi di fermare il corso dell'acqua, rimani in osservazione poiché il flusso segue il suo corso incessantemente. Accetta tutto ciò che vive dentro di te senza giudicarlo, non reprimere, lascia che tutto scorra. Vivere godendoti il presente ti permette di collegarti immediatamente alle tue sensazioni che conoscono ogni cosa, poiché quelle sono le sensazioni dell'intero universo. Tu sei in tutte le cose esistenti.

martedì 27 novembre 2012

Ejay Ivan Lac. Quando guardi una fotografia non vedi solo uno scatto, ma la capacità che ha l’uomo di riuscire a fermare il tempo, con una semplice creazione, la fotografia ferma i secondi, ferma il momento, cattura le emozioni, perché la nostra esistenza è una lunga pellicola, e possiamo fermarla quando vogliamo per riguardare le scene migliori




Quando guardi una fotografia non vedi solo uno scatto, ma la capacità che ha l’uomo di riuscire a fermare il tempo, con una semplice creazione, la fotografia ferma i secondi, ferma il momento, cattura le emozioni, perché la nostra esistenza è una lunga pellicola, e possiamo fermarla quando vogliamo per riguardare le scene migliori
Ejay Ivan Lac


sabato 24 novembre 2012

Pesano gli anni come abiti bagnati, sulla schiena ormai china sotto la frusta del Tempo... Pesano i rintocchi e le candeline spente, quando invece, dentro te vorresti mantenerle accese.... Pesano le stagioni, le opinioni, le obiezioni.... tutto ciò che è a te contrario, come scoglio contro un fiume... Pesa l'anima perfino tra i rigurgiti di dignità, nell'esofago bruciato dai vapori dell'abitudine.......



Pesano gli anni
come abiti bagnati,
sulla schiena ormai china
sotto la frusta del Tempo...
Pesano i rintocchi
e le candeline spente,
quando invece, dentro te
vorresti mantenerle accese....
Pesano le stagioni,
le opinioni, le obiezioni....
tutto ciò che è a te contrario,
come scoglio contro un fiume...
Pesa l'anima perfino
tra i rigurgiti di dignità,
nell'esofago bruciato
dai vapori dell'abitudine.......







lunedì 19 novembre 2012

Robert Doisneau. Non mi sono mai chiesto perché scattassi delle foto. In realtà la mia è una battaglia disperata contro l’idea che siamo tutti destinati a scomparire. Sono deciso ad impedire al tempo di scorrere. È pura follia

Non mi sono mai chiesto perché scattassi delle foto. In realtà la mia è una battaglia disperata contro l’idea che siamo tutti destinati a scomparire. Sono deciso ad impedire al tempo di scorrere. È pura follia.
Robert Doisneau


Quello che io cercavo di mostrare era un mondo dove mi sarei sentito bene, dove le persone sarebbero state gentili, dove avrei trovato la tenerezza che speravo di ricevere. Le mie foto erano come una prova che questo mondo può esistere.
Robert Doisneau (Francia 1912 –1994)



Vi spiego come mi prende la voglia di fare una fotografia. 
Spesso è la continuazione di un sogno. Mi sveglio un mattino con una straordinaria voglia di vedere, di vivere. Allora devo andare. Ma non troppo lontano, perché se si lascia passare del tempo l'entusiasmo, il bisogno, la voglia di fare svaniscono. Non credo che si possa vedere intensamente più di due ore al giorno.|
Robert Doisneau
Gentilly, 14 aprile 1912 – Montrouge, 1º aprile 1994




"Le Baiser de l'Hôtel de Ville" di Robert Doisneau, icona dell'amore eterno racchiuso in un attimo e di una Parigi dall'atmosfera complice, è un falso.

Falso, nel senso che non si tratta di uno scatto spontaneo che ha colto al volo quell'istante irripetibile all'insaputa della coppia, ma - come lo stesso Doisneau ha dichiarato nel 1992 - appositamente costruito a tavolino con i due protagonisti consapevoli della messa in scena e consenzienti a ripetere il bacio più di una volta fino allo scatto definitivo.

La fotografia fu realizzata da Doisneau all'interno di un servizio commissionatogli da LIFE sulla Parigi dell'immediato dopoguerra. Venne pubblicata il 12 giugno 1950 e sarebbe diventata in seguito una delle immagini più famose al mondo, riprodotta all'infinito su libri, cartoline e manifesti.

Françoise Delbart e Jacques Carteaud, entrambi attori, sono i nomi della celebre coppia che ha recitato.
Era il 1950, i due erano fidanzati e innamorati.
Il loro rapporto durò ancora poco più di un anno poi presero strade diverse.

"Monsieur Doisneau ci ha portato in tre posti diversi", ricorda Françoise. "Camminavamo con naturalezza. Mi sentivo leggera, un meraviglioso momento di spensieratezza per noi. Tutto quello che dovevamo fare era stare a circa 15 metri da lui e baciarci. Prima scattò alcune foto in Place de la Concorde, poi in Rue de Rivoli, e infine all'Hôtel de Ville".

Nel 1992, l'idea diffusa che il talento di Doisneau avesse catturato casualmente quel bacio, immortalandolo in un'istantanea splendida e suggestiva, ha subìto un duro colpo con la rivelazione di tale verità da parte del fotografo stesso. E qualcuno non glielo ha mai perdonato.

Doisneau vi fu costretto perché in quell'anno un'altra coppia, Denise e Jean-Louis Lavergne, si presentò alla televisione francese sostenendo di essere la protagonista della foto, e denunciando l'artista per averli fotografati senza permesso. Questo portò Doisneau a spiegare che i protagonisti della foto erano altri e per giunta in posa, e che quindi era stata chiesta la loro autorizzazione.

Niente di casuale, dunque. Nessun attimo magico. Solo un'illusione?

Direi di no. Credo che si tratti di un dettaglio che non va a minare la carica espressiva e il fascino di quel bianco e nero.
Di lei che pare colta di sorpresa e ancora leggermente incerta.
Di lui dall'aria un pò maudit, i capelli in disordine quasi a ripetere l'impetuosità di un cuore in tumulto, la sciarpa ribelle, la sigaretta tenuta tra le dita in maniera particolare...
Perché, più che la coppia, il vero soggetto della foto è lui. Lui, irruente e pieno di vitalità tra gente indifferente e anonima... Lui che tutte lo vorrebbero un bacio così.

E poi: esiste un fotografo professionista che non abbia mai fatto ricorso a qualche artificio per guadagnare in espressività, in incisività, in originalità?

Nel 2005 la foto, una 18x24 in possesso di Françoise Delbart, la "lei" della fotografia, stimata dalla casa d'aste Artcurial 15.000-20.000 euro, è stata venduta all'asta per oltre 184.000 euro, quando la verità sul "bacio rubato nell'attimo fuggente" era già stata detta.
E questa di sicuro non è un'illusione.



Non mi pare granchè come notizia. 
Per ottenere l'effetto spontaneità occorre il massimo dell'artificio (non solamente in fotografia ovvio)





 

mercoledì 14 novembre 2012

Claude Monet. Sono costretto a continue trasformazioni, perché tutto cresce e rinverdisce. Insomma, a forza di trasformazioni, io seguo la natura senza poterla afferrare, e poi questo fiume che scende, risale, un giorno verde, poi giallo, oggi pomeriggio asciutto e domani sarà un torrente



Nel 1912 a Claude Monet (1840-1926), che da qualche anno lamentava problemi agli occhi, fu diagnosticata una cataratta bilaterale, che comporta un processo di progressiva perdita di trasparenza del cristallino e un ingiallimento e oscuramento dei colori percepiti. Tra il 1919 e il 1922 Monet temeva di dover smettere di dipingere. Poteva farlo solamente durante certe ore in cui l’illuminazione era ottimale, ed era conscio che la vividezza dei colori che vedeva era compromessa. Aveva da qualche anno rifiutato la proposta di un intervento chirurgico almeno all'occhio più colpito, perché temeva di perdere la vista o, quantomeno, di non riuscire più a cogliere distintamente le forme degli oggetti. La situazione stava tuttavia peggiorando, ed egli fu infine persuaso dall'amico Georges Clemenceau (suo futuro biografo) a vincere le proprie paure. Dopo anni di cure infruttuose, nel gennaio 1923, Monet fu operato per la rimozione del cristallino dell’occhio sinistro. Con una spessa lente correttiva, Monet poteva di nuovo vedere in modo accettabile, ma all’inizio lamentò visione doppia e distorsione delle immagini, rifiutando l’operazione all’altro occhio. Anche la percezione dei colori era radicalmente mutata: “Vedo il blu e non vedo più il rosso; ciò mi fa arrabbiare terribilmente perché so che questi colori esistono, perché so che sulla mia tavolozza c’è il rosso, il giallo, un verde speciale, un violetto particolare; non li vedo più come li vedevo un tempo”. Verso la fine dell’anno i problemi visivi si risolsero ed egli poté tornare a dedicarsi alla pittura. Solo che poteva vedere anche colori che non aveva mai visto prima. Monet, infatti, incominciò verosimilmente a vedere (e a dipingere) anche nell’ultravioletto.
http://keespopinga.blogspot.it/2012/08/monet-la-cataratta-e-i-colori.html

Così scriveva intorno al 1914: 
"i colori non avevano più la stessa intensità per me; non dipingevo più gli effetti di luce con la stessa precisione. Le tonalità del rosso cominciavano a sembrare fangose, i rosa diventavano sempre più pallidi e non riuscivo più a captare i toni intermedi o quelli più profondi (...) Cominciai pian piano a mettermi alla prova con innumerevoli schizzi che mi portarono alla convinzione che lo studio della luce naturale non mi era più possibile ma d'altra parte mi rassicurarono dimostrandomi che, anche se minime variazioni di tonalità e delicate sfumature di colore non rientravano più nelle mie possibilità, ci vedevo ancora con la stessa chiarezza quando si trattava di colori vivaci, isolati all'interno di una massa di tonalità scure". 


nel gennaio 1923, Monet fu operato per la rimozione del cristallino dell’occhio sinistro. 
Con una spessa lente correttiva, Monet poteva di nuovo vedere in modo accettabile, ma all’inizio lamentò visione doppia e distorsione delle immagini, rifiutando l’operazione all’altro occhio. Anche la percezione dei colori era radicalmente mutata: 
Vedo il blu e non vedo più il rosso; ciò mi fa arrabbiare terribilmente perché so che questi colori esistono, perché so che sulla mia tavolozza c’è il rosso, il giallo, un verde speciale, un violetto particolare; non li vedo più come li vedevo un tempo”. Verso la fine dell’anno i problemi visivi si risolsero ed egli poté tornare a dedicarsi alla pittura. Solo che poteva vedere anche colori che non aveva mai visto prima. Monet, infatti, incominciò verosimilmente a vedere (e a dipingere) anche nell’ultravioletto. 


Un artista vede sempre cose che gli altri non vedono, è il suo dono ed è il suo compito rivelarle: così Marcel Proust (1871-1922), che amava i quadri di Monet e ne condivideva la sensibilità, dipinse (è il caso di dirlo) ad esempio le ninfee, in un brano del primo libro di Alla ricerca del tempo perduto, 
“La strada di Swann” (1913), che mostra rispetto all’opera del pittore una vicinanza impressionante: 

 Ma più lontano il fiume rallenta il suo corso, percorre una tenuta il cui accesso era aperto al pubblico da colui che la possedeva e che s’era compiaciuto in lavori d’orticoltura acquatica, facendo fiorire, nei piccoli stagni formati dalla Vivonne, veri giardini di ninfee. (…) Qua e là, alla superficie, rosseggiava come una fragola un fior di ninfea dal cuore scarlatto, bianco agli orli. Più lontano, i fiori più numerosi erano più pallidi, meno lisci, più graniti, più increspati, e disposti dal caso in volute di tanta grazia che pareva di vedere nuotare alla deriva, come dopo lo sfogliarsi malinconico d’una festa galante, delle rose borraccine in ghirlande disciolte. Altrove, un angolo sembrava riservato alle specie più comuni, che sciorinavano i lindi bianchi e rosa della giuliana, lavati come porcellana con cura casalinga, mentre un po’ più lontano, serrati gli uni contro gli altri in una vera aiuola galleggiante, si sarebbero detti delle viole del pensiero, venute a posare come farfalle le loro ali bluastre e lucenti sull’obliquità trasparente di quell’aiuola acquatica; (…) 
(traduzione di Natalia Ginzburg, Einaudi, 1978, pp. 180-181) 




Seguo la natura senza poterla afferrare; questo fiume scende, risale, un giorno verde, poi giallo, oggi pomeriggio asciutto e domani sarà un torrente. 
Claude Monet



 é il cambiamento, insieme alla nostra docilità alle trasformazioni, il vero motore della natura e del cuore


mercoledì 7 novembre 2012

Benedetto Croce. La maggior parte dei professori hanno definitivamente corredato il loro cervello come una casa nella quale si conti di passare comodamente tutto il resto della vita. Da ogni minimo accenno di dubbio vi diventano nemici velenosissimi, presi da una folle paura di dover ripensare il già pensato e doversi rimettere al lavoro. Per salvare dalla morte le loro idee preferiscono consacrarsi, essi, alla morte dell’intelletto

La violenza non è forza ma debolezza, né mai può essere creatrice di cosa alcuna ma soltanto distruttrice. 
Benedetto Croce


La maggior parte dei professori hanno definitivamente corredato il loro cervello come una casa nella quale si conti di passare comodamente tutto il resto della vita. Da ogni minimo accenno di dubbio vi diventano nemici velenosissimi, presi da una folle paura di dover ripensare il già pensato e doversi rimettere al lavoro. Per salvare dalla morte le loro idee preferiscono consacrarsi, essi, alla morte dell’intelletto.
Benedetto Croce


Non abbiamo bisogno di chissà quali grandi cose o chissà quali grandi uomini. 
Abbiamo solo bisogno di più gente onesta.
Benedetto Croce


Strani questi italiani: sono così pignoli che in ogni problema cercano il pelo nell'uovo. E quando l'hanno trovato, gettano l'uovo e si mangiano il pelo.
Benedetto Croce



BORGES. «La poesia è sempre misteriosa, io credo».
SCIASCIA. «Lei, cosa pensa del saggio di Benedetto Croce su Dante?».
BORGES. «Non mi piace. È fra le cose più povere che abbia scritto Croce. A Croce non piaceva Dante, credo, gli piaceva Ariosto. Quando dice, per esempio, che quell'episodio sul ponticello doveva essere soppresso, credo commetta un errore. Mi sono sentito defraudato da quel saggio».
SCIASCIA. «È un saggio piuttosto sciocco, direi. Riduce la "Divina Commedia" a una specie di colabrodo, tutta buchi di non poesia. L'idea di Croce di poesia e non poesia non è un'idea molto sottile».
BORGES. «Questo vuol dire che Croce non capiva molte cose; era una persona molto intelligente, però c'erano cose che non capiva, anzi che non sentiva».
SCIASCIA. «Era un grand'uomo ottuso».
BORGES. «Non so, forse lui come italiano del sud sentiva meno...».
SCIASCIA. «Anch'io sono un italiano del sud però... Croce, come critico, non so cosa abbia capito; non ha capito Pirandello, non ha capito De Roberto, Dante lo ha ridotto a un colabrodo, Manzoni non andava; di Mallarmé pure non ha capito un gran che».
BORGES. «Però è simpatico Croce come persona, un grande...».
SCIASCIA. «Sì, è un grand'uomo. Per me era un grande storico locale, soprattutto come storico di Napoli è straordinario. Ma nella critica letteraria ha fatto più danni che la grandine».
BORGES. «Io però salvo lo stile di Croce. L’accento di Croce, la lezione di Croce, l’intonazione di Croce, la cadenza. Personalmente com’era? Lo ha conosciuto?».
SCIASCIA. «No, mai».
Leonardo Sciascia e Jorge Luis Borges all'Excelsior.






 

lunedì 22 ottobre 2012

John Powell. Non darmi, ti prego, un'etichetta fissa che sia impossibile togliermi di dosso. Io mi modifico incessantemente, sul ritmo delle mille situazioni in cui mi mette la vita di ogni giorno. Avvicinati quindi a me con stupore e meraviglia, e studia il mio viso, le mie mani, la mia voce per scorgere in essi i segnali del mio cambiamento: perché non c'e' dubbio che da ieri ad oggi io sia cambiato

"Non darmi, ti prego, un’etichetta fissa che sia impossibile togliermi di dosso. Io mi modifico incessantemente, sul ritmo delle mille situazioni in cui mi mette la vita di ogni giorno. Avvicinati quindi a me con stupore e meraviglia, e studia il mio viso, le mie mani, la mia voce per scorgere in essi i segni del mio cambiamento: perché non c’è dubbio che da ieri ad oggi io sia cambiato. Ma anche se questo lo riconosci, può accadere che io abbia paura a dirti chi sono."
John Powell





Etichettare significa trattare una persona come fosse una cosa: classificarla e archiviarla. Usarla..



 purtroppo troppo spesso ci si basa sulle "prime" impressioni e poi si continuano a "vedere" le persone con questi occhi, forse e' troppo difficile e faticoso guardare "oltre" o forse siamo solo un po' troppo "superficiali"




John Powell, Storie dal mio cuore, Gribaudi, 2004.


Raperonzolo
Questa è una favola... una favola dei fratelli Grimm, leggermente modificata. C'era una volta, così sembra, una giovane ragazza di nome Raperonzolo. Era tenuta prigioniera in una torre da una vecchia e brutta strega, dall'aspetto veramente repellente. La vecchia strega ripeteva sempre alla giovane e bella Raperonzolo: "Sei brutta come me, Raperonzolo!" Non essendoci specchi nella torre, Raperonzolo era sicura di essere brutta. Non aveva mai cercato di lasciare la torre, temendo che la sua bruttezza avrebbe fatto allontanare gli altri. Un giorno il principe azzurro arrivò sul suo cavallo bianco, mentre la giovane Raperonzolo era affacciata alla finestra della torre per prendere una boccata d'aria fresca. Si scambiarono un sorriso e fu amore a prima vista. Raperonzolo gettò le sue lunghe trecce bionde dalla finestra (le estremità, naturalmente, rimasero attaccate alla sua testa) e il principe azzurro, avendo fatto il boy scout, le intrecciò come una scaletta e salì. Quando i loro occhi si trovarono a pochi centimetri di distanza, Raperonzolo scoprì in quelli luminosi del principe azzurro di essere bellissima. Così si paracadutarono subito dalla finestra della torre e vissero per sempre felici e contenti.
Io penso che abbiamo tutti bisogno degli occhi di un altro per vedere la nostra bellezza. Come dice una canzone: Non sei nessuno finché qualcuno non ti ama. Mi chiedo: i miei occhi riflettono a coloro che mi sono intorno la loro bellezza?".

Ciò che io sono, in qualunque momento del processo del divenire una persona, sarà determinato dalla mia relazione con coloro che mi amano o rifiutano di amarmi, con coloro che io amo o rifiuto di amare.
Pag. 28


L'uovo dell'aquila
Un indiano d'America trovò un uovo d'aquila per terra, fuori dal nido. Egli cercò il nido, ma non riuscì a trovarlo, poiché le aquile costruiscono i nidi in cima agli alberi. Così, con le migliori intenzioni, l'indiano mise l'uovo nel nido di un pollo della prateria e lì esso si schiuse. Quando l'aquila uscì dall'uovo, si guardò intorno per vedere come comportarsi. Vide gli altri polli della prateria che si alzavano un metro da terra e poi, gracchiando, raspavano il terreno. Così si mise a fare la stessa cosa. Quasi alla fine della sua vita, vide un uccello che volava orgoglioso al di sopra della sua testa. Domandò con meraviglia "Cos'è quello?" e un pollo a lui accanto gli rispose "Quella, amico mio, è un'aquila, ma non farti venire in mente di riuscire a fare ciò che fa lei. Lei vola su fino al sole, ma tu sei un pollo della prateria come tutti noi". La storia finisce male: l'aquila muore pensando di essere un pollo della prateria. Gli essere umani sono molto simili: se ci diciamo di essere polli, ci solleveremo solo un metro da terra. Ma, se dicessimo a qualcuno che è un'aquila, be', forse riuscirebbe a volare fino al Sole.

Siamo specchi l'uno per l'altro.
Pag. 126


Cercatori di bene, pagg. 124 - 125
Alcuni anni fa, un gruppo di ricercatori decise di studiare la felicità con un metodo puramente scientifico. Così selezionarono le 100 persone più felici e contente che riuscissero a trovare. Intervistarono queste 100 persone felici e inserirono le loro interviste nel computer, con lo scopo di trovare che cosa avessero in comune. All'inizio furono messi un po' fuori strada dal fatto che il 70 per cento di essi proveniva da piccole città con meno di 15.000 abitanti. Proprio quando erano sul punto di rinunciare scoprirono che il 100 per cento di queste persone aveva veramente qualcosa in comune. Erano tutti classici "cercatori di bene". (Gli scienziati dovettero inventarsi questo termine per descrivere questa qualità). Cercavano il bene in se stessi, negli altri e in tutte le situazioni della vita. Tornando a noi, una delle vicine università mi avrebbe dato una laurea ad honorem in cambio di un discorso di inizio anno. Fui naturalmente ben contento di farlo. Così improntai il mio discorso d'inizio anno sui "cercatori di bene". Sollecitai i laureandi a diventare cercatori di bene, perché ero sicuro che sarebbero stati più felici. Circa due mesi dopo, ricevetti la lettera di una di quei laureati. Mi diceva che, quel giorno, suo padre aveva fatto tantissime foto alla cerimonia di laurea e alla festa che c'era stata dopo, per scoprire, solo alla fine della giornata, che non c'era il rullino dentro la macchina fotografica. Dopo avermi raccontato questo, concluse scrivendo: "La sfido ad essere un cercatore di bene in questa occasione e a trovarci del bene". Le scrissi: "Pensa all'umiltà che tuo padre ha guadagnato da questo errore. Eccolo lì, padre di una laureata, ma incapace di mostrare le foto a causa di una sua svista. E pensa alla meravigliosa opportunità per te di accettare le sue scuse e perdonarlo".

C'è una promessa in ogni problema, un arcobaleno dopo ogni temporale, il calore in ogni inverno.
Cercatori di bene, pagg. 124 - 125



La morte di Marilyn Monroe
Ci sono molte storie plausibili riguardo la morte di questa diva. Una di queste rivela che abbia telefonato a un divo del cinema e gli abbia detto di avere appena assunto una dose letale di sonnifero. Usando le parole di Rhett Butler in Via col vento, questo le rispose: "Francamente, mia cara, non mi interessa". Marilyn gettò il telefono a terra. E così lei morì. Quando la sua cameriera scoprì il corpo, il mattino seguente, trovò il telefono a terra accanto al letto. Le ultime parole che aveva udito erano state: "Non mi interessa". Non me ne importa niente. Claire Boothe Luce ha scritto un pezzo tagliente per la rivista Life, intitolato "Ciò che veramente ha ucciso Marilyn". Nell'articolo diceva che il telefono in terra era in qualche maniera stranamente simbolico della vita di Marilyn e di tutte le vite umane.
Pag. 14

Stiamo tutti cercando e sperando che a qualcuno possa interessare. Non siamo mai meno che degli individui, ma non siamo mai solamente individui. Nessun uomo è un'isola.

Ray Charles e la cecità 
Ray Charles era un grande pianista e cantante non vedente. Ho assistito a una sua intervista che vale la pena di riportare. L'intervistatore gli chiese: "Ho sentito dire che se Dio le volesse restituire la vista, lei non accetterebbe. È vero?" Il pianista-cantante confermò che si trattava della verità. Disse: "Quando non si vede, si apprezzano di più gli altri e talvolta la tua vita viene toccata da persone meravigliose, che magari non sono confezionate meravigliosamente, ma se sei cieco non lo sai. Ad esempio, quando uno dei miei figli mi sale in grembo, io sento solo che c'è qualcuno lì che mi ama e che io amo. Se vedessi, probabilmente noterei lo sporco sui suoi vestiti o sulle sue scarpe. E forse direi: Vai a pulirti, prima di venirmi in braccio. Ma io non lo vedo come bianco o negro, pulito o sporco. Sento solo su di me 33 chili d'amore".

Forse non mi sarei ricordato di questa intervista, se un medico oculista non mi avesse detto anni fa: "Ci sono probabilità che lei diventi cieco, un giorno". Infatti, oggi lo sono. Sto già curando con attenzione la poca vista che mi è rimasta. Cerco di imprimere bene nella mia mente il cielo, le foglie, i laghi, e penso al giorno in cui questi panorami potranno non esserci più. Questo pensiero mi rende triste. Poi ricordo le parole di Ray Charles.


Suicidio per annegamento
Anni fa scrissi un piccolo libro intitolato Touched by God, dove parlavo di come Dio ha toccato la mia vita. Ricevetti allora una lettera che catturò in modo particolare la mia attenzione. Questa persona raccontava di aver vissuto una vita "cattiva" e di aver concluso che ci fosse un unico modo per fermare tutto questo male, cioè il suicidio. L'autrice della lettera aveva deciso la morte per annegamento. Una mattina all'alba, aveva passeggiato in riva all'oceano, mentre le spiagge erano deserte. Aveva camminato lungo la riva sabbiosa, dando un lento addio a tutti coloro che aveva conosciuto. Improvvisamente, una voce forte, imperiosa ma gentile, le disse di fermarsi, voltarsi e guardare verso il basso. Lei vide che l'oceano aveva cancellato le sue impronte. "Ti sto chiamando a vivere e ad amare, non a morire", continuò la strana voce, "Come l'oceano ha cancellato le tue impronte, così il mio amore e la mia pietà hanno cancellato i tuoi peccati. Ti sto chiamando a vivere e ad amare".

L'autrice della lettera ammetteva di non aver condiviso prima questa esperienza con nessuno, per due motivi: "Il primo motivo è che si tratta di una faccenda profondamente personale ed il secondo è che la mia vita si basa su quell'unica esperienza e non voglio che qualcuno la minimizzi dicendo: Non volevi morire e ti sei inventata una voce."


L'ultimo capitolo
Nel 1995 mi sono ritirato dall'insegnamento. La mia intenzione era di continuare a parlare pubblicamente e a scrivere. Benché avessi avuto alcuni impedimenti fisici, non ritenevo che avrebbero potuto rallentarmi molto. Chi mi conosce mi ha sempre considerato come una persona dall'energia illimitata. Intorno ai vent'anni, mi fu diagnosticata una malformazione genetica che comportava una graduale perdita della vista. Dalla diagnosi iniziale, non avevo notato rilevanti cambiamenti con il passare degli anni. Pensavo di essere fortunato. Ho anche avuto episodi di perdita dell'equilibrio, ma riuscivo a compensare abbastanza bene questa situazione, ogni volta che avveniva. Facevo ancora delle vasche in piscina e andavo in ufficio a scrivere. Ma i miei anni sfortunati stavano per cominciare: l'udito iniziò a diminuire; avevo bisogno di una protesi all'anca; mi dissero che avevo il diabete; sia gli occhi sia l'equilibrio peggiorarono. Uno dei medici che consultai disse che la carne al fuoco era talmente tanta che avrebbe potuto definire il mio caso "Sindrome di Powell". Durante questi anni difficili, mi mantenevo attivo. Non credo che qualcuno di noi smetta mai di pensare a se stesso come giovane, eppure prima o poi la fantasia e la realtà non coincidono più. Me ne resi conto nel 2000, quando arrivò per me il momento di ritirarmi in una casa di cura per gesuiti. È stata dura per me lasciare la mia famiglia e gli amici di Chicago, ma l'addio più duro è stato alla mia idea di essere ancora giovane e indipendente. Per anni avevo fatto terapia alle persone parafrasando Viktor Frankl: "Non chiedete alla vita, lasciate che la vita chieda a voi". Così, adesso sto seguendo i miei stessi consigli. Ora chiedo a Dio che cosa quest'ultimo capitolo della vita abbia da insegnarmi. Comincio a vedermi gradualmente ritornare al primo capitolo della mia vita. E ascolto le storie di Dio su quanto siamo amati tutti i giorni della nostra vita.
John Powell, L'ultimo capitolo, pagg. 140 - 141

https://it.wikiquote.org/wiki/John_Powell


John Powell, gesuita, professore alla Loyola University di Chicago, conferenziere, è autore di bestseller che hanno venduto più di 12.000.000 di copie e sono stati tradotti in dodici lingue. Tra questi, presso Gribaudi, Perché ho paura di dirti chi sono e Perché ho paura di amare.

https://books.google.it/books?id=KAx3AqGvDX4C&pg=PA146&lpg=PA146&dq=%22John+Powell%22+Storie+dal+mio+cuore&source=bl&ots=mLOO2c9w7-&sig=YcRRjTL87BrnLV5W5kDJqTjq5l0&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwjpzLLV1OPKAhUH7g4KHf8MBrYQ6AEIMDAD#v=onepage&q=%22John%20Powell%22%20Storie%20dal%20mio%20cuore&f=false

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