sabato 5 novembre 2016

George Steiner. Dopo Babele.

George Steiner (23 aprile 1929), Dopo Babele, Ruggero Bianchi e Claude Béguin (trad. it), Torino 1992, Garzanti Editore

(47-48)
Il relativismo storico sostiene che non vi sono inizi, che ciascun atto umano ha dei precedenti, ma potrebbe trattarsi di una deduzione spuria a posteriori. La qualità geniale dell’enunciazione greca ed ebraica delle possibilità umane, il fatto che nessuna successiva espressione della vita sensibile, nell’ambito della tradizione occidentale, sia mai stata così completa né così creativa in sede formale, sono dati innegabili. 

La totalità di Omero, la capacità dell’Iliade e dell’Odissea di porsi come repertorio per i principali atteggiamenti della coscienza occidentale – siamo irascibili come Achille e vecchi come Nestore, i nostri ritorni a casa sono come quelli di Ulisse – indicano un momento di eccezionale energia linguistica. […] 

Eschilo forse non è stato soltanto il più grande dei tragici ma il creatore stesso del genere, il primo a collocare nel dialogo le intensità supreme del conflitto umano

La grammatica dei profeti in Isaia segna un profondo scandalo metafisico: 
l’imposizione del futuro, l’estendersi del linguaggio al di sopra del tempo. 

Una scoperta contraria anima Tucidide
sua fu l’intuizione esplicita che il passato è un costrutto linguistico, che il passato del verbo è l’unico garante della storia. 

La formidabile vivacità dei dialoghi platonici, l’uso della dialettica come metodo d’indagine intellettuale, deriva dalla scoperta che le parole, sottoposte a verifiche stringenti, messe in grado di scontrarsi come in un combattimento o di muoversi come in una danza, producono nuovi schemi di comprensione. E chi fu il primo a raccontare una freddura, a provocare il riso con le parole?


(48)
Il classico è il solo rivoluzionario totale: è il primo a irrompere non già nel mare silenzioso – giacché il linguaggio è rigorosamente coestensivo all’uomo – ma nella terra incognita dell’espressione simbolica, dell’analogia, dell’allusione, della similitudine e del contrappunto ironico.

(48)
L’ampiezza assimilativa dell’articolazione ellenica ed ebraica è stata tale da rendere alquanto rare le aggiunte genuine e le nuove scoperte: nessuna desolazione è stata più profonda di quella di Giobbe, nessun rifiuto del mondo è stato più drastico di quello di Antigone.

(55)
Quale realtà sostanziale ha la storia al di fuori del linguaggio, al di fuori della nostra fede interpretativa in documenti essenzialmente linguistici (il silenzio non conosce storia)?

(56)
Ricordare è rischiare la disperazione; il passato remoto del verbo essere implica la realtà della morte.

(59)
Gli inferiori e gli oppressi sono sopravvissuti grazie ai loro silenzi.

(62)
Come la feroce Cordelia, i bambini sanno che il silenzio può annientare un altro essere umano. 
O, come Kafka, ricordano che molti sono sopravvissuti al canto delle sirene ma nessuno al loro silenzio.

(66)
Di qui la tesi dell'antropologia moderna secondo la quale il tabù dell'incesto, che pare fondamentale per l'organizzazione della vita comunitaria, sia inseparabile dall'evoluzione linguistica. Si può proibire soltanto ciò che ha un nome.

(67)
In parte, la genesi del sadismo potrebbe essere linguistica. 
Il sadico trasforma in astrazione l'essere umano da lui torturato; verbalizza la vita al massimo realizzando su esseri viventi la totalità delle sue articolate fantasie. L'incontrollabile facondia di Sade rappresentava forse, come la loquacità spesso attribuita agli anziani, un surrogato psicofisiologico di una diminuita sessualità [...]?

(86)
In breve, le lingue sono sempre state, in tutto il corso della storia umana, zone di silenzio per gli altri, margini taglienti di divisione.

(88)
[...] una Ur-Sprache esisteva prima [...] del brusco tumulto di lingue in conflitto tra loro seguito al crollo della ziggurat di Nimrod. Tale vernacolo adamitico non soltanto consentiva a tutti gli uomini di comprendersi a vicenda, [...] ma incarnava altresì [...] il Logos originale, l'atto di diretta chiamata in essere tramite cui Dio aveva, in senso letterale, «parlato il mondo».

(93)
La musica delle sfere e degli accordi pitagorici proclamava, proprio come farà nel Prologo del Faust di Goethe, la segreta architettura del discorso divino.

(93)
Nelle contemplazioni visionarie di Angelus Silesius [...] Dio, dall'inizio del tempo, ha pronunciato soltanto un'unica parola. In quella singola parola detta è contenuta tutta la realtà. La parola cosmica non si può trovare in nessuna lingua conosciuta; il linguaggio posteriore a Babele non può ricondurre ad essa. Il brusio delle voci umane, così misteriosamente diverse e così reciprocamente elusive, esclude la percezione del suono del Logos. Non esiste altro accesso oltre il silenzio. In tal modo, per Silesius, i sordomuti sono, tra tutti gli uomini viventi, i più vicini alla volgata perduta dell'Eden.

(95)
La filo-logia è amore del Logos prima di essere la scienza di ceppi differenti.

(111)
Humboldt fa parte di quell'elenco assai ristretto di scrittori e di pensatori interessati al linguaggio - un elenco che comprende Platone, Vico, Coleridge, Saussure, Roman Jakobson - che hanno detto qualcosa di nuovo e di validità generale.

(145)
Quanto segue è personale e, come ho detto, in parte impressionistico. Può non essere del tutto un difetto.

(150-151)
Mio padre nacque a nord di Praga e fu educato a Vienna. Mia madre da nubile si chiamava Franzos, un nome che allude a una possibile origine alsaziana, benché la sua provenienza più prossima fosse probabilmente galiziana. Karl Emil Franzos, il romanziere che fu il primo curatore del Woyzeck di Büchner, era un mio prozio. Io nacqui a Parigi e crebbi a Parigi e a New York.
Non ho nessun ricordo di una prima lingua. Per quanto ne so, parlo con la stessa facilità l'inglese, il francese e il tedesco.

[...] Queste tre lingue madri, a loro volta, costituivano soltanto una parte dello spettro linguistico dei miei primi anni. Nell'idioma di mio padre sopravvivevano attivamente forti elementi di ceco e di yddish austriaco. E dietro tutto ciò, come l'eco familiare di una voce appena al di là dei limiti d'ascolto, c'era l'ebraico.

(158)
Così come vi è in certi settori della critica letteraria una velata antipatia per la letteratura, una ricerca di criteri 'oggettivi' o verificabili di esegesi poetica, sebbene tali criteri siano caparbiamente estranei al modo in cui agisce la letteratura, allo stesso modo vi è nella linguistica scientifica un'avversione sottile ma inconfondibile per la prodigalità instabile, forse addirittura anarchica, delle forme naturali.

(168)
La mente ha tante cronometrie quante speranze e paure. Durante stati di distorsione temporale, le operazioni linguistiche possono o no esibire un ritmo normale.

(171)
Nessuna grammatica filosofica ha fornito finora un’analisi delle diverse logiche, valori tonali e proprietà semantiche dei tempi passati e delle modulazioni tra di essi, in grado di rivaleggiare con quella di “À la recherche du temps perdu” [...]. Il controllo della grammatica è sentito con tale profondità da Proust, la collazione da lui fatta tra linguaggio e stimoli psicologici è così vitale e analitica, che egli fa del tempo verbale non soltanto una collocazione esattamente stabilita [...] ma un'indagine sulla natura essenzialmente linguistica, formalmente sintattica del passato.

(178-179)
Ricordo lo stupore provato da bambino quando compresi per la prima volta che si potevano fare affermazioni sul lontano futuro e che queste erano in un qualche modo lecite. Ricordo un momento in cui ero alla finestra, quando il pensiero che mi trovavo in un posto normale e ‘adesso’ e che potevo dire frasi sul clima e su quegli alberi tra cinquant’anni, mi colmò di un senso di soggezione fisica. 
I futuri, e in particolare i congiuntivi futuri, mi sembravano possedere una concreta forza magica. Questa forza può far venire le vertigini, […]. Mi sembrava difficile credere che il codice civile non imponesse restrizioni agli usi del futuro, che poteri occulti quali il futur actif, il futur composé o il futur antérieur venissero usati indiscriminatamente. Soltanto il futur prochain, che è il presente proteso leggermente in avanti, aveva una sua aria casalinga

Nutrivo la convinzione che dovessero esistere repubbliche più prudenti della nostra, più attente all’intersecarsi del linguaggio e della vita, in cui il nostro prodigo consumo di forze predicenti, ipotetiche, controfattuali fosse proibito. In una tale cultura, gli usi dei predicati futuri, degli ottativi, degli infiniti futuri sarebbero stati riservati a occasioni cerimoniali. Sarebbero stati numinosi come le parole tabù che non possono figurare nella parlata comune ma sono incluse in certi riti religiosi. […] Un simile razionamento è del tutto concepibile, proprio come sono concepibili le restrizioni che una comunità impone all’alchimia o alla distillazione dei veleni. Lo stalinismo ha mostrato come un sistema politico possa mettere fuori legge il passato, decidere esattamente quali ricordi vadano concessi ai vivi e quale dose di oblio ai morti. Si può immaginare una proibizione analoga per il futuro, dal momento che i tempi al di là del futur prochain implicano necessariamente la possibilità di trasformazioni sociali. Come sarebbe l’esistenza in un presente totale (totalitario), in un idioma che limitasse le espressioni proiettive all’orizzonte del prossimo lunedì?


(203)
Nell'Inferno, vale a dire in una grammatica senza futuri, «sentiamo letteralmente come i verbi uccidono il tempo» (l'acuto commento di Mandel'štam su Dante e sulla forma linguistica riecheggia la sua personale asfissia sotto il terrore politico, nell'assenza del domani). Ma in altri momenti, è soltanto tramite il linguaggio, e forse tramite la musica, che l'uomo può affrancarsi dal tempo, può sopraffare provvisoriamente la presenza e il presente della propria morte puntuale.


(217)
Ripetute, riecheggiate dall'amata, esse [scil. le parole tabù che si riferiscono ad attività sessuali] designavano il centro privato dell'intimità, di quella solitudine cui è indispensabile un altro che parli o che ascolti.


(219-221)
La scissione più importante nella letteratura occidentale si verifica tra gli anni 1870-1880 e la fine del secolo. Essa separa una letteratura che si trova 'di casa' nel linguaggio da una letteratura per la quale il linguaggio è diventato una prigione. Rispetto a questa suddivisione, tutti i generi o movimenti storici e stilistici [...] sono soltanto varianti o sottogruppi. Dalle origini della letteratura occidentale fino a Rimbaud e Mallarmé (Hölderlin e Nerval sono precursori importanti ma isolati), la poesia e la prosa erano organicamente in accordo con il linguaggio. [...] In tutta la tradizione occidentale, un classicismo portante, un patto negoziato tra mondo e parola, dura fino alla seconda metà dell'Ottocento. E a questo punto s'infrange bruscamente. Goethe e Victor Hugo furono probabilmente gli ultimi grandi poeti a trovare il linguaggio sufficiente alle proprie esigenze.
[e in nota:] Gli effetti d' 'entropia' potrebbero essere importanti: le principali lingue europee [...] si esauriscono. Il linguaggio si piega sotto il puro peso della letteratura da esso prodotta. Dov'è il poeta italiano che succede a Dante, quali nuove fonti di vita rimangono nel blank verse inglese dopo Shakespeare?


(265)
La coscienza che l’uomo ha di un ‘divenire’, la sua capacità di immaginare una storia del futuro, lo distingue da tutte le altre specie viventi. […] È, secondo la formula di Malraux, un ‘anti-destino’. […] Le proposizioni controfattuali e condizionali, sostiene Bloch, costituiscono una grammatica di rinnovamento costante. Ci costringono a ricominciare da capo al mattino, a lasciarci alle spalle la storia fallita. Altrimenti il nostro atteggiamento sarebbe statico e soffocheremmo in sogni delusi.

(268)
Dei e mortali eletti possono essere virtuosi del mendacio, elaboratori di complesse non-verità per amore del verbal craft, dell’arte verbale (dove craft, l’arte applicata, va intesa con la sua connotazione fondamentale, ma evasiva, di furbizia) e dell’energia intellettuale coinvolta. Il mondo classico era fin troppo pronto a documentare il fatto che i greci avevano una visione estetica o sportiva del mentire. Nel celebre stile degli oracoli greci sembra implicita una nozione antichissima della vitalità dell’ ‘enunciazione ambigua’ e del ‘fraintendimento’, delle affinità primordiali esistenti tra linguaggio e ambiguità di significato.

(271)
Ci serve una parola che designi l’urgenza da parte del linguaggio di enunciare l’alterità.
Il francese e l’italiano hanno altérité, alterità, termini desunti dalla distinzione scolastica tra l’essenza e l’altro, tra l’integrità tautologica di Dio e i frammenti scheggiati della realtà percepita. Forse alternità può andar bene per definire l’altro, il diverso dalle cose come stanno, le proposizioni controfattuali, le immagini, le forme della volontà e dell’evasione di cui carichiamo la nostra esistenza mentale e tramite cui edifichiamo l’ambiente mutevole, in larga misura fittizio, della nostra esistenza somatica e di quella sociale.

(272)
Può darsi che la rubrica della mimetizzazione si estenda al silenzio, alla risposta trattenuta. A un livello evolutivo più alto, allo stadio dei primati forse, l'animale rifiuterà di rispondere (vi è qualcosa di men che umano nell'amorosa reticenza di Cordelia).

(274)
[...del] l'identità, il dono pericoloso che un uomo fa quando affida il suo vero nome a un altro. Falsificare o celare il proprio vero nome [...] significa proteggere la propria vita, il proprio 'karma' o essenza dell'essere, dal saccheggio e dal lenocinio altrui. Fingere di essere un altro, con se stessi o in generale, significa impiegare le capacità 'alternative' del linguaggio nel modo più totale e più ontologicamente liberatorio.

(292)
[...] la cenere non è la traduzione del fuoco.

(342)
È possibile che abbiamo interpretato erroneamente il mito di Babele. La torre non segnò la fine di un monismo benedetto. La stupefacente prodigalità delle lingue esisteva da lungo tempo e aveva materialmente complicato l’impresa degli uomini. Cercando di costruire la torre, le nazioni si imbatterono nel grande segreto: che la vera comprensione è possibile soltanto quando vi sia il silenzio. Costruirono in silenzio, e in questo stava il pericolo per Dio.

(353)
Un errore, un’interpretazione sbagliata dà il via alla storia moderna del nostro argomento. Le lingue romanze derivano i propri termini indicanti ‘traduzione’ da ‘traducere’ perché Leonardo Bruni comprese in maniera errata una frase delle Noctes Atticae di Aulo Gellio in cui l’originale latino significa in realtà ‘derivare da, portare a’. La cosa è banale ma emblematica. Spesso, nei documenti della traduzione, una falsa interpretazione fortunata è fonte di nuova vita. Le precisioni cui mirare sono di tipo intenso ma non sistematico. Come le mutazioni nel miglioramento della specie, i grandi atti di traduzione sembrano avere una necessità fortuita. La logica è successiva al fatto. Ciò di cui ci stiamo occupando non è una scienza, ma un’arte esatta.

(356)
Ortega y Gasset parla della tristezza del traduttore dopo il fallimento. Vi è anche una tristezza dopo il successo, la ʻtristitiaʼ agostiniana che viene dopo gli atti affini del possesso erotico e di quello intellettuale.

(357)
La dialettica dell'incorporazione implica il poter essere consumati.

(379)
Il periodo si sviluppa quindi in uno degli eufonici e sinuosi leviatani miltoniani di proposizioni dipendenti, sia relative che avverbiali [...]

(396)
Al di là della fusione che scaturisce dalla grande traduzione vi è il silenzio: la coerenza assoluta è senza parole e non detta.

(402)
Per un effetto alla Borges, è Dante che sembra tradurre Littré, il cui 'Enfer' è più antico dell' 'Inferno' e si ricollega alla chanson de geste più che all'epopea di Virgilio. Vi è qui una sorta di perduto 'strazio infernale' giunto a Dante tramite i maestri provenzali.

(414)
L'arcaismo interiorizza. Crea un'illusione di ricordo che aiuta a incorporare l'opera straniera nel repertorio nazionale.

(420)
Come la molteplicità delle lingue, come il fatto che lingue diverse non si sono evolute sincronicamente, il trattamento del tempo nella traduzione in quanto variabile strategica riflette quella spinta fondamentale alla libera invenzione e all'alternità che incalza il parlare umano. Il traduttore introduce opzioni d'essere nuove e alternative.

(429)
Qualunque cosa possano dirci gli archeologi, siamo giunti a considerare la statuaria antica come puro marmo bianco; e l'erosione del tempo, avendo cancellato i colori vivaci originali, conferma il nostro fraintendimento.

(431)
Percepire la differenza, sentire la 'fisicità' e la resistenza caratteristica di quanto differisce, vuol dire percepire nuovamente la propria identità. Lo spazio dell'individuo è definito da ciò che sta al di fuori; trae coerenza, configurazione tattile, dalla pressione dell'esterno. L' 'alterità', soprattutto quando abbia la ricchezza e la penetrazione della lingua, costringe il 'senso del presente' a chiarificarsi.

(436)
Non vale mai la pena di imitare certe ricchezze e profondità.

(450)
Non dobbiamo fidarci della traduzione le cui parole sono tutte intatte, 'non infrante'. Come con una conchiglia, il traduttore può ascoltare intensamente ma confondere il rumore del proprio battito cardiaco con il pulsare di un mare estraneo.

(467-468)
In breve: in ogni punto di questo brano [n.d.r. la traduzione che S. Quasimodo dà di Metamorfosi, XIII, 880-890] troviamo la dialettica di resistenza all'interno di una fortissima affinità che rende così stimolante l'impresa della comprensione e della riasserzione attraverso divisioni linguistico-culturali assai prossime; proprio come può esserlo la comprensione o la comunicazione tra due esseri umani vincolati l'un l'altro troppo strettamente da reciproche intenzioni inespresse.

(476)
L’ingrandimento è la forma più sottile di tradimento.

(480)
[…] una traduzione di questo livello è, in un certo senso, il più crudele degli omaggi.

(494)
In che modo gli arrangiamenti di Schumann, Liszt e Rubinstein di Du bist wie eine Blume di Heine sono commenti ripetuti ma anche divergenti a un testo ingannevolmente ingenuo?

(496)
Margherita canta la ballata Es war ein König in Tule (Faust, I, 2759-82) in circostanze profondamente ambigue. Mefistofele le ha messo lo scrigno di gioielli nel suo guardaroba; lui e Faust aspettano il momento giusto in giardino. Margherita trova l’aria stranamente pesante. La poesia è satura di paralleli ironici e di minacce adatte alla situazione di Margherita, ma anche al di là della sua consapevolezza. Le quartine di Goethe hanno un fascino contraddittorio: i versi brevi, ‘strangolati’, cadono torpidamente, nonostante l’atmosfera di spaziosità vaga e stregata […].

(513)
Tra gli studi più noti, vi è il saggio di Leo Spitzer, The ‘Récit de Théramène’, in Linguistic and Literary History, Princeton University Press, 1948. Pur contenendo intuizioni importanti sulla tecnica di Racine, il saggio è in realtà deludente. Vi sono imprecisioni (il dramma, originariamente, non s’intitolava Phèdre). Inoltre, il punto principale della sua argomentazione è dubbio. Spitzer vede la chiave del récit nella «parola magica ‘barocco’». Questo soprattutto perché non tiene conto del testo di Seneca e del suo ruolo nella riformulazione raciniana. Le caratteristiche che egli definisce ‘barocche’ si trovano quasi tutte nel testo latino.

(516)
[…] la libertà deriva il proprio significato dalla costrizione.

(536)
Interanimation [The Extasie - John Donne n.d.r.] indica un processo di interpenetrazione assolutamente attenta. Allude a una dialettica di fusione in cui l’identità sopravvive trasformata, ma anche rinvigorita e ridefinita grazie alla reciprocità. […] Si tratta, alla lettera, di un’operazione di innalzamento a una potenza superiore.

(537)
L’espressione donniana defects of loneliness (difetti della solitudine) allude intensamente alla condizione emotiva e intellettuale che accompagna lo sforzo dell’invenzione personale. Il poeta di fronte alla pagina bianca, il pittore davanti alla tela vuota, lo scultore opposto alla pietra grezza, il pensatore nelle vicinanze sentite ma inesplicite del non-pensato, sono quasi un cliché della solitudine. Persino per l’agnostico, l’atto della creazione del significato e della forma contiene suggestioni arcaiche di hybris. Il creatore si sente al tempo stesso imitatore e rivale di una creazione più vasta. Egli è solo con la propria urgenza e tale urgenza, come possono testimoniare artisti e scrittori, è sconsolata[…]. L’ ‘interanimazione’, dice Donne, pone freno alle privazioni della singolarità. La abler soul (anima più potente) entra nell’opera cui si lavora. Il nuovo inizio attinge al precedente, ai modelli canonici, per ridurre il vuoto minaccioso che circonda la novità.

(537)
La storia del teatro occidentale, così come la conosciamo, risulta sovente un’eco prolungata delle fatali informalità (alla lettera, il fallimento nel definire forme separate) tra gli dèi e gli uomini di un numero esiguo di famiglie greche.

(542)
Sainte-Beuve non era un romanziere nato. E questo rese ancor più naturale la sua dipendenza da un testo canonico precedente. E tuttavia Volupté (Voluttà) (1834) è l’opera di un’intelligenza nervosa eccezionale. Nasce da ‘difetti di solitudine’ sia rispetto alla vita personale del suo autore – la sua adorazione per Adèle Hugo – sia in rapporto al suo senso di fallimento come poeta e creatore nel pieno senso romantico del termine. In tal modo Sainte-Beuve conferisce al tema della rinuncia un’amarezza particolare.

(544)
Flaubert sembra aver sentito, come altri lettori ottocenteschi, che, nonostante tutto il suo splendore, Le Lys dans la vallée aveva banalizzato la finezza psicologica del soggetto e che Balzac aveva, caratteristicamente, introdotto una dose di melodramma (Lady Dudley e i suoi focosi destrieri) in una tragedia ambigua di sentimenti privati.

(544)
Il vocabolo donniano, d’altro canto, ci rimanda alla solitudine che tormenta anche il grande artista all’inizio dell’invenzione. L’ ‘anima più potente’ del grande predecessore, la vicinanza della versione rivale, l’esistenza, al tempo stesso gravosa e liberatoria, di una tradizione pubblica, libera lo scrittore dalla trappola del solipsismo. Un pensatore o un artista autenticamente originale è soltanto uno che paga i propri debiti, con gli interessi.

(547)
La grande arte, la poesia che trafigge, sono déjà-vu, una luce che illumina e consente di riconoscere luoghi immemoriali, familiari a livello innato al nostro ricordo storico e razziale.

(550)
L'uomo che ha qualcosa di veramente nuovo da dire, l'uomo la cui innovazione linguistica non riguarda semplicemente il dire ma il significare [...] è un'eccezione. La cultura e la sintassi, la matrice culturale tracciata dalla sintassi, ci tengono al nostro posto.

(551)
Coloro che sembravano iconoclasti si sono rivelati custodi più o meno angosciati, intenti a correre per il museo della civiltà, a cercare ordine e rifugio per i suoi tesori, prima dell'ora di chiusura. [...] Il nuovo, anche nei suoi aspetti più scandalosi, è stato posto sullo sfondo informante e nella struttura della tradizione.

(552)
Non vi è dubbio che i modelli di discorso strutturato, le abitudini di lettura, il patrimonio fondamentale della grammaticalità sono oggi sotto pressione. Leggiamo poco cose [...] antiche o impegnative; sappiamo meno cose a memoria. Ma sebbene le brecce causate dal populismo e dalla tecnocrazia nella coesione culturale siano state drastiche, il grado e la profondità di penetrazione del fenomeno sono assai difficili da stabilire. Le conquiste apparenti della barbarie che minaccia di volgarizzare le nostre scuole, che abbassa il livello del nostro discorso politico, che svaluta la parola umana, sono così stridenti da render quasi inavvertibili le correnti più profonde. Può darsi che le tradizioni culturali siano ancorate nella nostra sintassi più saldamente di quanto noi pensiamo [...].

(556)
Sarebbe ironico se la risposta a Babele fosse il pidgin e non la Pentecoste.

(559)
Credo che la comunicazione delle informazioni, di ‘fatti’ manifesti e verificabili, costituisca una parte soltanto, e forse secondaria, del discorso umano. I potenziali di finzione, di controfattualità, di futurità indecidibile caratterizzano profondamente tanto le origini quanto la natura del linguaggio. Lo differenziano ontologicamente dai molti sistemi segnici di cui dispone il mondo animale. […] Tramite il linguaggio, tanta parte del quale si rivolge verso l’interno, al nostro io privato, noi rifiutiamo l’inevitabilità empirica del mondo.

(559)
Muoversi tra le lingue, tradurre, sia pure in modo limitato, parziale, significa percepire la propensione quasi vertiginosa dello spirito umano verso la libertà. Se ci trovassimo tutti all’interno di un’unica ‘pelle linguistica’ o con pochissime lingue a disposizione, l’inevitabilità del nostro assoggettamento organico alla morte risulterebbe forse più opprimente di quanto già non sia.

(561)
Ma la Cabala conosce anche una possibilità più esoterica. Registra l’ipotesi, senza dubbio eretica, secondo cui verrà un giorno in cui la traduzione non sarà soltanto inutile ma inconcepibile. Le parole si ribelleranno all’uomo. Si scrolleranno di dosso la servitù del significato. Diventeranno «solo se stesse, e come pietre inanimate nella nostra bocca». In entrambi i casi, uomini e donne saranno liberati per sempre dal fardello e dallo splendore del crollo di Babele. Ma quale, ci si domanda, sarà il silenzio più grande? ◊


George Steiner (23 aprile 1929), Dopo Babele, Ruggero Bianchi e Claude Béguin (trad. it), Torino 1992, Garzanti Editore

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