Le parole possono essere come minime dosi di arsenico: ingerite senza saperlo sembrano non avere alcun effetto, ma dopo qualche tempo ecco rivelarsi l’effetto tossico. Se per un tempo sufficientemente lungo al posto di eroico e virtuoso si dice “fanatico”, alla fine si crederà veramente che un fanatico sia un eroe pieno di virtù e che non possa esserci eroe senza fanatismo.
Victor Klemperer, "LTI: la lingua del terzo reich. Taccuino di un filologo", Casa editrice Giuntina 2008
Non posso fare a meno di ripensare alla traversata che venticinque anni fa facemmo da Bornholm a Copenaghen. Durante la notte avevano infuriato tempesta e mal di mare; ora, giunti in prossimità della costa, calmatosi il mare, stavamo seduti in coperta sotto il bel sole del mattino, pregustando la imminente colazione. Ed ecco che, all'estremità della lunga panchina dove sedevamo, una ragazzina si alzò, corse al parapetto e iniziò a vomitare. Un attimo dopo si alzò la mamma, che era seduta accanto, e fece altrettanto. Le imitò subito dopo un signore, poi un ragazzo e poi… il movimento si propagò con regolarità e rapidità per la panchina, senza escludere nessuno. Noi, seduti all'altro capo, eravamo ancora lontani, stavamo a guardare con interesse, qualcuno rideva o faceva sorrisini ironici. Poi toccò ai più vicini e allora le risa cessarono e anche fra noi ci fu la corsa al parapetto. Io osservavo attentamente lo spettacolo e le mie reazioni. Mi dicevo che in fondo esiste un modo oggettivo di osservare, di cui ero esperto, che esiste anche una volontà ferma e continuai a pregustare la colazione – e intanto era venuto il mio turno e dovetti correre al parapetto come tutti gli altri.
Victor Klemperer, LTI – La lingua del Terzo Reich
Victor Klemperer. LTI – La lingua del Terzo Reich. Taccuino di un filologo.
Victor Klemperer, "LTI: la lingua del terzo reich. Taccuino di un filologo", Casa editrice Giuntina 2008
Non posso fare a meno di ripensare alla traversata che venticinque anni fa facemmo da Bornholm a Copenaghen. Durante la notte avevano infuriato tempesta e mal di mare; ora, giunti in prossimità della costa, calmatosi il mare, stavamo seduti in coperta sotto il bel sole del mattino, pregustando la imminente colazione. Ed ecco che, all'estremità della lunga panchina dove sedevamo, una ragazzina si alzò, corse al parapetto e iniziò a vomitare. Un attimo dopo si alzò la mamma, che era seduta accanto, e fece altrettanto. Le imitò subito dopo un signore, poi un ragazzo e poi… il movimento si propagò con regolarità e rapidità per la panchina, senza escludere nessuno. Noi, seduti all'altro capo, eravamo ancora lontani, stavamo a guardare con interesse, qualcuno rideva o faceva sorrisini ironici. Poi toccò ai più vicini e allora le risa cessarono e anche fra noi ci fu la corsa al parapetto. Io osservavo attentamente lo spettacolo e le mie reazioni. Mi dicevo che in fondo esiste un modo oggettivo di osservare, di cui ero esperto, che esiste anche una volontà ferma e continuai a pregustare la colazione – e intanto era venuto il mio turno e dovetti correre al parapetto come tutti gli altri.
Victor Klemperer, LTI – La lingua del Terzo Reich
Victor Klemperer. LTI – La lingua del Terzo Reich. Taccuino di un filologo.
Traduzione di Paola Buscaglione Candela, Giuntina 2011. [...]
LTI è un acronimo. Sta per Lingua Tertii Imperii, lingua del Terzo Reich.
Il libro parla della lingua in uso durante i dodici anni di potere nazista in Germania, o per meglio dire, non solo in uso, ma quella lingua, tedesca, ovviamente, anzi il comune tedesco che altro non era, ma quella particolare scelta di termini ed espressioni e, per contro, la particolare cancellatura di altri termini ed espressioni e il particolare stravolgimento di senso o degenerazione di quel termine e quell’altro, che ha definito il modo di comunicare ed esprimersi del regime, della propaganda, dei politici, dei militanti, dei sostenitori fanatici del nazismo (ricordatevi del termine “fanatico” che ho appena infilato dentro), ma anche della gente comune, quella che in situazioni di crisi cerca di ripararsi o di rimanere faticosamente in equilibrio, delle persone che non si appassionavano troppo alla retorica nazista, e perfino degli oppositori politici, fino ad arrivare – e qui sta la grandezza insuperabile di LTI e di Victor Klemperer e il motivo che rende la lettura di questo libro imprescindibile, assolutamente necessaria e urgentissima – fino ad arrivare agli stessi ebrei, perseguitati, umiliati, deportati, trucidati e sterminati barbaramente.
Tutti, con gradi diversi, certo, con enfasi differente, ovviamente, e con fini addirittura opposti, ma tutti accomunati dalla Lingua Tertii Imperii, l’idioma che ha definito una tragica linea di continuità e di contiguità tra massacrati e massacratori, ariani ed ebrei, nazisti e comunisti, democratici e imperialisti, grandi borghesi e proletari, imprenditori e operai, uomini, donne, giornalisti, gente della strada e professori universitari, ignoranti e istruiti, ha accomunato ogni classe sociale, culturale, politica, indistintamente, la società tutta, longitudinalmente e latitudinalmente, ne è stata intrisa, se ne è imbevuta e ha parlato usando lo stesso idioma nazista.
È sconvolgente quello che testimonia Klemperer in un modo quasi freddo, distaccato, da dissezionatore o da cronista neutrale. Non testimonia orrori fisici, cita anche quelli, certo, ne era circondato e minacciato quotidianamente, ma restano sullo sfondo di LTI; al centro c’è la lingua, il parlato, lo strumento utilizzato per comunicare in Germania. È sconvolgente per l’inevitabilità che dimostra sussistere e per la forza di penetrazione inarrestabile, come un fluido colato dall’alto che percola nel terreno sabbioso, aprendosi i primi rivoli inizialmente, bagnando solo alcune sacche superficiali, poi lentamente scendendo e improvvisamente iniziando a correre negli strati profondi come una reazione a catena, inondando e contaminando l’intero terreno. È sconvolgente perché in LTI appare con tutta la sua forza incontenibile la potenza della lingua parlata quotidianamente, il suo potere rivoluzionario e tossico, la capacità di insidiare i pensieri e l’anima delle persone. Klemperer mostra, senza dirlo, che l’idea dell’anima o della coscienza chiusa nello scrigno privato di ogni uomo è un’illusione. Non esiste alcuno scrigno privato, tutto è permeabile e raggiungibile dalla lingua. La lingua che si parla è il mezzo e il senso del nostro comunicare al mondo e del comunicare del mondo a noi. È ciò che ci entra dentro, inevitabilmente ci permea, ci plasma e ci orienta, impercettibilmente, senza posa, senza che si possa opporre alcuna difesa che non sia ascoltarsi, riconoscere il particolare idioma che si sta usando e avvertire lo sconvolgimento che deriva dal vedersi un pupazzo che ruota a seconda di dove tira il vento delle parole.
Bisogna farsi filologi di se stessi, in breve. Filologi dilettanti, va bene, l’importante è ascoltare e ascoltarsi, come cronisti imparziali.
[...] È un testo biografico nel senso che Klemperer parla di sé e riporta le proprie esperienze.
[...] Infine è anche l’opera di un filologo professionista, Professore Ordinario di Filologia Romanza e inevitabilmente la sensibilità dello studioso si riverbera nel testo.
[...] un taccuino nel quale le osservazioni, le particolari osservazioni di un filologo, tedesco ed ebreo – e Klemperer in tutto il libro rivendica più il suo essere tedesco, culturalmente, sentimentalmente e biologicamente, che il suo essere ebreo, non essendo mai stato religioso praticante né simpatizzante sionista -, si sono raccolte durante i dodici anni più terribili che la storia umana recente ricordi, raccolte da Klemperer come unico e totalizzante sforzo di dignità quando ogni altra dignità gli veniva tolta e la sua propria vita era incerta, bastava un nulla e sarebbe terminata.
Klemperer ha vissuto un’esperienza rarissima, unica forse.
Ebreo tedesco, non venne deportato perché sposato a una donna tedesca – rimasta sempre al suo fianco, condizione indispensabile che gli salvò la vita – e questo fino all’ultimo lo protesse da Auschwitz. Ma non solo, visse tutto il periodo nazista a Dresda, e quindi ne fu testimone senza interruzioni, fino al 13 febbraio 1945. Quella mattina venne emesso l’ordine di evacuare anche gli ultimi ebrei rimasti, ovvero quelli sposati a donne tedesche. Erano poche decine ed “evacuare” significava deportare ad Auschwitz. Non fu deportato perché avvenne l’inimmaginabile.
La stessa sera la RAF britannica e l’aviazione statunitense rasero al suolo il centro storico di Dresda in uno dei bombardamenti a tappeto più devastanti della seconda guerra mondiale, passato alla storia come una delle stragi di civili più brutali mai avvenute. Klemperer e la moglie si salvarono e fuggirono verso il sud della Germania facendosi passare per tedeschi. Ce la fecero e nel 1947 Klemperer, tornato a Dresda, ottenuta nuovamente la cattedra di Filologia Romanza all’università e sostenitore del Patto di Varsavia diede alle stampe LTI.
[...] Molti libri scritti sulle vicende occorse durante la dominazione nazista sono sconvolgenti.
Il Diario di Anne Frank è toccante, i libri di Primo Levi sono capolavori e sconvolgono per le atrocità che descrive, Autunno Tedesco, il resoconto giornalistico di Stig Dagerman tra le macerie e i superstiti del bombardamento di Amburgo è forse il più grande reportage di guerra mai scritto e sconvolge per l’orrore senza confini che Dagerman prova e ribalta sulle pagine. [...]
LTI è diverso. LTI racconta cosa avvenne alla lingua parlata durante il Terzo Reich.
Questa è la testimonianza. Sconvolgente? No, se la paragoniamo ai racconti delle stragi e dell’odio e delle violenze. Ma non basta. Ora c’è la differenza. LTI non è un monito affinché non si produca una nuova Lingua Tertii Imperii. No. LTI continua a essere una testimonianza. Trasla. Si muove, si adatta, si rigenera, rinasce, si colora, si ibrida, si sdoppia, si ammoderna, si riproduce.
La Lingua Tertii Imperii si riproduce.
Continuamente.
Senza sosta.
Non è mai terminata, non è mai morta, non è mai stata sconfitta, non è mai stata messa al bando.
Mai.
LTI, il libro, continua anche oggi a essere una testimonianza, non un monito.
Non si tratta della possibilità che una Lingua Tertii Imperii possa essere nuovamente adottata.
La Lingua Tertii Imperii già la parliamo, tutti, ne parliamo diverse, le abbiamo sempre parlate, abbiamo continuato sempre a parlarle, noi italiani, i tedeschi, gli inglesi, gli americani, i giapponesi, i russi, i ricchi, i poveri, i tecnologici, i cafoni, quelli del nord e quelli del sud, i politici, i pubblicitari, i giornalisti e gli scrittori, gli sportivi, gli stilisti di moda e i professori universitari. Tutti.
Tutti.
Tutti siamo come quei nazisti o quegli ebrei o quegli indifferenti che parlavano la LTI che Klemperer ascoltava e annotava.
Lo siamo ora, ieri lo eravamo e lo saremo domani e lo sono i nostri genitori e i nostri amici e i nostri figli.
Abbiamo la LTI manageriale, quella tecnologica, quella di moda, quella delle donne, quella degli uomini, la LTI giornalistica, la LTI religiosa, la LTI accademica, la LTI neoliberista e la LTI progressista, la LTI sportiva e quante altre ancora.
Si è riprodotta in decine, centinaia di LTI per le quali si potrebbe scrivere un Taccuino di un filologo e fare le stesse osservazioni che Klemperer fece.
Per questo LTI è sconvolgente, emotivamente e intellettualmente.
Perché siamo indifesi. Perché Klemperer col suo taccuino ha redatto la storia della indifendibile fragilità dell’uomo davanti alla potenza insinuante della lingua.
LTI ha un’epigrafe che recita:
La lingua è più del sangue
Franz Rosenzweig
Klemperer spiega come e perché ha scelto proprio quella frase.
Perché si è reso conto che LTI metteva in luce una verità inconfessabile, antistorica e repellente, che non distingue più tra buoni e cattivi, persecutori e perseguitati, ariani ed ebrei, ma appiattisce tutti sotto al vento della lingua, manipolata, falsificata, distorta, abusata, intossicata da un’ideologia folle, ma lo stesso capace di penetrare nell’anima di chiunque.
Vorrei andare avanti pagine e pagine a parlare di LTI e commentare quasi riga per riga il testo; che non è di facile lettura per la presenza, ovvia, di molte parole in tedesco e molti riferimenti, quindi richiede pazienza, un po’ di sforzo, e di non fermarsi se qualcosa sfugge. Non sono i dettagli a essere importanti. Non è lo stravolgimento particolare che il fascismo prima (da notare la differenza che Klemperer traccia tra fascismo e nazismo, da lui mai accomunati per via della centralità ideologia che ebbe la questione razziale nel nazismo ma che fu assente nel fascismo, un’affermazione che se fatta oggi attira spesso polemiche sterili e strumentali) e il nazismo poi fecero di una o l’altra parola.
Mi fermo e chiudo con un brano dal primo capitolo:
Qual era il mezzo di propaganda più efficace del sistema hitleriano?
Erano i monologhi di Hitler e di Goebbels, le loro esternazioni su questo o quell’oggetto, le loro istigazioni contro l’ebraismo e il bolscevismo?
Certamente no, perché molto non veniva compreso dalle masse, annoiate d’altra parte dalle eterne ripetizioni. Quante volte, finché potevo frequentare le trattorie (non portavo ancora la stella) e più tardi in fabbrica durante la sorveglianza antiaerea, quando gli ariani e gli ebrei stavano in locali separati e in quello ariano c’era la radio (oltre al riscaldamento e al cibo), quante volte ho sentito sbattere sul tavolo le carte da gioco e chiacchierare ad alta voce sul razionamento del tabacco o della carne oppure su qualche film durante i prolissi discorsi del Führer o di uno dei suoi paladini; però il giorno dopo i giornali affermavano che il popolo intero aveva prestato ascolto.
No, l’effetto maggiore non era provocato dai discorsi e neppure da articoli, volantini, manifesti e bandiere, da nulla che potesse essere percepito da un pensiero o da un sentimento consapevoli. Invece il nazismo si insinuava nella carne e nel sangue della folla attraverso le singole parole, le locuzioni, la forma delle frasi ripetute milioni di volte, imposte a forza alla massa e da questa accettate meccanicamente e inconsciamente.
Di solito si attribuisce un significato puramente estetico e per così dire “innocuo” al distico di Schiller: “La lingua colta che crea e pensa per te”.
Un verso riuscito in una “lingua colta” non è una prova sufficiente della capacità poetica del suo autore; non è poi tanto difficile, usando una lingua estremamente colta, atteggiarsi a poeta e pensatore.
Ma la lingua non si limita a creare e pensare per me, dirige anche il mio sentire, indirizza tutto il mio essere spirituale quanto più naturalmente, più inconsciamente mi abbandono a lei.
E se la lingua colta è formata di elementi tossici o è stata resa portatrice di tali elementi?
Le parole possono essere come minime dosi di arsenico:
ingerite senza saperlo sembrano non avere alcun effetto, ma dopo qualche tempo ecco rivelarsi l’effetto tossico. Se per un tempo sufficientemente lungo al posto di eroico e virtuoso si dice “fanatico”, alla fine si crederà veramente che un fanatico sia un eroe pieno di virtù e che non possa esserci eroe senza fanatismo.
I termini fanatico e fanatismo non sono un’invenzione del Terzo Reich, che ne ha solo modificato il valore e li ha usati in un solo giorno con più frequenza di quanto non abbiano fatto altre epoche nel corso degli anni. Il Terzo Reich ha coniato pochissimi termini nuovi, forse verosimilmente addirittura nessuno. La lingua nazista in molti casi si rifà a una lingua straniera, per il resto quasi sempre al tedesco prehitleriano; però muta il valore delle parole e la loro frequenza, trasforma in patrimonio comune ciò che prima apparteneva a un singolo o a un gruppuscolo, requisisce per il partito ciò che era patrimonio comune e in complesso impregna del suo veleno parole, gruppi di parole e struttura delle frasi, asservisce la lingua al suo spaventoso sistema, strappa alla lingua il suo mezzo di propaganda più efficace, più pubblico e più segreto.
Quanti tragici e infiniti echi che queste parole producono pensando alle molte LTI che usiamo, che ci definiscono e che modellano la nostra società, la nostra Storia e il nostro tempo. La grandezza di LTI è ancora tutta da scoprire.
http://www.giuntina.it/ElencoRecensioni/LTI_85/LTI_902.html
[...] L’identificazione tra potere personale ed istituzioni, ormai ridotte ad una larva, il dominio del lessico militare e tecnicistico, l’uso di gadget propagandistici, il potere del linguaggio dello sport, le abilità manipolatorie del linguaggio pubblico sono alcuni degli elementi che rendono la lingua una sorta di “arsenico ingerito” giorno dopo giorno in un processo sistematico fatto di elementi consapevoli ed inconsapevoli.
“Veleno sciolto nell’acqua” che resta presente anche dopo la caduta del nazismo.
[...] Le prime tre parole del nazismo, che entrano nella quotidiana pratica linguistica, sono per Klemperer “spedizione punitiva”, atto di stato (Staatsakt) ed allestire, organizzare, “mettere su alla grande” (aufziehen).
Esse esprimono il disprezzo per il diverso, la volontà di annientare col supporto della forza ogni opposizione e di mostrare a tutti la propria grandezza. L’uso ossessivo dell’aggettivo “storico” ne sarebbe la prova così come l’esigenza di mettere il Capo a diretto contatto col popolo.
Hitler deve parlare in maniera “popolaresca”, deve sedurre parlando alla pancia dei tedeschi, usando toni antitetici con bruschi salti tra il dotto ed il volgare, il tono piano e quello predicatorio, il pathos profetico e la facezia; preferendo un lessico popolare e sentimentale alternato all’uso intimidatorio di parole straniere. Ma non basta.
La LTI cambia i connotati delle parole.
Emblematica la vicenda della parola “fanatico”.
Viene da fanum, luogo sacro ed esprime una condizione spasmodica di estasi, rapimento religioso.
Ha sempre avuto un connotato negativo e la lingua tedesca non ha un corrispettivo per “Fanatismus”, fanatisch è intraducibile. Eppure con il nazismo acquisisce un valore positivo (le truppe combattono fanaticamente in Normandia) e diventa una virtù, contro parte dell’inutile razionalismo.
Davvero attuale. Come l’uso delle “virgolette ironiche” per delegittimare ogni avversario, per svalutare, insinuare dubbi; come la sostituzione della quantità alla qualità (p. 258) usando i superlativi per ingannare. La parola “Sistema” apparteneva all’odiata Repubblica di Weimer, il nazismo preferisce Weltanschauung, che afferra la realtà come visione organizzata, «carpendo all’organico i suoi segreti».
Le teorie del complotto planetario, l’esasperazione del fideismo nei poteri del Capo visto come “Salvatore tedesco” (Unto del Signore?) anche dinnanzi al disastro finale; l’introduzione di parole tratte dal mondo della tecnica come “materiale umano” che fanno diventare i prigionieri dei “pezzi”, “Stüke”; preferire termini come “liquidiert”, liquidati; non più “persone” (Leute), ma “uomini” (Männer) per poter richiedere ubbidienza cieca; l’uso dominante di parole come gleichschalten (sincronizzare, livellare, uniformare) sono tutti elementi che confermano l’idea della reificazione delle persone (cfr. p. 183) che Klemperer denuncia e documenta con chirurgica precisione.
Così non diceva “arrestato”, ma “in viaggio” visto che quel che contava era “portare via senza dare nell’occhio”.
Il nazismo è poi attivismo, movimento che governa le leggi dell’azione, sempre pronto alla partenze (Aufbruch) con impeto ed assalto (Sturm) tanto che la sconfitta diventa un “regresso”, una “crisi”, la guerra di trincea una “guerra di movimento difensivo” e non fugge, ma ci si “allontana”, la catastrofe finale una “crisi padroneggiata”. Ed infine, le metafore dello sport (p. 278) per parlare un linguaggio (“scatto finale”, “restare in piedi sul ring”, “combattere nell’area di rigore avversaria”) che il popolo capisca come ben sapeva fare Goebbels. Dentro la manipolazione c’è tanto da imparare per leggere anche i nostri giorni e tenerci in guardia da coloro che anestetizzano le menti.
http://magazine.giuntina.it/2012/07/30/La-memoria-della-lingua.html
Il nome, assegnato da Klemperer per designare la lingua del III Reich, LTI, un acronimo del latino Lingua Tertii Imperii, coglie con ironia un tratto saliente della lingua del Reich, ma, diremmo, di tutte le lingue totalitarie, quale ad esempio quella fascista e, in particolare della neolingua di Orwell.
Quella delle abbreviazioni e degli acronimi è una tendenza del resto molto antica, con padri nobili. Basta pensare, e lo ricorda lo stesso Klemperer, a Ichtys (pesce in greco) che ancora oggi troviamo tracciato nelle catacombe cristiane e che sta a indicare le iniziali di Gesù figlio di Dio Salvatore.
Oppure alla brachigrafia medievale come modalità diffusa di scrittura del latino .
Del resto oggi assistiamo all’esplosioni degli acronimi e delle abbreviazioni nel commercio, nell’industria, nella politica ecc.
Ogni dizionario che si rispetti ha una sua appendice che li contiene.
E sono già stati pubblicati dizionari di sole abbreviazioni.
La mania del regime nazista di esagerare con le sigle era stata in qualche modo assorbita e metabolizzata a livello popolare. Ed erano entrate a far parte dell’intercalare di ogni giorno.
Così si poteva sentire per le strade di Berlino o di Dresda,
KNIF che stava per Kommt nicht in Frage (nemmeno per idea).
Oppure KAKFIT!, che stava per Kommt auf keinen Fall in Frage (ma nemmeno per sogno!).
C’era pure chi non rinunciava alla tentazione di rifare il verso a quest’abitudine,
e coniava sigle quali POPO, con doppio senso comprensibile anche in italiano, che stava per Penne ohne Pause oben (dormi senza interruzione sopra).
Era un modo scherzoso di augurarsi la buona notte con riferimento alle notti passate nelle cantine e nei rifugi durante i bombardamenti. Ma anche, forse, un modo per esprimere una larvata protesta, ritenuta forse l’unica possibile. Del resto anche durante il fascismo, in mancanza di una stampa di opposizione fiorivano le barzellette sul regime.
Al di là dell’effimera ironia, c’era ben poco da scherzare.
Le prime misure prese dal regime furono di impedire agli ebrei di parlare, di leggere di comunicare con gli ariani.
La bacheca dell’istituto universitario di Dresda, in cui Klemplerer insegnava, recava quest’annuncio: “Quando l’ebreo scrive in tedesco, mente […]
In futuro se vorrà pubblicare libri in questa lingua
dovrà designarli come traduzioni dall’ebraico ”.
Qualsiasi documento di un ebreo,
veniva bollato con il neologismo di Gruelpropaganda
(propaganda a base di atrocità).
Gli ebrei non potevano comprare o possedere giornali o libri, se non di autori ebrei.
Non potevano andare al cinema, né tenere in casa una radio.
Un ebreo poteva solo tendere l’orecchio ed ascoltare il discorsi dagli altoparlanti della radio installati in fabbrica o per strada. Ma, cosa ben più grave, non erano nemmeno padroni del loro nome. Chi non aveva un nome inconfondibilmente ebraico era obbligato ad aggiungere al proprio nome Israel, se maschio, e Sara se femmina. Nomi che venivano scritti sul documento di identità, dove, in precedenza, era stata stampigliata una grande J, iniziale di Jude. Il nome, così, è proprio il caso di dirlo, imposto, non si doveva mai ometterlo quando si firmava un documento e doveva essere ben indicato nella corrispondenza postale.
Viceversa, per gli ariani erano vietati i nomi dell’Antico testamento:
“Nessuna bambina [ariana] può chiamarsi Lea o Sara”.
Non solo i nomi delle persone, ma anche quelli delle strade e delle città dovevano essere epurati e germanizzati, ad imitazione di quanto già intrapreso dal regime fascista italiano che aveva cambiato e latinizzato i nomi di alcune città.
L’accanimento si esercitò non solo contro i nomi propri, ma anche contro i nomi comuni.
Un ebreo che svolgeva una professione, non poteva più continuare a svolgerla se non rivolta ad altri ebrei. In tal caso avrebbe comunque dovuto cambiare il nome comune della sua professione.
Ad esempio, i medici e gli avvocati che potevano esercitare solo per gli ebrei si chiamavano rispettivamente Krankenbehandler (curatore di malati) e Rechtskonsulenten (consulente giuridico).
I rapporti sessuali tra ebrei e ariani erano chiamati Rassenschande (disonore della razza).
Non era ammesso il matrimonio tra ebrei e ariani, e, se un’ariana, già sposata, non voleva separarsi dal marito, come nel caso della moglie di Klemperer, era una “puttana degli ebrei”.
Più in generale era stata fissata una tassonomia, stabilita dalle leggi di Norimberga del 1938 sulla base della percentuali di “sangue ariano” posseduto:
si andava dagli ebrei totali (Volljuden),
agli ebrei per metà (Halbjuden),
i misti di primo e di secondo grado (Mischlinge),
i discendenti di ebrei (Judenstämmlinge)
e, infine, i privilegiati, quelli che avevano contratto un matrimonio misto (prominentern). Quest’ultima fu un’invenzione “di diabolica malvagità” che fece nascere tra gli ebrei stessi “le inimicizie più velenose”.
Si poteva stare sul tram solo sulla piattaforma posteriore, si doveva portare la stella gialla a sei punte cucita sulla giacca. Il giorno più difficile per gli ebrei fu proprio, secondo Klemperer quel 19 settembre del 1941, in cui fu imposto quest’obbligo. Insomma “ogni ebreo con la stella portava con sé il proprio ghetto, come la chiocciola la sua casa”.
E neanche nella casa, quella vera, c’era requie. Sulla targhetta fuori della porta doveva esserci una stella. Se la moglie non era ebrea, “la targhetta con il nome di lei doveva essere separata e recare l’indicazione “ariana”.
In generale la lingua del nazismo, era di un’estrema povertà.
“Era come se avesse fatto un voto di povertà”.
Nacque come lingua del Mein Kampf.
Poi s’impossessò dell’esercito o meglio, tra queste due lingue, vi fu un’interazione, una reciproca contaminazione, in tempi successivi.
In un primo tempo fu la lingua dell’esercito a influenzare la lingua del nazismo, per poi, a sua volta essere influenzata da quest’ultima. Ma, così povera, forse proprio perché così povera, si diffuse presto in tutta la società e influenzò diversi strati sociali e culturali, in fabbrica, per strada, nelle scuole, non esclusi gli ebrei stessi.
Insomma quella che era una lingua di un gruppo, divenne una lingua di popolo.
Era una lingua che non faceva distinzione tra scritto e parlato.
Forse perché i suoi stereotipi, i discorsi politici erano a metà strada tra queste due forme.
I mezzi di propaganda più efficaci, e quindi con maggiore capacità di penetrazione anche nella lingua, erano i monologhi di Hitler e Goebbels.
La procedura di somministrazione dei discorsi era molto banale e ripetitiva.
“Ogni venerdì sera, veniva letto a Radio Berlino un articolo di Goebbels,
lo stesso che sarebbe stato pubblicato su “Il Reich” il giorno successivo.
Per tutta la settimana, i temi trattati dell’articolo sarebbero stati, con la loro impronta ideologica, quelli più discussi su tutti gli altri giornali. In definitiva, Goebbels, dato che rispetto a Hitler aveva il vantaggio della maggior chiarezza e della maggiore frequenza d’apparizione, “era il solo a determinare quale fosse la lingua consentita”.
Di monologhi si trattava. Non di dialogo.
Il contraddittorio non esisteva nemmeno in chiave retorica.
Non solo, ma, venivano prima scritti, per poi essere recitati.
Quindi venivano sì prima scritti, ma già pensati per quando sarebbero stati letti, con le pause, le accentuazioni di tono, le prosodie ecc. Erano insomma degli ibridi.
L’effetto maggiore non era però provocato dal contenuto dei discorsi, ma dal tono, dalle forme delle parole ripetute innumerevoli volte, imposte alle masse e ”quasi accettate inconsciamente”.
Questi articoli erano, in fondo l’occupazione più importante per Goebbels.
Persona di buona cultura, laureato in Filosofia ad Heidelberg nel 1921,
con aspirazioni di scrittore e drammaturgo, fino ad allora frustrate,
poteva finalmente dare libero sfogo alla sua fantasia.
Pensava e ripensava alle sue battute e alle sue espressioni che preparava con cura.
Aveva successo e popolarità. E se ne compiaceva.
Era una lingua, la sua, che parlava direttamente alle masse, al popolo.
Sul modello di Rousseau e delle grandi assemblee della Rivoluzione Russa.
Ma era la prima volta che veniva fatto un uso politico della radio e delle grandi scenografie.
Per certi versi era preso a modello Mussolini.
Ma quest’ultimo “pareva tuttavia nuotare nella corrente sonora della sua lingua madre”
[…] Invece Hitler, anche quando adottava il registro della lusinga e del sarcasmo – i due registri che di preferenza alternava – parlava, meglio gridava, sempre in maniera spasmodica”.
Era una lingua “elettrica”. Perfino i caratteri tipografici sembravano percorsi dall’elettricità.
Nelle tastiere delle macchine da scrivere, fu introdotto un tasto per la S di SS, derivato dal segnale dell’alta tensione, il cosiddetto Zackig, preso dal gergo militare (da cui: fulmine di guerra).
E, dopo un periodo di gran libertà d’espressione e di stampa, di cui lo stesso movimento nazista si era avvantaggiato, d’ora in poi, con in nazismo al potere, veniva imposto l’obbligo del nulla osta di pubblicazione da parte del partito nazista (NSDAP, Nationalsozialistische Deutsche Arbeitpartei).
La lingua ammessa, l’unica che si poteva pubblicare, era la lingua nazista, una lingua povera, anzi misera. Era una lingua mutilata. Non solo ognuno era obbligato a seguire lo stesso modello, ma con questa lingua si “poteva esprimere solo un lato della natura umana”.
Le altre lingue, infatti, consentono di manifestare tutte le esigenze e gli atteggiamenti umani.
Possono fare appello alla ragione, o al sentimento.
Possono essere una semplice comunicazione, una domanda, una preghiera, lamento ecc.
La lingua del nazismo si prestava solo al comando e all’esecrazione.
Era molto semplice, Con molte ripetizioni.
Aveva una forte impronta conativa.
Si appellava alla volontà, ma, non alla volontà del singolo individuo.
Faceva di tutto per “privare il singolo della sua natura d’individuo”,
“anestetizzare la sua volontà” e “renderlo un elemento del gregge, senza pensiero e senza volontà” . Era una lingua della fede cieca, con chiare reminiscenze dal vangelo.
Si credeva in LUI. Il registro dominante era quello religioso.
Il tono e l’enfasi era quello tipico delle prediche. Il Reich, era “eterno”.
Hitler era il Salvatore che agiva secondo la volontà dell’Onnipotente, guidato dalla Provvidenza.
I caduti del Reich erano apostoli, che una volta morti sarebbero risorti.
Il Mein Kampf era la Bibbia.
La Fede cristiana si confondeva con quella in Hitler:
anche in chiesa, nella preghiera più comune (il Padre nostro)
la frase “venga il tuo regno (Reich)
”evocava un III Reich celeste (Himmelreich).
Le immense adunate avevano un carattere mistico,
vale a dire di un rapporto diretto con il Divino.
Spesso si concludevano con un “Amen” .
Insomma la LTI era la lingua del fanatismo di massa.
2) Lessico della lingua del Terzo Reich
La lingua nazista, è stato detto, era povera. Sembrava aver fatto voto di povertà.
[...] Abbiamo visto che il lessico è povero. Ma di una cosa è ricco: di virgolette.
Con queste sottolineature ironiche si vuole negare la parola dell’altro, e, in particolare, svuotare e devitalizzare il senso delle parole stesse.
Per esempio Einstein non è uno scienziato, ma uno «scienziato».
Churchill e Roosevelt non sono due statisti, ma due «statisti».
Le vittorie dei rivoluzionari spagnoli sono «vittorie rosse» ecc ecc .
In questi casi le virgolette servono per imporre il criterio ortodosso di lettura.
Il lettore o l’ascoltatore non deve poter decidere liberamente sullo spessore semantico della parola.
Le virgolette vengono giustapposte o meno a seconda che il significato della parola debba essere preso per buono, oppure no. Sono come dei segni diacritici che impedendo una lettura soggettiva e individuale forzano il lettore nel senso dell’interpretazione imposta dal Partito.
Ci sono alcune parole che senza le virgolette non possono comparire.
Sono quelle, per le quali, appunto, le virgolette sono d’obbligo e non dipendono dal contesto.
Sono quelle parole, il cui significato originario è stato espulso dal lessico.
In questo modo, si vuole espellere il concetto che ad esse si accompagna.
Si tratta di concetti e di parole quali la democrazia o l’umanità.
Parole, queste, che non vengono mai lasciate circolare liberamente,
ma, sempre, con i ceppi delle virgolette.
Molto spesso, addirittura accompagnate, per sovrappiù, da uno o più epiteti, come per esempio quando veniva scritto: “venefica umanità ebraica”. Stessa sorte per le parole “intelligenza” e “obbiettività”. Un altro termine da cancellare e da stravolgere, attraverso l’uso ossessivo delle virgolette, è “sistema”, parola squalificata in quanto, già utilizzata per designare la Repubblica di Weimar, dai nazisti considerata la peggiore forma di governo.
Ma nemmeno la parola “filosofia” è amata dal III Reich, e raramente circola senza virgolette, nonostante il Partito Nazionalsocialista pretendesse di avere una propria filosofia e potesse contare su un filosofo ufficialmente riconosciuto, quale Alfred Rosenberg.
Così il termine “filosofia“ insieme alla filosofia stessa, in quanto tale, va in disuso e viene accantonato. Al suo posto un surrogato: Weltanschauung.
Anschauen vuol dire: guardare con attenzione, contemplare con riferimento a un oggetto.
Anschauen non riguarda mai il pensiero razionale.
Infatti chi pensa compie un’astrazione, e distoglie i sensi dall’oggetto.
Ma non riguarda nemmeno semplicemente un vedere con l’occhio, in quanto organo visivo.
Piuttosto significa un vedere che va oltre il lato materiale ed esteriore, ma che riesce a cogliere l’anima di ciò che vede. Secondo Klemperer, Weltanschauung, parola già usata prima del nazismo, trasformata in surrogato di filosofia perde “il suo aspetto domenicale, divenendo parola che rimanda al quotidiano, al professionale ”. Uno dei suoi componenti “Schau” (punto di vista, visione) diviene una parola di culto per il nazismo, e finisce per ricoprire il significato di parata nazista.
In pratica si verifica un passaggio dal tedesco Schau all’inglese show (esposizione, spettacolo).
Siamo quindi in presenza di un cambio di valore semantico.
Alcune parole vengono del tutto cancellate e non circolano più, nemmeno tra virgolette.
Questo tipo di intervento, che è stato chiamato “logocidio” , ha riguardato:
- Pressefreiheit (libertà di stampa),
- gelbe Gefahr (“pericolo giallo” non più di moda durante l’asse Roma-Berlino-Tokio),
- Völkerbund (Lega delle Nazioni),
- Stalingrad (dopo la sconfitta) .
Ci sono poi i casi di termini il cui valore semantico cambia di segno, da negativo a positivo, o viceversa. E’ il caso di fanatisch (fanatico).
Fanatico, deriva dal latino fanum (il luogo sacro, il tempio).
Fanatico, quindi, fin dall’origine viene ad indicare chi si trova in una condizione di estasi religiosa. Dall’illuminismo in poi, questo termine ha sempre avuto una connotazione negativa.
Anche il corrispondente tedesco (fanatisch) ha avuto eguale sorte.
Sempre è stato caricato di una forte negatività, riferito a persona pericolosa.
Così era prima del terzo Reich.
Lo stesso Hitler nel Mein Kampf (1926), parlava con disprezzo dei “fanatici dell’obbiettività”. In seguito, però, nell’uso comune, l’aggettivo ha finito col perdere anche la più lieve sfumatura negativa. Al punto da venir rispolverato e messo a lucido in occasione solenni, come il compleanno di Hitler, per indicare le “fanatiche professioni di fede”.
Sorte simile ha avuto Aufziehen (allestire, metter su).
Prima del Terzo Reich, questo verbo significava, riferito all’uomo:
far di lui una marionetta, prenderlo in giro.
Oppure sempre in senso peggiorativo, veniva utilizzato, per esempio, da un critico teatrale quando scriveva che un autore aveva “messo su” “costruito” “confezionato” una certa scena solo con mestiere, ma senza poesia.
Fino a quando nel 1933 Goebbels dichiarò che il partito nazionalsocialista aveva messo su [aufgesogen] una gigantesca organizzazione.
Diverso, e opposto, è il caso di Intellekt (intelletto),
che in precedenza carico di un valore semantico positivo,
dopo l’avvento del nazionalsocialismo,
ha finito con l’essere associato a una capacità critica e distruttiva .
C’è poi il caso di quelle parole la cui frequenza d’uso aumenta esponenzialmente, sulla base delle esigenze del partito che le “arruola” e le fa proprie. Tra queste:
- Aktion (azione, operazione),
- Arbeit (lavoro),
- Blitz (lampo),
- Blut (sangue)
- Gesetz (legge, ma dopo uno slittamento semantico, destino),
- Schicksal (fato),
- Volk (popolo, ma con slittamento semantico, comunità fondata sulla razza),
- heroisch (eroico),
- Instinkt (l’istinto che guida l’uomo nordico),
- idealistich (nazista militante),
- Partei (partito).
Così, di pari passo con l’estendersi delle organizzazioni naziste, delle grandiose manifestazioni, e del carattere storico che alle stesse veniva immancabilmente conferito, si moltiplica l’uso di:
- historisch (storico),
- Staatsakt (atto ufficiale, cerimonia),
- organisch (organico).
Frequentissimo ed esteso l’uso di eufemismi.
Tutto ciò che è sgradevole è meglio non nominarlo.
Va lasciato intendere con un termine più rassicurante.
- Oltre al tristemente celebre eufemismo “soluzione finale ”,
- ricordiamo “soccorso volontario” invece di “tassa obbligatoria”,
- “prelevare” (holen) invece di arrestare,
- morto per “insufficienza cardiaca ” invece di assassinato con il gas ad Auschwitz.
Spesso l’eufemismo sconfinava con il falso vero e proprio.
E’ accaduto quando, non si è voluto nominare la parola resa a proposito della battaglia di Stalingrado, e si è addirittura organizzata una cerimonia funebre per la sesta armata e per il feldmaresciallo Von Paulus che avrebbe combattuto “fino all’ultimo respiro”.
Ma che, in realtà, si era arreso ai Russi ed era vivo e in buona salute, anche se in cattività .
Un fenomeno diffuso nella lingua del III Reich era quello della reificazione, cioè dell’uso soprattutto nei riguardi degli ebrei, degli oppositori politici e dei nemici in genere, di parole prese dal lessico degli animali o delle cose materiali.
- I prigionieri non erano persone ma “pezzi” (Stuck),
- un’uccisione di massa di ebrei o zingari era una disinfestazione,
- i partigiani non venivano uccisi, ma “liquidati” o “trucidati”.
- Si parlava anche di Ausradierung (cancellazione) e ausrotten (sterminare),
- Vernichtung (annientamento).
- Gli ebrei uccisi, e accatastati in montagne di cadaveri, non erano “morti”, ma figure (figuren) o stracci (Schnattes).
- Nella categoria della reificazione possiamo far rientrare il termine Untermensch (sottouomo) per designare gli ebrei, evidente derivazione, per analogia, dall’Übermensch di Nietzsche,
così come i termini per designare le professioni di medico e di avvocato esercitate dagli ebrei che erano declassate a Krankenbehandler (curatore di malati) e Rechtskonsulenten (consulente giuridico).
Più in generale per designare gli ebrei erano state adottate una serie di termini che tendevano a negarne l’appartenenza alla specie umana. Ce n’era una gamma intera:
- da artfremd (estraneo alla specie), per chi aveva il 25 per cento di sangue non ariano,
- a Niederrassig (di razza inferiore).
- Le relazioni sessuali con persone di razza non ariana erano denominate Blutschande (incesto).
In verità il processo di reificazione lessicale non investiva solo gli ebrei, ma anche i tedeschi “puri” con la forma della metafora tecnologica che li assimilava a delle macchine perfettamente funzionanti per il regime.
Alcune metafore di questo genere erano presenti già nella Germania di Weimar, ma il loro uso, non ancora generalizzato, si limitava a verankern (ancorare) e ankurben (avviare, mettere in moto).
Con il III Reich la loro applicazione agli uomini è esponenziale:
- eingestellt (orientare)
- gleichschalten (sincronizzare),
- Kraftröme (corrente di energia),
- überholen (revisionare).
Insomma il perfetto tedesco doveva essere “ben orientato”, “guidato”, “sincronizzato” al resto della massa, rispetto agli obbiettivi fissati dal Reich, essere “carico di energia” e, se necessario “revisionato”.
Non mancavano termini nuovi, derivati da eventi bellici, quali
- settembrizzare,
- liegizzare,
- coventrizzare,
che prendevano spunto da date e luoghi di vittorie tedesche e di disfatte del nemico .
Tra i caratteri dominanti della LTI c’era la tendenza ai superlativi, agli eccessi, ai grandi numeri, all’enfasi, alla dismisura.
Nel paragonarlo a Napoleone, che aveva combattuto in Russia con 25 gradi sotto zero, si diceva che Hitler “potrebbe farlo con 45 gradi, anzi con 52” .
Per adornare le strade durante la visita di Stato di Mussolini
c’erano voluti 40.000 metri di stoffa per le bandiere.
Abbondavano gli aggettivi iperbolici come:
eterno, storico, millenario, unico (einmalig, di una sola volta).
“E’ la sostituzione della quantità alla qualità,
un americanismo della peggiore specie”,
annota Klemperer .
Rispetto all’aspetto diacronico della LTI, Klemperer s’interroga,
ma non sa dare una risposta definitiva.
Si limita ad osservare che, con il procedere degli eventi e con la crescente spietatezza,
si abbandonano i termini ironici, come “ebreuccio”, tipici del primo nazismo e del Mein Kampf.
Col tempo anche ai nazisti passa la voglia di ridere.
“La risata cambia smorfia, diventa una maschera
dietro al quale cercano invano di nascondersi un’angoscia mortale e infine la disperazione”.
Ma questa lingua dell’odio non ha intossicato solo i tedeschi.
Anche le vittime designate ne sono state affette.
E assimilando il linguaggio del vincitore, sono state doppiamente vittime.
E’ una constatazione amara, ma che non può essere taciuta.
Ed è forse proprio questo, uno dei peggiori crimini del nazismo.
3) La Lingua del Terzo Reich e la neolingua di Orwell
Non possono sfuggire ad un osservatore attento, le analogie, molte, e le differenze, poche, tra la LTI, così come esposta da Klemperer, e la Neolingua, descritta da Orwell in appendice al suo “1984” .
Una lettura parallela può essere utile al fine di comprendere meglio il tentativo di usare la lingua per annientare il pensiero.
Delle due lingue,
la prima, quella del III Reich, si è storicamente affermata ed imposta ed è stata la lingua d’uso in Germania dal 1933 al 1945.
La seconda, la neolingua, è solo un’invenzione letteraria.
Ma non di pura fantasia si tratta.
Orwell, da sempre attento ai fenomeni sociali ed umani, aveva, negli ultimi anni della sua vita, accentuato l’interesse per gli aspetti degenerativi delle dittature e il loro carattere invasivo e pervasivo per l’intera umanità. E andava descrivendo le possibili conseguenze, in forma di favola-incubo o di romanzo-utopia-in-negativo, ambientato in un futuro, 1984, che oggi è già passato.
Orwell scriveva nel 1948.
Non è il caso, in questa sede, di verificare se, e in quale misura le sue previsioni si siano verificate. Limitiamoci a prendere in esame, in particolare, la Neolingua da lui descritta.
In un paese immaginario di nome Oceania (un’Inghilterra trasfigurata),
viene adottata come lingua ufficiale la Neolingua.
La Neolingua dovrà obbedire alla necessità ideologiche del partito al potere (il Socing).
Da notare che la lingua è imposta come lingua ufficiale, quando ancora “non c’era ancora nessuno che usasse la Neolingua come unico mezzo di comunicazione, sia a voce, sia per iscritto”.
Il fine della Neolingua, non era solo quello di “fornire un mezzo per esprimere le concezione del mondo e per le abitudini mentali” del partito al potere (qui si rivela da subito la tradizionale concezione strumentale del linguaggio), ma soprattutto quello di rendere impossibile ogni altra forma di pensiero (qui, invece, si rivela la consapevolezza che la lingua è matrice del pensiero).
La neolingua avrebbe dovuto sostituire l’Archelingua (la lingua madre preesistente, quella comunemente parlata) nel giro di due generazioni.
Il tempo sufficiente perché, da un lato l’Archelingua venisse definitivamente dimenticata, e nello stesso tempo la neolingua potesse essere impartita fin dalla nascita, e così diventare la madrelingua.
A questo punto, si sottolineava, che un pensiero eretico (e cioè un pensiero in contrasto con i principi del Partito al potere) sarebbe stato letteralmente impensabile , dato che, si ribadiva, il pensiero dipende dalle parole con cui è suscettibile di essere espresso.
Il lessico della neolingua era organizzato in modo che ad ogni significato dovesse corrispondere una e una sola un’espressione con quel significato esatto.
Nello stesso tempo, ad altri significati non desiderati, non doveva corrispondere alcuna parola.
Tutto ciò era ottenuto attraverso la soppressione di parole indesiderabili e l’eliminazione, in ogni singola parola dei significati eterodossi, vale a dire non conformi al pensiero unico del partito al potere.
Per esempio, la parola libero, (proveniente dalla lingua precedente, l’Archelingua) esisteva ancora nella Neolingua, ma con un significato molto ristretto, dal momento che il concetto di libertà era stato abolito. Poteva essere usata solo in frasi come “Questo cane è libero da pulci”.
Non poteva essere utilizzato nel senso di “intellettualmente o politicamente libero”,
dal momento che la libertà politica e intellettuale non esisteva più,
nemmeno come concetto, ed era quindi, di necessità, priva di una parola per esprimerla.
Al di là della soppressione delle parole eretiche, il vocabolario era ridotto al minimo ed erano stati aboliti tutte i termini di cui si potesse fare a meno. Erano state abolite tutte le sfumature di significato e le ambiguità. Ogni parola doveva essere una specie di suono staccato, che esprimeva una sola idea chiaramente intesa.
Sarebbe stato del tutto impossibile usare il Vocabolario per scopi letterari,
ovvero per discussioni politiche o filosofiche.
Il Vocabolario della neolingua era diviso in tre sezioni.
- La prima conteneva le parole indispensabili per la vita quotidiana: mangiare, bere, lavorare, vestirsi, dormire etc
- La seconda era costituita da parole che erano state create deliberatamente per scopi politici, vale a dire parole che avevano “non solo, in ogni caso, un significato politico, ma che erano, per l’appunto, intese a imporre un atteggiamento mentale, in una direzione desiderata”
- La terza sezione era costituita da parole tecniche o scientifiche.
La speciale funzione di talune parole della Neolingua non consisteva tanto nell’esprimere significati, quanto nel distruggerli.
Queste parole, ognuna delle quali aveva avuto in passato tanti significati erano state sostituite da un unico termine con un unico significato.
Innumerevoli altre parole, come onore, giustizia, morale, internazionalismo, democrazia, scienza e religione avevano semplicemente cessato del tutto di esistere.
Il campo di concentramento s’indicava con l’eufemismo svagocampo.
Il ministero dalle Guerra si chiamava ministero della Pace.
Altre parole erano ambivalenti, nel senso che assumevano un significato, o il suo opposto nel caso che fossero riferite al partito o ai suoi nemici.
I nomi di tutte le organizzazioni e le istituzioni doveva essere ridotto a una parola di poche sillabe, facilmente pronunciabile. E qui viene fatto l’esempio di una parola, Internazionale Comunista, che va abolita. Infatti può richiamare concetti quali un’universale fratellanza umana, bandiere rosse, barricate, Carlo Marx e la Comune di Parigi.
La parola Comintern, invece, può restare nel vocabolario, perché suggerisce soltanto l’idea d’un’organizzazione ordinata e un ben definito corpo di dottrine.
Bisognava abbreviare le parole tutte le volte che fosse possibile.
Bisognava rendere il pensiero indipendente dalla parola, al punto che un membro del partito sarebbe stato capace di esprimere opinioni corrette in modo automatico.
Giorno per giorno il vocabolario doveva ridursi.
“Ogni riduzione rappresentava una conquista,
perché più piccolo era il campo della scelta
e più limitata era la tentazione di lasciar spaziare il proprio pensiero”.
Lo scopo finale era quello di far articolare il pensiero dalla semplice laringe senza che si dovessero chiamare in causa i centri del cervello. Alla fine “molti delitti ed errori si sarebbero trovati oltre la possibilità d’essere commessi, solo per il fatto che non avevano un nome e quindi non erano concepibili”.
La storia era stata già riscritta dal Partito al potere.
Certo alcuni frammenti di letteratura potevano ancora rimanere.
Ma, nel futuro, tali frammenti, anche se avessero avuto la possibilità di sopravvivere, sarebbero stati inintelligibili e intraducibili. Non si poteva, infatti, tradurre qualsiasi proposizione di Archelingua in una corrispondente di Neolingua, a meno che essa non si riferisse a un qualche procedimento tecnico .
Le somiglianze tra la lingua del Terzo Reich e la Neolingua sono notevoli.
Le differenze riscontrabili sono, in gran parte dovute ai diversi contesti:
la LTI, aveva a che fare con dei nemici, gli ebrei e gli oppositori politici,
e dal 1940 in poi anche con un nemico militare, gli eserciti Alleati.
La neo lingua, invece, doveva imporsi in un periodo di pace,
Anche le neolingua, come la LTI, è una lingua dal lessico povero, che tende a restringersi sempre più. Come la LTI fa un largo uso di eufemismi. Come nella LTI, alcune parole vengono abolite, perché se ne vuole abolire il concetto. Di altre,come nella LTI viene fortemente limitato il campo semantico.
Come la LTI predilige le abbreviazioni e le sigle ecc ecc.
Ma, al di là di ogni altra considerazione, la più forte somiglianza tra queste due lingue resta, in fondo quella più sostanziale, che da quest’esposizione parallela, appare evidente e che è in fondo l’elemento costituivo e il fine ultimo di entrambe:
l’annientamento di ogni forma di pensiero e quindi dell’intera umanità.
http://francomariafontana.blogspot.it/2007/02/la-lingua-del-iii-reich.html
Nessun commento:
Posta un commento