Il fondo del mio insegnamento consisterà nel convincerti a non temere la sacralità e i sentimenti, di cui il laicismo consumistico ha privato gli uomini trasformandoli in bruti e stupidi automi adoratori di feticci.
Pier Paolo Pasolini
Pier Paolo Pasolini
Negli insegnamenti che ti impartirò, io ti sospingerò a tutte le sconsacrazioni possibili, alla mancanza di ogni rispetto per ogni sentimento istitutivo. Tuttavia il fondo del mio insegnamento consisterà nel convincerti a non temere la sacralità e i sentimenti, di cui il laicismo consumistico ha privato gli uomini, trasformandoli in bruti e stupidi automi adoratori di feticci.
Pier Paolo Pasolini
Nessun prete mi ha mai parlato, come te, di Gesù Cristo e di San Francesco.
Una volta mi hai parlato anche di Sant’Agostino,
del peccato e della salvezza come li vedeva Sant’Agostino.
È stato quando mi hai recitato a memoria il paragrafo in cui Sant’Agostino racconta di sua madre che si ubriaca. Ed ho compreso in quell’occasione che cercavi il peccato per cercar la salvezza, certo che la salvezza può venire solo dal peccato, e tanto più profondo è il peccato tanto più liberatrice è la salvezza. Però ciò che mi dicesti su Gesù Cristo e su San Francesco, mentre Maria sonnecchiava dinanzi al mare di Copacabana, mi è rimasto come una cicatrice. Perché era un inno all’amore cantato da un uomo che non crede alla vita.
Oriana Fallaci, da Lettera a Pier Paolo
Pier Paolo Pasolini, Il Vangelo Secondo Matteo, 1964
Nessun prete mi ha mai parlato, come te, di Gesù Cristo e di San Francesco.
Una volta mi hai parlato anche di Sant’Agostino,
del peccato e della salvezza come li vedeva Sant’Agostino.
È stato quando mi hai recitato a memoria il paragrafo in cui Sant’Agostino racconta di sua madre che si ubriaca. Ed ho compreso in quell’occasione che cercavi il peccato per cercar la salvezza, certo che la salvezza può venire solo dal peccato, e tanto più profondo è il peccato tanto più liberatrice è la salvezza. Però ciò che mi dicesti su Gesù Cristo e su San Francesco, mentre Maria sonnecchiava dinanzi al mare di Copacabana, mi è rimasto come una cicatrice. Perché era un inno all’amore cantato da un uomo che non crede alla vita.
Oriana Fallaci, da Lettera a Pier Paolo
Pier Paolo Pasolini, Il Vangelo Secondo Matteo, 1964
Il male non sta nel sesso: considerare il sesso come un male è la follia del moralismo cattolico, che ha trovato, nella guida sessuale, uno dei modi di repressione e di ricatto. Sa invece qual è uno dei pericoli della sessualità giovanile? Quella di farla coincidere con il fascismo. Sì, il fascismo punta sul virilismo, sulla baldanza sessuale del giovane, per attirarlo a sé: vellica, per esempio, il suo narcisismo dandogli un narcisismo collettivo che si chiama Patria ecc. E sa qual è un altro pericolo? Quello della repressione dei propri istinti sessuali (che vanno dominati e regolati, ma non negati e odiati): repressione che avviene sempre per ragioni moralistico-religiose, si capisce, per cui la personalità subisce un trauma e la patologia che ne consegue pesa per l'equilibrio sociale: perché i repressi quasi sempre diventano dei moralisti ipocriti e spietati e servono così il conformismo nazionale.
Pier Paolo Pasolini
LA PAROLA PECCATO, DERIVA DAL GRECO è SIGNIFICA "MANCARE L'OBIETTIVO". Siamo in peccato, quindi, se non tendiamo alla salute e benessere, al successo, alla felicità, all'autostima, ovvero alla vera autorealizzazione del nostro talento.
Pier Paolo Pasolini. La religione del mio tempo.
Li osservo, questi uomini, educati
ad altra vita che la mia: frutti
d'una storia tanto diversa, e ritrovati,
quasi fratelli, qui, nell'ultima forma
storica di Roma. Li osservo: in tutti
c'è come l'aria d'un buttero che dorma
armato di coltello: nei loro succhi
vitali, è disteso un tenebrore intenso,
la papale itterizia del Belli,
non porpora, ma spento peperino,
bilioso cotto. La biancheria, sotto,
fine e sporca; nell'occhio, l'ironia
che trapela il suo umido, rosso,
indecente bruciore. La sera li espone
quasi in romitori, in riserve
fatte di vicoli, muretti, androni
e finestrelle perse nel silenzio.
È certo la prima delle loro passioni
il desiderio di ricchezza: sordido
come le loro membra non lavate,
nascosto, e insieme scoperto,
privo di ogni pudore: come senza pudore
è il rapace che svolazza pregustando
chiotto il boccone, o il lupo, o il ragno;
essi bramano i soldi come zingari,
mercenari, puttane: si lagnano
se non ce n'hanno, usano lusinghe
abbiette per ottenerli, si gloriano
plautinamente se ne hanno le saccocce
piene.
Se lavorano - lavoro di mafiosi
macellari,
ferini lucidatori, invertiti commessi,
tranvieri incarogniti, tisici ambulanti,
manovali buoni come cani - avviene
che abbiano ugualmente un'aria di ladri:
troppa avita furberia in quelle vene...
Sono usciti dal ventre delle loro madri
a ritrovarsi in marciapiedi o in prati
preistorici, e iscritti in un'anagrafe
che da ogni storia li vuole ignorati...
Il loro desiderio di ricchezza
è, così, banditesco, aristocratico.
Simile al mio. Ognuno pensa a sé,
a vincere l'angosciosa scommessa,
a dirsi: "È fatta," con un ghigno di re...
La nostra speranza è ugualmente
ossessa:
estetizzante, in me, in essi anarchica.
Al raffinato e al sottoproletariato spetta
la stessa ordinazione gerarchica
dei sentimenti: entrambi fuori dalla
storia,
in un mondo che non ha altri varchi
che verso il sesso e il cuore,
altra profondità che nei sensi.
In cui la gioia è gioia, il dolore dolore.
Pier Paolo Pasolini, La religione del mio tempo, Garzanti, Milano 1961
Tutto mi dà dolore: questa gente che segue supina ogni richiamo da cui i suoi padroni la vogliono chiamata, adottando, sbadata le più infami abitudini di vittima predestinata: il grigio dei vestiti per le grige strade; i suoi grigi gesti in cui sembra stampata l'omertà del male che l'invade, il suo brulicare intorno a un benessere illusorio, come un gregge inorno a poche biade; la sua regolare marea, per cui resse e deserti si alternano per le vie, ordinati da flussi e riflussi ossessi e anonimi di necessità stantie: i suoi sciami ai tetri bar, ai tetri cinema, il cuore tetramente arreso al quia.
Pier Paolo Pasolini, La religione del mio tempo (1957-59)
da: Pagine Corsare.
http://www.pasolini.net/poesia_I-relig-miotempo.htm
Pier Paolo Pasolini, La religione del mio tempo:
Sì, certo, era un Dio... e altri meno pazzi e stupendi ce n'è.
Coi loro sacerdoti, e, vorrei anche dire, con i loro santi.
Santi poveri, martoriati dai ben noti dolori, col terribile dovere di arrivare, senza troppi terremoti, alla fine del mese, per riavere in tasca le poche sospirate lire: impiegatucci, funzionari, leve di un Partito, per cui vivere e morire. Felici ti mostrano un paio di scarpe nuove, un quadruccio buono all'appena civile parete della casa, una bella sciarpa natalizia per la moglie: ma dentro, dietro quell'infantile palpito, quello stento, ti misurano col metro della loro fede, del loro sacrificio. Sono inflessibili, sono tetri, nel loro giudicarti: chi ha il cilicio addosso non può perdonare.
Non puoi da loro aspettare una briciola di pietà: non perché lo insegni Marx, ma per quel loro dio d'amore, elementare vittoria di bene sul male, ch'è nei loro atti. Ma come nel biancore dell'estetico dio del mare, informe Forma, mescolanza irrazionale di gioia e dolore, sbianca l'opacità del gesso, la norma che svaluta... così arrossa nel rosso dell'altro Dio - quello che trasforma il mondo, quello futuro ed incorrotto - il sangue dei giorni di Stalin...
Non torna nulla. Nemmeno il paradosso esistenziale, in cui, fertili-aridi, vivono quasi tutti coloro che conosco: borghesi colti, esperti di essenziali infrastrutture, spiriti del bosco della mondanità, della cultura: a popolare le pure sere di Piazza del Popolo, dei nuovi quartieri oltre le vecchie mura, del centro dove la città s'infossa in preziosi vicoli scintillanti e luridi...
Genio arreso, con le sue quattro ossa sotto eleganti vesti, ognuno porta intorno una faccia intenta, dove gli altri possano sospettare qualcosa; nei caffè, di giorno, nei salotti, la sera: ma ognuno cerca nella faccia dell'altro invano un ritorno delle speranze antiche: e se vi accerta una speranza, è una speranza inconfessabile, nel cerchio della domanda e dell'offerta, il cui sguardo è come per uno spasimo di interna ferita: che rende esanimi, accidiosi, scontenti, spinge a uno sciopero dei sentimenti, a una colpevole stasi della coscienza, ad una pace insana, che vuole i nostri giorni grigi e tragici. Così, se guardo in fondo alle anime delle schiere di individui vivi nel mio tempo, a me vicini o non lontani, vedo che dei mille sacrilegi possibili che ogni religione naturale può enumerare, quello che rimane sempre, in tutti, è la viltà. Un sentimento eterno - una forma del sentimento - fossile, immutabile, che lascia in ogni altro sentimento diretta o indiretta, la sua orma.
È quella viltà che fa l'uomo irreligioso.
È come un profondo impedimento che, all'uomo, toglie forza al cuore, calore al ragionamento, che lo fa ragionare di bontà come di un puro comportamento, di pietà come di una pura norma.
Può renderlo feroce, qualche volta, ma sempre lo rende prudente:
minaccia, giudica, ironizza, ascolta, ma è sempre, interiormente, impaurito.
Non c'è nessuno che sfugga a questa paura.
Nessuno perciò è davvero amico o nemico.
Nessuno sa sentire vera passione: ogni sua luce subito s'oscura come per rassegnazione o pentimento in quell'antica viltà, in quell'ormone misterioso che si è formato nei secoli. Lo riconosco, sempre, in ogni uomo.
Lo so bene che altro non è che insicurezza vitale, antica angoscia economica: che era regola della nostra vita animale ed è stata assimilata ora in queste povere nostre comunità: che è difesa, disperata, che si annida là dove c'è un minimo di pace: nel possesso. E ogni possesso è uguale: dall'industria al campicello, dalla nave al carretto. Perciò è uguale in tutti la viltà: com'è alle grige origini o agli ultimi grigi giorni di ogni civiltà...
Così la mia nazione è ritornata al punto di partenza, nel ricorso dell'empietà.
E, chi non crede in nulla, ne ha coscienza, e la governa. Non ha certo rimorso, chi non crede in nulla, ed è cattolico, a saper d'essere spietatamente in torto. Usando nei ricatti e i disonori quotidiani sicari provinciali, volgari fin nel più profondo del cuore, vuole uccidere ogni forma di religione, nell'irreligioso pretesto di difenderla: vuole, in nome d'un Dio morto, essere padrone.
Qui, tra le case, le piazze, le strade piene di bassezza, della città in cui domina ormai questo nuovo spirito che offende l'anima ad ogni istante, - con i duomi, le chiese, i monumenti muti nel disuso angoscioso che è l'uso d'uomini che non credono - io mi ricuso ormai a vivere. Non c'è più niente oltre la natura - in cui del resto è diffuso solo il fascino della morte - niente di questo mondo umano che io ami.
Tutto mi dà dolore: questa gente che segue supina ogni richiamo da cui i suoi padroni la vogliono chiamata, adottando, sbadata, le più infami abitudini di vittima predestinata; il grigio dei suoi vestiti per le grigie strade; i suoi grigi gesti in cui sembra stampata l'omertà del male che l'invade; il suo brulicare intorno a un benessere illusorio, come un gregge intorno a poche biade; la sua regolarità di marea, per cui resse e deserti si alternano per le vie, ordinati da flussi e da riflussi ossessi e anonimi di necessità stantie; i suoi sciami ai tetri bar, ai tetri cinema, il cuore tetramente arreso al quia...
E intorno a questo interno dominio della volgarità, la città che si sgretola ammucchiandosi, brasiliana o levantina, come l'espressione di una lebbra che si bea ebbra di morte sugli strati dell'epoche umane, cristiane o greche, e allinea tempeste di caseggiati, gore di lotti color bile o vomito, senza senso, né di affanno né di pace; sradica i riposanti muri, i gomiti poetici dei vicoli sui giardini interni, i superstiti casolari dalla tinta di pomice o topo, tra cui fichi, radicchi, svernano beati, i selciati striati di una grama erbetta, i rioni che parevano eterni nei loro lineamenti quasi umani di grigio mattone o smunto cotto: tutto distrugge la volgare fiumana dei pii possessori di lotti: questi cuori di cani, questi occhi profanatori, questi turpi alunni di un Gesù corrotto nei salotti vaticani, negli oratori, nelle anticamere dei ministri, nei pulpiti: forti di un popolo di servitori.
Com'è giunto lontano dai tumulti puramente interiori del suo cuore, e da paesaggio di primule e virgulti del materno Friuli, l'Usignolo dolceardente della Chiesa Cattolica!
Il suo sacrilego, ma religioso amore non è più che un ricordo, un'ars retorica: ma è lui, che è morto, non io, d'ira, d'amore deluso, di ansia spasmodica per una tradizione che è uccisa ogni giorno da chi se ne vuole difensore; e con lui è morta una terra arrisa da religiosa luce, col suo nitore contadino dei campi e casolari; è morta una madre ch'è mitezza e candore mai turbati in un tempo di solo male; ed è morta un'epoca della nostra esistenza, che in un mondo destinato a umiliare fu luce morale e resistenza.
Il “Teorema” del sacro. Pasolini fra abiura e Cielo
di Emanuele Di Marco
[…] il cattolicesimo è la promessa che al di là di queste macerie c’è un altro mondo, e questo invece nei miei film non c’è assolutamente 183
183 Riportato in Petraglia S., Il cinema di Pasolini, La Nuova Italia, Firenze, 1975
tale intensità, definisce non tanto la forma del sacro, quanto il sentimento, la paura della sua
assenza, del suo non essere “al di qua” della vita, della sua scomparsa. […]
file:///C:/Users/SIA_01/Downloads/368-811-1-SM%20(1).pdf
Sacro e profano nel primo cinema di Pasolini, di Giorgia Bruni
[...] L’opera allora si può leggere in chiave allegorica come un confronto-scontro tra il cristianesimo nell’accezione di religione naturale intrisa di sacralità secolare, a cui appartiene l’onnipresente pasoliniano ”Altrove” non corrotto e pullulante di oppressi, vinti e “veri”, e il benpensante universo governato dal Potere e omologato in cui si è smarrita, in anni di adeguamento al conformismo sociale, la dimensione del sacro e la religione è ridotta a fregio accessorio e a completamento dell’outfit di standard italiano. Non casuale, infatti, la citazione della poesia di Pasolini letta al giornalista di “Tegliesera” da Orson Welles:
Io sono una forza del Passato.
Solo nella tradizione è il mio amore.
Vengo dai ruderi, dalle Chiese,
dalle pale d’altare, dai borghi
dimenticati sugli Appennini o sulle Prealpi,
dove sono vissuti i fratelli.
Giro per la Tuscolana come un pazzo,
per l’Appia come un cane senza padrone.
O guardo i crepuscoli, le mattine
su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo,
come i primi atti della Dopostoria,
cui io assisto per privilegio d’anagrafe,
dall’orlo estremo di qualche età
sepolta.Mostruoso è chi è nato
dalle viscere di una donna morta.
E io, feto adulto, mi aggiro
più moderno di ogni moderno
a cercare fratelli che non sono più.
http://www.centrostudipierpaolopasolinicasarsa.it/molteniblog/7811/
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