Perchè pensi sempre a te?”
“Se non ci penso io,
chi ci pensa?”
Cesare Pavese
Si perde un appuntamento, si cambia casa,
e uno che vedevi tutti i giorni non sai nemmeno più chi sia.
Cesare Pavese
Viaggiare è una brutalità.
Obbliga ad avere fiducia negli stranieri e a perdere di vista il comfort familiare della casa e degli amici. Ci si sente costantemente fuori equilibrio. Nulla è vostro, tranne le cose essenziali – l’aria, il sonno, i sogni, il mare, il cielo – tutte le cose tendono verso l’eterno o ciò che possiamo immaginare di esso.
Cesare Pavese
La vera genialità non è conquistare una donna già desiderata da tutti,
ma scovarne una preziosa in un essere ignoto.
Cesare Pavese
allorchè la donna, con signorilità e dolcezza risponde:
"stà tranquillo che io posso anche non vederti
eppure averti nella mia vita molto più di quanto non pensi".
Cesare Pavese (3 marzo)
Un padre va sempre aiutato. Bisogna insegnargli che la vita è difficile.
Se poi, com'è giusto, tu arrivi dove lui voleva,
devi convincerlo che aveva torto e che l'hai fatto per il suo bene.
Cesare Pavese
Non vale la pena, Odisseo.
Chi non si ferma adesso, subito, non si ferma mai più. Quello che fai, lo farai sempre.
Devi rompere una volta il destino, devi uscire di strada, e lasciarti affondare nel tempo…
Che cos'è vita eterna se non questo accettare l'istante che viene e l'istante che va?
L'ebbrezza, il piacere, la morte non hanno altro scopo.
Cos'è stato finora il tuo errare inquieto?
Cesare Pavese
“Si era creato, con gli anni, un sistema di pensieri e di principi così aggrovigliato e inesorabile, da vietargli l’attuazione della realtà più semplice: e quanto più proibita e impossibile si faceva quella semplice realtà, tanto più profondo in lui diventava il desiderio di conquistarla, aggrovigliandosi e ramificando come una vegetazione tortuosa e soffocante.”
Natalia Ginzburg - Ritratto di un amico (in Le Piccole Virtù, 1962)
La letteratura é una difesa contro le offese della vita.
Cesare Pavese
Quando si ha voglia di una cosa,
la si vede dappertutto.
Cesare Pavese
[..] vivere è come fare una lunga addizione,
in cui basta aver sbagliato il totale dei primi due addendi
per non uscirne più
Cesare Pavese
A Giulio Einaudi, Torino. Torino, 14 aprile 1942
“Se non ci penso io,
chi ci pensa?”
Cesare Pavese
Si perde un appuntamento, si cambia casa,
e uno che vedevi tutti i giorni non sai nemmeno più chi sia.
Cesare Pavese
Viaggiare è una brutalità.
Obbliga ad avere fiducia negli stranieri e a perdere di vista il comfort familiare della casa e degli amici. Ci si sente costantemente fuori equilibrio. Nulla è vostro, tranne le cose essenziali – l’aria, il sonno, i sogni, il mare, il cielo – tutte le cose tendono verso l’eterno o ciò che possiamo immaginare di esso.
Cesare Pavese
La vera genialità non è conquistare una donna già desiderata da tutti,
ma scovarne una preziosa in un essere ignoto.
Cesare Pavese
allorchè la donna, con signorilità e dolcezza risponde:
"stà tranquillo che io posso anche non vederti
eppure averti nella mia vita molto più di quanto non pensi".
Cesare Pavese (3 marzo)
Un padre va sempre aiutato. Bisogna insegnargli che la vita è difficile.
Se poi, com'è giusto, tu arrivi dove lui voleva,
devi convincerlo che aveva torto e che l'hai fatto per il suo bene.
Cesare Pavese
Non vale la pena, Odisseo.
Chi non si ferma adesso, subito, non si ferma mai più. Quello che fai, lo farai sempre.
Devi rompere una volta il destino, devi uscire di strada, e lasciarti affondare nel tempo…
Che cos'è vita eterna se non questo accettare l'istante che viene e l'istante che va?
L'ebbrezza, il piacere, la morte non hanno altro scopo.
Cos'è stato finora il tuo errare inquieto?
Cesare Pavese
“Si era creato, con gli anni, un sistema di pensieri e di principi così aggrovigliato e inesorabile, da vietargli l’attuazione della realtà più semplice: e quanto più proibita e impossibile si faceva quella semplice realtà, tanto più profondo in lui diventava il desiderio di conquistarla, aggrovigliandosi e ramificando come una vegetazione tortuosa e soffocante.”
Natalia Ginzburg - Ritratto di un amico (in Le Piccole Virtù, 1962)
La letteratura é una difesa contro le offese della vita.
Cesare Pavese
Quando si ha voglia di una cosa,
la si vede dappertutto.
Cesare Pavese
[..] vivere è come fare una lunga addizione,
in cui basta aver sbagliato il totale dei primi due addendi
per non uscirne più
Cesare Pavese
A Giulio Einaudi, Torino. Torino, 14 aprile 1942
Spettabile Editore,
Avendo ricevuto n. 6 sigari Roma - del che Vi ringrazio - e avendoli trovati pessimi, sono costretto a rispondervi che non posso mantenere un contratto iniziato sotto cosi cattivi auspici. Succede inoltre che i sempre rinnovati incarichi di revisione e altre balle che mi appioppate, non ni lasciano il tempo di attenderò a più nobili lavori. Si, Egregio Editore, è venuta l'ora di dirvi, con tutto il rispetto, che fin che continuerete con questo sistema di sfruttamento integrale dei Vostri dipendenti, non potrete sperare dagli stessi un rendimento superiore alle loro possibilità. C'è una vita da vivere, ci sono delle biciclette da inforcare, marciapiedi da passeggiare e tramonti da godere. La Natura insomma ci chiama, egregio Editore; e noi seguiamo il suo appello.Fatevi fare il Bini da un altro.
Cordialmente. C. Pavese
Cesare Pavese, Lettere 1926-1950
Perché questo è l'ostacolo, la crosta da rompere:
la solitudine dell'uomo, di noi e degli altri.
Cesare Pavese
Tu sarai amato, il giorno in cui potrai mostrare la tua debolezza,
senza che l’altro se ne serva per affermare la sua forza.
Cesare Pavese, dal diario intimo.
Crudele lo sono ancora certamente,
se crudeltà si può chiamare il normale contegno di chi rispetta le donne al punto di non volerne sapere di loro. … Per guarire da ogni nostalgia amorosa non c’ è che sperimentare d'essere amato o voluto o bramato o quello che vuoi, da una persona che ci dia ai nervi
Cesare Pavese
Proprio a te doveva accadere di concentrare tutta la vita su un punto,
e poi scoprire che tutto puoi fare tranne vivere quel punto.
Cesare Pavese.
e le cose, nel cielo e nel cuore soffrono e si contorcono nell'attesa di te.
Cesare Pavese.
È morire a una forma e rinascere a un'altra.
È accettare, accettare, se stesse e il destino.
Cesare Pavese
Inutile piangere.
Si nasce e si muore da soli…
Cesare Pavese.
Prima di essere schiuma
saremo indomabili onde.
Cesare Pavese
Commuoveva, a sentirla,
tant'era il contrasto tra la sua vita e i desideri.
Cesare Pavese
C’è sempre
un silenzio che ci imbroglia,
perché lì,
sentiamo
tutte le parole che ci spaventano.
Cesare Pavese
Nel cuore hai silenzio,
hai parole inghiottite.
Cesare Pavese
tant'era il contrasto tra la sua vita e i desideri.
Cesare Pavese
C’è sempre
un silenzio che ci imbroglia,
perché lì,
sentiamo
tutte le parole che ci spaventano.
Cesare Pavese
Nel cuore hai silenzio,
hai parole inghiottite.
Cesare Pavese
Tutto accogli e scruti
e respingi da te
come il mare. Nel cuore
hai silenzio, hai parole
inghiottite. Sei Buia.
Cesare Pavese
«[…] Basta un po’ di silenzio e ogni cosa si ferma
nel suo luogo reale, così com’è fermo il mio corpo.»
Cesare Pavese, da Mania di solitudine, 1933
[…] Le stelle son vive,
ma non valgono queste ciliege, che mangio da solo.
Cesare Pavese, Mania di solitudine
[…] Cara Fern, la solitudine che Lei sente, si cura in un solo modo, andando verso la gente e «donando» invece di «ricevere». (È la solita sacrosanta predica). Non che io aneli di essere quello a cui Lei dovrebbe donare – tanto più che i doni che Lei potrebbe farmi non sarebbero ancora la soluzione ma aumenterebbero il pasticcio. Si tratta di un problema morale prima che sociale e Lei deve imparare a lavorare, a esistere, non solo per sé ma anche per qualche altro, per gli altri. Fin che uno dice «sono solo», sono «estraneo e sconosciuto», «sento il gelo», starà sempre peggio. E’ solo chi vuole esserlo, se ne ricordi bene. Per vivere una vita piena e ricca bisogna andare verso gli altri, bisogna umiliarsi e servire. E questo è tutto […]
— estratto da una lettera di Cesare Pavese a Fernanda Pivano, maggio 1943
«[…] Basta un po’ di silenzio e ogni cosa si ferma
nel suo luogo reale, così com’è fermo il mio corpo.»
Cesare Pavese, da Mania di solitudine, 1933
[…] Le stelle son vive,
ma non valgono queste ciliege, che mangio da solo.
Cesare Pavese, Mania di solitudine
Niente è più inabitabile di un posto dove siamo stati felici.
Cesare Pavese
« Cosa credi? » esclamai, « che si ricordi di te? » Allora tacque un'altra volta.
Io pensavo alla stranezza della cosa: avevo i soldi del viaggio e non lo facevo.
Intanto giungemmo nel viottolo, e la vista dell'ulivo m'irritò.
Cominciavo a capire che nulla è più inabitabile di un luogo dove si è stati felici.
Capivo perché Doro un bel giorno aveva preso il treno per tornare fra le colline,
e la mattina dopo era tornato al suo destino.
Cesare Pavese
La lentezza dell’ora
è spietata, per chi non aspetta più nulla.
Cesare Pavese, Lo steddazzu, estratto (in “Lavorare stanca”)
Cesare Pavese
« Cosa credi? » esclamai, « che si ricordi di te? » Allora tacque un'altra volta.
Io pensavo alla stranezza della cosa: avevo i soldi del viaggio e non lo facevo.
Intanto giungemmo nel viottolo, e la vista dell'ulivo m'irritò.
Cominciavo a capire che nulla è più inabitabile di un luogo dove si è stati felici.
Capivo perché Doro un bel giorno aveva preso il treno per tornare fra le colline,
e la mattina dopo era tornato al suo destino.
Cesare Pavese
è spietata, per chi non aspetta più nulla.
Cesare Pavese, Lo steddazzu, estratto (in “Lavorare stanca”)
e serve a ricordarci che per fortuna,
siamo anche fragili.
Cesare Pavese
A me hanno tolto un voto di italiano perché ho osato contraddirli nella correzione del componimento. Ma non protesto mica io: ammiro anzi in ciò la forza del progresso.
Nel ‘600 mi avrebbero per lo meno bruciato vivo:
adesso, più borghesemente, mi tolgono un voto dalla media.
Cesare Pavese in una lettera a Tullio Pinelli
(Torino, 1° agosto 1926 – da Lettere 1924-1944)
«Ogni cosa, accadendo, si faceva ricordo,
perché accadeva dentro di me prima che fuori.»
Cesare Pavese, Feria d'agosto, 1946
[…] Quando ci lasciavamo non ci pareva di separarci,
ma di andare ad attenderci altrove […].
Cesare Pavese, “Feria d'agosto”.
[…]Ma io non posso parlarti,
e nemmeno avvicinarmi:
nei tuoi istanti più belli
ti ho sempre soltanto veduta,
sempre soltanto sognata.
Cesare Pavese, Ti ho sempre soltanto veduta
E’ sbocciato quest'odio come un vivido amore
dolorando, e contempla se stesso anelante
Cesare Pavese, Indifferenza, primi versi
Hai negli occhi i suoi occhi.
Sei parole distratte.
Mangi poesie d’amore.
Tu non scivoli altrove,
ogni volta è la morte.
Sei un cielo stellato.
Sei persa.
Cesare Pavese, “Hai negli occhi i suoi occhi”
La vidi che mi guardava,
con quegli occhi grandi e un poco obliqui,
occhi fermi trasparenti, grandi dentro.
Non lo seppi allora,
non lo sapevo l'indomani,
ma ero già cosa sua,
preso nel cerchio dei suoi occhi,
dallo spazio che occupavano.
Cesare Pavese
Se è vero che ci si abitua al dolore,
come mai con l’andare degli anni si soffre sempre di più?
Cesare Pavese
Aveva la strana abitudine di non raccontare nulla.
Aveva la tempesta dentro e nessuno lo notava
Cesare Pavese
E non era una stupida,
sapeva quel che voleva.
Solamente voleva delle cose impossibili.
Cesare Pavese
Tu che non sai e splendi di tanta poesia
o donna che fiorisci sopra la mia agonia,
fa ch'io risorga un giorno.
O tu che sei passata nel crepuscolo immondo di tutti noi
e sorgi come l'alba d'un mondo fa ch'io risorga un giorno.
[aprile 1928]
Cesare Pavese, da poesie prima di “Lavorare stanca” (1923-1930)
per il grigio e il freddo che mi serra d’intorno
per starmene raccolto a stringere sul cuore la mia fiamma,
povera fiamma vacillante.
La bella natura
Che si scalda e vive decisa
al sole, ai colori più sani,
datrice agli eletti di pensieri ed opere forti,
inesorabile come la vita,
universale piena,
a me (piangete o miei poveri sogni)
dà smarrimento e stanchezza,
a me spegne ogni fiamma, fonte più pura.
Cesare Pavese, dalle poesie prima di “Lavorare stanca” [11 agosto 1927]
parlare da solo e parlare a una folla.
Cesare Pavese, 4 maggio 1946
«E scriverò per te,
per il tuo ricordo straziante
pochi versi dolenti
che tu non leggerai più.
Ma a me staranno atroci
inchiodati nel cuore
per sempre».
Cesare Pavese (4 settembre 1927)
La massima sventura è la solitudine.
Tutto il problema della vita è questo:
come rompere la propria solitudine,
come comunicare con gli altri.
Cesare Pavese
Vorrei essere almeno la mano che ti protegge– una cosa che non ho mai saputo fare con nessuno
e con te invece mi è naturale come il respiro.
— Cesare Pavese, in una lettera a Bianca Garufi,
21 Ottobre 1945
Caratteristico dei tempi come il nostro è lo spreco di energie.
Si è sempre troppo giovani,
che vuol dire troppo scioccamente complicati e impacciati,
di fronte alla inverosimile possibilità di realizzare cose
fino a ieri proibite.
Cesare Pavese, “Di una nuova letteratura”
(pubblicato nel maggio-giugno 1946 su
Rinascita, da La letteratura americana e altri saggi)
Si faccia una vita interiore, di studio, di affetti,
che non siano soltanto di “arrivare”, ma di “essere”
- e vedrà che la vita avrà un significato.
Cesare Pavese a Fernanda Pivano
«Perdono a tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene?
Non fate troppi pettegolezzi»
[biglietto di addio di c pavese]
Sul retro Pavese vi appuntò tre frasi.
Nella prima, tratta proprio dai Dialoghi con Leucò,
esattamente da quello intitolato Le streghe,
si legge: «L’uomo mortale, Leucò,
non ha che questo d’immortale.
Il ricordo che porta e il ricordo che lascia».
La seconda è una citazione dal diario,
cioè da Il mestiere di vivere,
e venne scritta qualche giorno prima della sua fine drammatica:
«Ho lavorato, ho dato poesia agli uomini, ho condiviso le pene di molti».
La terza frase, che secondo Vaccaneo potrebbe essere stata pensata e messa sulla carta da Pavese nelle ore estreme della sua esistenza, è lapidaria: «Ho cercato me stesso».
Cesare Pavese
Cesare Pavese è morto suicida a 42 anni nel 1950. Questo libro, mi sembra l'abbia scritto a 41 anni, l'unico rimorso che ha avuto nella sua esistenza, è stato quello di essersi iscritto al partito nazional fascista (1932), pur malvolentieri, per poter lavorare, dietro le insistenze della sorella e di suo marito. Nonostante fosse stato in seguito un'antifascista militante, questo fatto lo tormentò per il resto dei suoi giorni. Avrebbe preferito la fame, la tortura, la stessa morte, piuttosto che iscriversi al partito nazional fascista.
(cit. di mio padre, che lo ha conosciuto di persona).
Il 27 agosto 1950 muore in un albergo di Torino Cesare Pavese, poeta e scrittore.
Era nato a Santo Stefano Belbo, nelle Langhe, 41 anni prima. Il 17 agosto scriveva sul suo diario: "Questo il consuntivo dell'anno non finito, che non finirò." Tormentato dalla cocente delusione amorosa vissuta con un'avvenente aspirante attrice americana alla quale dedicò i celebri versi di "Verrà la morte e avrà i tuoi occhi", e oppresso da un malessere esistenziale che definiva "il vizio assurdo" dal quale non si era mai liberato, pone fine alla sua vita ingerendo più di dieci bustine di sonnifero. Su un foglietto aveva scritto: "Ho lavorato, ho dato poesia agli uomini, ho condiviso le pene di molti. Ho cercato me stesso."
Riposa in pace, Poeta.
Cesare Pavese, animo sensibilissimo, poeta di grande qualità e intensità espressiva della Letteratura italiana del primo ’900, più noto per i suoi libri che per le sue poesie.
Le sue poesie più conosciute sono le cosiddette ‘Poesie del disamore‘ vale a dire dell’amore non corrisposto, un autentico baratro, il triste destino di un uomo che ha cercato disperatamente l’amore, e chissà perché non l’ha mai ricevuto. Tormentato dalla cocente delusione amorosa vissuta con un'avvenente aspirante attrice americana alla quale dedicò i celebri versi di "Verrà la morte e avrà i tuoi occhi", oppresso da un malessere esistenziale che definiva "il vizio assurdo" dal quale non si era mai liberato, pone fine alla sua vita Il 27 agosto 1950 in un albergo di Torino ingerendo più di dieci bustine di sonnifero. Su un foglietto aveva scritto: "Ho lavorato, ho dato poesia agli uomini, ho condiviso le pene di molti. Ho cercato me stesso." [...]
Lasciò un bigliettino d'addio, che con cieca e spietata semplicità sintetizzava il suo percorso umano e artistico :<<Vi perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? non fate pettegolezzi>>. Pochi mesi prima aveva annotato in uno dei suoi diari: <<Non mi uccido per l'amore di una donna, nessuno si uccide per l'amore di una donna, mi uccido perchè la fine di un'amore, qualunque amore, ci svela nella nostra incoscienza, fragilità ... tutto questo fa schifo, non una parola, un gesto, non scriverò più>>
Tra l' ottobre e il dicembre del 1945 Cesare Pavese tornò a scrivere poesie.
Si era innamorato di una ragazza siciliana che lavorava nella sede romana della Einaudi e si chiamava Bianca Garufi. E' lei in "Verrà la morte e avrà i tuoi occhi". Bianca, dopo il suicidio dello scrittore scriverà sul suo diario: «Ricordo: scrisse la prima sulla poltrona della mia camera da letto; io ero sul letto e dormivo. Poi mi svegliai e lui lesse: "Terra rossa, terra nera - tu vieni dal mare - dal verde riarso dove sono parole antiche e fatica sanguigna... tu ricca come un ricordo, certa come la terra, buia come la terra, frantoio di stagioni e di sogni". Mi piacque tanto e forse lo amai poeta per quel giorno. Io ero allora, davvero, buia come la terra. Povero Pavese, morto per Tina, per Fernanda, per Bianca, per Costanza. Quale di queste donne poteva salvarlo?» Ti rispondo io alla domanda di Bianca: nessuna. Nessuna poteva salvarlo. Il rapporto con le donne era talmente complesso, talmente misogino (nel vero senso, madre compresa) che nessuna poteva salvare lo scrittore che io ammiro. Ma capisco Bianca quando dice "forse lo amai per quel giorno". Di più non poteva, sarebbe stata una fatica incontenibile.
Girerò per le strade finché non sarò stanca morta saprò vivere sola e fissare negli occhi ogni volto che passa e restare la stessa. Questo fresco che sale a cercarmi le vene è un risveglio che mai nel mattino ho provato così vero: soltanto, mi sento più forte che il mio corpo, e un tremore più freddo accompagna il mattino. Sono lontani i mattini che avevo vent'anni. E domani, ventuno: domani uscirò per le strade, ne ricordo ogni sasso e le striscie di cielo. Da domani la gente riprende a vedermi e sarò ritta in piedi e potrò soffermarmi e specchiarmi in vetrine. I mattini di un tempo, ero giovane e non lo sapevo, e nemmeno sapevo di esser io che passavo - una donna, padrona di se stessa. La magra bambina che fui si è svegliata da un pianto durato per anni: ora è come quel pianto non fosse mai stato. E desidero solo colori. I colori non piangono, sono come un risveglio: domani i colori torneranno. Ciascuna uscirà per la strada, ogni corpo un colore - perfino i bambini. Questo corpo vestito di rosso leggero dopo tanto pallore riavrà la sua vita. Sentirò intorno a me scivolare gli sguardi e saprò d'esser io: gettando un'occhiata, mi vedrò tra la gente. Ogni nuovo mattino, uscirò per le strade cercando i colori.
Cesare Pavese
- […] Mi ricordavo di quello che mi hai detto una volta,
che la vita ha valore solamente se si vive per qualcosa o per qualcuno…
Cesare Pavese, La casa in collina.
Il “Cesare perduto nella pioggia”, è Cesare Pavese. Avevo letto tutto di lui, e nella biografia c'è questo episodio di quando una sera aspettò per una notte Costance Dowling, donna bellissima, ballerina che lo illuse e poi lo lasciò. Alice per me è una specie di sfinge che guarda il mondo senza nessi consequenziali. Non è nemmeno chiaro se è lei la narratrice o io che scrivo. Mentre il personaggio dello sposo ha qualcosa di sicuramente autobiografico. No, non perché volessi sposarmi, ma fuggire. Una fuga che era probabilmente dalla vita cui ero predestinato da studente universitario, fare l'insegnante come mia madre o il bibliotecario come mio padre. Ma forse fuggire anche dal mondo della musica per cui ero uno strano.
Francesco De Gregori racconta Alice
Cesare Pavese fu grande intellettuale italiano, uno dei più grandi del '900. Forse quello meno provinciale.
E' grazie a lui che conosciamo i grandi autori americani come
Ernest Hemingway, Lee Masters, Cummings, Valt Witman, Anderson e Gertrude Stein.
Per quanto riguarda il suo tormentato rapporto con le donne, andava a cercare tutte quelle più sbagliate. Lontane anni luce dalla sua cultura e sensibilità. A 17 anni, , giovane liceale, si innamorò di una cantante ballerina di un locale frequentato dai giovani studenti.
Ed è proprio aspettando lei tutta le sera sotto la pioggia che si beccò la pleurite.
Questo episodio è ricordato nella canzone ALICE di Francesco De Gregori.
“….e Cesare perduto nella pioggia
sta aspettando da sei ore il suo amore ballerina.
E rimane lì, a bagnarsi ancora un po',
e il tram di mezzanotte se ne va
e tutto questo Alice non lo sa.”
Non ebbe miglior sorte con la giovane attrice americana Constance Dowling che lo usò per far carriera, che mentre frequentava Pavese aveva una relazione con l’attore Andrea Checchi. A Costance, che nel frattempo se n’era tornata ad Hollywood dove pensava di avere più possibilità di carriera, dedicò il romanzo “La Luna e i falò”.
Nelle pagine di Dialoghi di Leucò, prima di morire scrisse
“Ho cercato me stesso». Ed inoltre “ Ho lavorato, ho dato poesia agli uomini, ho condiviso le pene di molti»
Cercò se stesso ma non riuscì mai a trovarsi. E tolse il disturbo. Proprio come fece tanti anni prima il suo giovane Elio Baraldi, che già allora lui avrebbe voluto seguire.
https://youtu.be/h2P3LcfvePA?t=1m24s
Cara Connie,
volevo fare l'uomo forte e non scriverti subito, ma a che servirebbe? Sarebbe soltanto una posa. Ti ho mai detto che da ragazzo ho avuta la superstizione delle "buone azioni"? Quando dovevo correre un pericolo, sostenere un esame, per esempio, stavo attento in quei giorni a non essere cattivo, a non offendere nessuno, a non alzare la voce, a non fare brutti pensieri. Tutto questo per non alienarmi il destino. Ebbene, mi succede che in questi giorni ridivento ragazzo e corro davvero un gran pericolo, sostenendo un esame terribile, perché mi accordo che non oso esser cattivo, offendere gli altri pensare pensieri vili. Il pensiero di te e un ricordo o un'idea indegni, brutti, non s'accordano. Ti amo.
Cara Connie, di questa parola so tutto il peso - l'orrore e la meraviglia - eppure te la dico, quasi con tranquillità. L'ho usata così poco nella mia vita, e così male, che è come nuova per me.
[…] Amore, il pensiero che quando leggerai questa lettera sarai già a Roma - finito tutto il disagio e la confusione del viaggio -, che vedrai nello specchio il tuo sorriso e riprenderai le tue abitudini, e dormirai da brava, mi commuove come tu fossi mia sorella. Ma tu non sei mia sorella, sei una cosa più dolce e più terribile, e a pensarci mi tremano i polsi.
Cesare Pavese, Lettera all'attrice americana Constance Dowling, 17 Marzo 1950
«Sei la terra e la morte.
La tua stagione è il buio
e il silenzio. Non vive
cosa che più di te
sia remota dall’alba.
Quando sembri destarti
sei soltanto dolore,
l’hai negli occhi e nel sangue
ma tu non senti. Vivi
come vive una pietra,
come la terra dura.
E ti vestono sogni
movimenti singulti
che tu ignori. Il dolore
come l’acqua di un lago
trepida e ti circonda.
Sono cerchi sull’acqua.
Tu li lasci svanire.
Sei la terra e la morte».
Cesare Pavese
3 dicembre 1945
Ogni notte, tornando dalla vita,
dinanzi a questo tavolo
prendo una sigaretta
e fumo solitario la mia anima.
La sento spasimare tra le dita
e consumarsi ardendo.
Mi sale innanzi agli occhi con fatica
in un fumo spettrale
e mi ravvolge tutto,
a poco a poco, d’una febbre stanca.
I rumori e i colori della vita
non la toccano piú:
sola in se stessa è tutta macerata
di triste sazietà
per colori e rumori.
Nella stanza è una luce violenta
ma piena di penombre.
Fuori, il silenzio eterno della notte.
Eppure nella fredda solitudine
la mia anima stanca
ha tanta forza ancora
che si raccoglie in sé
e brucia d’un’acredine convulsa.
Mi si contrae fra mano,
poi, distrutta, si fonde e si dissolve
in una nebbia pallida
che non è piú se stessa
ma si contorce tanto.
Cosí ogni notte, e non mi vale scampo,
in un silenzio altissimo,
io brucio solitario la mia anima.
Cesare Pavese, Ogni notte.
«Sei la terra e la morte.
La tua stagione è il buio
e il silenzio. Non vive
cosa che più di te
sia remota dall’alba.
Quando sembri destarti
sei soltanto dolore,
l’hai negli occhi e nel sangue
ma tu non senti. Vivi
come vive una pietra,
come la terra dura.
E ti vestono sogni
movimenti singulti
che tu ignori. Il dolore
come l’acqua di un lago
trepida e ti circonda.
Sono cerchi sull’acqua.
Tu li lasci svanire.
Sei la terra e la morte».
Cesare Pavese
3 dicembre 1945
Ogni notte, tornando dalla vita,
dinanzi a questo tavolo
prendo una sigaretta
e fumo solitario la mia anima.
La sento spasimare tra le dita
e consumarsi ardendo.
Mi sale innanzi agli occhi con fatica
in un fumo spettrale
e mi ravvolge tutto,
a poco a poco, d’una febbre stanca.
I rumori e i colori della vita
non la toccano piú:
sola in se stessa è tutta macerata
di triste sazietà
per colori e rumori.
Nella stanza è una luce violenta
ma piena di penombre.
Fuori, il silenzio eterno della notte.
Eppure nella fredda solitudine
la mia anima stanca
ha tanta forza ancora
che si raccoglie in sé
e brucia d’un’acredine convulsa.
Mi si contrae fra mano,
poi, distrutta, si fonde e si dissolve
in una nebbia pallida
che non è piú se stessa
ma si contorce tanto.
Cosí ogni notte, e non mi vale scampo,
in un silenzio altissimo,
io brucio solitario la mia anima.
Cesare Pavese, Ogni notte.
Uno s'illude di favorire in questo modo la meditazione,
ma la verità è che fumando disperde i pensieri come nebbia,
e tutt'al più fantastica, cosa molto diversa dal pensare.
Le trovate, le scoperte, vengono invece inaspettate:
a tavola, nuotando in mare, discorrendo di tutt'altro.
Cesare Pavese, La spiaggia
Non sapeva di aprirgli per mezzo di quel foglio le porte di preziose fantasie, mettendolo in rapporto con un'esistenza lontana, impenetrabile se non da lui che vi riconosceva se stesso.
Cesare Pavese, "Il carcere", pag. 1
Voleva esser solo, rintanato.[...]
Sentiva parti di se stesso in balia altrui.
Cesare Pavese, "Il carcere", pag. 2
— Non sei mica fascista? — mi disse.Era seria e rideva. Le presi la mano e sbuffai.
— Lo siamo tutti, cara Cate, — dissi piano. — Se non lo fossimo dovremmo rivoltarci, tirare le bombe, rischiare la pelle. Chi lascia fare e s'accontenta, è contenta, è già un fascista.
Cesare Pavese, Prima che il gallo canti, pag. 140
Allora persi del tutto la pazienza. — Siamo al mondo per caso, — dissi. —
Padre, madre e figliuoli, tutto viene per caso. Inutile piangere. Si nasce e si muore da soli...
— Basta volere un po' di bene, — mormorò lei, con quella voce uella voce autoritaria.
Cesare Pavese, Prima che il gallo canti, pag. 168
Ora che ho visto cos’è guerra, cos’è guerra civile, so che tutti, se un giorno finisse, dovrebbero chiedersi: – Dei caduti cosa facciamo? Perché sono morti? – Io non saprei rispondere. Non adesso, almeno. Né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero.
Cesare Pavese, Prima che il gallo canti
Alta, sul poggio dalla cima bianca, c'era una nuvoletta.
La prima nube di settembre. Ne fu lieto come di un incontro.
Cesare Pavese, Prima che il gallo canti
Ci sono giorni in questa nuda campagna che camminando ho un soprassalto:
un tronco secco, un nodo d'erba, una schiena di roccia, mi paiono corpi distesi.
Cesare Pavese, Prima che il gallo canti, pag. 259
In sostanza chiedevo un letargo, un anestetico, una certezza di esser ben nascosto.
Non chiedevo la pace del mondo, chiedevo la mia.
Volevo esser buono per essere salvo.
Lo capii cosí bene che un giorno mollai.
Naturalmente non fu in chiesa, ero in cortile coi ragazzi.
I ragazzi vociavano e giocavano al calcio.
Nel cielo chiaro — quel mattino aveva smesso di piovere — vidi nuvole rosee, ventose.
Il freddo, il baccano, la repentina libertà del cielo, mi gonfiarono il cuore e capii che bastava un soprassalto d'energia, un bel ricordo, per ritrovare la speranza. Capii che ogni giorno trascorso era un passo verso la salvezza. Il bel tempo tornava, come tante stagioni passate, e mi trovava ancora libero, ancor vivo. Anche stavolta la certezza durò poco piú di un istante, ma fu come un disgelo, una grazia. Potei respirare, guardarmi d'attorno, pensare al domani.
Cesare Pavese, Prima che il gallo canti, pag. 221
Ma ho visto i morti sconosciuti, i morti repubblichini.
Sono questi che mi hanno svegliato. Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura a scavalcarlo, vuoi dire che anche vinto il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificare chi l'ha sparso. Guardare certi morti è umiliante. Non sono piú faccenda altrui; non ci si sente capitati sul posto per caso, Si ha l'impressione che lo stesso destino che ha messo a terra quei corpi, tenga noialtri inchiodati a vederli, a riempircene gli occhi. Non è paura, non è la solita viltà.
Ci si sente umiliati perché si capisce — si tocca con gli occhi — che al posto del morto potremmo essere noi: non ci sarebbe differenza, e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione Nascondi
Cesare Pavese, Prima che il gallo canti, pag. 258
Oggi ancora mi chiedo perché quei tedeschi non mi aspettarono alla villa mandando qualcuno a cercarmi a Torino. Devo a questo se sono ancora libero, se sono quassú. Perché la salvezza sia toccata a me e non a Gallo, non a Tono, non a Cate, non so. Forse perché devo soffrire dell'altro? Perché sono il piú inutile e non merito nulla, nemmeno un castigo? Perch'ero entrato quella volta in chiesa? L'esperienza del pericolo rende vigliacchi ogni giorno di piú. Rende sciocchi e sono al punto che esser vivo per caso, quando tanti migliori di me sono morti, non mi soddisfò e non mi basta. A volte, dopo avere ascoltato l'inutile radio, guardando dal vetro le vigne deserte penso che vivere per caso non è vivere. E mi chiedo se sono davvero scampato
Cesare Pavese, Prima che il gallo canti, pag. 217
La città si era fatta piú selvaggia dei miei boschi.
Quella guerra in cui vivevo rifugiato, convinto di averla accettata, di essermene fatta una pace scontrosa, inferociva, mordeva piú a fondo, giungeva ai nervi e nel cervello.
Cesare Pavese, Prima che il gallo canti, pag. 194
Ora che anche quei giorni sembrano un sogno e salvarsi non ha quasi piú senso, c'è in fondo a tutti gli incontri e i risvegli una pace disperata, uno stupore di esser vivi ancora un giorno, ancora un'ora, che mette allegria. Non si hanno piú molti riguardi, né per sé né per gli altri. Si ascolta, impassibili
Cesare Pavese, Prima che il gallo canti, pag. 190
Il mito greco insegna che si combatte sempre contro una parte di sé,
quella che si è superata, un antico se stesso.
Si combatte soprattutto per non essere qualcosa, per liberarsi.
Chi non ha grandi ripugnanze non combatte.
Cesare Pavese, “Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950”
Bisogna staccarsi da tutto, per accostarsi a tutto.
Godere di ogni cosa profanamente ma con distacco sacro.
Cesare Pavese, Il mestiere di vivere
Se è vero che l'individuo si accoppia di preferenza al suo contrario (la legge della vita), ciò nasce dal fatto che esiste un orrore istintivo nell'esser legato a chi esprime i nostri stessi difetti, le nostre stesse idiosincrasie ecc. La ragione è evidentemente che difetti ed idiosincrasie, scoperti in chi ci è vicino, ci tolgono l'illusione -prima da noi nutrita- che fossero in noi singolarità scusabili perché originali.
Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, 21 maggio 1940
Non bisogna mai dire per gioco che si è scoraggiati,
perché può accadere che ci pigliamo in parola.
Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, 5 agosto 1940.
Il problema non è la durezza della sorte,
poiché quello che si desidera con bastante forza, si ottiene.
Il problema è piuttosto che ciò che si ottiene disgusta.
E allora non deve mai accadere di prendersela con la sorte,
ma con il proprio desiderio.
Cesare Pavese, Il mestiere di vivere (3 febb. 1943)
Questo è l'estratto di tutti gli amori:
si comincia contemplando, esaltati;
si finisce analizzando, curiosi.
Che me ne importa di una persona che non sia disposta a sacrificarmi tutta la sua vita?
Che questa sia l'incofessabile pretesa di ciascuno, si vede da ciò che ciascuno si sposa (o vorrebbe sposarsi). Forse che sposarsi è chiedere altro? Va da sé che anche noi siamo pronti al reciproco. Sì, ma with a difference: se quell'altra persona cambia idea, naturalmente la cambieremo anche noi, mentre non è affatto naturale che se noi cambiamo idea (un cornetto fatto la domenica), anche l'altra abbia questo diritto.
Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, framm. del 24 genn. 1938
L'ozio rende lente le ore e veloci gli anni.
L'operosità rapide le ore e lenti gli anni.
L'infanzia è la massima operosità perché occupata a scoprire il mondo e svariarselo.
Gli anni diventano lunghi nel ricordo se ripensandoci troviamo in essi molti fatti da distendervi la fantasia. Per questo l'infanzia appare lunghissima. Probabilmente ogni epoca della vita si moltiplica nelle successive riflessioni delle altre: la più corta è la vecchiaia perché non sarà più ripensata.
Cesare Pavese, Il mestiere di vivere
Gli anni diventano lunghi nel ricordo se ripensandoci troviamo in essi molti fatti da distendervi la fantasia. Per questo l'infanzia appare lunghissima. Probabilmente ogni epoca della vita si moltiplica nelle successive riflessioni delle altre: la più corta è la vecchiaia perché non sarà più ripensata.
Cesare Pavese, Il mestiere di vivere (estratto dal framm. 10 Dic. 1938)
In fondo, l’unica ragione perché si pensa sempre al proprio io,
è che col nostro io dobbiamo stare più continuamente che non chiunque altro.
Cesare Pavese, Il mestiere di vivere (26 maggio 1938)
Questo bisogno di esser solo, di non sentire che ti chiedano nulla, che ti tirino con sé…
Quest’orrore che abbiano il minimo diritto su di te, che te lo facciano sentire…
Questa evidente goffaggine degli altri, di aspettarsi qualcosa, di take for granted qualcosa da te.
Diventi subito incapace, ti spegni, di drizzi, recalcitri. Non sai più dire una parola buona.
Cancelli e abbandoni. […]
Cesare Pavese, Il mestiere di vivere (2 marzo 1948)
Tu sei solo, e lo sai. Tu sei nato per vivere sotto le ali di un altro, sorretto e giustificato da un altro, che sia però tanto gentile da lasciarti fare il matto e illudere di bastare da solo a rifare il mondo.
Non trovi mai nessuno che duri tanto; di qui, il tuo soffrire i distacchi - non per tenerezza.
Di qui, il tuo rancore per chi se n'è andato; di qui la tua facilità a trovarti un nuovo patrono - non per cordialità. Sei una donna, e come donna sei caparbio. Ma non basti da solo, e lo sai.
Cesare Pavese, Il mestiere di vivere
Ti stupisci che gli altri ti passino accanto e non sappiano,
quando tu passi accanto a tanti e non sai, non t'interessa,
qual è la loro pena, il loro cancro segreto?
Cesare Pavese, il mestiere di vivere, 1950
Si odiano gli altri, perché si odia se stessi.
Cesare Pavese, Il mestiere di vivere
Si perdona agli altri quando ci conviene.
Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, framm. del 30 ottobre 1938
Chiodo schiaccia chiodo.
Ma quattro chiodi fanno una croce
Cesare Pavese, 16 Agosto 1950
(dieci giorni prima del suicidio),
Il Mestiere di Vivere, p. 399
La mia felicità sarebbe perfetta,
se non fosse la fuggente angoscia di frugarne il segreto per ritrovarla domani e sempre.
Ma forse confondo: la mia felicità sta in quest'angoscia.
E ancora una volta mi ritorna la speranza che forse domani basterà il ricordo.
Cesare Pavese, Il mestiere di vivere (1 dic. 1937)
L'amore è la più a buon prezzo delle religioni.
Cesare Pavese, Il mestiere di vivere.
In fondo, il segreto della vita è di fare come se ciò che ci manca più dolorosamente, noi l’avessimo.
Cesare Pavese, Il mestiere di vivere.
Date una compagnia al solitario e parlerà più di chiunque.
Cesare Pavese, Il mestiere di vivere
No, non sono pazzi questa gente che si diverte, che gode, che viaggia, che fotte, che combatte – non sono pazzi, tanto è vero che vorremmo farlo anche noi.
Cesare Pavese, Il mestiere di vivere (21 nov. 1937)
Sono tuo amante, quindi / perciò tuo nemico.
Cesare Pavese, Il mestiere di vivere (18 novembre 1945)
Alle solite sofferenze (gelosia, brama, ecc) si aggiunge il terrore del tempo che fugge irreparabile.
Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, frammento del 14 ott. 1940
Nulla.
Non scrive nulla.
Potrebbe essere morta.
Devo avvezzarmi a vivere come se questo fosse normale
Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, 22 Marzo 1950.
Una donna che non sia una stupida, presto o tardi,
incontra un rottame umano e si prova a salvarlo.
Qualche volta ci riesce.
Ma una donna che non sia una stupida,
presto o tardi trova un uomo sano e lo riduce a rottame.
Ci riesce sempre.
Cesare Pavese, Il mestiere di vivere.
3 agosto...
Per consolare il giovane cui succede una disgrazia, gli si dice:
«Sii forte, prendila con fegato;
sarai corazzato per l'avvenire.
Una volta succede a tutti, ecc.».
Nessuno pensa a dirgli quello che invece è vero:
questa stessa disgrazia ti succederà due, quattro, dieci volte
- ti succederà sempre,
perché, se sei così fatto che le hai offerto il fianco ora,
lo stesso dovrà accaderti in avvenire.
La sola regola eroica: essere soli, soli, soli.
Quando passerai «una» giornata
senza presupporre né implicare
in nessun tuo gesto o pensiero la presenza di altri,
potrai chiamarti eroico.
Cesare Pavese - Il mestiere di vivere.
(Appunto del 15 Ottobre 1940).
L’amore ha la virtù di denudare non i due amanti l’uno di fronte all’altro,
ma ciascuno dei due davanti a sé.
Cesa
re Pavese, Il mestiere di vivere
Quale mondo giaccia di là di questo mare non so,
ma ogni mare ha l'altra riva, e arriverò.
Cesare Pavese, Il mestiere di vivere
[…] La mia anima ora
è un abisso dell’oceano
dove tutte le scosse più profonde
tacitamente muoiono.
Cesare Pavese, “Il mestiere di vivere”, 7 maggio 1928.
Viene un'epoca in cui ci si rende conto che tutto ciò che facciamo
diventerà a suo tempo un ricordo. È la maturità.
Per arrivarci bisogna appunto già avere dei ricordi.
Cesare Pavese, da Il mestiere di vivere, appunto del 1 ott. 1944
Bisogna esser pazzi, non sognatori. Essere al di qua dell'assestamento, non al di là.
Un pazzo può ancora rinsavire, ma al sognatore non resta che staccarsi da terra.
Il pazzo ha dei nemici. Il sognatore non ha che se stesso.
Cesare Pavese, da Il mestiere di vivere, appunto del 24 genn. 1938
Leggendo non cerchiamo idee nuove,
ma pensieri già da noi pensati,
che acquistano sulla pagina un suggello di conferma.
Ci colpiscono degli altri le parole che risuonano in una zona già nostra
– che già viviamo – e facendola vibrare ci permettono di cogliere nuovi spunti dentro di noi.
Cesare Pavese, “Il Mestiere di vivere”, 3 dicembre 1938.
L’origine di tutti i peccati è il senso d’inferiorità
– detto altresì ambizione.
Cesare Pavese, Il mestiere di vivere
Chi non si salva da sè non lo salva nessuno,
nessuno lo può salvare.
Cesare Pavese, Il mestiere di vivere
Bisogna osservare bene questo:
ai nostri tempi il suicidio è un modo di sparire,
viene commesso timidamente, silenziosamente, schiacciatamente.
Non è più un agire, è un patire.
Cesare Pavese, Il mestiere di vivere
Si odiano gli altri, perché si odia se stessi.
Cesare Pavese, Il mestiere di vivere
«Vivere in un ambiente è bello quando l'anima è altrove.
In città quando si sogna la campagna, in campagna quando si sogna la città.
Dappertutto quando si sogna il mare».
Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, 5 aprile 1945.
«Questa sera, sotto le rocce rosse lunari, pensavo come sarebbe di una grande poesia mostrare il dio incarnato in questo luogo, con tutte le allusioni d'immagini che simile tratto consentirebbe. Subito mi prese la coscienza che questo dio non c'è, che io lo so, ne sono convinto, e quindi altri avrebbe potuto fare questa poesia, non io. […]
Perché non posso trattare io delle rocce rosse lunari? Ma perché esse non riflettono nulla di mio, tranne uno scarno turbamento paesistico, quale non dovrebbe mai giustificare una poesia. Se queste rocce fossero in Piemonte, saprei bene però assorbirle in un'immagine e dar loro un significato.»
Cesare Pavese, Il mestiere di vivere
Quando Pavese scrive questo si trova al confino in un paese della Calabria e le sue parole sono chiare: pur riconoscendo la bellezza e la natura mitica di quei luoghi, essi non gli dicono null'altro più, non riesce a comporvi una poesia poiché, differentemente dal Piemonte, sua terra nativa, quei posti non li sente suoi, non gli appartengono.
E per appartenere ad un luogo bisogna riconoscerne la terra, la luce, la pioggia e i venti e le stagioni del tempo devono susseguirsi all'unisono con quelle della nostra anima.
https://lelettere.tumblr.com/post/153261061082/non-so-se-ci%C3%B2-che-sto-per-scrivere-sia-comune-a
Quando si soffre, si crede che di là dal cerchio esista la felicità;
quando NON si soffre si sa che questa non esiste,
e si soffre allora di soffrire perché non si soffre nulla.
Cesare Pavese, Il mestiere di vivere
C’è un’arte di ricevere in faccia le sferzate del dolore, che bisogna imparare.
Lasciare che ogni singolo assalto si esaurisca;
un dolore fa sempre singoli assalti – lo fa per mordere piú risoluto e concentrato.
E tu, mentre ha i denti piantati in un punto e inietta qui il suo acido,
ricordati di mostrargli un altro punto e fartici mordere – solleverai il primo.
Un vero dolore è fatto di molti pensieri;
ora, di pensieri se ne pensa uno solo alla volta;
sappiti barcamenare tra i molti,
e riposerai successivamente i settori indolenziti.
Cesare Pavese, Il mestiere di vivere
«L'amore ha la virtù di denudare non i due amanti l'uno di fronte all'altro,
ma ciascuno dei due davanti a sé»
- 12 ottobre 1940.
ma ciascuno dei due davanti a sé»
- 12 ottobre 1940.
Cesare Pavese, “Il mestiere di vivere”
Osservo che il dolore abbrutisce, intontisce, schiaccia. Ogni tentacolo con cui una volta sentivo, provavo e sfioravo il mondo, è come troncato e incancrenito al moncone. Passo la giornata come chi ha urtato uno spigolo con la rotula interna del ginocchio: tutta la giornata come quell'istante intollerabile. Il dolore è nel petto, che mi sembra sfondato e ancora avido, pulsante di sangue che fugge e non ritorna, come da un'enorme ferita. Naturalmente, è tutta una fissazione. Dio mio, ma è perché sono solo, e domani avrò una rapida felicità, e poi di nuovo i brividi, la stretta, lo squarcio. Non ho più fisicamente la forza di star solo. Una volta sola mi è riuscito, ma ora è una ricaduta e, come tutte le ricadute è mortale.
Cesare Pavese, "Il mestiere di vivere"
Non ci si libera di una cosa evitandola, ma solo attraversandola
Cesare Pavese, "Il mestiere di vivere"
Non ci si libera di una cosa evitandola, ma solo attraversandola
Cesare Pavese, Il mestiere di vivere
Un vero dolore è fatto di molti pensieri; ora, di pensieri se ne pensa uno solo alla volta; sappiti barcamenare tra i molti, e riposerai successivamente i settori indolenziti.
Cesare Pavese, Il mestiere di vivere
Proprio a te doveva accadere di concentrare tutta la vita su un punto,
e poi scoprire che tutto puoi fare tranne vivere quel punto.
Cesare Pavese. Il mestiere di vivere
Alla lunga un dolore si svincola dall’ansia, dal ricordo, dal sospetto che lo provocò, e vige da solo nell’anima. Stanotte soffrivi già quando a un certo punto hai cercato in te il dimenticato o non ancora ricordato motivo del tuo dolore.
Cesare Pavese, Il mestiere di vivere (12 marzo 1945)
Per possedere qualcosa o qualcuno, occorre non abbandonarglisi,
non perderci dietro la testa, restargli insomma superiore.
Ma è legge della vita che si gode solamente ciò in cui ci si abbandona.
Cesare Pavese, Il mestiere di vivere
6 sett.
Viene un giorno che per chi ci ha perseguitato proviamo soltanto indifferenza,
stanchezza della sua stupidità. Allora perdoniamo.
Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, frammento del 6 sett. 1942
Alla lunga un dolore si svincola dall’ansia, dal ricordo, dal sospetto che lo provocò, e vige da solo nell’anima. Stanotte soffrivi già quando a un certo punto hai cercato in te il dimenticato o non ancora ricordato motivo del tuo dolore.
Cesare Pavese, Il mestiere di vivere (12 marzo 1945)
C’è un’arte di ricevere in faccia le sferzate del dolore, che bisogna imparare. Lasciare che ogni singolo assalto si esaurisca; un dolore fa sempre singoli assalti – lo fa per mordere piú risoluto e concentrato. E tu, mentre ha i denti piantati in un punto e inietta qui il suo acido, ricordati di mostrargli un altro punto e fartici mordere – solleverai il primo. Un vero dolore è fatto di molti pensieri; ora, di pensieri se ne pensa uno solo alla volta; sappiti barcamenare tra i molti, e riposerai successivamente i settori indolenziti.
La sorte più brutta diventa un piacere: basta sceglierla noi…basta volerla prima ancora che ci venga imposta…. Non c'è destino ma soltanto dei limiti. La sorte peggiore è subirli. Bisogna invece rinunciare.
Cesare Pavese, Il mestiere di vivere
Non è che accadano a ciascuno cose secondo un destino,
ma le cose accadute ciascuno le interpreta, se ne ha la forza,
disponendole secondo un senso - vale a dire, un destino.
Cesare Pavese, Il mestiere di vivere (25 genn. 1948)
La sorte più brutta diventa un piacere: basta sceglierla noi…
basta volerla prima ancora che ci venga imposta….
Non c'è destino ma soltanto dei limiti.
La sorte peggiore è subirli.
Bisogna invece rinunciare.
Cesare Pavese, Il mestiere di vivere
Non è che accadano a ciascuno cose secondo un destino,
ma le cose accadute ciascuno le interpreta, se ne ha la forza,
disponendole secondo un senso - vale a dire, un destino.
Cesare Pavese, Il mestiere di vivere (25 genn. 1948)
La sorte più brutta diventa un piacere: basta sceglierla noi…
basta volerla prima ancora che ci venga imposta….
Non c'è destino ma soltanto dei limiti.
La sorte peggiore è subirli.
Bisogna invece rinunciare.
Cesare Pavese, Il mestiere di vivere
La guerra imbarbarisce perché, per combatterla, occorre indurirsi verso ogni rimpianto e attaccamento a valori delicati, occorre 'vivere come se questi valori/ non esistessero; e, una volta finita, si è persa ogni elasticità di tornare a questi valori.
Cesare Pavese, Il mestiere di vivere
Per possedere qualcosa o qualcuno, occorre non abbandonarglisi,
non perderci dietro la testa, restargli insomma superiore.
Ma è legge della vita che si gode solamente ciò in cui ci si abbandona.
Cesare Pavese, Il mestiere di vivere
6 sett.
Viene un giorno che per chi ci ha perseguitato proviamo soltanto indifferenza,
stanchezza della sua stupidità. Allora perdoniamo.
Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, frammento del 6 sett. 1942
Una beffarda legge della vita è la seguente: non chi dà ma chi esige, è amato.
Cioè, è amato chi non ama, perché chi ama dà. E si capisce: dare è un piacere più indimenticabile che ricevere; quello a cui abbiamo dato, ci diventa necessario, cioè lo amiamo. Il dare è una passione, quasi un vizio. La persona a cui diamo, ci diventa necessaria.
Cesare Pavese, Il Mestiere di Vivere (1952)
Alla lunga un dolore si svincola dall’ansia, dal ricordo, dal sospetto che lo provocò, e vige da solo nell’anima. Stanotte soffrivi già quando a un certo punto hai cercato in te il dimenticato o non ancora ricordato motivo del tuo dolore.
Cesare Pavese, Il mestiere di vivere (12 marzo 1945)
L’arte di sviluppare i motivetti per risolverci a compiere le grandi azioni che ci sono necessarie.
L'arte di non farci mai |avvilire dalle reazioni altrui, ricordando che il valore di un sentimento è giudizio nostro poiché saremo noi a sentircelo, non chi interviene.
L'arte di mentire a noi stessi sapendo di mentire.
L'arte di guardare in faccia la gente, compresi noi stessi, come fossero personaggi di una nostra novella. L'arte di ricordare sempre che, non contando noi nulla e non contando nulla nessuno degli altri, noi contiamo più di ciascuno, semplicemente perché siamo noi.
L’arte di considerare la donna come una pagnotta: problema d’astuzia.
L’arte di toccare fulmineamente il fondo del dolore, per risalire con un colpo di tallone.
L'arte di sostituire noi a ciascuno, e sapere quindi che ciascuno si interessa soltanto di sé.
L'arte di attribuire qualunque nostro gesto a un altro, per chiarirci all'istante se è sensato.
L’arte di fare a meno dell’arte.
L’arte di essere solo.
Cesare Pavese, Il mestiere di vivere (9 ott.1938)
Cioè, è amato chi non ama, perché chi ama dà. E si capisce: dare è un piacere più indimenticabile che ricevere; quello a cui abbiamo dato, ci diventa necessario, cioè lo amiamo. Il dare è una passione, quasi un vizio. La persona a cui diamo, ci diventa necessaria.
Cesare Pavese, Il Mestiere di Vivere (1952)
Alla lunga un dolore si svincola dall’ansia, dal ricordo, dal sospetto che lo provocò, e vige da solo nell’anima. Stanotte soffrivi già quando a un certo punto hai cercato in te il dimenticato o non ancora ricordato motivo del tuo dolore.
Cesare Pavese, Il mestiere di vivere (12 marzo 1945)
L’arte di sviluppare i motivetti per risolverci a compiere le grandi azioni che ci sono necessarie.
L'arte di non farci mai |avvilire dalle reazioni altrui, ricordando che il valore di un sentimento è giudizio nostro poiché saremo noi a sentircelo, non chi interviene.
L'arte di mentire a noi stessi sapendo di mentire.
L'arte di guardare in faccia la gente, compresi noi stessi, come fossero personaggi di una nostra novella. L'arte di ricordare sempre che, non contando noi nulla e non contando nulla nessuno degli altri, noi contiamo più di ciascuno, semplicemente perché siamo noi.
L’arte di considerare la donna come una pagnotta: problema d’astuzia.
L’arte di toccare fulmineamente il fondo del dolore, per risalire con un colpo di tallone.
L'arte di sostituire noi a ciascuno, e sapere quindi che ciascuno si interessa soltanto di sé.
L'arte di attribuire qualunque nostro gesto a un altro, per chiarirci all'istante se è sensato.
L’arte di fare a meno dell’arte.
L’arte di essere solo.
Cesare Pavese, Il mestiere di vivere (9 ott.1938)
Quando più una persona è insofferente di catene e bisognosa di libertà, tanto più è abitudinaria. L'inafferrabilità è gretta.
Cesare Pavese, Il mestiere di vivere
Il dolore non è affatto un privilegio, un segno di nobiltà, un ricordo di Dio. Il dolore è una cosa bestiale e feroce, banale e gratuita, naturale come l’aria. È impalpabile, sfugge a ogni presa e a ogni lotta; vive nel tempo, è la stessa cosa che il tempo; se ha dei sussulti e degli urli, li ha soltanto per lasciar meglio indifeso chi soffre, negli istanti che seguiranno, nei lunghi istanti in cui si riassapora lo strazio passato e si aspetta il successivo. Questi sussulti non sono il dolore propriamente detto, sono istanti di vitalità inventati dai nervi per far sentire la durata del dolore vero, la durata tediosa, esasperante, infinita del tempo-dolore. Chi soffre è sempre in stato d’attesa – attesa del sussulto e attesa del nuovo sussulto. Viene il momento che si grida senza necessità, pur di rompere la corrente del tempo, pur di sentire che accade qualcosa, che la durata eterna del dolore bestiale si è un istante interrotta- sia pure per intensificarsi. Qualche volta viene il sospetto che la morte – l’inferno- consisterà ancora del fluire di un dolore senza sussulti, senza voce, senza istanti, tutto tempo e tutto eternità, incessante come il fluire del sangue in un corpo che non morirà più.
Il dolore non è affatto un privilegio, un segno di nobiltà, un ricordo di Dio. Il dolore è una cosa bestiale e feroce, banale e gratuita, naturale come l’aria. È impalpabile, sfugge a ogni presa e a ogni lotta; vive nel tempo, è la stessa cosa che il tempo; se ha dei sussulti e degli urli, li ha soltanto per lasciar meglio indifeso chi soffre, negli istanti che seguiranno, nei lunghi istanti in cui si riassapora lo strazio passato e si aspetta il successivo. Questi sussulti non sono il dolore propriamente detto, sono istanti di vitalità inventati dai nervi per far sentire la durata del dolore vero, la durata tediosa, esasperante, infinita del tempo-dolore. Chi soffre è sempre in stato d’attesa – attesa del sussulto e attesa del nuovo sussulto. Viene il momento che si grida senza necessità, pur di rompere la corrente del tempo, pur di sentire che accade qualcosa, che la durata eterna del dolore bestiale si è un istante interrotta- sia pure per intensificarsi. Qualche volta viene il sospetto che la morte – l’inferno- consisterà ancora del fluire di un dolore senza sussulti, senza voce, senza istanti, tutto tempo e tutto eternità, incessante come il fluire del sangue in un corpo che non morirà più.
Cesare Pavese, Il mestiere di vivere
L'arte di vivere è l'arte di saper credere alle menzogne.
Il tremendo è che, non sapendo quid sit veritas, sappiamo però che cos'è la menzogna.
Il mestiere di vivere
L'arte di vivere è l'arte di saper credere alle menzogne.
Il tremendo è che, non sapendo quid sit veritas, sappiamo però che cos'è la menzogna.
Il mestiere di vivere
Non abbiamo che questa virtù: cominciare
ogni giorno la vita davanti alla terra,
sotto un cielo che tace attendendo un risveglio.
Si stupisce qualcuno che l'alba sia tanta fatica;
di risveglio in risveglio un lavoro è compiuto.
Cesare Pavese
"Vivere tra la gente è sentirsi foglia sbattuta. Viene il bisogno di isolarsi, di sfuggire al determinismo di tutte quelle palle di bigliardo. Così ognuno di noi possiede una mitologia personale (fievole eco di quell'altra) che dà valore, un valore assoluto, al suo mondo più remoto, e gli riveste povere cose del passato con un ambiguo e seducente lucore dove pare, come in un simbolo, riassumersi il senso di tutta la vita".
Cesare Pavese
Endimione: […] Hai mai conosciuto una persona che fosse molte cose in una, le portasse con sé, che ogni suo gesto, ogni pensiero che tu fai di lei racchiudesse infinite cose della tua terra e del tuo cielo, e parole, ricordi, giorni andati che non saprai mai, giorni futuri, certezze,
e un’altra terra e un altro cielo che non ti è dato possedere?
Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò
Anche il tuo desiderio di scampare al destino, è destino esso stesso.
Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò (1947): La strada
Farò della parola tumulto e del tumulto schiuma d’onda.
Saranno segrete lacrime liberate. E ne faremo destino.
Tu che hai trasformato ogni mio “dovevo” in splendidi “puoi”.
Non c’è sfiorare senza mutare. E nel mutare sorridere.
Questo è accettarsi. E sorridere al destino.
Non temiamo il destino. Non ci tireremo indietro.
Prima di essere schiuma saremo indomabili onde.
Tu diventi desiderio.
Cesare Pavese, Dialogo 7: schiuma d’onda (da Dialoghi con Leucò)
Ma la fatica interminabile, lo sforzo di star vivi d’ora in ora,
la notizia del male degli altri, del male meschino, fastidioso come mosche d’estate
– quest’è il vivere che taglia le gambe
Cesare Pavese, dialoghi con leucò
Tutto è lecito a chi non sa ancora.
È necessario che ciascuno scenda una volta nel suo inferno.
Cesare Pavese, L’inconsolabile, dai “Dialoghi con Leucò” (1947) (Orfeo a Bacca)
È necessario che ciascuno scenda una volta nel suo inferno.
Cesare Pavese, L’inconsolabile, dai “Dialoghi con Leucò” (1947) (Orfeo a Bacca)
“Tànatos:- Che per nascere occorra morire, lo sanno anche gli uomini. Non lo sanno gli olimpici. Se lo sono scordato. Loro durano in un mondo che passa. Non esistono: sono. Ogni loro capriccio è una legge fatale.
Per esprimere un fiore distruggono un uomo -”
Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò
“Non ti sei chiesto perché un attimo, simile a tanti del passato,
debba farti d'un tratto felice, felice come un dio?
Tu guardavi l'ulivo, l'ulivo sul viottolo che hai percorso ogni giorno per anni,
e viene il giorno che il fastidio ti lascia e tu carezzi il vecchio tronco con lo sguardo,
quasi fosse un amico ritrovato e ti dicesse proprio la sola parola che il tuo cuore attendeva.
Altre volte è l'occhiata di un passante qualunque. Altre volte la pioggia che insiste da giorni.
O lo strido strepitoso di un uccello. O una nube che diresti di aver già veduto.
Per un attimo il tempo si ferma, e la cosa banale te la senti nel cuore come se il prima
e il dopo non esistessero più”
Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò, Le muse
Bacca: "E che vuol dire che un destino non tradisce?"
Orfeo: "Vuol dire che è dentro di te, cosa tua; più profonda del sangue, di là da ogni ebbrezza.
Nessun dio può toccarlo."
CESARE PAVESE, DIALOGHI CON LEUCO' - L'Inconsolabile - (Parlano Orfeo e Bacca).
Ma ricordati sempre che i mostri non muoiono.
Quello che muore è la paura che t'incutono.
Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò
Mi par di essere un'ombra tra le ombre degli alberi.Più mi scaldo a questo sole e mi nutro a questa terra,
più mi pare di sciogliermi in stille e brusii,
nella voce del lago, nei ringhi del bosco.
Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò: Il Lago
La nostra vita è foglia e tronco, polla d’acqua, schiuma d’onda.
Noi giochiamo a sfiorare le cose, non fuggiamo. Mutiamo.
Questo è il nostro desiderio e il destino.
Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò
Io cercavo, piangendo, non più lei ma me stesso.
Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò: Orfeo - L’inconsolabile.
Britomarti: O Saffo, non è questo il sorridere.
Sorridere è vivere come un’onda o una foglia, accettando la sorte.
È morire a una forma e rinascere a un’altra.
È accettare, accettare, se stesse e il destino. […]
Saffo: .Il desiderio non è canto.
Il desiderio schianta e brucia, come il serpe, come il vento.
Cesare Pavese, Schiuma d'onda (Dialoghi con Leucò)
Significa accettarsi e accettare.
saffo:
E che cosa vuol dire? Si può accettare che una forza ti rapisca e tu diventi desiderio, desiderio tremante che si dibatte intorno a un corpo, di compagno o compagna, come la schiuma tra gli scogli? E questo corpo ti respinge e t'infrange, e tu ricadi, e vorresti abbracciare lo scoglio, accettarlo. Altre volte sei scoglio tu stessa, e la schiuma - il tumulto - si dibatte ai tuoi piedi. Nessuno ha mai pace. Si può accettare tutto questo?
britomarti:
Bisogna accettarlo. Hai voluto sfuggire, e sei schiuma anche tu.
Cesare Pavese, Schiuma d'onda (Dialoghi con Leucò)
Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura a scavalcarlo, vuol dire che anche vinto il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificarne chi l'ha sparso. Guardare certi morti è umiliante. Non sono più faccenda altrui; non ci si sente capitati sul posto. Si ha l'impressione che lo stesso destino che ha messo a terra quei corpi, tenga noialtri inchiodati a vederli, a riempircene gli occhi. Non è paura, non è la solita viltà. Ci si sente umiliati perché si capisce - si tocca con gli occhi - che al posto del morto potremmo essere noi: non ci sarebbe differenza, e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta e gliene chiede ragione.
Ci sono giorni in questa nuda campagna che camminando ho un soprassalto: un tronco secco, un nodo d'erba, una schiena di roccia, mi paiono corpi distesi. Può sempre succedere.
.............................................
Ora che ho visto cos'è la guerra, cos'è guerra civile, so che tutti, se un giorno finisse, dovrebbero chiedersi: " E dei caduti che facciamo? perché sono morti? ". Io non saprei cosa rispondere. Non adesso, almeno. Né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero.
1947-48
Cesare Pavese, La casa in collina.
- […] Mi ricordavo di quello che mi hai detto una volta,
che la vita ha valore solamente se si vive per qualcosa o per qualcuno…
Cesare Pavese, La casa in collina.
Siamo tutti malati che vorremmo guarire.
È un male dentro, basterebbe esser convinti che non c’è e saremmo sani.
Cesare Pavese, La casa in collina
Ogni guerra è una guerra civile:
ogni caduto somiglia a chi resta,
e gliene chiede ragione.
Cesare Pavese, La casa in collina
- Eppure crederci bisogna, - le dissi.
- Se non credi in qualcosa, non vivi.
Cesare Pavese, La casa in collina
È un male dentro, basterebbe esser convinti che non c’è e saremmo sani.
Cesare Pavese, La casa in collina
Ogni guerra è una guerra civile:
ogni caduto somiglia a chi resta,
e gliene chiede ragione.
Cesare Pavese, La casa in collina
- Eppure crederci bisogna, - le dissi.
- Se non credi in qualcosa, non vivi.
Cesare Pavese, La casa in collina
In sostanza chiedevo un letargo, un anestetico,
la certezza di essere ben nascosto.
Non chiedevo la pace del mondo,
chiedevo la mia.
Cesare Pavese, La casa in collina
«Non sei mica fascista? - mi disse.
Era seria e rideva. Le presi la mano e sbuffai.
- Lo siamo tutti, cara Cate, - dissi piano -
Se non lo fossimo, dovremmo rivoltarci, tirare le bombe, rischiare la pelle.
Chi lascia fare e s’accontenta, è già un fascista».
Cesare Pavese, “La casa in collina”
Come puoi sollevarti se prima non precipiti?
Cesare Pavese, Il diavolo sulle colline
buttati come l'edera a nascondere un pozzo,
quando tutti sapevamo di che pozzo si trattava?
Cesare Pavese, pag. 167 da “Il diavolo sulle colline” da La Bella Estate
- E’ una stupida, - dissi
- Una donna innamorata è sempre stupida, - disse Pieretto
Cesare Pavese, pag. 108 da “Il diavolo sulle colline” in La bella estate
Chi si fa pecora, il lupo lo mangia.
Cesare Pavese, La bella estate, 1940, cap. 2
Non sai che quello che ti tocca una volta si ripete?
Che come si è reagito una volta, si reagisce sempre?
Non è mica per caso che ti metti nei guai.
Poi ci ricaschi. Si chiama il destino.
Cesare Pavese, Il diavolo sulle colline
Mi prese una brusca tristezza.
Mi sentii spaesato, e geloso
Cesare Pavese, pag. 141
di “Il diavolo sulle colline” da La Bella Estate
A quei tempi era sempre festa.
Bastava uscire di casa e traversare la strada,
per diventare come matte, e tutto era cosí bello,
specialmente di notte,
che tornando stanche morte
speravano ancora che qualcosa succedesse (…)
Cesare Pavese, La bella estate.
Si faccia una vita interiore, di studio, di affetti,
che non siano soltanto di “arrivare”, ma di “essere”
- e vedrà che la vita avrà un significato.
Cesare Pavese a Fernanda Pivano
Hai negli occhi i suoi occhi.
Sei parole distratte.
Mangi poesie d’amore.
Tu non scivoli altrove,
ogni volta è la morte.
Sei un cielo stellato.
Sei persa.
E non era stupida, sapeva quel che voleva.
Solamente voleva delle cose impossibili.
Cesare Pavese.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi-
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla
Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.
Cesare Pavese, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
- Perché poi tanta paura?
Allora Clelia disse che in quegli anni era tutta impastata di paura. I primi pensieri d'amore li aveva fatti davanti a un quadro di san Sebastiano martire, un giovane nudo, tutto coagulato di sangue e scrostato, con le frecce piantate nel ventre. Gli occhi tristi e innamorati di quel santo la facevano vergognare di guardarlo, e per lei l'amore voleva dire quella scena.
- Perché poi le racconto questo, - disse.
Poco dopo comparve Doro sul balcone, intento ad asciugarsi il collo. Mi fece cenno e rientrò per scendere. Chiesi a Clelia se sull'amore aveva cambiato idea.
- Naturalmente, - mi disse.
— Cesare Pavese, La spiaggia
E non era una stupida, sapeva quel che voleva.
Solamente voleva delle cose impossibili.
Cesare Pavese
Sempre vieni dal mare
e ne hai la voce roca,
sempre hai occhi segreti
d’acqua viva tra i rovi,
e fronte bassa, come
cielo basso di nubi.
Ogni volta rivivi
come una cosa antica
e selvaggia, che il cuore
già sapeva e si serra.
Ogni volta è uno strappo,
ogni volta è la morte.
Noi sempre combattemmo.
Chi si risolve all’urto
ha gustato la morte
e la porta nel sangue.
Come buoni nemici
che non s’odiano piú
noi abbiamo una stessa
voce, una stessa pena
e viviamo affrontati
sotto povero cielo.
Tra noi non insidie,
non inutili cose –
combatteremo sempre.
Combatteremo ancora,
combatteremo sempre,
perché cerchiamo il sonno
della morte affiancati,
e abbiamo voce roca
fronte bassa e selvaggia
e un identico cielo.
Fummo fatti per questo.
Se tu od io cede all’urto,
segue una notte lunga
che non è pace o tregua
e non è morte vera.
Tu non sei piú. Le braccia
si dibattono invano.
Fin che ci trema il cuore.
Hanno detto un tuo nome.
Ricomincia la morte.
Cosa ignota e selvaggia
sei rinata dal mare.
[19-20 novembre 1945]
Cesare Pavese da “La terra e la morte”, in “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”,
Einaudi, Torino, 1951
Da bambino guardando le nuvole e la strada tra le stelle,
senza saperlo avevo già cominciato i miei viaggi.
Cesare Pavese, La luna e i falò.
La cosa che non mi capacitava a quei tempi, era che tutte le donne sono fatte in un modo, tutte cercano un uomo. È così che dev'essere, dicevo pensandoci; ma che tutte, anche le più belle, anche le più signore, gli piacesse una cosa simile mi stupiva. Allora ero già più sveglio, ne avevo sentite tante, e sapevo, vedevo come anche Irene e Silvia correvano dietro a questo e a quello. Però mi stupiva. E Nuto a dirmi: - Cosa credi? La luna c'è per tutti, così le piogge, così le malattie. Hanno un bel vivere in un buco o in un palazzo, il sangue è rosso dappertutto.
- Ma allora cosa dice il parroco, che fa peccato?
- Fa peccato il venerdì,- diceva Nuto, - ma ci sono altri sei giorni.
La luna e i falò, Cesare Pavese
Un paese ci vuole,
non fosse che per il gusto di andarsene via.
Un paese vuol dire non essere soli,
sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo,
che anche quando non ci sei resta ad aspettarti.
Cesare Pavese, La luna e i falò.
Cesare Pavese, La luna e i falò.
…. mi faceva l’effetto di quelle stanze di città dove si affitta,
si vive un giorno o degli anni,
e poi quando si trasloca restano gusci vuoti, disponibili, morti.
Cesare Pavese, La luna e i falò.
Chi può dire di che carne sono fatto?
Ho girato abbastanza il mondo da sapere che tutte le carni sono buone e si equivalgono,
ma è per questo che uno si stanca e cerca di mettere radici, di farsi terra e paese,
perché la sua carne valga e duri qualcosa di più che un comune giro di stagione.
Cesare Pavese, La luna e i falò.
I veri acciacchi dell’età sono i rimorsi.
Cesare Pavese, La luna e i falò.
Cesare Pavese (9 settembre 1908 - 27 agosto 1950)
C'è una ragione perché sono tornato in questo paese, qui e non invece a Canelli, a Barbaresco o in Alba. Qui non ci sono nato, è quasi certo; dove son nato non lo so; non c'è da queste parti una casa né un pezzo di terra né delle ossa ch'io possa dire «Ecco cos'ero prima di nascere». Non so se vengo dalla collina o dalla valle, dai boschi o da una casa di balconi. La ragazza che mi ha lasciato sugli scalini del duomo di Alba, magari non veniva neanche dalla campagna, magari era la figlia dei padroni di un palazzo, oppure mi ci hanno portato in un cavagno da vendemmia due povere donne da Monticello, da Neive o perché no da Cravanzana. Chi può dire di che carne sono fatto? Ho girato abbastanza il mondo da sapere che tutte le carni sono buone e si equivalgono, ma è per questo che uno si stanca e cerca di mettere radici, di farsi terra e paese, perché la sua carne valga e duri qualcosa di più che un comune giro di stagione.
Cesare Pavese, “La Luna e i Falò”
«A quei tempi non mi capacitavo cosa fosse questo crescere. Credevo fosse solamente fare delle cose difficili - come comprare una coppia di buoi, fare il prezzo dell’uva, manovrare la trebbiatrice. Non sapevo che crescere vuol dire andarsene, invecchiare, veder morire».
Cesare Pavese, “La Luna e i Falò”
"Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti. Queste cose si capiscono con l'esperienza e con l'età."
Cesare Pavese, "La luna e i falò", 1950
«E quando aveva detto una cosa finiva: 'Se sbaglio, correggimi'. Fu così che cominciai a capire che non si parla solamente per parlare, per dire 'ho fatto questo' 'ho fatto quello' 'ho mangiato e bevuto', ma si parla per farsi un'idea, per capire come va questo mondo».
Cesare Pavese, “La luna e i falò” (cap. XVII)
Magari è meglio così,
meglio che tutto se ne vada in un falò d'erbe secche
e che la gente ricominci.
Cesare Pavese, La luna e i falò
Ritroverai le nubi
e il canneto, e le voci
come un'ombra di luna.
Ritroverai parole
oltre la vita breve
e notturna dei giochi,
oltre l'infanzia accesa.
Sarà dolce tacere.
Sei la terra e la vigna.
Un acceso silenzio
brucerà la campagna
come i falò la sera.
Cesare Pavese
"Anche tu sei collina
e sentiero di sassi
e gioco nei canneti,
e conosci la vigna
che di notte tace.
Tu non dici parole.
C'è una terra che tace
e non è terra tua.
C'è un silenzio che dura
sulle piante e sui colli.
Ci son acque e campagne.
Sei un chiuso silenzio
che non cede, sei labbra
e occhi bui. Sei la vigna.
È una terra che attende
e non dice parola.
Sono passati giorni
sotto cieli ardenti.
Tu hai giocato alle nubi.
È una terra cattiva ‒
la tua fronte lo sa.
Anche questo è la vigna.
Ritroverai le nubi
e il canneto, e le voci
come un'ombra di luna.
Ritroverai parole
oltre la vita breve
e notturna dei giochi,
oltre l'infanzia accesa.
Sarà dolce tacere.
Sei la terra e la vigna.
Un acceso silenzio
brucerà la campagna
come i falò la sera."
(30‒31 ottobre ‘45)
Cesare Pavese
...Nell'ebbrezza disperata
dell'amore di tutto il tuo corpo
e della tua anima perduta
vorrei sconvolgere e bruciarmi l'anima
sperdere quest'orrore
che mi strappa gli urli
e me li soffoca in gola
bruciarlo annichilirlo in un attimo
e stringermi a te
senza ritegno più
ciecamente, febbrile,
schiantandoti d'amore.
Poi morire, morire,
con te.
Cesare Pavese, Vorrei
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola, un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla.
Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio, come vedere nello specchio
riemergere un viso morto, come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.
Cesare Pavese, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sempre vieni dal mare
e ne hai la voce roca,
sempre hai occhi segreti
d’acqua viva tra i rovi,
e fronte bassa, come
cielo basso di nubi.
Ogni volta rivivi
come una cosa antica
e selvaggia, che il cuore
già sapeva e si serra.
Ogni volta è uno strappo,
ogni volta è la morte.
Noi sempre combattemmo.
Chi si risolve all’urto
ha gustato la morte
e la porta nel sangue.
Come buoni nemici
che non s’odiano piú
noi abbiamo una stessa
voce, una stessa pena
e viviamo affrontati
sotto povero cielo.
Tra noi non insidie,
non inutili cose –
combatteremo sempre.
Combatteremo ancora,
combatteremo sempre,
perché cerchiamo il sonno
della morte affiancati,
e abbiamo voce roca
fronte bassa e selvaggia
e un identico cielo.
Fummo fatti per questo.
Se tu od io cede all’urto,
segue una notte lunga
che non è pace o tregua
e non è morte vera.
Tu non sei piú. Le braccia
si dibattono invano.
Fin che ci trema il cuore.
Hanno detto un tuo nome.
Ricomincia la morte.
Cosa ignota e selvaggia
sei rinata dal mare.
[19-20 novembre 1945]
Cesare Pavese da “La terra e la morte”,
in “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, Einaudi, Torino, 1951
Tu sei per me una creatura triste,
un fiore labile di poesia,
che, nell’istante stesso che lo godo
e tento inebriarmene,
sento fuggire lontano
tanto lontano,
per la miseria dell’anima mia,
la mia miseria triste.
Quando ti stringo pazzamente al cuore
e ti suggo la bocca,
a lungo, senza posa,
sono triste, bambina,
perché sento il mio cuore tanto stanco
di amarti cosí male.
Tu mi dài la tua bocca
e insieme ci sforziamo di godere
il nostro amore che sarà mai lieto
perché l’anima in noi è troppo stanca
dei sogni già sognati.
Ma sono io sono io il vile,
e tu sei tanto in alto
che, quando penso a te,
non mi resta che struggermi d’amore
per quel poco di gioia che mi dài,
non so se per capriccio o per pietà.
La tua bellezza è una bellezza triste
quale avrei mai osato di sognare,
ma, come tu mi hai detto, è solo un sogno.
Quando ti parlo le cose piú dolci
e ti stringo al mio cuore
e tu non pensi a me,
hai ragione, bambina:
io sono triste triste e tanto vile.
Ecco, tu sei per me
null’altro che una fragile illusione
dai grandi occhi di sogno,
che per un’ora mi si stringe al cuore
e mi ricolma tutto
di cose dolci, piene di rimpianto.
Cosí mi accade quando stancamente
mi struggo a infondere nei versi lievi
un mio spasimo triste.
Un fiore labile di poesia,
nulla di piú, mio amore.
Ma tu non sai, bambina,
e mai saprai ciò che mi fa soffrire.
Continuerò, piccolo fiore biondo,
che hai già tanto sofferto nella vita,
a contemplarti il viso che ti piange
anche quando sorride
– oh la dolcezza triste del tuo viso!
non saprai mai, bambina –
continuerò a adorare accanto a te
le tue piccole membra melodiose
che han la dolcezza della primavera
e son tanto struggenti e profumate
che io quasi impazzisco
al pensiero che un altro le amerà
stringendole al suo corpo.
Continuerò a adorarti,
e a baciarti e a soffrire,
finché tu un giorno mi dirai che tutto
dovrà essere finito.
E allora tu non sarai piú lontana
e non mi sentirò piú stanco il cuore,
ma urlerò dal dolore
e ribacerò in sogno
e mi stringerò al petto
l’illusione svanita.
E scriverò per te,
per il tuo ricordo straziante
pochi versi dolenti
che tu non leggerai piú.
Ma a me staranno atroci
inchiodati nel cuore
per sempre.
Cesare Pavese, Tu sei per me una creatura triste | 4 settembre 1927
Lo spiraglio dell'alba
respira con la tua bocca
in fondo alle vie vuote.
Luce grigia i tuoi occhi,
dolci gocce dell'alba
sulle colline scure.
Il tuo passo e il tuo fiato
come il vento dell'alba
sommergono le case.
La città abbrividisce,
odorano le pietre ‒
sei la vita, il risveglio.
Stella sperduta
nella luce dell'alba,
cigolio della brezza,
tepore, respiro ‒
è finita la notte.
Sei la luce e il mattino.
Cesare Pavese, In the morning you always come back
Sarà un cielo chiaro.
S’apriranno le strade
sul colle di pini e di pietra.
Il tumulto delle strade
non muterà quell’aria ferma.
I fiori spruzzati
di colori alle fontane
occhieggeranno come donne
divertite. Le scale
le terrazze le rondini
canteranno nel sole.
S’aprirà quella strada,
le pietre canteranno,
il cuore batterà sussultando
come l’acqua nelle fontane
sarà questa la voce
che salirà le tue scale.
Le finestre sapranno
l’odore della pietra e dell’aria
mattutina. S’aprirà una porta.
Il tumulto delle strade
sarà il tumulto del cuore
nella luce smarrita. Sarai tu – ferma e chiara.
Cesare Pavese, Passerò per Piazza di Spagna
Tu che non sai e splendi di tanta poesia
o donna che fiorisci sopra la mia agonia,
fa ch'io risorga un giorno.
O tu che sei passata nel crepuscolo immondo
di tutti noi e sorgi come l'alba d'un mondo
fa ch'io risorga un giorno. [aprile 1928]
Cesare Pavese
Basta un pò di silenzio e ogni cosa si ferma nel suo luogo reale
Cesare Pavese
Ma ricordati sempre che i mostri non muoiono. Quello che muore è la paura che t'incutono.
Così è degli dèi. Quando i mortali non ne avranno più paura, gli dèi spariranno.
Cesare Pavese
o donna che fiorisci sopra la mia agonia,
fa ch'io risorga un giorno.
O tu che sei passata nel crepuscolo immondo
di tutti noi e sorgi come l'alba d'un mondo
fa ch'io risorga un giorno. [aprile 1928]
Cesare Pavese
Basta un pò di silenzio e ogni cosa si ferma nel suo luogo reale
Cesare Pavese
Ma ricordati sempre che i mostri non muoiono. Quello che muore è la paura che t'incutono.
Così è degli dèi. Quando i mortali non ne avranno più paura, gli dèi spariranno.
Cesare Pavese
L’arte di non farci mai avvilire dalle reazioni altrui, ricordando che il valore di un sentimento è giudizio nostro poiché saremo noi a sentircelo, non chi interviene.
Cesare Pavese
Cesare Pavese
«La vidi che mi guardava con quegli occhi un poco obliqui, occhi fermi, trasparenti, grandi dentro. Io non lo seppi allora, non lo sapevo l’indomani, ma ero già cosa sua, preso nel cerchio dei suoi occhi, dello spazio che occupava».
Cesare Pavese, “La belva”
saprò vivere sola e fissare negli occhi ogni volto che passa e restare la stessa.
Questo fresco che sale a cercarmi le vene è un risveglio che mai nel mattino ho provato così vero: soltanto, mi sento più forte che il mio corpo, e un tremore più freddo accompagna il mattino.
Sono lontani i mattini che avevo vent'anni. E domani, ventuno: domani uscirò per le strade, ne ricordo ogni sasso e le striscie di cielo. Da domani la gente riprende a vedermi e sarò ritta in piedi e potrò soffermarmi e specchiarmi in vetrine. I mattini di un tempo, ero giovane e non lo sapevo, e nemmeno sapevo di esser io che passavo - una donna, padrona di se stessa. La magra bambina che fui si è svegliata da un pianto durato per anni: ora è come quel pianto non fosse mai stato. E desidero solo colori. I colori non piangono, sono come un risveglio: domani i colori torneranno. Ciascuna uscirà per la strada, ogni corpo un colore - perfino i bambini. Questo corpo vestito di rosso leggero dopo tanto pallore riavrà la sua vita. Sentirò intorno a me scivolare gli sguardi e saprò d'esser io: gettando un'occhiata, mi vedrò tra la gente. Ogni nuovo mattino, uscirò per le strade cercando i colori.
Cesare Pavese
Molto triste e nel contempo patognomonica di una evidente incapacità: non avere il controllo del dolore . . . non ci si può abbandonare, altrimenti prevale e tu soccombi. Le redini del cervello e del dolore sono nelle nostre mani . . !
Effettivamente è molto faticoso cercare di uscire dai solchi segnati, segnati attraverso le generazioni.
"Non sai che quello che ti tocca una volta si ripete? Che come si è reagito una volta, si reagisce sempre? Non è mica per caso che ti metti nei guai. Poi ci ricaschi. Si chiama il destino.
C. Pavese - Il diavolo sulle colline."
I discorsi più veri sono quelli che facciamo per caso, tra sconosciuti
Cesare Pavese
A che serve passare dei giorni se non si ricordano?
Cesare Pavese
Le cose si scoprono attraverso i ricordi che se ne hanno.
Ricordare una cosa significa vederla-ora soltanto- per la prima volta.
Cesare Pavese
La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla
Gabriel Garcia Marquez
Leggendo non cerchiamo idee nuove, ma pensieri già da noi pensati, che acquistano sulla pagina un suggello di conferma. Ci colpiscono degli altri le parole che risuonano in una zona già nostra – che già viviamo – e facendola vibrare ci permettono di cogliere nuovi spunti dentro di noi.
Cesare Pavese
Strana cosa che per capire il prossimo ci tocchi fuggirlo.
E i discorsi più veri sono quelli che facciamo per caso, tra sconosciuti.
Cesare Pavese
«Cara,
[..] Io passo le giornate (gli anni) in quello stato d’attesa che a casa provavo certi pomeriggi dalle due e mezzo alle tre. Sempre, come il primo giorno, mi sveglia al mattino la puntura della solitudine. Descriverti le mie ansie è impossibile. La mia pena non è quella scritta, sei tu. Non scrivo tenerezze, il perché lo sappiamo; ma cerco il mio ultimo ricordo umano, è il 13 maggio. Ti ringrazio di tutti i pensieri che hai avuto per me. Io per te ne ho uno solo e non cessa mai. Tuo».
Cesare Pavese
La solitudine si cura in un solo modo, andando verso la gente e "donando" invece di "ricevere". Si tratta di un problema morale prima che sociale e bisogna imparare a lavorare, a esistere, non solo per sé ma anche per qualche altro, per gli altri. Finché uno dice "sono solo", sono "estraneo e sconosciuto", "sento il gelo", starà sempre peggio. E' solo chi vuole esserlo. Per vivere una vita piena e ricca bisogna andare verso gli altri. E questo è tutto.
Cesare Pavese. Lettere
Strana cosa che per capire il prossimo ci tocchi fuggirlo.
E i discorsi più veri sono quelli che facciamo per caso, tra sconosciuti.
Cesare Pavese
«Cara,
[..] Io passo le giornate (gli anni) in quello stato d’attesa che a casa provavo certi pomeriggi dalle due e mezzo alle tre. Sempre, come il primo giorno, mi sveglia al mattino la puntura della solitudine. Descriverti le mie ansie è impossibile. La mia pena non è quella scritta, sei tu. Non scrivo tenerezze, il perché lo sappiamo; ma cerco il mio ultimo ricordo umano, è il 13 maggio. Ti ringrazio di tutti i pensieri che hai avuto per me. Io per te ne ho uno solo e non cessa mai. Tuo».
Cesare Pavese
La solitudine si cura in un solo modo, andando verso la gente e "donando" invece di "ricevere". Si tratta di un problema morale prima che sociale e bisogna imparare a lavorare, a esistere, non solo per sé ma anche per qualche altro, per gli altri. Finché uno dice "sono solo", sono "estraneo e sconosciuto", "sento il gelo", starà sempre peggio. E' solo chi vuole esserlo. Per vivere una vita piena e ricca bisogna andare verso gli altri. E questo è tutto.
Cesare Pavese. Lettere
Ricordare è un modo d' incontrare noi stessi nei pensieri, un ritrovarci come eravamo e ricordare le esperienze vissute. E' anche un modo per mantenere o ritrovare rapporti personali per noi importanti. Il tutto visto sempre in modo nuovo, con la "lente deformante" di ciò che siamo oggi. Per questa ragione i ricordi hanno vita propria e sanno farci rivivere importanti momenti della nostra vita. Ricordare è "altro" rispetto al vissuto: ecco perché quella persona o quell'avvenimento lo vediamo per la prima volta, come ha scritto Cesare Pavese. (Agostino Degas)
Prescindendo da Pavese, penso che suicidarsi per la fine di una relazione sentimentale, sia sicuramente il modo più atroce per dimostrare l'amore. È quasi una rivalsa. o una vendetta nei confronti di chi non corrisponde l'amore. È finirsi ma anche finire l'altro, rendendolo impotente. inchiodandolo ad una croce senza chiodi, immobilizzandolo con la sola forza di un rimorso.
Penso che Pavese non si sia ucciso per "vendetta" nei confronti di un amore finito...HA INVECE VOLUTO LUCIDAMENTE CONGEDARSI DA SE STESSO. Ha scritto anche"Non fate troppi pettegolezzi"...
dire che Pavese si è suicidato per la fine di una relazione amorosa è riduttivo a dir poco, e dimostra che non si è afferrato bene il suo devastante "MALE DI VIVERE".
http://youtu.be/MDtaE0Cbayo
[Torino, Carceri Nuove,] 29 maggio 1935
Cara Maria,
Continuo a ricevere regolarmente la biancheria, mangio discretamente e fumo a volontà (la pipa) *.
Io continuo a non sapere perché sono dentro, ma speriamo che un giorno o l'altro si spieghi.
Ho trovato una bellissima occupazione per ingannare il tempo: mi lascio crescere le unghie (la barba no, perché me la fanno).
Scrivo qui una poesia che, per non perdere l'abitudine, ho composto, a memoria.
Tu, mettila da parte e me la darai quando sarò uscito:
Una breve finestra sul cielo tranquillo
calma il cuore: qualcuno c'è morto contento.
Non si può avere nuvole e piante, la terra
e anche il cielo; ogni cosa ha da far la sua vita.
Si può dare un'occhiata tranquilla, sapendo
che quel cielo ricopre ogni cosa.
I rumori
della vita salgono. L'immobile cielo
vede l'acqua tra i sassi, le case stupite,
le colline e le piante, e raccoglie ogni cosa
nel quadrato leggero.
Compare la nube
soda e lieta di quella sua sorte: non vuole spostarsi.
Forse a terra cammina un viandante, che vede la nube
e non sa com'è chiaro quel cielo. D'intorno
sono immobili gli alberi e le grandi colline
e il torrente.
S'invola uno strido di rondine,
ma non tocca quel cielo. Forse un uomo disteso
dentro l'erba, occhi chiusi, ne gode la vita.
Ma quell'uomo non vede altra cosa. Dev'essere morto.
Non è molto bella, ma è la prima che compongo a memoria e quindi mi pare lodevole.
Io aspetto sempre notizie degli amici e delle amiche. Potresti anche dire agli amici di mandarmi una cartolina o meglio una lettera, perché non è bello trascurare gli altri nella sventura. Di' poi a Pinelli, cattolico, di farsi vivo perché "visitare i carcerati" è un santo precetto e, siccome non mi si può visitare, che almeno mi scriva.
Spero che stiate bene e che Cesarina studiando 'Le mie prigioni' del Pellico si ricordi che anche lo zio subisce le medesime. Credo però che, dei due, chi ci si secchi di più sia lei. Ho paura che, di questo passo, il mio preside debba rassegnarsi a far gli esami senza di me; prova a dirglielo, perché si premunisca.
A voi, saluti svariati e affettuosi
Cesare
*Mancano tre righe e mezzo cancellate dalla censura.
Cesare Pavese, Vita attraverso le lettere
Edipo:
Vecchio Tiresia, devo credere a quel che si dice qui in Tebe,
che ti hanno accecato gli dèi per loro invidia?
Tiresia:
Se è vero che tutto ci viene da loro, devi crederci.
Edipo:
Tu che dici?
Tiresia:
Che degli dèi si parla troppo. Esser cieco non è una disgrazia diversa da esser vivo.
Ho sempre visto le sventure toccare a suo tempo dove dovevano toccare.
Edipo:
Ma allora gli dèi che ci fanno?
Tiresia:
Il mondo è più vecchio di loro.
Già riempiva lo spazio e sanguinava, godeva, era l’unico dio – quando il tempo non era ancor nato. Le cose stesse, regnavano allora. Accadevano cose – adesso attraverso gli dèi tutto è fatto parole, illusione, minaccia. Ma gli dèi posson dare fastidio, accostare o scostare le cose. Non toccarle, non mutarle. Sono venuti troppo tardi.
Edipo:
Proprio tu, sacerdote, dici questo?
Tiresia:
Se non sapessi almeno questo, non sarei sacerdote.
Prendi un ragazzo che si bagna nell’Asopo. E’ un mattino d’estate.
Il ragazzo esce dall’acqua, ci ritorna felice, si tuffa e rituffa. Gli prende male e annega.
Che cosa c’entrano gli dèi? Dovrà attribuire agli dèi la sua fine, oppure il piacere goduto?
Né l’uno né l’altro. E’ accaduto qualcosa – che non è bene né male, qualcosa che non ha nome – gli daranno poi un nome gli dèi.
Edipo:
E dar il nome, spiegare le cose, ti par poco, Tiresia?
Tiresia:
Tu sei giovane, Edipo, e come gli dèi che sono giovani rischiari tu stesso le cose e le chiami. Non sai ancora che sotto la terra c’è roccia e che il cielo più azzurro è il più vuoto. Per chi come me non ci vede, tutte le cose sono un urto, non altro.
Edipo:
Ma sei pure vissuto praticando gli dèi. Le stagioni, i piaceri, le miserie umane ti hanno a lungo occupato. Si racconta di te più di una favola, come di un dio. E qualcuna così strana, così insolita, che dovrà pure avere un senso – magari quello delle nuvole nel cielo.
Tiresia:
Sono molto vissuto. Sono vissuto tanto che ogni storia che ascolto mi pare la mia. Che senso dici delle nuvole nel cielo?
Edipo:
Una presenza dentro il vuoto…
Tiresia:
Ma qual è questa favola che tu credi abbia un senso?
Edipo:
Sei sempre stato quel che sei, vecchio Tiresia?
Tiresia:
Ah ti afferro. La storia dei serpi. Quando fui donna per sette anni. Ebbene, che ci trovi in questa storia?
Edipo: A te è accaduto e tu lo sai. Ma senza un dio queste cose non accadono.
Tiresia:
Tu credi? Tutto può accadere sulla terra. Non c’è nulla d’insolito. A quel tempo provavo disgusto delle cose del sesso – mi pareva che lo spirito, la santità, il mio carattere, ne fossero avviliti. Quando vidi i due serpi godersi e mordersi sul muschio, non potei trattenere il mio dispetto: li toccai col bastone. Poco dopo, ero donna – e per anni il mio orgoglio fu costretto a subire. Le cose del mondo sono roccia, Edipo.
Edipo:
Ma è davvero così vile il sesso della donna?
Tiresia:
Nient’affatto. Non ci sono cose vili se non per gli dèi.
Ci sono fastidi, disgusti e illusioni che, toccando la roccia, dileguano.
Qui la roccia fu la forza del sesso, la sua ubiquità e onnipresenza sotto tutte le forme e i mutamenti. Da uomo a donna, e viceversa (sett’anni dopo rividi i due serpi), quel che non volli consentire con lo spirito mi venne fatto per violenza o per libidine, e io, uomo sdegnoso o donna avvilita, mi scatenai come una donna e fui abbietto come un uomo, e seppi ogni cosa del sesso: giunsi al punto che uomo cercavo gli uomini e donna le donne.
Edipo:
Vedi dunque che un dio ti ha insegnato qualcosa.
Tiresia:
Non c’è dio sopra il sesso. E’ la roccia, ti dico. Molti dèi sono belve, ma il serpe è il più antico di tutti gli dèi. Quando si appiatta nella terra, ecco hai l’immagine del sesso. C’è in esso la vita e la morte. Quale dio può incarnare e comprendere tanto?
Edipo:
Ma tu stesso. L’hai detto.
Tiresia:
Tiresia è vecchio e non è un dio. Quand’era giovane, ignorava. Il sesso è ambiguo e sempre equivoco. E’ una metà che appare un tutto. L’uomo arriva a incarnarselo, a viverci dentro come il buon nuotatore nell’acqua, ma intanto è invecchiato, ha toccato la roccia. Alla fine un’idea, un’illusione gli resta: che l’altro sesso ne esca sazio. Ebbene, non crederci: io so che per tutti è una vana fatica.
Edipo:
Ribattere a quanto tu dici non è facile. Non per nulla la tua storia comincia coi serpi. Ma comincia pure col disgusto, col fastidio del sesso. E che diresti a un uomo valido che ti giurasse d’ignorare il disgusto?
Tiresia:
Che non è un uomo valido – è ancora un bambino.
Edipo:
Anch’io, Tiresia, ho fatto incontri sulla strada di Tebe. E in uno di questi si è parlato dell’uomo – dall’infanzia alla morte – si è toccata la roccia anche noi. Da quel giorno fui marito e fui padre, e re di Tebe. Non c’è nulla d’ambiguo o di vano, per me, nei miei giorni.
Tiresia:
Non sei il solo, Edipo, a creder questo. Ma la roccia non si tocca a parole. Che gli dèi ti proteggano. Anch’io ti parlo e sono vecchio. Soltanto il cieco sa la tenebra. Mi pare di vivere fuori del tempo, di esser sempre vissuto, e non credo più ai giorni. Anche in me c’è qualcosa che gode e che sanguina.
Edipo:
Dicevi che questo qualcosa era un dio.
Perché, buon Tiresia, non provi a pregarlo?
Tiresia:
Tutti preghiamo qualche dio, ma quel che accade non ha nome. Il ragazzo annegato un mattino d’estate, cosa sa degli dèi? Che gli giova pregare? C’è un grosso serpe in ogni giorno della vita, e si appiatta e ci guarda. Ti sei mai chiesto, Edipo, perché gli infelici invecchiandosi accecano?
Edipo:
Prego gli dèi che non mi accada.
Edipo:
Vecchio Tiresia, devo credere a quel che si dice qui in Tebe,
che ti hanno accecato gli dèi per loro invidia?
Tiresia:
Se è vero che tutto ci viene da loro, devi crederci.
Edipo:
Tu che dici?
Tiresia:
Che degli dèi si parla troppo. Esser cieco non è una disgrazia diversa da esser vivo.
Ho sempre visto le sventure toccare a suo tempo dove dovevano toccare.
Edipo:
Ma allora gli dèi che ci fanno?
Tiresia:
Il mondo è più vecchio di loro.
Già riempiva lo spazio e sanguinava, godeva, era l’unico dio – quando il tempo non era ancor nato. Le cose stesse, regnavano allora. Accadevano cose – adesso attraverso gli dèi tutto è fatto parole, illusione, minaccia. Ma gli dèi posson dare fastidio, accostare o scostare le cose. Non toccarle, non mutarle. Sono venuti troppo tardi.
Edipo:
Proprio tu, sacerdote, dici questo?
Tiresia:
Se non sapessi almeno questo, non sarei sacerdote.
Prendi un ragazzo che si bagna nell’Asopo. E’ un mattino d’estate.
Il ragazzo esce dall’acqua, ci ritorna felice, si tuffa e rituffa. Gli prende male e annega.
Che cosa c’entrano gli dèi? Dovrà attribuire agli dèi la sua fine, oppure il piacere goduto?
Né l’uno né l’altro. E’ accaduto qualcosa – che non è bene né male, qualcosa che non ha nome – gli daranno poi un nome gli dèi.
Edipo:
E dar il nome, spiegare le cose, ti par poco, Tiresia?
Tiresia:
Tu sei giovane, Edipo, e come gli dèi che sono giovani rischiari tu stesso le cose e le chiami. Non sai ancora che sotto la terra c’è roccia e che il cielo più azzurro è il più vuoto. Per chi come me non ci vede, tutte le cose sono un urto, non altro.
Edipo:
Ma sei pure vissuto praticando gli dèi. Le stagioni, i piaceri, le miserie umane ti hanno a lungo occupato. Si racconta di te più di una favola, come di un dio. E qualcuna così strana, così insolita, che dovrà pure avere un senso – magari quello delle nuvole nel cielo.
Tiresia:
Sono molto vissuto. Sono vissuto tanto che ogni storia che ascolto mi pare la mia. Che senso dici delle nuvole nel cielo?
Edipo:
Una presenza dentro il vuoto…
Tiresia:
Ma qual è questa favola che tu credi abbia un senso?
Edipo:
Sei sempre stato quel che sei, vecchio Tiresia?
Tiresia:
Ah ti afferro. La storia dei serpi. Quando fui donna per sette anni. Ebbene, che ci trovi in questa storia?
Edipo: A te è accaduto e tu lo sai. Ma senza un dio queste cose non accadono.
Tiresia:
Tu credi? Tutto può accadere sulla terra. Non c’è nulla d’insolito. A quel tempo provavo disgusto delle cose del sesso – mi pareva che lo spirito, la santità, il mio carattere, ne fossero avviliti. Quando vidi i due serpi godersi e mordersi sul muschio, non potei trattenere il mio dispetto: li toccai col bastone. Poco dopo, ero donna – e per anni il mio orgoglio fu costretto a subire. Le cose del mondo sono roccia, Edipo.
Edipo:
Ma è davvero così vile il sesso della donna?
Tiresia:
Nient’affatto. Non ci sono cose vili se non per gli dèi.
Ci sono fastidi, disgusti e illusioni che, toccando la roccia, dileguano.
Qui la roccia fu la forza del sesso, la sua ubiquità e onnipresenza sotto tutte le forme e i mutamenti. Da uomo a donna, e viceversa (sett’anni dopo rividi i due serpi), quel che non volli consentire con lo spirito mi venne fatto per violenza o per libidine, e io, uomo sdegnoso o donna avvilita, mi scatenai come una donna e fui abbietto come un uomo, e seppi ogni cosa del sesso: giunsi al punto che uomo cercavo gli uomini e donna le donne.
Edipo:
Vedi dunque che un dio ti ha insegnato qualcosa.
Tiresia:
Non c’è dio sopra il sesso. E’ la roccia, ti dico. Molti dèi sono belve, ma il serpe è il più antico di tutti gli dèi. Quando si appiatta nella terra, ecco hai l’immagine del sesso. C’è in esso la vita e la morte. Quale dio può incarnare e comprendere tanto?
Edipo:
Ma tu stesso. L’hai detto.
Tiresia:
Tiresia è vecchio e non è un dio. Quand’era giovane, ignorava. Il sesso è ambiguo e sempre equivoco. E’ una metà che appare un tutto. L’uomo arriva a incarnarselo, a viverci dentro come il buon nuotatore nell’acqua, ma intanto è invecchiato, ha toccato la roccia. Alla fine un’idea, un’illusione gli resta: che l’altro sesso ne esca sazio. Ebbene, non crederci: io so che per tutti è una vana fatica.
Edipo:
Ribattere a quanto tu dici non è facile. Non per nulla la tua storia comincia coi serpi. Ma comincia pure col disgusto, col fastidio del sesso. E che diresti a un uomo valido che ti giurasse d’ignorare il disgusto?
Tiresia:
Che non è un uomo valido – è ancora un bambino.
Edipo:
Anch’io, Tiresia, ho fatto incontri sulla strada di Tebe. E in uno di questi si è parlato dell’uomo – dall’infanzia alla morte – si è toccata la roccia anche noi. Da quel giorno fui marito e fui padre, e re di Tebe. Non c’è nulla d’ambiguo o di vano, per me, nei miei giorni.
Tiresia:
Non sei il solo, Edipo, a creder questo. Ma la roccia non si tocca a parole. Che gli dèi ti proteggano. Anch’io ti parlo e sono vecchio. Soltanto il cieco sa la tenebra. Mi pare di vivere fuori del tempo, di esser sempre vissuto, e non credo più ai giorni. Anche in me c’è qualcosa che gode e che sanguina.
Edipo:
Dicevi che questo qualcosa era un dio.
Perché, buon Tiresia, non provi a pregarlo?
Tiresia:
Tutti preghiamo qualche dio, ma quel che accade non ha nome. Il ragazzo annegato un mattino d’estate, cosa sa degli dèi? Che gli giova pregare? C’è un grosso serpe in ogni giorno della vita, e si appiatta e ci guarda. Ti sei mai chiesto, Edipo, perché gli infelici invecchiandosi accecano?
Edipo:
Prego gli dèi che non mi accada.
Cesare Pavese è l'uomo che scopre, vive e racconta il mondo con un perenne senso di meraviglia e di struggimento di rara profondità. I parossistici moti del cuore, tra luci ed ombre, dolori e gioie: tutto in lui era emozione pura, come un colore spremuto su una tela così com'è, senza diluirne la consistenza.
RispondiEliminaPavese è soprattutto il poeta, il cantore dei " moti dell'anima" , dei tormenti e delle estasi.Ad egli apparteneva l' abilità di scoprire in se stesso sempre nuove sfumature, da tradurre in parole, espressioni, immagini ed emozioni. In lui la scrittura emergeva in modo spontaneo, necessario, un bisogno che crea un canale di comunicazione tra se e gli altri,in cui l'"io" diventava un mondo accessibile, fruibile, concreto in cui il lettore può immedesimarsi, per poter comprendere la storia di un uomo che ci ha regalato un prezioso frammento di immortalità.
(Rosita Matera,
3 febbraio 2020)