sabato 25 febbraio 2012

Nietzsche. Così parlò Zarathustra. Chiamo infelici tutti coloro che hanno soltanto una scelta: divenire bestie feroci, o feroci domatori di bestie; presso di loro non vorrei drizzar la mia tenda. Chiamo ancora infelici coloro che devono sempre attendere – essi non sono di mio gusto, tutti questi doganieri, questi mercanti, questi re, questi altri custodi di paesi e di botteghe. In verità imparai io pure ad attendere a lungo, ma ad attendere me. Ed imparai soprattutto a stare in piedi, a camminare, a correre, a saltare, ad arrampicarmi e a danzare. Questa è la mia dottrina: chi vuole imparare a volare un giorno, deve imparare dapprima a stare in piedi, camminare, correre, a saltare, ad arrampicarsi e a danzare: non s'impara d'un tratto a volare! Con scale di corda imparai a scalare più d'una finestra, con gambe agili m'arrampicai sugli alti alberi della conoscenza! Stare sugli alti alberi della nave come piccole fiamme: piccola luce soltanto, ma grande consolazione per i naviganti fuori di rotta e i naufraghi! Sono giunto alla mia verità per molti cammini e in molti modi: non salii per un'unica scala all'altezza donde l'occhio mio guarda lontano. E malvolentieri chiesi agli altri che m'insegnassero la mia via, – ciò mi fu sempre avverso! Sempre ho preferito interrogare e tentare da me stesso le vie. Interrogare e tentare, fu questo il mio procedere: e, in verità, bisogna pure imparare a rispondere a tali domande! Ma questo – è di mio gusto...È un gusto nè buono nè cattivo, ma è il mio gusto, del quale non ho a vergognarmi, per il quale non devo nascondermi. «Questa – è ora la mia via, – dov'è la vostra?»

Dove termina la solitudine comincia il mercato; e dove il mercato comincia, comincia pure lo strepito dei grandi commedianti e il ronzio delle mosche velenose. [...]
Fuggi, amico, nella tua solitudine, dove spira un vento rude e impetuoso!
Non è tuo mestiere esser cacciatore di mosche.
Friedrich Nietzsche, “Così parlò Zarathustra”



Essi ti ronzano intorno anche con la loro lode: impertinenza è la loro lode.                                         Essi vogliono la vicinanza della tua pelle e del tuo sangue. 
Essi ti adulano come un dio o un demonio; essi piagnucolano davanti a te come davanti a un dio o un demonio. Che importa! Adulatori essi sono e piagnucoloni, nulla di più. Spesso fanno anche gli amabili con te. Ma questa è sempre stata l’intelligenza dei vili. Si, i vili sono intelligenti! Essi riflettono molto su di te nella loro anima angusta – tu sei sempre inquietante per loro! Tutto quanto è oggetto di molta riflessione, diventa inquietante. Essi ti puniscono per tutte le tue virtù. E ti perdonano, veramente, solo – i tuoi errori”.
Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Delle mosche del mercato


"Io amo i coraggiosi: ma non basta essere bravi guerrieri, si deve anche sapere chi colpire!
E spesso c'è maggior coraggio nel trattenersi e passare oltre: per risparmiarsi per il nemico più degno!".
Friedrich Nietzsche, "Così parlò Zarathustra"


Chiamo infelici tutti coloro che hanno soltanto una scelta: 
divenire bestie feroci, o feroci domatori di bestie; presso di loro non vorrei drizzar la mia tenda. Chiamo ancora infelici coloro che devono sempre attendere – essi non sono di mio gusto, tutti questi doganieri, questi mercanti, questi re, questi altri custodi di paesi e di botteghe. In verità imparai io pure ad attendere a lungo, ma ad attendere me. Ed imparai soprattutto a stare in piedi, a camminare, a correre, a saltare, ad arrampicarmi e a danzare. Questa è la mia dottrina: chi vuole imparare a volare un giorno, deve imparare dapprima a stare in piedi, camminare, correre, a saltare, ad arrampicarsi e a danzare: non s'impara d'un tratto a volare! Con scale di corda imparai a scalare più d'una finestra, con gambe agili m'arrampicai sugli alti alberi della conoscenza! Stare sugli alti alberi della nave come piccole fiamme: piccola luce soltanto, ma grande consolazione per i naviganti fuori di rotta e i naufraghi! Sono giunto alla mia verità per molti cammini e in molti modi: non salii per un'unica scala all'altezza donde l'occhio mio guarda lontano. E malvolentieri chiesi agli altri che m'insegnassero la mia via, – ciò mi fu sempre avverso! Sempre ho preferito interrogare e tentare da me stesso le vie. Interrogare e tentare, fu questo il mio procedere: e, in verità, bisogna pure imparare a rispondere a tali domande!
Ma questo – è di mio gusto...È un gusto nè buono nè cattivo, ma è il mio gusto, del quale non ho a vergognarmi, per il quale non devo nascondermi.
«Questa – è ora la mia via, – dov'è la vostra?»
Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra



Io vi insegnerò cos'è il Superuomo. L’uomo è qualcosa che deve essere superato. Che cosa avete fatto per superarlo? Tutti gli esseri fino ad oggi hanno creato qualcosa che andava al di là di loro stessi: e voi invece volete essere la bassa marea di questa grande ondata e tornare ad esser bestie piuttosto che superare l’uomo? Che cos'è la scimmia per l’uomo? Qualcosa che fa ridere, oppure suscita un doloroso senso di vergogna. La stessa cosa sarà quindi l’uomo per il Superuomo: un motivo di riso o di dolorosa vergogna. Avete percorso il cammino dal verme all'uomo, ma in voi c’è ancora molto del verme. Una volta eravate scimmie, e anche adesso l’uomo è più scimmia di qualsiasi scimmia al mondo. Ma anche il più saggio di voi non è che un essere ibrido, qualcosa di mezzo fra la pianta e lo spettro. È questo forse ch'io vi comando di essere? Fantasmi o piante? Guardate, io invece vi insegno a diventare Superuomini! Il Superuomo, ecco il vero senso della terra. La vostra volontà quindi dica: il Superuomo diventi il senso della terra. Vi scongiuro, o fratelli, siate fedeli alla terra, e non credete a coloro che vi parlano dl speranze ultraterrene! Essi sono dei manipolatori di veleni, sia che lo sappiano, o no. Sono degli spregiatori della vita, dei moribondi, degli intossicati dei quali la terra è stanca: se ne vadano in pace! Una volta il peccato contro Dio era il peggior sacrilegio; ma Dio è morto, e perciò sono morti anche questi esseri sacrileghi.
Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra


L'uomo è il più crudele degli animali: ecco che io muoio e scompaio, diresti, e in un attimo sono un nulla.  Le anime sono mortali come i corpi. Ma il nodo di cause, nel quale io sono intrecciato, torna di nuovo, esso mi creerà di nuovo! Io stesso appartengo alle cause dell'eterno ritorno. Io torno di nuovo, con questo sole, con questa terra, con quest' aquila, con questo serpente, non a nuova vita o a vita migliore o a una vita simile: io torno eternamente a questa stessa identica vita.
Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra


“Vidi una grande tristezza invadere gli uomini […] 
Che cosa è accaduto quaggiù la notte scorsa dalla luna malvagia? 
Tutto il nostro lavoro è diventato vano, il nostro vino è diventato veleno,
il malocchio ha disseccato i nostri campi e i nostri cuori. Aridi siamo diventati noi tutti”.
Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra


Il pino e la folgore
Troppo, io crebbi al di sopra
degli uomini e degli animali;
e quando parlo, nessuno parla con me.
Troppo solitario e troppo alto
sono cresciuto:
ora attendo. Che cosa aspetto mai?
A me troppo vicina è la dimora
delle nuvole,
la prima folgore attendo.
Friedrich Nietzsche


Ma il risvegliato e il sapiente dicono: corpo io sono in tutto e per tutto, e null’altro; e anima non è altro che una parola per indicare qualcosa del corpo. Il corpo è una grande ragione.
Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra, ‘Dei dispregiatori del corpo’.

Il corpo è una grande ragione, una pluralità con un solo senso, una guerra e una pace, un gregge e un pastore. Strumento del tuo corpo è anche la tua piccola ragione, fratello, che tu chiami ‘spirito’, un piccolo strumento e un giocattolo della tua grande ragione. ‘Io’ dici tu, e sei orgoglioso di questa parola. Ma la cosa ancora più grande, cui tu non vuoi credere, – il tuo corpo e la sua grande ragione: essa non dice ‘io’, ma fa ‘io’. […] Dietro i tuoi pensieri e sentimenti, fratello, sta un possente sovrano, un saggio ignoto – che si chiama Sé. Abita nel tuo corpo, è il tuo corpo.
Friedrich Nietzsche, “Dei dispregiatori del corpo”, Così parlò Zarathustra.


"Io crederei solo ad un dio che sapesse danzare
E quando vidi il mio diavolo, lo trovai serio, esatto, profondo e solenne. 
Era lo spirito della gravità, per lui precipitano tutte le cose: non si uccide con l'ira, ma con il sorriso. Su, uccidiamo lo spirito di gravità! 
Ora sono leggero, ora volo, ora mi vedo sotto di me, ora è un dio che si serve di me per danzare
Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra


C'è più ragione nel tuo corpo, che nella tua migliore sapienza
Friedrich Nietzsche


"Signorina Hannah: L'unica maniera in cui lo spirito può apparire alla vista è attraverso il corpo.
Dottor Jung: Naturalmente. Se sei uno spirito, puoi essere qualunque cosa, perché non hai una forma, non hai figura, sei gas allo stato puro. Puoi assumere una forma qualsiasi, essere questo o quello, trasformarti come più ti garba, arbitrariamente, in Dio sa cosa. <Oh, ma non dovresti pensarla in questo modo> oppure <dovresti credere in qualcosa, questo ti salverà>. Credete pure, se ci riuscite! Vedete, il problema è proprio questo. E perchè non ci riuscite? Perché avete un corpo. Se foste puro spirito, avreste il dono dell'ubiquità, ma c'è un dannatissimo fatto con cui dovete fare i conti: siete radicati precisamente qui, e non potete balzar fuori dalla vostra pelle: avete precise necessità. Non potete sfuggire a fatti come il vostro sesso, per esempio, o il colore dei vostri occhi, la salute o la malattia del vostro corpo, la vostra tenuta fisica. Sono fatti ben definiti che ti rendono un essere dotato di individualità, un  che sei proprio tu, e nessun altro. Se foste uno spirito, potreste mutare la vostra forma in qualsiasi istante, ma poiché vi trovate in un corpo, siete trattenuti in quella; ecco perché il corpo è una cosa così imbarazzante: è una gran scocciatura, questo è certo. Tutti quelli che si proclamano spirituali cercano di sottrarsi al fatto costituito dal corpodesiderano distruggerlo per riuscire a essere qualcosa di immaginario, ma non saranno mai ciò che desiderano, perché il corpo li ripudia: il corpo dice altrimenti. Pensano di riuscire a vivere facendo a meno del sesso e del cibo, di ciò che costituisce le condizioni umane ordinarie; e si tratta di un errore, di una menzogna, il corpo rinnega le loro convinzioni. Ciò che Nietzsche intende dire qui è proprio questo. Il superuomo, il Sé, è il senso della terra: consiste nel fatto che noi siamo composti di terra. Ecco perché, nello studio dei simboli relativi all'individuazione, si finisce sempre per rilevare che l'individuazione non può avere luogo - simbolicamente, intendo - senza un ingresso dell'animale nelle regioni dello spirito: un animale oscuro, molto oscuro, emergente dalla melma primordiale; quel singolo puntino nero che è la terra è assolutamente indispensabile sullo scudo splendente della spiritualità."
Jung, seminari - Lo zarathustra di Nietzsche



"Senonché, ditemi, o uomini, chi di voi è mai capace di amicizia?
O quanta miseria in voi, o uomini, e quanta avarizia dell'anima! 
Ciò che voi date all'amico, io la darei anche al mio nemico, 
e non ne diverrei per questo più povero.
Esiste il cameratismo: potesse esistere anche l'amicizia!"
F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra (DELL'AMICO)





E' davvero strano come l'intento che caratterizza e attraversa tutto lo Zarathustra, si profili quale un'etica che supera e affina, in intendimento e sensibilità, quella affatto più grossolana, al confronto, cui vorrebbe subentrare, ovvero la morale cristiana. Come mai ciò sembra essere totalmente abolito, annullato, mi riferisco a questo "conatus" etico, utilizzando un termine spinoziano, in opere seguenti come la Genealogia della morale o anche i frammenti che furono pubbllicati da Elisabeth Forster-Nietzsche con il titolo di La Volontà di potenza, dove emerge l'esigenza di far coincidere la trasvalutazione con l'abolizione di qualsiasi morale, per sostituirla col callicleo concetto del dominio del più forte e, quindi col predominio della hybris sul nomos?




E che fa mai il santo nella foresta?" chiese Zarathustra.
Il santo rispose: "Compongo canzoni e le canto, e quando compongo canzoni, rido, piango e borbotto fra me stesso. Così innalzo le mie lodi a Dio. Cantando, piangendo e rimuginando fra me, io lodo quel Dio, che è mio Dio. Ma tu qual regalo ci porti?"
A questo punto Zarathustra salutò il santo e disse:
"Che cosa posso darvi? Lasciatemi andare, piuttosto, prima che vi tolga qualcosa!" 
Così si separarono l'uno dall'altro, il vecchio e l'uomo, sorridendo come sorridono due fanciulli.
Ma quando Zarathustra fu solo, così parlò al suo cuore:
"E mai possibile? Questo vecchio santo nella sua foresta non sa ancora che Dio è morto."
Nietzsche, Così parlò Zarathustra


Anima mia, alla tua zolla detti da bere ogni saggezza,
tutti i vini nuovi e anche tutti i forti vini della saggezza,
vecchi di immemorabile vecchiezza.
Anima mia, io ti innaffiai con ogni sole e notte e silenzio e anelito:
- e così tu crescesti per me come una vite.
Anima mia, ora sei traboccante di ricchezza e greve,
una vite dalle gonfie mammelle e dai grappoli densi, bruni come l'oro:
- densa e compressa di felicità, in attesa per la tua sovrabbondanza,
e vergognosa perfino del tuo aspettare.
Friedrich Nietzsche. Così parlò Zarathustra



"È stupefacente fino a qual punto la gente
 - in particolare in caso di sofferenza - 
sia concentrata su di sé;
diventa autoerotica all'ennesima potenza
si dimentica di tutto il resto dell'umanità,
che potrebbe star soffrendo esattamente degli stessi mali.
Però si tratta di una verità, come afferma Goethe nel Faust:
Di festa o di domenica il meglio che ci sia
per me è parlar di guerre e di tempi di guerra
mentre laggiù, in quei posti lontani, in Turchia,
i popoli si scannano.
Te ne stai alla finestra, ti bevi il tuo bicchiere,
guardi andare giù sul fiume le barche colorate.
A casa si torna contenti, la sera.
E benedici la pace e il tempo di pace.
Ma se quello stesso individuo dovesse essere colpito da una pallottola,
allora scomparirebbe l'intero mondo.
È qualcosa di umano e pressoché universale".
Da Lo Zarathustra di Nietzsche, vol.2, pg. 594, CGJ


Là dove lo Stato finisce, comincia l'uomo che non è superfluo:
là comincia il canto della necessità, la melodia unica e insostituibile.
Là dove lo stato finisce - guardate, guardate fratelli! Non vedete l'arcobaleno e i ponti dell'Oltreuomo?
Friedrich Wilhelm Nietzsche. Così parlò Zarathustra


"Si chiama Stato il più gelido di tutti i mostri
Mentisce gelidamente, e dalla sua bocca striscia fuori questa bugia: 
“Io, lo Stato, sono il popolo!”. È una menzogna! […] 
Dove ancora esiste un vero popolo, 
questo non comprende lo Stato e lo odia come il malocchio 
e come un peccato contro il costume e il diritto."
Friedrich Nietzsche, Così Parlò Zarathustra



Le tre metamorfosi di Zarathustra.
Tre metamorfosi io vi nomino dello spirito: COME LO SPIRITO DIVENTI CAMMELLO, E LEONE IL CAMMELLO, E FANCIULLO ALLA FINE IL LEONE. Si apre così il capitolo Delle tre metamorfosi del Così parlò Zarathustra di Friedrich Nietzsche, uno dei più esemplificativi e importanti dell’intera opera del filosofo tedesco. Col tipico linguaggio poetico e enigmatico, ZARATHUSTRA ANNUNCIA LA SUA “BUONA NOVELLA” ALLA GENTE, DOPO AVER TRASCORSO UN LUNGO PERIODO DI MEDITAZIONE IN TOTALE ISOLAMENTO.
Cioè che Zarathustra/Nietzsche racconta è COME LO SPIRITO SIA STATO COSTRETTO, NEL CORSO DI UNA STORIA MILLENARIA, A RIMANERE “CAMMELLO”: IL CAMMELLO È L’ANIMALE DA SOMA CHE DICE CONTINUAMENTE “SI”, CHE ACCETTA CIÒ CHE GLI VIENE IMPOSTO, CHE VIENE CARICATO DEI PESI MAGGIORI E INGINOCCHIANDOSI ACCETTA SILENZIOSO IL SUO DESTINO. QUESTO È L’UOMO CRISTIANO, L’UOMO CHE HA DECISO DI SUBORDINARE LA SUA VITA ALLA FEDE E AL COMANDO DI QUALCUN ALTRO.
La seconda metamorfosi è DA “CAMMELLO” A “LEONE”: il leone è l’opposto del cammello, e SI CARATTERIZZA PER IL SUO DIRE “NO”, PER IL RIFIUTO CONTINUO AD ACCETTARE IL MONDO COSÌ COM’È. Il leone è l’ “IO VOGLIO”, è la fonte di nuovi valori, LA LIBERTÀ E L’OPPOSIZIONE: Crearsi libertà è un santo No anche di fronte al dovere: per questo, fratelli, c’è bisogno del leone.
Ma IL LEONE È ANCORA TROPPO LEGATO AL PASSATO, troppo acerbo è improduttivo: PER LA FONDAZIONE DI NUOVI VALORI E L’AFFERMAZIONE DELLA PROPRIA VOLONTÀ DI POTENZA, È NECESSARIO TORNARE AL “SI”, ma questa volta a un “sacro dire SI” ovvero al “SI” DEL FANCIULLO: Innocenza è il fanciullo e oblio, un ricominciare, un gioco, una ruota che ruota da sola, un primo impulso, un santo dir sì.
Col “SI” del fanciullo si annuncia l’avvento del Super-uomo, COLUI CHE SI SOTTRAE DAL PESO DELLA STORIA E DEL PASSATOCHE AL RIFIUTO ACCOMPAGNA LO SPIRITO CREATIVO E IL GIOCO.

http://guide.supereva.it/filosofia/interventi/2009/04/le-tre-metamorfosi-di-zarathustra



DELLE TRE METAMORFOSI
Tre metamorfosi dello spirito vi dico: come lo spirito diventa cammello e il cammello leone e infine il leone fanciullo. Ci sono molte cose difficili per lo spirito, per lo spirito forte e paziente che abbia in sé amore e reverenza: al difficile e al difficile del difficile aspira la sua forza. Che cos'è difficile? chiede lo spirito paziente, s'inginocchia come il cammello, e vuole un carico pesante. Che cos'è il difficile del difficile, voi eroi? chiede lo spirito paziente, che io possa prenderlo su di me e mi rallegri della mia forza. Non è questo: umiliarsi, per far male al proprio orgoglio? Far brillare la propria stoltezza, per schernire la propria saggezza? Oppure è questo: separarci dalla nostra causa quando essa celebra la sua vittoria? Oppure è questo: nutrirsi di ghiande ed erbe della conoscenza ed essere affamati nell'anima per amore della verità? Oppure è questo: essere ammalato e rimandare i consolatori e stringere amicizia con le colombe che non odono ciò che tu vuoi? Oppure è questo: entrare nell'acqua sporca, se è l'acqua della verità, e non respingere da sé rane fredde e rospi caldi? Oppure è questo: amare quelli che ci disprezzano e porgere la mano allospettro quando esso vuole farci paura? Tutte queste cose difficili tra le difficili prende lo spirito paziente su di sé: come il cammello che, caricato, si avvia nel deserto, si avvia nel suo deserto. Ma nel deserto più solitario ha luogo la seconda trasformazione: lo spirito diventa qui un leone, vuole impadronirsi della libertà ed essere padrone nel proprio deserto. Qui esso cerca il suo ultimo padrone: vuole diventargli nemico e nemico del suo ultimo dio, la vittoria vuole contendere al grande drago. Qual è il grande drago che lo spirito non vuole più chiamare signore e dio? «Tu devi» si chiama il grande drago. Ma lo spirito del leone dice «io voglio».«Tu devi» è coricato sul suo cammino, scintillante d'oro, una fiera con le squame, e su ogni squama splende dorato «Tu devi!». Valori millenari splendono su queste squame e così parla il più potente di tutti i draghi: «Ogni valore delle cose risplende su di me. Tutti i valori furono già creati e ogni valore creato — sono io. In verità, non deve esistere più nessun "io voglio"». Così parla il drago. Fratelli, che bisogno c'è del leone nello spirito? Non basta l'animale da carico, che rinuncia ed è timorato? Creare nuovi valori; nemmeno il leone ne è capace. Ma crearsi libertà per nuove creazioni, di questo è capace la forza del leone. Crearsi la libertà, crearsi un sacro no anche di fronte al dovere: per questo, fratelli, c'è bisogno del leone. Prendersi il diritto a nuovi valori è il prendere più terribile che vi sia per uno spirito paziente e timorato. In verità è per luì un predare e un atto da animale da preda. Come la cosa più santa egli amava un tempo il «tu devi»: ora è costretto a scorgere illusione e arbitrio anche nella cosa più santa, per poter predare libertà a prezzo del suo amore: per questa rapina c'è bisogno del leone. Ma dite, fratelli, che cosa può il fanciullo, che non potè nemmeno il leone? Perché il leone predatore deve ancora diventare un fanciullo? Innocenza è il fanciullo e dimenticanza, un ricominciare, un gioco, una ruota che gira su se stessa, un primo moto, un santo dire di sì. Sì, al gioco della creazione, fratelli, occorre un santo dire sì: lo spirito vuole la propria volontà, chi è perduto al mondo conquista il proprio mondo. Tre metamorfosi dello spirito vi dissi: come lo spirito diventa cammello e il cammello leone e per ultimo il leone fanciullo. — Così parlò Zarathustra. E allora dimorava nella città che si chiama: «Vacca pezzata». 
Così parlò Zarathustra - parte Prima - I Discorsi di Zarathustra - Friedrich Nietzsche (1885)


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La stesura dell'opera Così parlò Zarathustra viene iniziata nel 1883. L'inizio RACCONTA DI TRE METAMORFOSI CHE RAPPRESENTANO IL CAMMINO DI PENSIERO IN CUI SI MUOVE NIETZSCHE PER COMPRENDERE IL MONDO. In esse LO SPIRITO SI FA ANZITUTTO CAMMELLOPORTA IL PESO DELLA TRADIZIONE E DEI VALORI A CUI ESSA FA RIFERIMENTO, E SI IMPEGNA A SOPPORTARLI; in seguito DIVIENE LEONE, RIGETTA IL PESO DELL'EREDITA' TRASMESSA, DISTRUGGE E LOTTA CONTRO I PREGIUDIZI; infine SI MUTA IN FANCIULLO LA CUI EMANCIPAZIONE DALLA TRADIZIONE,  PERMETTE LA CREAZIONE DI NUOVI VALORI
“Tre metamorfosi io vi nomino dello spirito: COME LO SPIRITO DIVENTA CAMMELLO, E IL CAMMELLO LEONE, E INFINE IL LEONE FANCIULLO. Molte cose pesanti vi sono per lo spirito, lo spirito forte nel quale abita la venerazione: la sua forza anela verso le cose pesanti, piu' difficili a portare. Che cosa e' gravoso? domanda lo spirito paziente e piega le ginocchia, come il cammello, e vuol essere ben caricato. Qual e' la cosa piu' gravosa da portare eroi? cosi' chiede lo spirito paziente, affinche' io la prenda su di me e possa rallegrarmi della mia robustezza. Non e' forse questo: umiliarsi per far male alla propria alterigia? Far rilucere la propria follia per deridere la propria saggezza? Oppure e': separarsi dalla propria causa quando essa celebra la sua vittoria? Salire sulle cime dei monti per tentare il tentatore? Oppure e': nutrirsi delle ghiande e dell'erba della conoscenza e a causa della verità soffrire la fame dell'anima? Oppure e': essere ammalato e mandare a casa coloro che vogliono consolarti, e invece fare amicizia coi sordi che mai odono cio' che tu vuoi? Oppure e': scendere nell'acqua sporca, purché sia l'acqua della verità, senza respingere rane fredde o caldi rospi? Oppure e': amare quelli che ci disprezzano e porgere la mano allo spettro quando ci vuole fare paura?
Tutte queste cose, le piu' gravose da portare, lo spirito paziente prende su di se': come il cammello che corre in fretta nel deserto sotto il suo carico, cosi' corre anche lui nel suo deserto. Ma la' dove il deserto e' piu' solitario avviene la seconda metamorfosi: qui lo spirito diventa leone, egli vuol come preda la sua liberta' ed essere signore nel proprio deserto. Qui cerca il suo ultimo signore: il nemico di lui e del suo ultimo dio vuol egli diventare, con il grande drago vuol egli combattere per la vittoria. Chi e' il grande drago, che lo spirito non vuole piu' chiamare signore e dio? "Tu devi" si chiama il grande drago. Ma lo spirito del leone dice "io voglio". "Tu devi" gli sbarra il cammino, un rettile dalle squame scintillanti come l'oro, e su ogni squama splende a lettere d'oro "tu devi". Valori millenari rilucono su queste squame e cosi' parla il piu' possente dei draghi: "tutti i valori delle cose - risplendono su di me". "Tutti i valori sono gia' stati creati, e io sono - ogni valore creato. In verita' non ha da essere piu' alcun "io voglio"!". Cosi' parla il drago. Fratelli, perche' il leone e' necessario allo spirito? Perche' non basta la bestia da soma, che a tutto rinuncia ed e' piena di venerazione? Creare valori nuovi - di cio' il leone non e' ancora capace: ma crearsi la liberta' per una nuova creazione - di questo e' capace la potenza del leone. Crearsi la liberta' e un no sacro anche verso il dovere: per questo, fratelli, e' necessario il leone. Prendersi il diritto per valori nuovi - questo e' il piu' terribile atto di prendere, per uno spirito paziente e venerante. In verita' e' un depredare per lui e il compito di una bestia da preda. Un tempo egli amava come la cosa piu' sacra il "tu devi": ora e' costretto a trovare illusione e arbitrio anche nelle cose piu' sacre, per predar via liberta' dal suo amore: per questa rapina occorre il leone.
Ma ditemi, fratelli, che cosa sa fare il fanciullo, che neppure il leone era in grado di fare? Perche' il leone rapace deve diventare un fanciullo? Innocenza e' il fanciullo e oblio, un nuovo inizio, un giuoco, una ruota ruotante da sola, un primo moto, un sacro dire di si'. Si', per il giuoco della creazione, fratelli, occorre un sacro dire di si': ora lo spirito vuole la sua volonta', il perduto per il mondo conquista per se' il suo mondo.
Tre metamorfosi vi ho nominato dello spirito: come lo spirito divenne cammello, leone il cammello, e infine il leone fanciullo.
Friedrich Nietzsche , Così parlò Zarathustra; tr., Trento, Mondadori 2000, pp. 20-21



Così parlò Zarathustra è l’opera che riassume il pensiero dell’ultima fase intellettuale di Nietzsche. L’opera è scritta secondo UN MODELLO CHE RICHIAMA LO STILE DEL NUOVO TESTAMENTO e questa scelta di STESURA IN FORMA PROFETICA ci fa intuire come Nietzsche , da questo periodo della sua vita in poi, si senta investito di un compito epocale, una CONVINZIONE DI DOVER PROVOCARE UN MUTAMENTO RADICALE DI CIVILTÀ, MUTAMENTO CONCEPITO IN SOLITUDINE E IN UN TOTALE ISOLAMENTO INTELLETTUALE. Attualmente è possibile capire che in questo Nietzsche non esagerava poi molto e quando in Ecce homo scrive "PERCHÉ IO SONO UN DESTINO" sembra predire la vastissima risonanza che le sue opere hanno avuto e continuano ad avere in tutto il mondo.
Lo stile profetico dell’opera, i toni che a tratti possono apparire esaltati a chi è abituato a ragionare in una logica intellettuale "costretta" in schemi, hanno fatto pensare ad illustri autori che è lecito trovare un legame tra l’opera della maturità di Nietzsche e la sua pazzia. Jaspers e Löwitz vedono i SEGNI DELLA PAZZIA in tutti quei tratti di pensiero che in una logica comune sembrano impossibili da concretizzarsi e per Klossowski È LA PAZZIA CHE PORTA NIETZSCHE AD AFFRONTARE LA TEMATICA DELLA DISTRUZIONE DI TUTTI I VALORI, ANCHE QUELLO DELLA PROPRIA IDENTITÀ! Ma allora dobbiamo pensare che per un secolo intero si sia perso tanto tempo e si siano scritte migliaia di opere sul pensiero di un pazzo?  È invece verosimile pensare che tutto questo interesse sia scatenato dal fatto che in tutta la letteratura universale non è mai esistita una figura più affascinante, non è mai esistito un fenomeno di tanta straordinaria pienezza e complessità culturale, eppure così difficile da capire perché stravolge tutti i canoni della apparente ragionevolezza. Dunque BEN VENGA UNA PAZZIA CHE DONA TANTA LUCIDITÀ DI PENSIERO, che arricchisce di tante doti spirituali e culturali, che ci regala opere mirabili! Pazzia o saggezza a parte, dobbiamo prendere atto che È IL PRIMO PENSATORE A CAPIRE IL NICHILISMO, i suoi considerevoli effetti sul presente e le sue conseguenze, passate inosservate ai suoi contemporanei. Non solo, ma lo fa in modo conseguente, inserendolo in un progetto mirante ad un avvenire che è ancora sconosciuto quasi a tutti, ma che inevitabilmente un giorno sarà, un giorno che vedrà la "TRASVALUTAZIONE DI TUTTI I VALORI". Si carica così del compito sovrumano di far intendere a tutti la logica elementare del nichilismo, pur nella consapevolezza che pochi avranno orecchie per intendere:
QUESTO LIBRO SI CONVIENE A POCHISSIMI. FORSE DI QUESTI NON NE VIVE ANCORA NESSUNO. Potrebbero essere quelli che comprendono il mio Zarathustra: come potrei confondermi con coloro per i quali già oggi vanno crescendo orecchi? A ME SI CONVIENE SOLO IL DOPODOMANI. C’È CHI È NATO POSTUMO


Friedrich Wilhelm Nietzsche (1844-1900)

L'Engadina di Nietzsche. L'incanto dei luoghi rende l'idea dell'amore per le vette del quale egli "soffriva". La necessità di farsi più alti dell'uomo, lasciando a valle l'effimero, e l'amore per il silenzio dell'eternità sono elementi imprescindibili del suo pensare aristocratico.

Questo è il panorama che è possibile ammirare da Marmorè (2199 m) presso Sils Maria. Si tratta di una tappa sul sentiero che Nietzsche percorreva regolarmente fin sotto al ghiacciaio del Bernina. Si parte proprio da dietro l'abitazione in cui alloggiava il filosofo e si sale lungo un sentiero suggestivo e poco impegnativo. Alla sinistra si vede il lago di Silvaplana, al centro in basso parte del paesino di Sils e a destra si va verso St. Moritz.

Così parlò Zarathustra.

Dell’albero sul monte.
L’occhio di Zarathustra aveva visto che un giovinetto lo evitava. E una sera, mentre andava da solo per i monti che circondavano la città detta “Vacca pezzata”, ecco: incontrò sul suo cammino questo giovinetto, che, seduto ai piedi di un albero, guardava con occhio stanco nella valle. Zarathustra afferrò l’albero, presso il quale il giovinetto era seduto, e disse:
«Se volessi scuotere questo albero con le mie mani, non ci riuscirei. Ma il vento, da noi non veduto, lo squassa e lo piega dove vuole. Sono mani invisibili quelle che più orribilmente ci squassano e ci piegano».
Allora il giovinetto si alzò, costernato, e disse: «Ecco che odo Zarathustra e proprio ora pensavo a lui». Zarathustra replicò: «E per questo sei spaventato? – Ma è per l’uomo come per l’albero. Quanto più egli vuole elevarsi in alto e verso la luce, con tanto più forza le sue radici tendono verso terra, in basso, verso le tenebre, l’abisso – verso il male».
«Sì, verso il male! gridò il giovinetto. Come hai potuto scoprire la mia anima?».
Zarathustra sorrise e disse: «Certe anime non potranno mai essere scoperte, a meno che prima esse non vengano inventate».
«Sì, verso il male! – gridò ancora il giovinetto.
Hai detto la verità, Zarathustra. Da quando aspiro all’elevatezza non ho più fiducia in me stesso, e nessuno ha in me più fiducia, - come mai? Mi trasformo troppo rapidamente: il mio oggi è la confutazione del mio ieri. Spesso salto gli scalini, quando salgo, – e non vi è scalino che me lo perdoni. Quando sono in alto, mi ritrovo sempre solo. Nessuno parla con me, il gelo della solitudine mi fa tremare. Che vado cercando nell’elevatezza? Il mio disprezzo e il mio anelito aumentano insieme; quanto più in alto salgo, tanto più disprezzo colui che sale. Che va cercando costui nell’elevatezza? Come mi vergogno del mio salire e inciampare! Come derido il mio ansimare violento! Come odio colui che vola! Come sono stanco nell’elevatezza!».
Qui il giovinetto tacque. E Zarathustra, guardando l’albero presso il quale essi stavano, parlò così: «Questo albero si leva solitario, qui sulla montagna; è cresciuto molto al di sopra dell’uomo e della bestia. E se anche volesse parlare, non avrebbe nessuno che lo capirebbe: così in alto esso è cresciuto. E ora aspetta e aspetta, - che cosa aspetta dunque? Esso abita troppo vicino alla sede delle nubi: forse aspetta il primo fulmine».
Quando Zarathustra ebbe detto queste cose, il giovinetto si mise a gridare con veemenza: «Sì, Zarathustra, tu dici la verità. Quando volevo elevarmi, anelavo al mio tramonto, e tu sei il fulmine che io attendevo! Guarda, che cosa è di me, da quando tu sei apparso? È l’invidia verso di te che mi ha distrutto!». – Così diceva il giovinetto, piangendo amaramente. Ma Zarathustra, cingendolo del suo braccio, lo trasse via con sé.
Stavano già da un po’ camminando insieme, quando Zarathustra prese a parlare così: «Il mio cuore va in pezzi. Meglio ancora delle tue parole, il tuo occhio mi dice tutto il pericolo che tu corri. Ancora non sei libero, tu cerchi ancora la libertà. Il tuo cercare ti ha stremato con notti insonni e veglie eccessive. Tu aspiri alla libera elevatezza, la tua anima ha sete di stelle. Ma anche i tuoi istinti malvagi hanno sete di libertà. I tuoi cani furiosi vogliono essere lasciati liberi; essi latrano dal piacere nel loro sotterraneo, se il tuo spirito si propone di aprire tutte le prigioni. Per me tu sei ancora un prigioniero che almanacca sulla sua libertà: ahimè, l’anima dei prigionieri come te diventa intelligente, ma anche astuta e cattiva. Colui che è liberato nello spirito deve però anche purificarsi. In lui sono ancora molti i resti di carcere e di marciume: il suo occhio deve ancora diventare puro. Sì, io conosco il tuo pericolo. Ma, in nome del mio amore e della mia speranza, ti scongiuro: non buttare via il tuo amore e la tua speranza! Ancora ti senti nobile, e nobile ti sentono anche gli altri, che ti detestano e ti lanciano occhiate malvagie. Sappi che a tutti è di ostacolo una persona nobile. Anche ai buoni è di ostacolo una persona nobile: perfino chiamandola buona, vogliono eliminarla. La persona nobile vuole creare cose nuove e una nuova virtù. Il buono vuole, invece, le cose vecchie e che si conservino. Ma il pericolo della persona nobile non è quello di diventare un buono, bensì uno sfrontato, un derisore, un distruttore. Ahimè, io ho conosciuto persone nobili che hanno perduto la loro speranza più elevata. E da allora calunniano tutte le speranze elevate. Da allora vivono sfrontatamente di brevi piaceri, e non riescono più a porsi neppure mete effimere. "Lo spirito è anche voluttà" - così hanno detto. Perciò hanno spezzato le ali al loro spirito: che ora striscia per terra e contamina ciò che rode. Un tempo pensarono di diventare eroi: oggi sono dei dissoluti. Davanti all’eroe provano rimorso e orrore. Ma, in nome del mio amore e della mia speranza, ti scongiuro: non buttar via l’eroe che è nella tua anima! Mantieni sacra la tua speranza più elevata!».
Friedrich Wilhelm Nietzsche, Così parlò Zarathustra.

Da: Umano, troppo umano, Volume I.
62. Orgia di vendetta. Gli uomini grossolani che si sentono offesi, sogliono prendere l’offesa nel grado più alto possibile e ne narrano la causa con parole fortemente esagerate, solo per potersi saturare ben bene del sentimento di odio e di vendetta ormai destato.
149. Il lento dardo della bellezza. La più nobile specie di bellezza è quella che non trascina a un tratto, che non scatena assalti tempestosi e inebrianti (una tale bellezza suscita facilmente nausea), ma che si insinua lentamente, che quasi inavvertitamente si porta via con sé e che un giorno ci si ritrova davanti in sogno, ma che alla fine, dopo aver a lungo con modestia giaciuto nel nostro cuore, si impossessa completamente di noi e ci riempie gli occhi di lacrime e il cuore di nostalgia. Di che abbiamo nostalgia alla vista della bellezza? Dell’essere belli: ci immaginiamo che molta felicità debba andare a ciò congiunta. Ma questo è un errore.
177. Farsi ben udire. Non bisogna solo saper sonare bene, ma anche sapersi far ben udire. Il violino in mano al più gran maestro emette solo un pigolio, quando la sala è troppo grande; allora si può confondere il maestro con qualsiasi strimpellatore.
186. Spirito. Gli autori più spiritosi producono il sorriso più impercettibile.
226. Origine della fede. Lo spirito vincolato accetta la sua posizione non per ragionamento, bensì per abitudine; è per esempio cristiano, non per aver esaminato le varie religioni e per aver scelto fra esse; è inglese, non per essersi deciso per l’Inghilterra; egli semplicemente si è trovato davanti il Cristianesimo e la qualità di inglese, e ha accettato le due cose senza ragionarci sopra, come uno che, nato in un paese vinicolo, diventa bevitore di vino. Più tardi, quando già era cristiano e inglese, sarà forse anche riuscito a trovare alcune ragioni a favore della sua abitudine; ma per quanto si demoliscano queste ragioni, non si demolirà nulla della sua posizione. […] L’abitudine a principi intellettuali non ragionati si chiama fede.
252. Il piacere del conoscere. Perché il conoscere, l’elemento del ricercatore e del filosofo, è congiunto al piacere? Primo e soprattutto, perché in esso si acquista la coscienza della propria forza, ossia per lo stesso motivo per cui sono gradevoli, anche senza spettatori, gli esercizi ginnastici. Secondo, perché nel corso della conoscenza si superano, si vincono o almeno si crede di vincere le idee vecchie e i loro esponenti. Terzo, perché da una nuova conoscenza, sia pure molto piccola, ci sentiamo elevati al di sopra di tutti e ci sentiamo gli unici che al riguardo sanno il giusto. Questi tre motivi di piacere sono i principali; tuttavia ci sono, a seconda della natura di chi conosce, ancora molti motivi secondari. […] Tutto ciò che è umano merita, riguardo alla sua genesi, la considerazione ironica; perciò l’ironia nel mondo è così superflua.
258. La statua dell’umanità. Il genio della civiltà si comporta come si comportò Cellini allorquando lavorava alla fusione del suo Perseo: la massa fluida minacciava di non bastare, ma essa doveva bastare: così egli vi gettò dentro piatti e stoviglie e quant’altro gli venne sottomano. E così anche quel genio getta dentro errori, vizi, speranze, chimere e altre cose di metallo tanto nobile che vile, perché la statua dell’umanità deve venir fuori ed essere finita; cosa importa dunque che qua e là si sia impiegato materiale più scadente?
280. Appesantimento come alleviamento e viceversa. Molte cose che in certi gradi dell’uomo sono appesantimento della vita, servono a un grado superiore come alleviamento, perché tali uomini hanno conosciuto più forti aggravi della vita. Così pure accade l’inverso: per esempio, la religione ha una doppia faccia, a seconda che l’uomo alzi lo sguardo a essa per farsi togliere il suo fardello e la sua miseria, oppure lo abbassi a essa come alla catena che gli è stata imposta perché non si sollevi troppo in alto.
296. Mancanza di confidenza. La mancanza di confidenza fra amici è un errore che non può essere biasimato senza diventare irrimediabile.
299. I consiglieri dell’ammalato. Chi dà i suoi consigli a un ammalato, si procura un senso di superiorità su di lui, sia che essi vengano accolti, sia che essi vengano respinti. Perciò gli ammalati eccitabili e orgogliosi odiano quelli che danno consigli ancor più della loro malattia.
303. Perché si contraddice. Spesso contraddiciamo un’opinione, mentre propriamente ci è antipatico soltanto il tono con cui essa è stata espressa.
304. Fiducia e confidenza. Chi cerca di ottenere di proposito la confidenza di un’altra persona, di solito non è sicuro di possederne la fiducia. Chi è sicuro della fiducia, annette scarso valore alla confidenza.
305. Equilibrio dell’amicizia. Spesso nei rapporti tra noi e un’altra persona il giusto equilibrio dell’amicizia ritorna, se poniamo qualche granello di torto nel nostro piatto della bilancia.
309. Gentilezze. Alle persone che non amiamo imputiamo a colpa le gentilezze che ci fanno.
310. Far aspettare. Un mezzo sicuro per irritare la gente e metterle in testa pensieri cattivi è quello di farla aspettare a lungo. Ciò rende immorali.
311. Contro i confidenziali. Le persone che ci donano la loro piena confidenza credono di avere per questo diritto alla nostra. Ciò è un errore; coi regali non si acquistano diritti.
314. Pieno di riguardi. Il non voler offendere nessuno, non voler ledere nessuno può essere segno sia di un modo di pensare giusto, sia di un modo di pensare pavido.
320. Il più brutto. C’è da dubitare che un gran viaggiatore abbia trovato in qualche parte del mondo zone più brutte che nella faccia umana.
321. I compassionevoli. Le nature compassionevoli, soccorrevoli nella disgrazia in ogni momento, sono di rado quelle che partecipano insieme alle gioie altrui: nella felicità degli altri esse non hanno niente da fare, sono superflue, non si sentono in possesso sella loro superiorità e mostrano perciò facilmente disappunto.
323. Prevedere l’ingratitudine. Chi regala qualcosa di grande non trova riconoscenza, perché chi lo riceve ha già troppo peso nell’accettarlo.
326. Tacere. Per le due parti il modo più spiacevole di replicare a una polemica è quello di arrabbiarsi e tacere: perché chi attacca interpreta di solito il silenzio come un segno di disprezzo.
330. Ringraziamento. Un’anima delicata è angustiata dal sapere qualcuno obbligato a ringraziarla; un’anima gretta, dal sapersi obbligata a ringraziare qualcuno.
332. Arroganza nelle persone di merito. L’arroganza nelle persone di merito offende ancor più che l’arroganza degli uomini senza merito: perché già il merito offende.
335. Paura del prossimo. Noi temiamo una disposizione ostile da parte del prossimo, perché abbiamo paura che, grazie a questa disposizione, esso scopra i nostri segreti.
341. Troppo poco onorato. Le persone molto presuntuose, a cui si sono mostrati segni di considerazione inferiori a quelli che si aspettavano, cercano a lungo di ingannare in proposito se stesse e gli altri, e diventano sottili psicologi per dimostrare che l’altro li ha tuttavia onorati sufficientemente: se non raggiungono il loro scopo, se il velo dell’illusione si strappa, allora il disappunto le assale con forza tanto maggiore.
348. Offendere ed essere offesi. È di gran lunga più gradevole offendere e chiedere più tardi perdono, che essere offesi e accordare perdono. Chi fa la prima cosa, dà un segno di potenza e poi di bontà di carattere. L’altro, se non vuol passare per inumano, deve, già per questo perdonare; il godimento dell’umiliazione dell’altro è, a causa di questa costrizione, limitato.
351. Rimorsi dopo riunioni. Perché dopo essere stati in compagnie ordinarie proviamo rimorsi? Perché abbiamo preso alla leggera cose importanti, perché nel discorrere di persone non abbiamo parlato con piena buona fede o perché abbiamo taciuto dove avremmo dovuto parlare, perché all’occasione non siamo balzati in piedi e non siamo andati via, insomma, perché nella compagnia ci siamo comportati come se le fossimo appartenuti.
357. Sull’altare della riconciliazione. Si danno casi in cui otteniamo una cosa da un uomo solo offendendolo e inimicandocelo: questo sentimento di avere un nemico lo tormenta tanto, che egli approfitta volentieri del primo segno di una disposizione più mite per riconciliarsi e sacrifica sull’altare della riconciliazione quella cosa che per lui prima rappresentava tanto, che non voleva darla a nessun costo.
360. Contegno di fronte alla lode. Quando i buoni amici lodano l’uomo d’ingegno, molto spesso egli se ne mostrerà lieto per cortesia e benevolenza, ma in verità la cosa gli è indifferente. Il suo vero essere è affatto inerte a tale riguardo e non è possibile smuoverlo di un passo fuori dal sole o dall’ombra in cui si trova; ma con la lode gli uomini vogliono procurare una gioia e li si rattristerebbe, se non ci si rallegrasse della loro lode.
368. Il talento dell’amicizia. Tra gli uomini che hanno un particolare talento dell’amicizia si distinguono due tipi. L’uno è in una costante ascesa e per ogni fase del suo sviluppo trova un amico esattamente appropriato. Egli in tal modo si acquista una serie di amici che sono raramente in connessione fra loro, talvolta anzi in discordanza e in contraddizione: ciò corrisponde pienamente al fatto che le fasi posteriori del suo sviluppo annullano o pregiudicano le fasi anteriori. Un uomo simile può essere detto scherzosamente una scala. L’altro tipo è rappresentato da colui che esercita un’attrazione su caratteri e ingegni molto diversi, sicché si acquista tutta una cerchia di amici; questi però vengono in tal modo essi stessi in amichevoli contatti fra loro, nonostante ogni diversità. Si dica un uomo simile un cerchio: perché in lui quella congenialità di disposizioni e nature così diverse doveva essere in qualche modo preformata. Del resto il dono di avere buoni amici è in parecchi uomini molto più grande del dono di essere un buon amico.
376. Degli amici. Rifletti solo per una volta fra te e te come sono diversi i sentimenti, come divise le opinioni, fra i conoscenti più stretti; come finanche opinioni uguali hanno nella mente dei tuoi amici una posizione o forza tutta diversa che nella tua; come in cento guise sorge occasione di fraintendersi, di separarsi ostilmente. Dopo tutto ciò ti dirai: com’è insicuro il terreno su cui poggiano tutte le nostre relazioni e amicizie, come sono vicini i freddi acquazzoni o i brutti temporali, come è isolato ogni uomo! Se uno si rende conto di ciò, e inoltre del fatto che tutte le opinioni e la loro forma e forza sono nei propri simili altrettanto necessarie e irresponsabili che le loro azioni, se uno acquista occhio per quest’ultima necessità delle opinioni a causa dell’inestricabile intrecciarsi di carattere, occupazione, talento e ambiente – supererà forse l’amarezza di quell’aspro sentimento, con cui quel saggio gridò: «Amici, non ci sono amici!». Egli si dirà piuttosto: sì, ci sono amici, ma l’errore e l’illusione su di te li hanno portati a te; ed essi devono aver imparato a tacere per rimanerti amici,; perché quasi sempre tali rapporti umani poggiano su ciò: che un paio di cose non vengano mai dette, anzi non si sfiorino ma; se invece queste pietruzze finiscono nell’ingranaggio, l’amicizia le segue e si frantuma. Ci sono uomini che non sarebbero feriti mortalmente se venissero a conoscere che cosa i loro più fidati amici in fondo sanno di loro? Dato che conosciamo noi stessi e consideriamo il nostro stesso essere come una cangiante sfera di opinioni e stati d’animo, e impariamo pertanto a disistimarci alquanto, riportiamoci in quell’equilibrio con gli altri. È vero, abbiamo buoni motivi per stimare poso ciascuno dei nostri conoscenti, fossero anche i più grandi; ma altrettanto buoni per rivolgere questo sentimento contro noi stessi. E così sopportiamoci a vicenda, visto che sopportiamo noi stessi; e forse verrà per ognuno anche un’ora più lieta in cui dirà: «Amici, non ci sono amici!» così gridò il saggio morente. «Nemici, non ci sono nemici!» grido io, il folle vivente.
377. La donna perfetta. La donna perfetta è un tipo umano più alto dell’uomo perfetto: anche qualcosa di molto più raro. […]
378. Amicizia e matrimonio. Al migliore amico toccherà probabilmente la migliore moglie, perché il buon matrimonio riposa sul talento dell’amicizia.
382. Padri e figli. I padri hanno molto da fare per riparare al fatto di avere dei figli.
384. Una malattia da uomini. Contro la malattia maschile del disprezzo di sé giova nel modo più sicuro l’essere amati da una donna intelligente.
388. Differenti sospiri. Alcuni mariti hanno sospirato sul rapimento delle loro mogli; la maggior parte nel fatto che nessuno gliele abbia volute rapire.
390. Amicizia femminile. Le donne possono stringere benissimo amicizia con un uomo; ma per poterla conservare – a tal fine deve ben aiutare una piccola antipatia fisica.
392. Un elemento dell’amore. In ogni specie di amore femminile viene in luce anche qualcosa dell’amore materno.
393. L’unità di luogo e dramma. Se i coniugi non vivessero insieme, i buoni matrimoni sarebbero più frequenti.
394. Conseguenze abituali del matrimonio. Ogni rapporto che non eleva abbassa, e viceversa; perciò gli uomini scendono alquanto, quando prendono moglie, mentre le donne vengono alquanto innalzate. Gli uomini troppo spirituali provano in ugual misura bisogno e ripugnanza per il matrimonio, come per una repellente medicina.
396. Voler innamorarsi. I fidanzati che la convenienza ha uniti si sforzano spesso di diventare innamorati, per sfuggire al rimprovero del freddo calcolo utilitario. Così anche coloro che per il loro vantaggio si volgono al cristianesimo, si sforzano di diventare veramente pii; giacché in tal modo riesce loro più facile imparare la mimica della religiosità.
400. Natura da Proteo. Per amore le donne diventano veramente tali, quali esse vivono nell’immaginazione degli uomini da cui sono amate.
401. Amare e possedere. Le donne amano per lo più un uomo importante in modo da volerlo avere tutto per sé. Volentieri lo metterebbero in clausura se la loro vanità non le dissuadesse: questa vuole che egli appaia importante anche di fronte agli altri.
404. Onorabilità e onestà. Quelle ragazze che vogliono procurarsi col solo loro fascino giovanile una sistemazione per tutta la vita e la cui furberia viene ancor più aizzata da madri smaliziate, vogliono esattamente la stessa cosa delle etère, solo che sono più intelligenti e più disoneste di queste ultime.
405. Maschere. Ci sono donne che, per quanto la si cerchi in loro, non hanno interiorità, sono pure maschere. È da compiangere l’uomo che ha a che fare con tali esseri quasi spettrali, necessariamente insoddisfacenti; ma proprio esse possono eccitare al massimo il desiderio dell’uomo: egli cerca la loro anima – e continua a cercare.
406. Il matrimonio come lungo dialogo. In procinto di contrarre un matrimonio bisogna porsi la domanda: credi tu di poter ben conversare fino alla vecchiaia con questa donna? Ogni altra cosa nel matrimonio è transitori, mentre la maggior parte del tempo della vita comune è presa dalla conversazione.
407. Sogni di fanciulle. Le ragazze inesperte si lusingano con l’idea che sia in loro potere rendere felice un uomo; più tardi imparano che ciò significa né più né meno che: un uomo è disprezzato se si suppone che ci voglia solo una ragazza per renderlo felice. La vanità delle donne esige che un uomo sia qualcosa di più che uno sposo felice.
410. Senza rivali. In un uomo le donne notano facilmente se la sua anima è già occupata; esse vogliono essere amate senza rivali e gli rimproverano gli scopi della sua ambizione, i suoi compiti politici, le sue scienze e arti, se egli ha una passione per tali cose. A meno che per esse egli non brilli – allora sperano, nel caso di un legame amoroso con lui, di brillare, anche loro, di più; quando le cose stanno così, favoriscono l’amante.
411. L’intelletto femminile. L’intelletto delle donne si manifesta come perfetta padronanza, presenza di spirito, sfruttamento di tutti i vantaggi. Esse lo trasmettono come loro qualità fondamentale ai loro figli, e il padre vi aggiunge il fondo più oscuro della volontà. L’influsso del padre determina per così dire il ritmo e l’armonia secondo cui si svolgerà la musica della nuova vita; mentre la melodia di essa proviene dalla donna. – Detto per coloro che sanno trarre profitto da qualcosa: le donne hanno l’intelletto, gli uomini il sentimento e la passione. Ciò non è contraddetto dal fatto che gli uomini giungano in realtà tanto più lontano con il loro intelletto: essi hanno gli impulsi più profondi e più forti; sono questi che portano così lontano il loro intelletto, che di per sé è qualcosa di passivo. Spesso le donne si meravigliano segretamente della grande venerazione che gli uomini tributano al loro sentimento. Se gli uomini, nella scelta della loro compagna, cercano soprattutto un essere profondo, pieno di sentimento, e le donne invece un essere intelligente, fornito di presenza di spirito e brillante, si vede in fondo chiaramente come l’uomo cerchi l’uomo idealizzato e la donna la donna idealizzata, ossia non l’integrazione, bensì il perfezionamento dei propri pregi.
413. I miopi sono innamorati. A volte bastano già occhiali più forti per guarire gli innamorati; e chi avesse forza d’immaginazione sufficiente per figurarsi un volto, una figura più vecchia di vent’anni, passerebbe forse attraverso la vita affatto indisturbato.
415. Amore. L’idolatria che le donne professano per l’amore è in fondo e in origine un’invenzione dell’accortezza, in quanto con tutte quelle idealizzazioni dell’amore esse accrescono il loro potere e si presentano come sempre più desiderabili agli occhi degli uomini. Ma con la secolare assuefazione a questa esagerata valutazione dell’amore, è avvenuto che esse sono cadute nella loro stessa rete e hanno dimenticato quell’origine. Oggi esse stesse sono illuse ancor più degli uomini e soffrono perciò anche di più per la delusione che quasi necessariamente arriverà nella vita di ogni donna, nella misura in cui essa abbia in genere abbastanza fantasia e intelletto per poter essere illusa e delusa.
416. Sull’emancipazione delle donne. Possono le donne in genere essere giuste, quando sono così abituate ad amare, a sentire subito pro o contro? Perciò, anche, esse si infiammano più raramente per una causa che per una persona; ma se si infiammano per una causa, ne diventano subito partigiane, sciupandone in tal modo l’azione pura e innocente. Così un pericolo non piccolo sorge quando vengono loro affidate la politica e certi settori della scienza (per esempio la storia). Giacché: che cosa è più raro di una donna che sappia veramente che cos’è la scienza? Le migliori nutrono addirittura in seno un segreto disprezzo nei suoi riguardi, come se in qualche modo le fossero superiori. Forse tutto ciò potrà cambiare, ma intanto è così.
418. Farsi amare. Poiché di due persone che amano di solito una è la persona che ama e l’altra quella amata, è sorta la credenza che in ogni affare amoroso ci sia una sempre uguale quantità d’amore: quanto più una persona se ne prende per sé, tanto meno ne resta all’altra. Eccezionalmente avviene che la vanità persuada ciascuna delle due persone che è essa quella che deve essere amata e così entrambe vogliono farsi amare: di qui nascono, specialmente nel matrimonio, scene di ogni sorta, mezzo buffe e mezzo assurde.
419. Contraddizione nelle teste femminili. Poiché le donne sono tanto più personali che oggettive, nel giro dei loro pensieri si conciliano tendenze che sono logicamente in contraddizione fra loro: esse sogliono entusiasmarsi appunto, l’uno dopo l’altro, dei rappresentanti di queste tendenze e accettano in blocco i loro sistemi; tuttavia in modo che dappertutto si produca un punto morto là dove più tardi una nuova personalità prenderà il sopravvento. Accade forse che nella mente di una vecchia signora l’intera filosofia consista meramente di tali punti morti.
420. Chi soffre di più? Dopo un diverbio e alterco personale fra un uomo e una donna, una parte soffre per lo più all’idea di aver fatto male all’altra; mentre quella soffre per lo più all’idea di non aver fatto alla prima abbastanza male, per cui con lacrime, singhiozzi ed espressioni sconvolte, si sforza ancora dopo di amareggiarle il cuore.
421. Occasione di magnanimità femminile. Mettendosi per una volta in pensiero al di sopra delle pretese della morale, si potrebbe riflettere se per caso natura e ragione non destinino l’uomo a più matrimoni successivi, all’incirca così: dapprima, egli dovrebbe, all’età di ventidue anni, sposare una ragazza maggiore di lui, che gli fosse intellettualmente e moralmente superiore e potesse diventare la sua guida attraverso i pericoli dei vent’anni (ambizione, odio, disprezzo di sé, passioni di ogni specie). L’amore di costei si convertirebbe più tardi del tutto in affetto materno, e non soltanto ella tollererebbe, ma favorirebbe nel modo più salutare, che l’uomo contraesse nei trent’anni un legame con una ragazza affatto giovane, di cui prenderebbe a sua volta in mano l’educazione. Il matrimonio è un istituto necessario per i vent’anni e utile, ma non necessario, per i trenta: per la vita posteriore esso diventa spesso dannoso e favorisce l’atrofia intellettuale dell’uomo.
426. Spirito libero e matrimonio. Gli spiriti liberi vivranno con donne? In generale io penso che essi, simili ai profetici uccelli dell’antichità, come coloro che nel presente pensano il vero e parlano la verità, debbano preferire volar soli.
427. Felicità del matrimonio. Tutto ciò che è abituale intesse intorno a noi una rete di ragnatele che diventa sempre più salda; e ben tosto ci accorgiamo che i fili sono divenuti corde e che noi stessi vi stiamo in mezzo come un ragno che vi si sia impigliato e che debba nutrirsi del suo stesso sangue. Perciò lo spirito libero odia tutte le abitudini e regole, tutto ciò che è durevole e definitivo, perciò lacera sempre di nuovo, con dolore, la rete intorno a sé: benché in conseguenza di ciò sia destinato a soffrire numerose, piccole e grandi ferite – giacché quei fili egli li deve strappare da sé, dal proprio corpo, dalla propria anima. Egli deve imparare ad amare là dove prima odiava, e viceversa. Anzi per lui non deve essere affatto impossibile seminare denti di drago nello stesso campo in cui già fece traboccare i corni dell’abbondanza della sua bontà. Da ciò si può capire se egli sia fatto per la felicità del matrimonio.
432. Dissonare di due consonanze. Le donne vogliono servire, e trovano in ciò la loro felicità: e lo spirito libero non vuole essere servito, e trova in ciò la sua felicità.
486. L’unica cosa necessaria. Una cosa bisogna averla: o uno spirito lieve per natura o uno spirito alleviato dall’arte e dal sapere.
488. La calma nell’azione. Come una cascata diventa nella caduta più lenta e sospesa, così il grande uomo d’azione suole agire con più calma di quanto il suo impetuoso desiderio facesse prevedere prima dell’azione.
489. Non troppo profondamente. Le persone che afferrano una cosa in tutta la sua profondità, le rimangono raramente fedeli per sempre. Esse hanno appunto portato alla luce il fondo: lì c’è sempre molto di brutto da vedere.
492. La professione giusta. Gli uomini durano raramente in una professione di cui non credano o si dicano che essa è in fondo più importante di tutte le altre. Così accade anche alle donne coi loro amanti.
494. Meta e vie. Molti sono ostinati in relazione alla via una volta intrapresa, pochi lo sono in relazione alla meta.
496. Prerogativa della grandezza. È prerogativa della grandezza recare grande felicità con piccoli doni.
497. Nobiltà senza saperlo. L’uomo si comporta involontariamente in maniera nobile, quando si è abituato a non voler nulla dagli uomini e a sempre dar loro.
499. Amico. Il prender parte alla gioia, non il prender parte al dolore, fa l’amico.
504. L’ipocrita più distinto. Il non parlare affatto di sé è un’ipocrisia molto distinta.
508. La libera natura. Ci troviamo così bene nella libera natura, perché essa non ha alcuna opinione su di noi.
513. La vita come ricavato della vita. Per quanto l’uomo possa espandersi con la sua conoscenza, apparire a se stesso obiettivo: alla fine non ne ricava nient’altro che la propria biografia.
517. L’intuizione fondamentale. Non c’è nessuna armonia prestabilita fra il progresso della verità e il bene dell’umanità.
518. Destino umano. Chi pensa profondamente sa che ha sempre torto, comunque agisca e giudichi.
521. Grandezza significa: dare direzione. Nessun fiume è di per sé grande e ricco: è il fatto di accogliere e di convogliare in sé tanti affluenti, ciò che lo rende tale. Così avviene con tutte le grandezze dello spirito. Ciò che solo importa è che uno dia la direzione, che poi tanti affluenti dovranno seguire; non che uno sia all’inizio poveramente o riccamente dotato.
523. Voler essere amati. La pretesa di essere amati è la più grande delle presunzioni.
526. Dimenticare le vicende personali. Chi pensa molto, chi pensa cioè oggettivamente, dimentica facilmente le proprie vicende, ma non dimentica i pensieri che da quelle sono suscitati.
541. Nel fiume. Le forti correnti trascinano con sé molto pietrame e sterpaglia, gli spiriti forti molte teste stupide e confuse.
542. Pericoli della liberazione spirituale. Nella liberazione spirituale di un uomo, seriamente intesa, le sue passioni e i suoi desideri sperano segretamente di trarne anch’essi vantaggio.
543. Incarnazione dello spirito. Quando uno pensa molto e intelligentemente, non solo il suo volto, ma anche il suo corpo acquista un aspetto intelligente.
555. Soccorrevolezza pericolosa. Ci sono persone che vogliono render pesante la vita agli uomini, per nessun altro motivo se non quello di offrir loro in seguito le proprie ricette per l’alleviamento della vita, per esempio il proprio cristianesimo.
564. In pericolo. Si è maggiormente in pericolo di essere investiti quando si è appena scansata una macchina.
566. Amore e odio. L’amore e l’odio non sono ciechi, bensì abbagliati dal fuoco che essi stessi apportano.
568. Confessione. Si dimentica la propria colpa, quando la si è confessata a un altro, ma di solito non la dimentica l’altro.
569. Contentezza di sé. Il vello d’oro della contentezza di sé protegge contro le percosse, ma non contro i colpi di spillo.
570. Ombre nella fiamma. La fiamma non è così chiara a se stessa come agli altri a cui fa luce: così anche il saggio.
572. Origine del coraggio. L’uomo ordinario è coraggioso e invulnerabile, come un eroe, quando non vede il pericolo, quando non ha occhi per esso. Viceversa: l’eroe ha l’unico punto vulnerabile nel dorso, cioè dove non ha occhi.
580. Cattiva memoria. Il vantaggio della cattiva memoria è che si godono parecchie volte per la prima volta le stesse cose buone.
586. La lancetta della vita. La vita consiste di rari momenti singoli di altissimo significato e di innumerevoli intervalli in cui nel miglior caso ci si aggirano intorno le ombre di quei momenti. L’amore, la primavera, ogni bella melodia, la montagna, la luna, il mare – tutto parla solo una volta veramente al cuore: seppure giunge mai a parlare. Giacché molti uomini non hanno affatto quei momenti e sono essi stessi intervalli e pause nella sinfonia della vita reale.
589. Il primo pensiero della giornata. Il mezzo migliore per cominciare bene ogni giornata è: svegliandosi pensare se non si possa in questa giornata procurare una gioia almeno a una persona. Se ciò potesse valere come un sostitutivo dell’abitudine religiosa della preghiera, il prossimo trarrebbe vantaggio da questo cambiamento.
603. Amore e onore. L’amore desidera, la paura evita. Da ciò dipende che non si possa essere insieme amati e onorati dalla stessa persona, almeno non nello stesso spazio di tempo. Giacché chi onora riconosce la potenza cioè la teme: il suo stato d’animo è di rispetto-paura. L’amore invece non riconosce alcuna potenza, nulla che separi, che distingua, che sopraordini o subordini. Poiché esso non onora, gli uomini avidi di onori sono in segreto o apertamente restii ad essere amati.
604. Pregiudizio per gli uomini freddi. Gli uomini che prendono rapidamente fuoco, si raffreddano presto e sono quindi complessivamente poco fidati. Perciò esiste verso tutti coloro che sono sempre freddi o che a tali si atteggiano, il favorevole pregiudizio che essi siano uomini particolarmente degni di fiducia e sicuri; li si scambia con coloro che prendono fuoco lentamente e lo mantengono a lungo.
606. Desiderio di profondo dolore. La passione si lascia dietro, quand’è passata, un’oscura nostalgia di sé e getta, ancora nello scomparire, un’occhiata tentatrice. Bisogna pure che abbia procurato una sorta di piacere, l’essere stati battuti dalla sua frusta. I sentimenti moderati appaiono al paragone insipidi; si preferisce sempre, a quanto sembra, il dolore fisico intenso al piacere fiacco.
625. Uomini solitari. Parecchi uomini sono così abituati a star soli con se stessi, che non si paragonano affatto con gli altri, e continuano a intessere la loro vita monologica in una disposizione lieta e tranquilla, fra buone conversazioni con se stessi e perfino con riso. Se invece li si induce a confrontarsi con gli altri, essi inclinano a sottovalutare se stessi con riflessioni sottili: al punto da dover essere costretti a riapprendere solo dagli altri una buona, giusta opinione sul loro conto; e anche da questa opinione appresa vorranno sempre togliere, detrarre qualcosa. Bisogna dunque lasciare a certi uomini la loro solitudine e non essere così sciocchi, come spesso accade, da compiangerli a causa di essa.
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Da: Umano, troppo umano, Volume II.
37. L’inganno dell’amore. Si dimenticano molte cose del proprio passato e le si scaccia di proposito dalla mente: cioè si vuole che la nostra immagine, che irraggia dal passato verso di noi, ci inganni, lusinghi la nostra presunzione – noi lavoriamo continuamente a questo inganno di noi stessi. E ora credete voi, che tanto parlate e decantate l’«obliar se stessi nell’amore», lo «sciogliersi dell’io nell’altra persona», che ciò sarebbe qualcosa di sostanzialmente diverso? Dunque si infrange lo specchio, ci si immagina in un’altra persona che si ammira, e si gode poi la nuova immagine del proprio io, anche se la si chiama col nome dell’altra persona – e tutto questo procedimento non sarebbe inganno di sé, non sarebbe egoismo, gente strana! Io penso che coloro che nascondono qualcosa di sé a se stessi e coloro che a se stessi si nascondono come tutto, sono uguali in ciò, che commettono un furto nella camera del tesoro della conoscenza: dal che risulta contro quale reato ci metta in guardia il detto: «conosci te stesso».
55. Moralmente più difficile dell’attacco, la difesa. Il vero, eroico virtuosismo di un uomo buono non consiste nell’attaccare la causa continuando ad amare la persona, bensì nell’arte molto più difficile di difendere la propria causa senza amareggiare e voler amareggiare il cuore alla persona che attacca. La spada dell’attacco è schietta e larga, quella della difesa termina di solito in un ago.
61. Veder brillare la propria luce. Nello stato di oscuramento prodotto dall’avvilimento, dalla malattia e dalla colpa, ci fa piacere vedere che per gli altri splendiamo ancora e che essi scorgono in noi il chiaro disco lunare. Per questa via indiretta partecipiamo anche noi alla nostra capacità di illuminare.
74. L’errore più amaro. È cosa che offende irreconciliabilmente lo scoprire che, là dove si era convinti di essere amati, si era considerati solo come suppellettili e ornamenti di camera, con cui il padrone di casa poteva sfogare con gli ospiti la sua vanità.
75. Amore e dualità. Che altro è l’amore se non comprendere e gioire che un altro viva, agisca e senta in maniera diversa e opposta alla nostra? Per poter superare i contrasti con la gioia, l’amore non li deve sopprimere Né negare. Perfino l’amore di sé contiene come presupposto la non mescolabile dualità (o pluralità) in una stessa persona.
77. Dissolutezza. La madre della dissolutezza non è la gioia, bensì la mancanza di gioia.
225. La fede rende beati e dannati. Un cristiano che cadesse in un corso di pensieri proibiti, potrebbe ben chiedersi una volta: ma è veramente necessario che, oltre a un agnello espiatorio che lo rappresenta, esista realmente un Dio, se già la fede nell’esistenza di questi esseri basta per produrre gli stessi effetti? Non sarebbero esseri superflui, nel caso che dovessero esistere? Giacché tutto ciò che di benefico, consolante e moralizzante, come anche tutto ciò che di offuscante e opprimente la religione cristiana dà all’anima umana, proviene da quella fede e non dagli oggetti di quella fede. Accade qui non diversamente che in un caso ben noto: in realtà non ci sono state streghe, ma i terribili effetti della credenza nelle streghe sono stati gli stessi che se le streghe fossero realmente esistite. In tutte quelle occasioni in cui il cristiano aspetta l’immediato intervento di un Dio, ma aspetta vanamente – perché non c’è Dio – la sua religione ha abbastanza inventiva per trovare scappatoie e motivi per tranquillizzarlo: in ciò essa è sicuramente una religione ricca di spirito. In verità finora la fede non ha potuto ancora spostare nessuna montagna, benché qualcuno – non so chi – l’abbia asserito; ma essa può mettere delle montagne dove non ce ne sono.
251. Nella separazione. Non nel modo in cui un’anima si accosta all’altra, ma nel modo in cui se ne allontana, riconosco la sua parentela e affinità con l’altra.
264. Raffreddamento. Il riscaldamento del cuore è di solito congiunto con la malattia della testa e del giudizio. Chi per qualche tempo ha interesse alla sanità di quest’ultimo, deve anche sapere che cosa deve raffreddare: senza preoccuparsi per il futuro del suo cuore! Poiché, se in genere si è capaci di riscaldarsi, si ridiventerà anche caldi e si riavrà la propria estate.
266. Quando il pericolo è più grande. Raramente ci si spezza una gamba finché nella vita si sale faticosamente – ciò avviene quando si comincia a farsi le cose facili e a scegliere le vie comode.
280. Crudele pensiero dell’amore. Ogni grande amore porta con sé il crudele pensiero di uccidere l’oggetto dell’amore, perché sia sottratto una volta per tutte al sacrilego gioco del mutamento: giacché di fronte al mutamento l’amore inorridisce più che di fronte alla distruzione.
287. La fonte del grande amore. Da che nascono le improvvise passioni di un uomo per una donna, le passioni profonde, interiori? In minima parte dalla sola sensualità: ma quando un l’uomo trova insieme in un essere debolezza, bisogno d’aiuto e nel contempo alterigia, accade in lui qualcosa, come se la sua anima volesse straripare: è nello stesso momento commosso e offeso. Qui sgorga la fonte del grande amore.
292. Rinuncia nella volontà di bellezza. Per diventare bella, una donna non deve voler passare per carina: cioè in novantanove casi in cui potrebbe piacere, deve disdegnare ed astenersi dal piacere, per raccogliere un giorno il rapimento di colui, la porta della cui anima è abbastanza grande per accogliere il grande.
296. I migliori dissimulatori. Tutti coloro che di regola hanno successo, posseggono una profonda scaltrezza nel far apparire sempre solo come forze le loro deficienze e debolezze; per cui le devono conoscere in modo straordinariamente chiaro e preciso.
349. A un elogiato. Finché ti si elogia, credi pure sempre che non sei ancora sulla tua strada, bensì su quella di un altro.
348. Dal paese dei cannibali. Nella solitudine il solitario divora se stesso, nella moltitudine lo divorano i molti. Ora scegli.
364. Ragione di molta tetraggine. Chi nella vita preferisce il bello all’utile, finisce certo, come il bimbo che preferisce le caramelle al pane, col rovinarsi lo stomaco e con guardare il mondo con molta tetraggine.
376. Pensatore a catena. A uno che ha molto pensato, ogni nuovo pensiero che sente o legge, appare subito in forma di una catena.
378. Che cos’è il genio? Volere un alto fine e i mezzi per esso.
379. Vanità di lottatore. Chi in una lotta non ha nessuna speranza di vincere o è manifestamente inferiore, vuole tanto più che la sua maniera di lottare venga ammirata.
384. Imperdonabile. Tu gli hai offerto un’occasione di mostrare grandezza di carattere ed egli non l’ha sfruttata. Non te lo perdonerà mai.
400. Vantaggio della privazione. Chi vive sempre nel calore e nella pienezza del cuore e per così dire nell’aria estiva dell’anima, non può immaginarsi il misterioso rapimento che afferra le nature più invernali, che vengono eccezionalmente toccate dai raggi dell’amore e dal tiepido soffio di un solatio giorno di febbraio.
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Da: Umano, troppo umano, Volume II, Il viandante e la sua ombra.
59. Che cos’è «ostinato»? La via più breve non è la più diritta possibile, bensì quella in cui i venti più favorevoli gonfiano le nostre vele: così dice l’insegnamento dei navigatori. Il non seguirlo significa essere ostinati: la fermezza di carattere è qui contaminata dalla stupidità.
68. Si può perdonare? Come si può in genere perdonare loro, se essi non sanno ciò che fanno? Non si ha proprio niente da perdonare. – Ma sa mai un uomo pienamente ciò che fa? E se questo rimane sempre perlomeno un dubbio, allora gli uomini non hanno mai qualcosa da perdonarsi, e essere clemente è, per il più ragionevole, una cosa impossibile. Da ultimo: anche se i malfattori avessero veramente saputo ciò che facevano – noi avremmo avuto comunque il diritto di perdonare solo se avessimo avuto il diritto di accusa e di punizione. Ma questo non l’abbiamo.
173. Ridere e sorridere. Quanto più lo spirito diventa gioioso e sicuro, tanto più l’uomo disimpara a ridere forte; per contro gli zampilla continuamente in viso un sorriso intelligente, segno del suo stupore per le innumerevoli piacevolezze nascoste della buona esistenza.
245. Nei rapporti intimi. Per quanto strettamente certi uomini possano appartenersi, nel loro orizzonte comune ci sono ancora tutti e quattro i punti cardinali, e in molte occasioni essi se ne accorgono.
246. Il silenzio della nausea. Qualcuno attraversa, come pensatore e come uomo, una profonda e dolorosa trasformazione e ne fornisce poi pubblica testimonianza. E gli ascoltatori non si accorgono di nulla! Lo credono ancora in tutto e per tutto quello di prima! – Quest’esperienza comune ha fatto già nausea a parecchi scrittori: essi avevano stimato troppo alta l’intellettualità degli uomini e si sono ripromessi, constatando il loro errore, il silenzio.
306. Perdere se stessi. Una volta che si sia trovato se stesso, bisogna essere capace di tempo in tempo di perdersi – e poi di ritrovarsi: presupposto che si sia un pensatore. A questo è infatti dannoso essere legato sempre a una stessa cosa.
324. Diventare pensatori. Come può uno diventare pensatore, se non passa almeno una terza parte di ogni giorno senza passioni, uomini e libri?
329. Quando è tempo di promettersi fedeltà. Talvolta ci si smarrisce in una direzione spirituale che è contraria alle nostre doti; per un certo tempo si combatte eroicamente contro i flutti e i venti, in fondo contro se stessi: ci si stanca, si ansima; ciò che si compie non dà nessuna vera gioia, si crede di averci rimesso troppo, in questi successi. Anzi, si dispera della propria fecondità, del proprio avvenire, e forse in mezzo alla vittoria. Finalmente, finalmente ci voltiamo indietro – ed ora il vento soffia nella nostra vela e ci sospinge nelle nostre acque. Che felicità! Come ci sentiamo ceti della vittoria! Solo ora sappiamo che cosa siamo e che cosa vogliamo, ora ci promettiamo fedeltà e ci è lecito farlo – da competenti.
332. Le tre cose buone. Grandezza, calma e solarità – queste tre cosa abbracciano tutto ciò che un pensatore desidera ed anche esige da sé: le sue speranze e i suoi doveri, le sue pretese nel campo intellettuale e morale, perfino nella vita quotidiana e anche nel paesaggio della sua dimora. A esse corrispondono in primo luogo pensieri che elevano, in secondo luogo pensieri che calmano e in terzo luogo pensieri che rischiarano – ma in quarto luogo pensieri che partecipano di tutte e tre le qualità e in cui ogni cosa terrena si trasfigura: è la sfera in cui domina la grande trinità della gioia.
335. Morale per costruttori di case. Quando la casa è costruita, bisogna togliere le impalcature.
339. Affabilità del saggio. Il saggio si comporterà senza volerlo in modo affabile con gli altri uomini, come un principe, e nonostante ogni diversità di ingegno, di classe e di costumi, facilmente li tratterà come uguali: cosa per cui, non appena essa sarà notata, gliene si vorrà.
344. Come bisogna vincere. Non bisogna voler vincere, quando si ha la prospettiva di superare l’avversario solo per la larghezza di un capello. La buona vittoria deve far gioioso il vinto, deve avere qualche cosa di divino che risparmi l’onta.
345. Illusione degli spiriti superiori. Gli spiriti superiori fanno fatica a liberarsi di un’illusione: essi si immaginano infatti di suscitare invidia presso i mediocri e di esser considerati come eccezioni. In realtà invece essi vengono considerati come ciò che è superfluo e di cui, se mancasse, si farebbe facilmente a meno.
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Da: Umano, troppo umano, Volume I.
475. L’uomo europeo e il destino delle nazioni. Il commercio e l’industria, lo scambio di libri e di lettere, la comunanza di tutta la cultura superiore, il rapido mutar di luogo e di paese, l’odierna vita nomade di tutti coloro che non posseggono terra – queste circostanze portano necessariamente con sé un indebolimento e alla fine una distruzione delle nazioni, per lo meno di quelle europee; sicché da esse tutte, in seguito ai continui incroci, dovrà nascere una razza mista, quella dell’uomo europeo. Contro questa meta opera oggi, consapevolmente o inconsapevolmente, l’isolamento delle nazioni dovuto alla fomentazione di inimicizie nazionali, ma lentamente quel mescolamento fa lo stesso il suo cammino, nonostante le temporanee correnti contrarie: questo nazionalismo artificiale è del resto tanto pericoloso, quanto lo è stato il cattolicesimo artificiale, giacché è nella sua essenza uno stato d’emergenza e d’assedio, che è stato proclamato da pochi su molti, e ha bisogno d’astuzia, menzogna e violenza per mantenersi in credito. Non l’interesse dei molti (dei popoli), come ben si dice, bensì innanzitutto l’interesse di determinate dinastie regnanti e poi quello di determinate classi del commercio e della società, spingono a questo nazionalismo; una volta che si sia riconosciuto ciò, bisogna dirsi francamente solo buoni Europei e contribuire con l’azione alla fusione delle nazioni: alla quale impresa i Tedeschi possono collaborare con la loro vecchia e provata qualità di fare da interpreti e da mediatori dei popoli. Incidentalmente: l’itera questione ebraica esiste solo entro gli Stati nazionali, in quanto qui dappertutto l’efficienza e superiore intelligenza degli Ebrei, il capitale di spirito e di volontà da essi accumulato di generazione in generazione in una lunga scuola di dolore, sono destinati a prevalere in misura tale, da risvegliare invidia e odio, sicché oggi in quasi tutte le nazioni, cioè quanto più esse tornano ad assumere un atteggiamento nazionalistico – dilaga il malcostume letterario di condurre gli Ebrei al macello come capri espiatori di tutti i possibili mali pubblici e interni. Ma non appena si tratti non più di conservare delle nazioni, bensì di produrre una razza mista europea il quanto più possibile robusta, l’ebreo è come ingrediente altrettanto idoneo e desiderabile di qualsiasi altro residuo nazionale. Qualità spiacevoli, anzi pericolose, ha ogni nazione, ogni uomo: è crudele pretendere che l’ebreo debba fare eccezione. Quelle qualità possono essere in lui addirittura pericolose e temibili in misura particolare; e forse il giovane finanziere ebreo è l’invenzione più rivoltante della razza umana in genere. Tuttavia vorrei sapere quanto, in un calcolo complessivo, non si debba perdonare ad un popolo che, non senza colpa di noi tutti, ha avuto fra tutti i popoli la storia più dolorosa, e a cui si devono l’uomo più nobile (Cristo), il saggio più puro (Spinoza), il libro più possente e la legge morale di più vasta efficacia. Inoltre: nei tempo più oscuri del Medioevo, quando lo strato di nubi asiatico si era accampato pesantemente sull’Europa, furono liberi pensatori, dotti e medici ebrei, che tennero alto il vessillo del rischiaramento e dell’indipendenza spirituale, a costo della più dura costrizione personale, e che difesero l’Europa contro l’Asia; non è il nostro minor debito di gratitudine verso i loro sforzi, se alla fine poté ancora trionfare un’interpretazione del mondo più naturale, più conforme alla ragione e in ogni caso non mitica, e se l’anello di civiltà che oggi ci congiunge con la cultura dell’antichità greco-romana non fu spezzato. Se il cristianesimo ha fatto tutto per orientalizzare l’occidente, in compenso l’ebraismo ha essenzialmente contribuito a occidentalizzarlo sempre di nuovo: il che in un certo senso equivale a fare del compito e della storia dell’Europa una continuazione di quella greca


http://www.bastianelli.net/nietzsche/nietzsche_aforismi.htm

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