mercoledì 15 febbraio 2012

Niccolò Machiavelli. Il Fine giustifica i Mezzi. Machiavelli porta l'esempio di Cesare Borgia come sovrano ideale. Nonostante fosse considerato da molti un sovrano crudele, questa crudeltà permise di fatto alla Romagna di essere unita e "ridotta in pace e in fede". Questo prova come anche la crudeltà, opportunamente rivolta a un fine (il fine della pace e della concordia), possa essere un bene




Il fine giustifica i mezzi
Niccolò Machiavelli


Valentina Accardi:
In realtà Machiavelli non ha mai scritto questa frase [...]


"Il fine giustifica i mezzi" questa frase è stata sempre attribuita a Niccolò Machiavelli. In realtà lui nn l'ha mai scritta, ma nel "Principe", Machiavelli porta l'esempio di Cesare Borgia come sovrano ideale. Nonostante fosse considerato da molti un sovrano crudele, questa crudeltà permise di fatto alla Romagna di essere unita e "ridotta in pace e in fede". Questo prova come anche la crudeltà, opportunamente rivolta a un fine (il fine della pace e della concordia), possa essere un bene. Detto questo, il sovrano ideale non dovrà comunque fondare ogni sua azione sulla crudeltà (cioè non dovrà farsi “prendere la mano”), il sovrano dovrà "esser grave al credere e al muoversi, ne fare paura da se stesso; e procedere in modo temperato con prudenza e umanità, che la troppa confidenza non lo facci incauto e la troppa diffidenza non lo renda intollerabile."


La natura ha creato gli uomini in modo che possono desiderare ogni cosa, e non possono conseguire ogni cosa; talché essendo sempre maggiore il desiderio, che la potenza dello acquistare, ne risulta la magra contentezza di quello che si possiede, e la poca satisfazione di esso.
Niccolò Machiavelli



La natura dell’uomo superbo e vile è di mostrarsi insolente nella prosperità e abietto e umile nelle avversità.
Niccolò Machiavelli



.. e sono tanto semplici gli uomini, e tanto obbediscono alle necessità presenti, che colui che inganna troverà sempre chi si lascerà ingannare.
Niccolò Machiavelli, Il principe, 1513



Governare è far credere.
Niccolò Machiavelli

La guerra è una professione con la quale un uomo non può vivere onorevolmente; un impiego col quale il soldato, se vuole ricavare qualche profitto, è obbligato ad essere falso, avido, e crudele.
Niccolò Machiavelli


Le guerre cominciano dove si decide, ma non finiscono dove si vorrebbe
Nicolò Machiavelli

Ognun vede quel che tu pari, pochi sentono quel che tu sei
Niccolò Machiavelli


E li uomini, in universali, iudicano più agli occhi che alle mani;
perché tocca a vedere a ognuno, a sentire a pochi.
Ognuno vede quello che tu pari, pochi sentono quello che tu sei.
Niccolò Machiavelli. Il Principe


Non si debbe mai lasciare seguire uno disordine per fuggire una guerra, perché non la si fugge, ma si differisce a tuo disavvantaggio
Niccolò Machiavelli




Si vis pacem, para bellum...


Gli è facil cosa a chi esamina con diligenza le cose passate, prevedere in ogni republica le future e farvi quegli rimedi che dagli antichi sono stati usati, o non ne trovando degli usati, pensare de' nuovi per la similitudine degli esempi.
Niccolò Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, III, 43


"Così come coloro che disegnano e paesi si pongono bassi nel piano a considerare la natura de' monti e de' luoghi alti, e per considerare quella de' bassi si pongono alti sopra e monti, similmente, a conoscere bene la natura de' populi bisogna essere principe, e a conoscere bene quella de' principi bisogna essere populare."
Niccolò Machiavelli

Si deve porre in difesa di un'istituzione coloro che hanno meno appetito di usurparla. E senza dubbio, se si considerano i fini dei ricchi signori a paragone di quelli del popolo, si vedrà nei primi il desiderio grande di dominare e nei secondo solo il desiderio di non essere dominati e, di conseguenza, una maggiore volontà di vivere liberi, avendo minore ambizione di usurpare di quanto non possano i ricchi signori. Per questo motivo ponendo il popolo a guardia della libertà è ragionevole che esso ne abbia più cura, perché non potendola usurpare impedirà ad altri di farlo.
Niccolò Machiavelli, Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, I, 5


Niccolò Machiavelli. Più virtù nel popolo che nel principe.
“Dico come hanno durato assai gli stati de’ principi, hanno durato assai gli stati delle republiche, e l’uno e l’altro ha avuto bisogno d’essere regolato dalle leggi: perché un principe che può fare ciò ch’ei vuole, è pazzo; un popolo che può fare ciò che vuole, non è savio. Se, adunque, si ragionerà d’un principe oblligato alle leggi, e d’un popolo incatenato da quelle, si vedrà piú virtú nel popolo che nel principe: se si ragionerà dell’uno e dell’altro sciolto, si vedrà meno errori nel popolo che nel principe e quelli minori, ed aranno maggiori rimedi. Però che a un popolo licenzioso e tumultuario, gli può da un uomo buono essere parlato, e facilmente può essere ridotto nella via buona: a un principe cattivo non è alcuno che possa parlare né vi è altro rimedio che il ferro. Da che si può fare coniettura della importanza della malattia dell’uno e dell’altro: ché se a curare la malattia del popolo bastan le parole, ed a quella del principe bisogna il ferro, non sarà mai alcuno che non giudichi, che, dove bisogna maggior cura, siano maggiori errori. Quando un popolo è bene sciolto, non si temano le pazzie che quello fa, né si ha paura del male presente, ma di quel che ne può nascere, potendo nascere, infra tanta confusione, uno tiranno. Ma ne’ principi cattivi interviene il contrario: che si teme il male presente, e nel futuro si spera; persuadendosi gli uomini che la sua cattiva vita possa fare surgere una libertà. Sì che vedete la differenza dell’uno e dell’altro, la quale è quanto, dalle cose che sono, a quelle che hanno a essere. Le crudeltà della moltitudine sono contro a chi ei temano che occupi il bene comune: quelle d’un principe sono contro a chi ei temano che occupi il bene proprio. Ma la opinione contro ai popoli nasce perché de’ popoli ciascuno dice male sanza paura e liberamente, ancora mentre che regnano: de’ principi si parla sempre con mille paure e mille rispetti. Né mi pare fuor di proposito, poiché questa materia mi vi tira, disputare, nel seguente capitolo, di quali confederazioni altri si possa più fidare; o di quelle fatte con una republica, o di quelle fatte con uno principe.”

NICCOLÒ MACHIAVELLI (1469 – 1527), “Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio” (1513 – 1519, I ed. Baldo, Roma e Giunti, Firenze 1531), in Id., “Opere”, I, a cura di Sergio Bertelli, introduzione di Giuliano Procacci, Feltrinelli, Milano 1960 (I ed.), Libro primo, LVIII ‘La moltitudine è più savia e più costante che uno principe’, pp. 265 – 266.


Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nel mio scrittoio; e in sull’uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e ch’io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro humanità mi rispondono; e non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi transferisco in loro.
Niccolò Machiavelli, Lettera a Francesco Vettori, 10 dicembre 1513.




Anselmo Pagani:
Secondo il dizionario l'aggettivo "machiavellico" ha una portata negativa e/o polemica, adattandosi a persone o teorie che, esaltando l'astuzia ed i sotterfugi anche a discapito degli scrupoli morali, mirano a raggiungere un determinato scopo, costi quel che costi.

In realtà, se ci fu una persona lungi dal poter essere accostata a tale definizione fu proprio Niccolò Machiavelli, nato a Firenze il 3 maggio del 1469 come primo figlio maschio, dopo due femmine, di Messer Bernardo e Monna Bartolomea.

Il grande storico Francesco Guicciardini, pur non essendo mai stato troppo accondiscendente nei suoi confronti a discapito dell'amicizia che legava i due, disse che era "...sempre stato ut plurimo extravagante di opinione dal comune ed inventore di cose nuove et insolite...", così qualificandolo come un pensatore libero, originale e soprattutto innovativo, che per primo nella sua "extravagantia" (intesa evidentemente non come una sorta di follia, ma nel senso etimologico di predisposizione ad uscire dagli schemi comuni, dalla via del pensiero dominante) in tempi di cambiamenti epocali che vedevano il passaggio dal morente Medioevo al Rinascimento con la sua riscoperta dell'Uomo che, come "faber fortunae suae", poteva influire sul corso degli eventi senza fatalmente venirne travolto, osservò ed annotò le grandi innovazioni in campo politico, diplomatico e militare del suo tempo, analizzandole alla luce delle lezioni derivanti dal passato conosciuto attraverso il meticoloso studio dei Classici latini e greci, tanto da trarne insegnamenti politici universalmente validi e ripresi con grande successo nei secoli successivi, che ne fecero il padre della scienza politica moderna.

La sua vita può dividersi grosso modo in due parti, di cui la prima, quella in cui operò da "Segretario" e vero "fac totum" della Repubblica Fiorentina, durò dal 1498, anno in cui alla caduta del Savonarola fu scelto per quella carica, al 1512 quando, dopo la fuga da Firenze del Gonfaloniere Pier Soderini ed il rientro in città dei Medici, la dura legge dello "spoiling system" valida fin da quei tempi ormai remoti volle non soltanto che il Machiavelli fosse rimosso dal suo incarico, in quanto troppo compromesso con la morente Repubblica, ma persino che finisse in galera, subendo la tortura:

"...con sei tratti di fune in su le spalle /
con un romor che proprio par che 'n terra /
folgori Giove e tutto Mongibello...".

Così infatti scriveva Niccolò al nuovo Signore di Firenze Giuliano de' Medici Nemours in una lettera in cui, pure in un contesto per lui tanto difficile, non mancava una vena della sua proverbiale ironia toscana, laddove si lamentava che nella sua cella

"...menon pidocchi queste pareti /
bolsi spaccati che paion farfalle /
nè fu una tanto puzza in Roncisvalle.../
quanto nel mio sì delicato ostello...".

Nei 14 anni di segretariato repubblicano la sua attività politica e diplomatica fu senza soste, per la disperazione della povera moglie Marietta Corsini che lo vedeva ben poco a casa o almeno giusto il tempo per concepire i loro numerosi figli, inviato com'era in ogni parte d'Italia ed all'estero in un continuo peregrinare fra le Corti sia di Signori e Signorotti locali, sia dei più potenti uomini del suo tempo, come il Re Luigi XII di Francia, l'Imperatore Massimiliano I d'Asburgo e Papa Giulio II, ma anche la Corte dello spregiudicato Cesare Borgia, alias il Valentino, figlio di Papa Alessandro VI.

E proprio dal Valentino, che secondo un'azzeccata definizione del Guicciardini

"...mostrando in uno tempo stesso perfidia, lussuria e crudeltà grande...
fattosi Signore di tanti Stati di Romagna,
venne in riputazione grande et massime
perchè aveva un bravo esercito et era signore valente
e molto liberale et amato da' soldati...",

il Machiavelli rimase particolarmente impressionato quando, nell'ambito d'una missione affidatagli dalla repubblica al fine di allontanare prudentemente dalla Toscana le sue mire, lo conobbe personalmente.

Lo seguì poi per circa tre mesi nella campagna militare che sul finire del 1502 gli consentì di sbarazzarsi a tradimento, facendoli strangolare dopo averli tanto amabilmente invitati ad un banchetto "pacificatore" a Senigallia, di quattro signorotti locali che contro di lui avevano pianificato la famosa Congiura di Magione (dal nome del Castello dove se ne era ordita la trama), rimettendoci poi la pelle per essersi ingenuamente fidati di un personaggio per cui la parola data o ricevuta non aveva nessun valore.

Proprio su questa vicenda Niccolò scrisse un trattatello intitolato
"Descrizione del modo tenuto dal Duca Valentino nello ammazzare Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, il Signor Pagolo ed il Duca di Gravina Orsini".

La figura del Borgia, anche se ormai defunto, fu ben presente anche nella seconda parte della vita del Machiavelli, quando nella tranquillità del suo esilio agreste dopo aver dovuto suo malgrado lasciare la politica attiva, nello scrivere il suo libro più famoso, "il Principe", si ispirò proprio alla figura del Valentino, perchè incarnava le caratteristiche ideali del Principe desideroso di impadronirsi di uno Stato e soprattutto di mantenerne il possesso.

La stesura del libro gli risultò particolarmente facilitata dal trovarsi in un ambiente tranquillo e bucolico dove, dopo aver trascorso la giornata a faticare nei campi, una volta calata la sera e sedutosi (come lui stesso ci dice)

"...rivestito condecentemente ..." al suo scrittoio,
"...entro nelle antique corti degli antiiqui uomini
dove mi pasco di quel cibo che solum è mio e che io nacqui per lui;
dove io non mi vergogno di parlare con loro
ed domandarli ragione delle loro actioni,
et quelli per la loro umanità mi rispondono...".

E' dunque dal suo quotidiano ed intimo colloquio con gli "antiqui"
Tacito, Livio, Sallustio, Svetonio, Plutarco, Erodoto...
(seppure tradotti in latino, perchè Machiavelli non imparò il greco)
che Machiavelli ottenne le tanto attese "risposte" che gli consentirono di elaborare le esperienze vissute in quei 14 anni vissuti a contatto coi grandi del mondo d'allora, ad ulteriore riprova del fatto che per capire il presente e riuscire a prevedere ed indirizzare il futuro non si può fare a meno di conoscere il passato, anche perchè
"...tutti li tempi ritornano, gli uomini sono sempre li medesimi...".

Condensare qui tutti i XXVI capitoli del Principe sarebbe ovviamente impossibile.
Mi piace però concludere con la sua patriottica esortazione finale agli Italiani, in tempi in cui il nostro Paese rappresentava un'ambita terra di conquista per gli stranieri, a risollevare il capo anche perchè "in Italia non manca materia da introdurvi ogni forma: 
qui è virtù grande nelle membra, 
quando non mancasi ne' capi ...".

Niccolò vagheggiava dunque l'arrivo d'un Principe italico che, in veste di "redentore" e riunendo le forze, la destrezza e l'ingegno degli Italiani riuscisse finalmente a liberare il Paese unito dal giogo straniero, riportandolo così ai fasti del passato
"...chè l'antico valore nell'italici cor non è ancor morto".
Questo fu forse il primo grido di contenuto risorgimentale che si udì nel nostro Paese,
in anticipo di circa 320 anni sui moti indipendisti dell'800...

Consiglio per la lettura: "Machiavelli" di Gennaro Barbuto, da poco pubblicato dalle Edizioni Salerno.





‎Robert Delsol‎ a Robert Del Sol Centro Culturale


IL PRINCIPE
Essendo un testo argomentativo, non vi è una trama narrativa, pertanto ecco di seguito gli argomenti relativi a ciascuno dei 26 capitoli della magistrale opera del Segretario fiorentino.

CAPITOLO 1
I DIVERSI TIPI DI PRINCIPATI E I MODI PER CONQUISTARLI
Distinzione fra repubbliche e principati; fra principati ereditari e nuovi (come Milano per Francesco Sforza) e quelli aggiunti a uno stato ereditario (come Napoli per il re di Spagna).

CAPITOLO 2
I PRINCIPATI EREDITARI
Il principe può mantenerli con facilità purché non abbandoni la tradizione di governo degli antenati. Esempio: gli Este di Ferrara.

CAPITOLO 3
I PRINCIPATI MISTI
Difficoltà del principato nuovo (gli uomini cambiano volentieri signore credendo di migliorare: l'esperienza li delude. Esempio Luigi XII, che facilmente acquistò e subito perse il ducato di Milano). Probabilità maggiori di successo alla seconda conquista.

CAPITOLO 4
PER QUALE RAGIONE IL REGNO DI DARIO, CONQUISTATO DA ALESSANDRO, NON SI RIBELLÒ DOPO LA MORTE DI ALESSANDRO
Distinzione fra regni assoluti (come l'impero ottomano) e regni a struttura federale (come la Francia). Difficili i primi da conquistare (perché assuefatti alla servitù), ma facili da conservare. Facili i secondi da conquistare (per la rivalità e l'ambizione dei baroni), ma difficili da mantenere. Il regno di Dario era del primo tipo, perciò non si ribellò ai suoi successori.

CAPITOLO 5
IN QUAL MODO SI DEBBANO GOVERNARE LE CITTÀ E I PRINCIPATI I QUALI, PRIMA DI ESSERE CONQUISTATI, VIVEVANO SECONDO LE LORO LEGGI
I metodi proposti sono tre.
Distruggerli, come fecero i Romani con Cartagine, Capua e Numanzia;Andarvi a risiedere; Lasciarvi inalterate istituzioni e leggi, affidando il governo a una ristretta oligarchia, come fecero gli Spartani ad Atene (ma è un sistema precario).

CAPITOLO 6
I PRINCIPATI NUOVI CONQUISTATI CON LE PROPRIE ARMI E CAPACITÀ
Il principe prudente deve attenersi all'esempio degli uomini grandi, perché le vicende umane si ripetono (imitazione «storica»). Al principato si arriva o per fortuna o per virtù: in quest'ultimo caso la conquista è più stabile, come mostrano gli esempi di Mosè, Ciro, Romolo, Teseo e Gerone siracusano.
È indispensabile però il possesso di una propria forza militare: i profeti armati vincono, quelli disarmati periscono. Esempio clamoroso, Gerolamo Savonarola.

CAPITOLO 7
I PRINCIPATI NUOVI CONQUISTATI CON LE ARMI E LA FORTUNA ALTRUI
Il potere conquistato con un colpo di fortuna è precario, perché sempre soggetto all'arbitrio altrui o alla volubilità della sorte. Virtù di Francesco Sforza. Virtù e fortuna di Cesare Borgia; sua conquista della Romagna; sua spietata risolutezza nello spegnere le ribellioni (massacro di Sinigaglia). Suo regime d'ordine (Ramiro de Lorqua); suoi piani per il futuro; morte del padre e sua rovina. Valutazione conclusiva della sua «virtuosa» condotta politica.

CAPITOLO 8
LA CONQUISTA DEL PRINCIPATO PER MEZZO DEL DELITTO
Al principato si può giungere anche con il delitto. Esempi: Agatocle siracusano e Oliverotto da Fermo. Entrambi conquistarono il potere con un colpo di mano armato, massacrando i maggiorenti della città. Il primo fu in seguito principe valoroso e prudente, il secondo perì vittima di un agguato a opera di Cesare Borgia. Riflessioni sull'efficacia politica della crudeltà: essa è bene usata se risponde a una reale necessità di sicurezza e non si protrae nel tempo, male usata se praticata come sistema.

CAPITOLO 9
IL PRINCIPATO CIVILE
Al principato si può salire con il favore del popolo o dei grandi (nobili). Nel primo caso bisogna mantenersi il popolo amico. Nel secondo bisogna guadagnarsene il favore, per averlo alleato contro le insidie dei grandi, che sono infidi. Esempio: Nabide di Sparta. Confutazione del proverbio «chi fida sul popolo fida sul fango». Per fare in modo che il popolo abbia sempre bisogno di lui il principe dovrà però abolire i magistrati.

CAPITOLO 10
COME VALUTARE LA FORZA DI UN PRINCIPATO
Distinzione fra i principati che possono contare su forze militari proprie e quelli che non possono. I secondi debbono puntare su una tattica difensiva, provvedendo a fortificare la loro terra così da scoraggiare le mire nemiche. Esempio: le città dell'Alemannia.

CAPITOLO 11
I PRINCIPATI ECCLESIASTICI
La difficoltà per il principe consiste unicamente nell'acquistarli: a mantenerli non si richiede infatti né virtù, né fortuna, giacché essi si fondano sulla forza della tradizione religiosa: «Coloro soli hanno Stato, e non li difendono; sudditi, e non li governano...». Considerazioni sulla politica di Alessandro VI,Giulio II e Leone X.

CAPITOLO 12
I VARI TIPI DI ESERCITI
Esame dei vari sistemi di difesa e di offesa. Fondamento di uno Stato sono le buone leggi e le buone armi. Le armi (cioè le forze militari) possono essere mercenarie o proprie, ausiliare o miste. Le mercenarie e ausiliare sono inutili e pericolose, perché infedeli e pavide: prova ne è stato, in Italia, il loro dissolversi al primo assalto dello straniero (Carlo VIII). I capitani, se sono valenti, aspirano alla grandezza propria, in caso contrario, procurano comunque la rovina. È necessario che il principe in persona comandi il proprio esercito: o, nella repubblica, uno dei cittadini. Esempi di eserciti nazionali: Romani, Spartani, Svizzeri. Esempi di Stati con eserciti mercenari: Cartagine, Tebe, il ducato milanese degli Sforza. Eccezioni a quanto detto: Firenze e Venezia (rettesi con armi mercenarie). Origine storica delle compagnie di ventura (Alberigo da Conio, Braccio da Montone, gli Sforza) e loro condotta.

CAPITOLO 13
GLI ESERCITI AUSILIARI, I MISTI E I PROPRI
Insidiosità delle forze ausiliare (fornite da potenze straniere): se perdono, si è disfatti; se vincono, si è in loro potere. Esempi: Giulio II e le truppe spagnole. Firenze e le truppe francesi; il re di Costantinopoli e i Turchi. In esse è maggior pericolo che nelle mercenarie, perché sono meglio organizzate. Come e perché vi abbiano rinunciato Cesare Borgia, Gerone siracusano, Davide. Con quali cattivi esiti vi abbiano fatto ricorso Luigi XI di Francia e gli imperatori romani. Ribadito il valore degli eserciti propri.

CAPITOLO 14
IL RAPPORTO TRA IL PRINCIPE E GLI ESERCITI
Il quattordicesimo capitolo verte sul rapporto tra il principe e le armi in generale: l'unico compito che un principe deve assolutamente svolgere per tenersi lo stato che sta comandando è dedicarsi alle armi anche in tempo di pace, come fece Francesco Sforza diventando, da semplice cittadino, duca di Milano. Per tenersi in allenamento deve praticare spesso la caccia e imparare a conoscere la natura dei luoghi dove vive. Un buon principe deve saper imitare quello che in passato fecero i principi migliori, come Alessandro Magno con Achille e Scipione con Ciro. L'autore porta come esempio di principe perfetto Filipomene, che dovunque andasse si interrogava sul modo, in quella situazione, per ritirarsi, per rincorrere il nemico ritirato e per attaccare.

CAPITOLO 15
LE QUALITÀ CHE RENDONO GLI UOMINI E SOPRATTUTTO I PRINCIPI DEGNI DI LODE O DI BIASIMO
Ha inizio la riflessione sulla concreta prassi politica. Il principe che voglia mantenere deve essere buono o non buono a seconda della necessità. È perciò da respingere il catalogo delle qualità e dei vizi da perseguire o da fuggire, come compariva nella precedente trattazione politica. Sul terreno della prassi politica ciò che talora è qualità, altre volte può essere vizio. Il vizio adoperato per difendere lo stato risponde ad un'esigenza collettiva. Le virtù morali usate a sproposito risultano causa di ruina.

CAPITOLO 16
LA LIBERALITÀ E LA PARSIMONIA
Nel sedicesimo capitolo si parla della liberalità e della parsimonia. La liberalità è considerata in maniera negativa: all'inizio ti fa avere una buona fama, dopo, finiti i soldi, ti costringe a imporre tasse e quindi ad essere odiato dai sudditi e poco stimato dagli altri per la povertà. L'unico momento in cui bisogna essere munifici è quando ci si impadronisce di beni altrui, come fecero Ciro e Cesare. La parsimonia invece, anche se all'inizio non ti farà godere di buona fama, dopo, vedendo che si è capaci di difendersi e di conquistare anche senza gravare sulla popolazione, ti farà considerare uomo generoso. Vengono citati gli esempi di Papa Giulio II che usò la munificenza solo per salire al potere, dedicandosi dopo alla guerra, Luigi XII che riuscì, per la sua grande parsimonia, a fare tante guerre senza tasse extra.

CAPITOLO 17
LA CRUDELTÀ E LA CLEMENZA, SE SIA MEGLIO ESSER TEMUTI PIUTTOSTO CHE AMATI O AMATI PIUTTOSTO CHE TEMUTI
Il diciassettesimo capitolo è incentrato sulla domanda: meglio essere amati piuttosto che temuti o temuti piuttosto che amati? Per il Fiorentino un principe, per tenere i suoi sudditi uniti e fedeli, può essere ritenuto crudele e deve essere temuto al punto da non essere né odiato né amato. Comunque la crudeltà è indispensabile in guerra.

CAPITOLO 18
LA LEALTÀ DEL PRINCIPE
Machiavelli con una figura biologica disegna due diversi modi di combattere: quello dell'uomo e quello della bestia. Il primo ha come risultato le leggi, il secondo la violenza. Quando le leggi non sono sufficienti si deve ricorrere alla violenza. Poiché il principe deve per necessità impiegare anche la parte bestiale, Machiavelli illustra in due modi in cui essa si manifesta: ricorre alle figure della volpe e del leone, immagini dell'astuzia accorta e simulazione e dell'impeto violento, con i quali è possibile evitare i tranelli e vincere la violenza degli avversari. Per il principe è più utile simulare pietà, fedeltà, umanità che osservarle veramente. Le doti etiche sono pure illusioni nella lotta politica. Il dovere del principe è vincere e mantenere lo stato. Il volgo guarderà solo le apparenze, mentre pochi che non giudicheranno dalle apparenze non riusciranno a imporsi perché la maggioranza è dalla parte del principe.

CAPITOLO 19
COME EVITARE IL DISPREZZO E L'ODIO
Il diciannovesimo capitolo è come un riassunto di tutte le caratteristiche che un principe deve avere per farsi ben volere: non deve appropriarsi delle cose del popolo, non deve essere superficiale, effeminato e pauroso, ma deve apparire coraggioso, grande e con molta forza di carattere. Qualora non offrisse questa immagine di sé, deve avere due paure: i sudditi e le potenze straniere. Dalle congiure l'unico aiuto può venire dal popolo, in quanto non sempre i congiurati rispecchiano il volere di tutti, invece per sconfiggere un nemico devi possedere un buon esercito. Come al solito il Machiavelli fa molti esempi storici tra i quali uno riguardante una congiura fallita: Messer Annibale Bentivoglio, principe di Bologna fu ucciso dai Canneschi. Subito dopo l'omicidio, il popolo di Bologna uccise tutta la famiglia dei Canneschi e mise a capo di Bologna un lontano parente del Bentivoglio, figlio di fabbro. In conclusione un principe deve stare attento a non inasprire i nobili e a soddisfare il popolo in modo da non temere le congiure.

CAPITOLO 20
UTILITÀ O INUTILITÀ DELLE FORTEZZE E DI MOLTE ALTRE COSE FATTE OGNI GIORNO DAI PRINCIPI
In questo capitolo si parla di quanto possa essere utile disarmare i sudditi o alimentare le fazioni popolari o costruire fortezze. Diciamo che per quanto riguarda il disarmo dei sudditi, si può rivelare positivo quando si è di fronte a un principe nuovo con un nuovo principato, in quanto vengono gratificati quelli che armi, mentre se agisci al contrario vengono offesi, invece quando un principe conquista un provincia è necessario disarmarla, escludendo naturalmente quelli che sono stati dalla tua parte, ma col tempo indebolendo anche quest'ultimi. Passando alle fazioni, per l'autore, le divisioni interne non sono state mai qualcosa di positivo, anzi rendono le città più fragili di fronte al nemico. Continuando con le fortezze fin dai tempi antichi si è avuta l'abitudine di edificare queste fortificazioni, ma gente più recente come Niccolò Vitelli e Guidobaldo da Montefeltro le smantellò. Perché questo? Il Machiavelli dice che chi ha più paura del popolo che dei nemici costruisce fortezze, chi il contrario non le costruisce e ribadisce dicendo che la fortezza più sicura è il non essere odiati dal popolo.

CAPITOLO 21
COME UN PRINCIPE PUÒ FARSI STIMARE
Il capitolo ventunesimo parla ancora di come un principe possa dare una buona immagine di sé, un'immagine di uomo grande e di ingegno eccellente. In politica interna deve essere deciso, deve premiare o castigare in maniera esemplare. In politica estera deve farsi ammirare e deve stupire i sudditi con grandi imprese come Ferdinando d'Aragona, ma soprattutto deve sempre schierarsi a favore di qualcuno e mai restar neutrale in modo che il tuo alleato si senta legato da un patto di amicizia e di riconoscenza e non ti abbandoni mai. Per dare una buona immagine, il principe deve anche istituire delle feste e partecipare ai raduni di quartiere sempre però con grande maestà e dignità. Molto importante è anche la scelta dei ministri. Si nota da questa selezione l'intelligenza di un signore; circondandosi di uomini stolti, il giudizio su di lui non potrà essere mai buono. Questi ministri devono essere così devoti al loro signore da pensare prima a lui che a loro stessi e se un principe ha la fortuna di trovarne uno così se lo deve mantenere con doni e elogi.

CAPITOLO 22
I MINISTRI DEL PRINCIPE
Riguardo a come il principe debba scegliere i collaboratori e come lavorarci.

CAPITOLO 23
COME EVITARE GLI ADULATORI
Il ventitreesimo capitolo parla degli adulatori. Un principe deve fidarsi solo di poche persone sincere e veritiere che avrà scelto all'interno del suo Stato. Solo queste dovrà ascoltare, e comunque l'ultima decisione spetterà sempre a lui.

CAPITOLO 24
PERCHÉ I PRINCIPI D'ITALIA PERSERO IL REGNO
Nel ventiquattresimo capitolo vi è come un rimprovero verso i principi italiani che persero il loro Stato, come Federico d'Aragona, il re diNapoli e Ludovico il Moro, duca di Milano. Le motivazioni sono varie, ma comuni: non possedevano un esercito proprio, erano detestati dal popolo o dai nobili. Colpa loro quindi, non della fortuna.

CAPITOLO 25
IL POTERE DELLA FORTUNA NELLE COSE UMANE E IL MODO DI RESISTERE A ESSO
La fortuna è arbitra di metà delle azioni umane mentre l'altra metà resta nelle mani degli uomini;la fortuna è paragonata ad un fiume rovinoso che allaga le pianure e distrugge gli alberi e le case: gli uomini previdenti devono disporre per tempo gli argini.Tuttavia si possono vedere principi salire al potere o rovinare senza che essi abbiano modificato il proprio comportamento, Machiavelli ricorre alla mutevolezza continua delle circostanze storiche e della fortuna, non ruina colui che riesce a mettersi in sintonia con la qualità dei tempi.

CAPITOLO 26
ESORTAZIONE A PRENDERE L'ITALIA E A LIBERARLA DALLE MANI DEI BARBARI
L'ultimo capitolo è un'esortazione rivolta al principe di Casa dei Medici affinché riunisca l'Italia sanando le ferite, ponendo fine ai saccheggi e alle imposizioni fiscali che continuano a lacerarla. Contando che gli eserciti svizzeri e spagnoli non sono così terribili come si dice, egli potrebbe creare un terzo esercito che li vinca. Il Machiavelli conclude rassicurando che un nuovo regnante sarebbe accolto da tutti a braccia aperte. Gli ultimi versi sono tratti da "Italia mia" del Petrarca. Appare come un ulteriore incitamento rivolto al nuovo principe proprio dal Petrarca anche se scritto circa duecento anni prima: La virtù affronterà la furia degli stranieri; il combattimento sarà corto perché l'antico valore che fu del popolo romano nei cuori italici non è ancora morto.

Niccolò di Bernardo dei Machiavelli 







3 maggio 1469. A Firenze nasce il politico, scrittore, drammaturgo e filosofo Niccolò Machiavelli, tipico esempio di uomo rinascimentale.


12 marzo 1507. A Viana, Cesare Borgia muore in una imboscata.
Figlio di papa Alessandro VI, era stato nominato arcivescovo e poi cardinale ad appena vent'anni. Ma la sua vera vocazione era la guerra e, con l'aiuto del padre, aveva cercato di creare un suo Stato nel centro Italia, servendosi dell'astuzia e dell'inganno.






Il PRINCIPE per macchiavelli. Uomo senza scrupoli.
Ha fatto assassinare il fratello e il cognato. Ha seminato e ha raccolto!!





I borgia famiglia despota e nepotista. Rodrigo (eletto papa nel 1492 Alessandro VI), Cesare,Lucrezia , non era solo B...orgia di potere!




Cesare Borgia detto "il Valentino" ( duca di Valentinois )




comunque sia, un grande stratega e un grande condottiero. Sfruttava giustamente il potere del padre per conquistare città in breve tempo e senza impegnare l'esercito. Poi d'accordo, non tutti si arresero senza colpo ferire... Ma il comportamento era giusto, da principe machiavellico





Il più grande condottiero Rinascimentale insieme a Federico da Montefeltro e Giovanni dalla Bande nere...





Un Principe (nel senso di Machiavelli) leggermente sfortunato.




Una bella pagina nella storia della chiesa....come mai non é stato canonizzato anche Santo?
Ma quanti Cesare Borgia oggi nelle nostre città nelle nostre vite?




sicuramente assassinato da Ezio Auditore




Cesare Borgia ritratto da Altobello Melone, XVI secolo

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