"Gli stoici dicevano: se vuoi essere ricco, sii povero di desideri, e Lao Tse più o meno altrettanto. Si era all'interno di una società della scarsità. Ora si parla della cosiddetta "abbondanza frugale", che anziché sui consumi indotti, dovrebbe puntare su sobrietà, amicizia, convivialità. Adattarsi a questi comportamenti non sarà facile. Di sicuro non torneremo indietro da un punto di vista tecnologico e scientifico. D'altronde spero che nessuno voglia santificare i vecchi limiti.
Il pensiero filosofico-scientifico consiste nel varcare i confini, è un incessante viaggio di scoperta. Né si possono imporre limiti per decreto, perché la democrazia per quanto debole non lo consente. Ma non si può neppure più affidare tutto alla libertà individuale e narcisistica di cui parlava Lasch. Credo sia necessario rimodulare l'idea di limite sulla base dei vincoli dettati dalle nuove condizioni storiche.
E in questo ci possono aiutare molto proprio i saperi umanistici. Oggi si esaltano e finanziano soprattutto scienze dure e tecnologia e si pensa che la cultura umanistica non serva a niente. Ritengo, al contrario, che essa sia più che mai necessaria per dare senso alla vita individuale e sociale. Così come si ara il terreno per smuoverlo e favorire la crescita delle piante, oggi sarebbe necessario fare altrettanto per coltivare al meglio l'umanità. Per spingerla a varcare nuovi limiti e a considerare l'opportunità di preservarne o rafforzarne altri".
Remo Bodei "Noi, poveri post umani, schiavi delle nuove libertà"
"Ci sono due giovani pesci che nuotano e a un certo punto incontrano un pesce anziano che va nella direzione opposta, fa un cenno di saluto e dice: - Salve, ragazzi. Com’è l’acqua? - I due pesci giovani nuotano un altro po’, poi uno guarda l’altro e fa: - Che cavolo è l’acqua?». Il senso di questa storiella raccontata ai suoi studenti nel 2005 dallo scrittore americano David Forster Wallace è che le cose più importanti, onnipresenti e che dovrebbero essere ovvie si ignorano o si fraintendono.
L’ignoranza più diffusa e deleteria è proprio quella che considera inutile non solo la ricerca e il sapere disinteressato, sia in campo umanistico che scientifico, ma le istituzioni che lo incarnano (come le biblioteche, gli archivi o i musei). Al pari dei due giovani pesci, commenta Nuccio Ordine, siamo spesso scarsamente coscienti del fatto che «la letteratura e i saperi umanistici, che la cultura e l’istruzione costituiscono il liquido amniotico ideale in cui le idee di democrazia, di libertà, di giustizia, di laicità, di uguaglianza, di diritto alla critica, di tolleranza, di solidarietà, di bene comune, possono trovare un vigoroso sviluppo». Del resto, anche sul piano della crescita individuale, «utile è ciò che ci aiuta a diventare migliori».
In appendice al libro è riportato lo straordinario testo dell’educatore americano Abraham Flexner, uno dei fondatori dell’Institute for Advanced Studies di Princeton, L’utilità del sapere inutile (del 1937 e, ripubblicato con aggiunte e modifiche, nel 1939) dove viene combattuta, contro ogni fraintendimento, l’opposizione tra saperi umanistici e scientifici.
La distorsione dell’immagine del sapere è sostanzialmente dovuta alla convinzione che utile sia soltanto quello orientato al profitto e all’ottenimento di risultati pratici immediati, mentre è vero che è proprio la ricerca pura, di base - che non si prefigge né guadagno, né pubblica visibilità, né applicazioni successive - a produrre le innovazioni maggiori e ad avere ricadute sui progressi della civiltà.
Flexner accenna ad alcuni di questi esiti felici: la radio di Marconi non sarebbe, infatti, stata inventata senza le equazioni teoriche di Maxwell relative al campo elettromagnetico; la batteriologia non sarebbe nata senza la curiosità e gli esperimenti iniziati da un giovane studente, Paul Ehrlich, che si divertiva a colorare i diversi batteri per osservarne la differenziazione. Aggiungerei altri due esempi, tratti dalla matematica: nel 1843 William Rowan Hamilton introdusse degli insiemi, chiamati quaternioni, al cui interno non vale la proprietà commutativa. Al momento non ricoprivano nessuna importanza pratica, più tardi divennero però essenziali per la formulazione della teoria della relatività e della meccanica quantistica, come oggi lo sono per la robotica e la computer grafica in 3D. Nel 1854, poi, George Boole formulò la sua algebra in cui in un insieme K esistono solo i valori di verità o e 1. È facile intuire quanto a questo genere di algebra siano debitori, a partire dagli anni quaranta del secolo scorso, l’elettronica digitale e la costruzione di circuiti elettronici.
Se mi è permesso citare un’esperienza personale, ricordo che, diverso tempo fa, nel tenere una lezione al Cern di Ginevra, dissi, pensando di scandalizzare i fisici presenti, che la filosofia non serve a nulla, come, peraltro, la musica di Mozart. Con mia sorpresa vidi Edoardo Amaldi sostenere animatamente che avevo perfettamente ragione non solo per quanto riguardava la filosofia e le materie umanistiche, ma anche per le scienze, e aggiungere che non sopportava che si imponessero progetti di ricerca troppo vincolanti. Condivideva implicitamente l’affermazione di Montaigne, secondo cui «il mondo non è che una scuola di ricerca».
Nuccio Ordine ha raccolto un’impressionante, istruttiva e gustosa quantità di testi di autori antichi e moderni in difesa dell’utilità dell’inutile. Tra questi Platone, Aristotele, Dante, Petrarca, Leon Battista Alberti, Pico della Mirandola, Tomaso Moro, Montaigne, Shakespeare, Cervantes, Leopardi (che aveva progettato una Enciclopedia delle cose inutili), Gautier, Tocqueville, Baudelaire, Stevenson, Bataille, Borges, Calvino. Riporto solamente, in quanto esemplare, una nota di Antonio Gramsci del 1932, tratta dai Quaderni dal carcere, in difesa dell’insegnamento, come si faceva nella "vecchia scuola", delle lingue latina e greca, in relazione con la storia, la letteratura, la politica e la civiltà di un popolo: «Le singole nozioni non
venivano apprese per uno scopo immediato pratico-professionale: esso appariva disinteressato, perché l’interesse era lo sviluppo interiore della personalità».
Un capitolo importante dell’Utilità dell’inutile è dedicato al disimpegno dello Stato nell’istruzione e al modo di trattare gli studenti come clienti, con la connessa trasformazione delle università in aziende e l’abbattimento degli investimenti sulla cultura.
Il senso di questa raccolta di fonti e, insieme, l’impegno civile di questo volume è ben spiegato dal suo autore: «Le pagine che seguono non hanno alcuna pretesa di formare un testo organico. Riflettono la frammentarietà che le ha ispirate. Perciò anche il sottotitolo - Manifesto - potrebbe sembrare sproporzionato e ambizioso se non fosse giustificato dallo spirito militante che ha costantemente animato questo mio lavoro. Ho voluto solo raccogliere, all’interno di un contenitore aperto, citazioni e pensieri collezionati in tanti anni di insegnamento e di ricerca».
Quello di Nuccio Ordine è un libro importante, che va incontro al bisogno di dar senso alla nostra cultura e alla nostra vita e che ha perciò riportato un meritato successo. L’edizione italiana è, infatti, la versione accresciuta dell’originario testo francese, salutato con entusiasmo dai lettori d’Oltralpe e in procinto di essere tradotto in diverse lingue, dallo spagnolo al greco e al coreano."
Remo Bodei, Il sapere inutile ci fa ricchi
Il Sole 24 ore", 20 ottobre 2013.
|
- - Professor Bodei, dell'oscurità di Eraclito sono state date diverse interpretazioni. Qual è il motivo principale, secondo Lei, per cui il pensiero di questo filosofo risulta così difficile da penetrare? (1)
- - Professor Bodei, leggiamo in un frammento di Eraclito: "Bisogna seguire ciò che è comune. Ma pur essendo questo logos comune, la maggior parte degli uomini vivono come se avessero una loro propria e particolare saggezza.". Se il logos è comune e vantaggioso, perché la maggior parte degli uomini non lo segue, ma si comporta in maniera irragionevole andando contro il proprio interesse? (2)
- - Professor Bodei, come si concilia la conoscenza di tipo oracolare, che sembra presente in alcuni frammenti di Eraclito, con l'idea di un'accessibilità della ragione da parte di tutti gli uomini? Cosa significa, per esempio, l'affermazione: "Il signore, il cui oracolo è in Delfi, non dice e non nasconde, ma dà un segno"? (3)
- - Professor Bodei, il logos di Eraclito appare legato al fuoco ed all'oro. Qual è il senso di questa analogia? (4)
- - Professor Bodei, che cosa implica, per la riflessione filosofica successiva, l'accento posto dal pensiero di Eraclito sul mutamento continuo di tutte le cose? (5)
- - Professor Bodei, in età moderna, a parte la posizione di Hegel, quali sono state le valutazioni del metodo di Eraclito? (6)
1. Professor Bodei, dell'oscurità di Eraclito sono state
date diverse interpretazioni. Qual è il motivo principale, secondo Lei, per cui
il pensiero di questo filosofo risulta così difficile da penetrare?
I motivi sono molti. In primo luogo Eraclito sa di essere oscuro e questa
oscurità non dipende dal linguaggio, ma dai problemi che tratta. Secondo
Eraclito, infatti, la natura delle cose ama nascondersi e quella che lui chiama
l'armonia o la trama di rapporti nascosta è più forte della trama manifesta.
Quindi, in termini eraclitei, non c'è un'evidenza su cui appoggiarsi, come la
possiamo trovare in Cartesio o in Husserl e non c'è una concatenazione di
ragionamenti espliciti su cui basarsi. Il secondo motivo dell'oscurità di
Eraclito è di carattere storico. Egli, infatti, è stato presentato fin
dall'antichità, secondo degli schemi che sono frequenti nella tipizzazione dei
filosofi, come un misantropo, un uomo altero e solitario e gli si è attribuita
l'affermazione che la sua dottrina era riservata agli iniziati, come qualcosa di
misterioso, che, in qualche modo, Eraclito si rifiutava di rivelare. Io credo
che le cose non stiano in questi termini. In Eraclito, infatti, di contro alla
pretesa oscurità, c'è un'affermazione più volte ripetuta e cioè che In
questo senso, anche dal punto di vista politico, il fatto di presentare Eraclito
come un aristocratico va riconsiderato. E' vero che egli dice: "Per me uno è
meglio di diecimila, purché sia il migliore" e che quando il suo amico Ermodoro
viene cacciato dalla città di Efeso scrive che sarebbe bene che gli abitanti di
questa città andassero tutti ad impiccarsi e lasciassero ai bambini il governo,
ma le sue motivazioni devono essere tenute in considerazione. Perché gli
Efesini, o Efesii, non vogliono che Ermodoro governi tra loro? Perché, secondo
un modello che non chiamerei ancora democratico, ma popolare, ritengono che
nessuno debba eccellere; è per una sorta di invidia, quindi, che non consentono
a Ermodoro di regnare. "Se vuole essere il migliore - dice Eraclito nel
frammento, riferendo le parole dei suoi concittadini - vada a fare il migliore
altrove". Dunque in Eraclito troviamo una sorta di aristocrazia politica che non
è basata sul censo; egli, infatti, attacca con veemenza i ricchi della sua
città: "Continuate ad essere ricchi - dice - così vi distruggerete con le vostre
mani". Egli attacca anche il dispotismo orientale di Dario, re di Persia -
ammesso che la corrispondenza fra i due sia autentica -, ma, in Eraclito, non
c'è un rifiuto della democrazia in quanto tale, anche perché, forse, il concetto
è precoce per quei tempi. C'è quella che chiamerei una "democrazia del
pensiero": il pensiero è aperto a tutti, l'accesso alla verità è possibile anche
attraverso l'esperienza comune dei sensi; dunque chi non vuole partecipare al
logos, al discorso comune, si autoesclude. E' come se egli si ritirasse, dice
Eraclito, in una sapienza privata; è come uno che dorma da sveglio, è come un
morto vivente, che preferisce, per motivi che non sono teorici, restare chiuso
nel suo bozzolo e non avere un rapporto di comunicazione politico - il logos è
paragonato al "nomos", alla legge della città, a ciò che regola la comunità - e
così si esclude anche dal rapporto con la natura. Il logos infatti non ha a che
fare soltanto con il "parlare" degli uomini, ma anche con la natura, in quanto,
nelle sue differenti e opposte manifestazioni, converge nell'Uno e si rigenera
continuamente nell'Uno.
2. Professor Bodei, leggiamo in un frammento di Eraclito:
"Bisogna seguire ciò che è comune. Ma pur essendo questo logos comune, la
maggior parte degli uomini vivono come se avessero una loro propria e
particolare saggezza.". Se il logos è comune e vantaggioso, perché la maggior
parte degli uomini non lo segue, ma si comporta in maniera irragionevole andando
contro il proprio interesse?
Perché succede per il logos quello che succede per il nomos, per la legge
della città. Se gli uomini obbedissero a ciò che è comune, ai criteri di
convivenza che migliorano la cooperazione, le città sarebbero ben governate.
Invece, siccome ciascuno pensa e presume, nella sua opinione e quindi nel suo
modo privato di vedere le cose, di avere ragione, si comporta anche in questo
come uno che dorme, vive nel suo universo privato senza contatto con gli altri;
è miope, e finisce per non vedere ciò che è importante, per non capire, come
dice Eraclito in un frammento, che "l'anima è un ragionare che alimenta se
stesso", cioè essa è qualche cosa che cresce tutte le volte che noi la mettiamo
in attività. In sostanza gli uomini sono miopi anche perché si comportano, nel
pensare, nel percepire - perché il pensiero e la percezione non sono staccati -
in maniera tale da farsi giustizia da soli; invece di entrare in collaborazione
e in rapporto attraverso "ciò che è condiviso da tutti", ognuno pensa di
procedere, nelle sue visioni del mondo e nel suo agire nei rapporti con gli
altri, cioè nella politica, in maniera isolata. La crisi della politica, intesa
come convivenza, è parallela, per Eraclito, alla crisi della conoscenza. Per
questo, probabilmente, la tradizione gli attribuisce questi tratti di individuo
scorbutico e solitario che si ritira addirittura in montagna a mangiare erbe e
che sopravvive lontano dal consesso degli uomini.
3. Professor Bodei, come si concilia la conoscenza di tipo
oracolare, che sembra presente in alcuni frammenti di Eraclito, con l'idea di
un'accessibilità della ragione da parte di tutti gli uomini? Cosa significa, per
esempio, l'affermazione: "Il signore, il cui oracolo è in Delfi, non dice e non
nasconde, ma dà un segno"?
Tutto sta ad intendersi su cosa significa l'ultimo termine, "dà un segno"; in
greco è "semainein", che può tradursi anche "accennare", "indicare" e che
implica probabilmente un linguaggio non verbale. In ogni caso, si tratta di
interpretare e l'interpretazione vale perché, sia nel caso degli oracoli che nel
caso della filosofia di Eraclito, la natura ama nascondersi e non esprimersi
chiaramente; non dice ma, appunto, "nasconde" e tuttavia questo non implica
affatto che l'essenza della filosofia di Eraclito sia oracolare, cioè che
Eraclito proceda per indovinelli e sia oscuro perché costringe ad indovinare.
Eraclito costringe semmai ad iniziare una ricerca e a mettere l'anima di fronte
alla complessità delle cose, in maniera tale che, approfondendo ciò che le sta
di fronte, continui sempre nel suo cammino. Vi è un frammento che dice: "I
confini dell'anima, per quanto tu vada, non li potrai mai trovare, neppure se tu
dovessi percorrere ogni sentiero, tanto profonda è la sua misura". Anche questo
testo non va inteso in un senso abissale, nel senso che all'uomo sarebbe negato
il comprendere, in quanto questa profondità, non implica affatto una caduta
verticale e una perdita di senso del nostro pensiero, quanto un processo
difficile, che Eraclito esprime in un altro frammento dicendo: "Ho indagato me
stesso" e una ricerca tale che ogni volta si possa procedere avanti, ma ogni
volta vi sia un'acquisizione. La prospettiva di Eraclito, quindi, non deve
essere contrapposta ad una filosofia criptica, fatta di enigmi, ma piuttosto ad
una filosofia che pretende di essere, direbbe Husserl, una scienza rigorosa ed
in cui tutto sia chiaro e tutto sia dimostrato.
4. Professor Bodei, il logos di Eraclito appare legato al
fuoco ed all'oro. Qual è il senso di questa analogia?
Il fuoco, l'oro e l'anima sono entità che mutando restano simili. Il fuoco
guizza, ma è sempre lo stesso, cambia forma, ma mantiene la sua identità; l'oro,
come è detto in un frammento, che riflette fra l’altro la realtà di una società
fortemente segnata dal danaro, è ciò che si scambia con tutte le merci, così
come tutte le merci si scambiano reciprocamente con l'oro. Vorrei leggere un
frammento: "Tutte le cose sono scambio equivalente per il fuoco e il fuoco per
tutte le cose, come i beni lo sono per l'oro e l'oro per i beni". Questo testo
pone dei problemi filosofici importanti. Se il fuoco e l'oro sono equivalenti di
tutte le cose, si può dire che il fuoco o l'oro o qualunque "arché" o
"principio" siano un fondamento, che abbiano una persistenza e che quindi siano
una base su cui il mondo poggia? Si è dibattuto molto in merito. La mia opinione
è che essi non siano un fondamento nel senso in cui verrà inteso più tardi,
quando si parlerà di sostanza, "ousia" o "hypokeimenon", di qualche cosa che
sorregge il mutamento, perché la natura del fuoco o del danaro, nello scambio
reciproco con tutte le cose, è di essere appunto qualche cosa che muta mentre
diviene. Per questo mi sembra sbagliato, ad esempio, contrapporre, come tutti i
manuali ancora fanno, la filosofia di Eraclito, in quanto filosofia del divenire
scomposto, fluviale, senza punto d'arresto, alla filosofia dell'essere immobile
di Parmenide. Non c'è certamente in Eraclito nessuna fissità, non c'è un momento
in cui io possa dire "qualcosa è"; il giovane contiene in sé il vecchio e il
vecchio ha dentro di sé la sua giovinezza. Per questo io non posso isolare
nell'istante, dicendo che "è", nessun fenomeno, ma ho sempre una continua
mutazione. Ma è proprio la continuità della mutazione ad essere ciò che permane,
anche se questa permanenza non si può confondere con un fondamento. Vorrei
segnalare e non è solo una curiosità, che, nel mondo di Eraclito, l'uso di
questa analogia dell'oro o del danaro per indicare lo scambio in rapporto ai
beni e alle merci è fresco, poiché la moneta, anche se a noi sembra qualcosa di
ovvio, è stata inventata soltanto attorno alla metà del VII secolo. Quindi era
passato poco tempo dalle transazioni compiute per mezzo dell'oro o dell'elettro,
questa amalgama di oro, di argento o di altri metalli. Eraclito doveva essere
colpito dalla ricchezza che circolava nella sua città, soprattutto dopo che i
persiani avevano distrutto Mileto, la sua grande concorrente e la presenza di
una borghesia ricca, come è stato osservato da un interprete, potrebbe spostare
anche il problema dal punto di vista politico: "oi polloi", "i molti", sono
sempre stati intesi come i democratici, come il demos, il popolo; ma non è da
escludere, e non escluderei, che questa espressione si riferisca ad una classe
agiata - il termine borghesia è sicuramente improprio - che prende il potere e
vuole forse scalzare quella vecchia aristocrazia a cui Eraclito apparteneva, in
quanto discendente da una famiglia che deteneva il sacerdozio.
5 Professor Bodei, che cosa implica, per la riflessione
filosofica successiva, l'accento posto dal pensiero di Eraclito sul mutamento
continuo di tutte le cose?
E' un problema che, soprattutto per Platone, diventa urgente in quanto i
Sofisti, attribuendosi Eraclito come nobile antenato, formulano dei discorsi di
opposto significato. Sono quelli che vengono chiamati i "dissoi logoi"; in essi
prima è sostenuta una tesi, e quindi quella opposta, mostrando che fra le due
non vi è differenza. Questo atteggiamento, per Platone, è tanto pericoloso che,
nel Teeteto, cerca di distinguere il suo metodo dialettico dal procedimento
tanto di Eraclito quanto da quello dei sofisti e in particolare di Protagora.
Infatti, scrive Platone: "Gli eraclitei e i sofisti si comportano come degli
arcieri che tirano fuori delle frecce, delle piccole frasette o delle parolette
di sapore enigmatico, e le lanciano; e mentre uno sta pensando al significato di
questa prima frase enigmatica, ecco che ne lanciano un'altra di significato
opposto, così che si finisce per non capire niente". In cosa consiste dunque per
Platone il metodo dialettico e in che senso si contrappone alla posizione
eraclitea, oltre che a quella dei sofisti? Il metodo dialettico, dice Platone,
sempre nel Teeteto, è un soffermarsi, mentre gli eraclitei, che lui chiama per
scherzo "quelli che corrono", sono quelli che non hanno la capacità di
soffermarsi su qualche cosa e che quindi presentano simultaneamente delle
affermazioni opposte. La dialettica quindi è un aspettare per ragionare, dice
Platone, in tutta tranquillità. L'aspetto che a me sembra importante è il fatto
che Platone aggiri la difficoltà che Eraclito aveva incontrato, il fatto cioè
che gli uomini non partecipano al logos, ma ciascuno si chiude nel suo mondo
interiore, come in una sacca amniotica per adulti, o, come nei quadri di
Hieronymus Bosch, in quelle sfere o membrane trasparenti e non riesce a
comunicare. Il metodo eracliteo, infatti, in questo caso, è un metodo veramente
solitario: "Ho indagato me stesso" e indagando me stesso cerco la verità. Il
metodo di Platone è diverso. Se prendiamo la Settima lettera - ammesso che sia
autentica, come credo che sia - troviamo che Platone sostiene che la filosofia
non si può insegnare; se il tiranno Dionigi di Siracusa va spacciando idee di
Platone come se fossero sue, è inutile che lo faccia, perché la filosofia,
quella vera, nei suoi contenuti non è trasmissibile. Che cosa può fare la
filosofia? La filosofia può dare soltanto, dice Platone, dei piccoli cenni per
infiammare l'animo alla ricerca della verità; ma poi ciascuno continua a pensare
da solo e deve abbandonare e dimenticare il suo maestro. In Platone la
dialettica, già con la particella "dià" di cui si compone "dialegesthai",
implica l'idea del transito, del perforare: è un tagliare queste membrane per
mettere i mondi privati di ogni individuo in comunicazione fra loro. E'
soprattutto producendo questo effetto di cooperazione, questo effetto
cumulativo, che, se non sempre, almeno nelle fasi iniziali o nelle fasi in cui
si ritorna dal pensiero in solitudine, essa permette agli uomini una ricerca
della verità che si fa insieme. Quindi, mentre Eraclito diceva giustamente che
"si scava tanta terra per trovare poco oro" e raccomandava una ricerca solitaria
nella miniera della verità, in Platone si potrebbe dire che la ricerca dell'oro,
della verità - che è diverso, per usare l'espressione di Eraclito, "dalla paglia
o dallo strame, che gli asini scambiano per oro" - può essere condotta insieme
e, soprattutto, questo oro si può ripartire.
6. Professor Bodei, in età moderna, a parte la posizione di
Hegel, quali sono state le valutazioni del metodo di Eraclito?
Io prenderei in considerazione due filosofi: Nietzsche e Heidegger. In
Nietzsche c'è una rivalutazione dell'oscurità di Eraclito, tanto che uno dei
testi della Gaia scienza è intitolato: Noi, gli incomprensibili. Vi si dice,
sostanzialmente, che parlare in maniera piana è plebeo; la grandezza di Eraclito
sta dunque, per Nietzsche, anche nel suo non farsi capire, non in modo banale,
facendo in modo di non essere inteso dal volgo, ma perché la nobiltà di ciò che
ha da dire non si presta a questa chiarezza superficiale. Anche se poi, come
sappiamo, per Nietzsche la verità sta proprio all’esterno: "La verità - dice
Nietzsche - è superficiale". C’è un altro testo, nel Crepuscolo degli idoli, a
proposito del "semainein", del "far cenno", in cui Nietzsche afferma che gli
piacerebbe scrivere una filosofia per sordomuti, fatta cioè di cenni e non di
parole. Questo lo intenderei nel senso non letterale dell'espressione, ma nel
senso di un rinvio e di una allusione continua che sono caratteristici del
frammento; anche Nietzsche scrive per aforismi, come pare abbia fatto Eraclito,
anche se il suo modello non è certo eracliteo, ma viene dal Settecento, da
Lichtenberg o, nell'Ottocento, da Schopenhauer. Il significato di questa
filosofia per sordomuti mi pare quello di un rinvio e di una implicazione
continua attraverso il gesto, che non esaurisce quello che di volta in volta si
dice. In Nietzsche c’è l'idea che tutte le volte che facciamo un'affermazione,
il senso di questa affermazione travalica le parole e indica qualcos'altro che
sta oltre il detto, o oltre il pensato. C'è un "non detto" e un "non pensato" o
un impensato, che completano o dovrebbero completare, ciò che è stato detto e
ciò che è stato pensato. Anche in Heidegger, Eraclito ha importanza e direi
un'importanza centrale, perché - per non citare il famoso seminario che
Heidegger tenne alla fine degli anni Sessanta, assieme a Fink, all'università di
Friburgo, proprio sull'interpretazione di alcuni frammenti di Eraclito - il
concetto di una verità, "alètheia", come ciò che si sottrae al nascondimento
rappresenta una grande parafrasi del frammento eracliteo relativo al signore di
Delfi che non dice e non nasconde, ma dà segno. Per Heidegger, come sappiamo, la
verità è un rivelarsi progressivo, è qualche cosa che viene paragonato ad una
radura all'interno di un bosco - Lichtung in tedesco, che ha la stessa radice di
Licht, luce e di leicht, leggero -; è il luogo in cui si dirada l'oscurità, il
"nascondimento" e si rivela, ma non completamente, ciò che è la natura. La
filosofia di Eraclito serve spesso ad Heidegger come conferma delle proprie
posizioni. Per queste ragioni la predilezione che Heidegger mostra per i
presocratici può trovare una spiegazione più forte di quella che si basa sul suo
antagonismo, spesse volte espresso, nei confronti di Platone e del pensiero
post-platonico, da lui definito metafisico.
Dopo aver ridimensionato la presunta oscurità di Eraclito, che non dipende
dal carattere oracolare del suo linguaggio, ma dalla convinzione che "la natura
ama nascondersi" e sottende una trama di rapporti non immediatamente visibili ,
Remo Bodei, indica nel logos eracliteo un principio di evidenza razionale e
universale, che, per quanto comune e vantaggioso, la maggior parte degli uomini
non segue. Negando che quella eraclitea sia una filosofia misterica o
iniziatica, Bodei indica nel semainein (accennare) dell'oracolo di Delfi e
nell'allusività del linguaggio eracliteo il comune indizio di una profondità
della natura e dell'anima che la indaga. Il logos eracliteo appare legato al
fuoco, a parere di Bodei, perchè, come l'oro e l'anima, è un elemento che nel
mutare permane perennemente identico a se stesso. A questa esaltazione eraclitea
del divenire si oppone Platone nel Teeteto elaborando un sapere dialettico che,
con il suo carattere dialogico e intersoggettivo, supera il pensare
individualistico e solitario di Eraclito . In conclusione Bodei si sofferma
sulla profonda influenza esercitata dal filosofo di Efeso su Nietzsche e
Heidegger: il primo riprende da Eraclito l'allusività e l'incompiutezza; il
secondo si ispira al frammento eracliteo relativo all'oracolo di Delfi per
delineare un concetto di verità (alètheia) come disvelamento dell'essere nel
nascondimento.
Biografia di Remo Bodei
Interviste dello stesso autore
- La filosofia di Spinoza: l'importanza delle passioni
- I sensi e la filosofia
- L'estetica del bello e del sublime
- L'estetica del brutto
- L'identità personale e la coscienza
- La filosofia di Agostino
- Il senso della storia
- L'idea di progresso
- La filosofia della vita
- Bloch e il principio speranza
Nessun commento:
Posta un commento