Tre ferite narcisistiche, tre colpi all’egocentrismo difficili da digerire.
Ne parla Freud in "Una difficoltà della psicoanalisi", 1916, Opere VIII, Boringhieri, 1976.
1 - Copernico: il nostro pianeta, la terra, non è più al centro del mondo.
2 - Darwin: noi esseri umani non siamo più tanto diversi dagli altri viventi.
3 - Freud: la coscienza occupa solo una piccola parte della nostra psiche,
e del resto ben poco si sa.
Umberto Galimberti racconta
Freud, Jung e la psicoanalisi
La Biblioteca di Repubblica, 2011
http://www.leparoletranoileggere.it/2012/01/07/freud-jung-e-la-psicoanalisi/
"Libro molto interessante, e per chi vuol rinfrescare nozioni assopite, e per chi non sa nulla dell’argomento - grazie alla sua chiarezza espositiva, e, soprattutto, per capire a che punto siamo, individualmente e collettivamente.
Galimberti espone con molta chiarezza il percorso e i punti cardine della teoria freudiana: la suddivisione tra io ed inconscio, che a sua volta è costituito da una parte pulsionale (Es, sede delle esigenze della specie) ed una superegoica (Super-io, dove si interiorizzano le esigenze della società); la distinzione tra nevrosi (che incrina l’equilibrio dell’io) e psicosi (che invece arriva a dissolvere l’io inteso come mediazione tra Es e Super-io, cioè tra spinte a soddisfare le pulsioni della sessualità e dell’aggressività da una parte e divieti imposti dalla società dall’altra); la distinzione tra morale eteronoma (cioè con la sorveglianza esterna) e morale autonoma; il principio di piacere e il principio di realtà; le tre fasi dello sviluppo psichico (orale, anale, edipica); la formazione dell’individualità e della capacità di relazione tramite il superamento del complesso edipico; la costruzione della cultura intesa come sublimazione delle pulsioni; infine “il disagio della civiltà” che nasce dall’oppressione esercitata da una società troppo rigida in termini di divieti e caratterizzata da un «legame sociale stabilito per identificazione reciproca dei vari membri».
Galimberti mette in luce come Freud anticipi Marcuse (“L’uomo a una dimensione”) con l’ipotesi secondo la quale «l’uomo ha barattato una parte della sua possibilità di felicità per un po’ di sicurezza»; molto convincente, a tal proposito, l’affermazione dell’esistenza di un ulteriore condizionamento per l’umanità contemporanea derivante da un “inconscio tecnologico” (che produce in noi un senso di inadeguatezza, in quanto inferiori alla macchina in termini di efficienza e regolarità).
Il filosofo passa quindi ad esaminare la teoria di Jung e le diversità di questa rispetto ai concetti freudiani: gli esseri umani nascono sostanzialmente schizofrenici, abitati da molte personalità, tra le quali l’IO, il complesso autonomo che tiene i rapporti con la realtà; l’inconscio si configura come uno sfondo indifferenziato da cui emerge la coscienza; a differenza di Freud che spiega l’uomo dal punto di vista patologico, la teoria junghiana mira alla comprensione dell’uomo in quanto sano; per Jung il simbolo non è solo un segno manifesto di un contenuto latente, ma un’istanza operativa che promuove lo sviluppo sia dell’individuo che della collettività, è quell’energia eccedente suscettibile di essere impiegata in modo nuovo e diverso rispetto a ciò che è codificato; in questo senso l’inconscio non è solo il deposito del rimosso, ma è anche un “progetto di esistenza” da esplicare e realizzare. Con l’introduzione del concetto di inconscio collettivo – e la correlata “scoperta” degli archetipi, quali forme “a priori” dell’apprendimento – Jung si distingue dal modello concettuale di Freud nel descrivere la psiche utilizzando invece un modello “immaginale”. Per Jung la totalità della psiche è il “Sé”, che costituisce l’espressione indifferenziata di tutte le possibilità umane – ed è anche la sede della follia – e da cui si emerge tramite la ragione; ma, dopo aver raggiunto questa padronanza razionale, l’individuo, per realizzare a pieno la propria personalità, deve ampliare la propria coscienza ricorrendo di nuovo a quell’indifferenziato luogo di follia che è il Sé. Infine è messa in luce quella che, a detta dello stesso Jung, è la sua maggior differenza da Freud: «La consapevolezza del carattere soggettivo di ogni psicologia».
Galimberti propone un’ultima riflessione sul valore, per il nostro oggi, del pensiero dei due padri della psicoanalisi, ricordando l’importanza della fiducia di Freud nella ragione in quanto regolatrice del caos e promotrice del cosmo ( oggi, più che mai, ma forse come sempre nella storia umana, il sonno della ragione genera mostri: http://fatimallospecchio.blogspot.com/2012/01/genio-e-sregolatezza.html ); ma anche dell’affermazione di Jung riguardo alla necessità di ricorrere all’inconscio, dopo aver rafforzato l’IO – e con l’avvertimento che «Non tutte le porte vanno aperte», perché la vita possa alimentarsi di nuovi motivi.
In questo scenario il futuro della psicoanalisi deve tener conto del passaggio da quella società della disciplina, che caratterizzava il mondo di Freud, alla società dell’efficienza che può generare un «senso di insufficienza».
Il libriccino, molto denso, riporta brani delle opere di Freud – di particolare interesse quelli tratti da “il disagio della civiltà”.
Alla fine due pagine di Maurizio Ferraris, in cui si riassumono le tre grandi ferite all’orgoglio umano: da Copernico (l’uomo non è il centro dell’universo); da Darwin (l’uomo non viene da Dio, ma dal mondo animale); dalla psicoanalisi (la coscienza non è la padrona assoluta, perché è l’inconscio che ci muove e l’Io non è padrone in casa propria)".
L'Io dunque «non è padrone in casa propria» perché è abitato da una dimensione inconscia che l'uomo ha sempre evitato di considerare, perché un inganno narcisistico gli ha fatto credere di essere al centro dell'universo, creatura di Dio, e padrone dell'orizzonte dispiegato dalla sua coscienza e dal suo procedere razionale.
Umberto Galimberti
La doppia soggettività
Ma CHE COS'È UNA NEVROSI? Freud che,
contrariamente a quanto si crede, non si appassiona alla medicina di stampo
positivista in voga al suo tempo, rifiuta la tesi che la nevrosi sia una malattia del sistema nervoso,
e avanza l'ipotesi che la
nevrosi sia un «conflitto» tra il mondo delle pulsioni (da lui denominato Es) e
le esigenze della società (denominate Super-io) che ne chiedono il contenimento
e il controllo. In questa dinamica è possibile scorgere il tragitto dell'umanità e il suo
disagio che Freud condensa in queste rapide espressioni che possiamo
leggere ne Il disagio della civiltà
(1929): «Di fatto l'uomo
primordiale stava meglio, poiché ignorava qualsiasi restrizione pulsionale. In
compenso la sua sicurezza di godere a lungo di tale felicità era molto esigua.
L'uomo civile ha barattato una parte della sua possibilità di felicità per un
po' di sicurezza».
Ma da dove Freud trasse questa sua concezione, a dir poco
rivoluzionaria, di nevrosi? Non dalla medicina del suo tempo ovviamente,
ma dalle intuizioni
filosofiche del romanticismo, da Goethe, da Schelling e soprattutto da
Schopenhauer, che Freud considera suo «precursore», e a proposito del
quale scrive nel saggio Una difficoltà della psicoanalisi (1917): «Probabilmente pochissimi uomini hanno
compreso che ammettere l'esistenza di processi psichici inconsci significa
compiere un passo denso di conseguenze per la scienza e per la vita.
Affrettiamoci comunque ad aggiungere che un tale passo la psicoanalisi non l'ha
compiuto per prima. Molti filosofi possono essere citati come precursori, e
sopra tutti Schopenhauer, la cui "volontà inconscia" può essere
equiparata alle pulsioni psichiche di cui parla la psicoanalisi».
Secondo Schopenhauer, infatti, ciascuno di noi è abitato
da una doppia soggettività: la «soggettività
della specie» che impiega gli individui per i suoi interessi che
sono poi quelli della propria conservazione, e la «soggettività
dell'individuo» che si illude di disegnare un mondo in base ai suoi progetti, che
altro non sono se non illusioni
per vivere e non vedere che a cadenzare il ritmo della vita sono le immodificabili esigenze della
specie.
L'io e l'inconscio
Questa doppia soggettività viene
codificata dalla psicoanalisi con le parole Io e inconscio. Nell'inconscio occorre distinguere un «inconscio pulsionale» che
Freud chiama col pronome neutro latino Es, dove trovano espressione le esigenze della specie, e
un «inconscio superegoico»
denominato Super Io,
dove si depositano e si
interiorizzano le esigenze della società.
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Sono esigenze della specie la sessualità, senza di cui
la specie non vedrebbe garantita
la sua perpetuazione, e l'aggressività che serve per la difesa della prole. Queste due pulsioni, proprio perché sono al servizio
della specie, l’Io (la nostra parte cosciente) le subisce, le patisce, e
perciò diventano le sue «passioni»,
che la società, per
salvaguardare se stessa, chiede di contenere, nella loro espressione, entro
certi limiti. Ciò
avviene attraverso l'educazione, durante la quale, interiorizzando i divieti genitoriali,
ciascun individuo acquisisce gradatamente i divieti sociali che svolgono una
funzione di contenimento dei moti pulsionali.
L'Io dunque «non è padrone in casa propria» perché
è abitato da una dimensione inconscia che l'uomo ha sempre evitato di
considerare, perché un
inganno narcisistico gli ha fatto credere di essere al centro dell'universo, creatura
di Dio, e padrone dell'orizzonte dispiegato dalla sua coscienza e dal suo
procedere razionale. Scrive in proposito Freud nell’Introduzione alla psicoanalisi (1915-1917): «Nel corso dei tempi
l'umanità ha dovuto sopportare due grandi mortificazioni che la scienza ha
recato al suo ingenuo amore di sé. La prima, quando apprese
che LA NOSTRA TERRA NON È AL CENTRO DELL'UNIVERSO, bensì una minuscola particella di un
sistema cosmico che, quanto a grandezza, è difficilmente immaginabile.
Questa scoperta è associata per noi al nome di COPERNICO,
benché la scienza alessandrina avesse già proclamato qualcosa di simile. La
seconda mortificazione si è verificata poi, quando LA RICERCA BIOLOGICA annientò la PRETESA POSIZIONE
DI PRIVILEGIO DELL'UOMO NELLA CREAZIONE, GLI DIMOSTRÒ LA SUA PROVENIENZA DAL
REGNO ANIMALE E L'INESTIRPABILITÀ DELLA SUA NATURA ANIMALE.
Questo sovvertimento di valori è stato compiuto ai nostri giorni sotto
l'influsso di CHARLES
DARWIN, di Wallace e dei suoi precursori, non senza la più violenta
opposizione dei loro contemporanei. Ma la terza e più scottante mortificazione,
la megalomania dell'uomo è destinata a subirla da parte dell'odierna INDAGINE PSICOLOGICA, la
quale ha l'intenzione di DIMOSTRARE
ALL'IO CHE NON SOLO EGLI NON È PADRONE IN CASA PROPRIA, ma deve fare
assegnamento su SCARSE
NOTIZIE RIGUARDO A QUELLO CHE AVVIENE INCONSCIAMENTE NELLA SUA PSICHE.
Anche questo richiamo a guardarsi dentro non siamo stati noi psicoanalisti né i
primi né i soli a proporlo, ma sembra che tocchi a noi sostenerlo nel modo più
energico e corroborarlo con un materiale empirico che tocca da vicino tutti
quanti gli uomini».
Nevrosi e psicosi
Tra le ESIGENZE DELLA SPECIE (ES O INCONSCIO PULSIONALE)
e le ESIGENZE DELLA
SOCIETÀ (SUPER-IO O INCONSCIO SOCIALE) C'È IL NOSTRO IO, LA NOSTRA PARTE COSCIENTE, CHE
RAGGIUNGE IL SUO EQUILIBRIO NEL DARE ADEGUATA E LIMITATA SODDISFAZIONE A QUESTE
ESIGENZE CONTRASTANTI, la cui forza può incrinare l'equilibrio dell'Io (e in questo caso
abbiamo la nevrosi), o addirittura può dissolvere l'Io sopprimendo ogni spazio
di mediazione tra le due forze in conflitto, e allora abbiamo la psicosi o
follia.
L'IO DUNQUE AGISCE DA EQUILIBRATORE TRA QUESTE DUE
ISTANZE, che possono invadere lo spazio dell'Io in misura maggiore o
minore da individuo a individuo. Rispetto a questo schema ideale, ogni invasione dello spazio dell'Io provoca la nevrosi,
mentre la psicosi ha luogo quando lo spazio dell'Io è
interamente occupato dall'uno o dall'altro inconscio, oppure da
entrambi quando vengono a contatto, non rendendo più possibile il governo di sé.
La psicoanalisi, che nel suo momento terapeutico
necessita della presenza dell'Io del
paziente, può operare solo con la nevrosi, aggiustando le incrinature
dell'Io, mentre è impotente con la
psicosi, dove inconscio pulsionale e inconscio sociale confliggono corpo a
corpo, senza uno spazio di mediazione, e dove l'assenza dell'Io non consente alcuna elaborazione.
Scopo della psicoanalisi è che l'Io (la nostra parte cosciente)
sia in grado di guadagnare sempre più spazio all'inconscio, come gli
olandesi (l'esempio è di Freud) hanno guadagnato un'estensione della terra
sottraendola al mare, perché, scrive Freud nell'Introduzione alla psicoanalisi. Nuova serie di lezioni (1932): «L'intenzione degli sforzi terapeutici della psicoanalisi è in
definitiva di rafforzare l'Io,
di renderlo più
indipendente dal Super-io, di ampliare il suo campo percettivo e
perfezionare la sua organizzazione, così che possa annettersi nuove zone dell'Es. Dove era l'Es, deve subentrare l'Io. E
questa l'opera della civiltà, come per esempio il prosciugamento
dello Zuiderzee». Ma vediamo più in dettaglio questo percorso.
L'inconscio pulsionale e le
esigenze della specie
A proposito dell'uomo parliamo di «pulsioni» e non di
«istinti» perché l'istinto
è una risposta rigida agli stimoli. Se a una mucca mostro una bistecca,
la mucca non reagisce, se le mostro un covone di fieno, la mucca si mette a
mangiare. Gli uomini non
hanno istinti perché non hanno risposte rigide agli stimoli. Lo stesso
Freud, che nei suoi primi scritti impiega il termine Instinkt, in seguito lo
sostituisce col termine Trieb, che noi traduciamo con «pulsione»:
spinta generica a meta
indeterminata. Ne è prova il fatto che, per esempio, in presenza di una pulsione
sessuale l'uomo, a differenza dell'animale, può accedere a tutte le
«perversioni», così come può assegnare alla pulsione sessuale una meta non
sessuale, quale può essere un'opera letteraria o artistica. In questo caso
Freud parla di «sublimazione».
Chiarita questa differenza, che
già Platone, Tommaso
d'Aquino, Kant, Gehlen avevano segnalato, Freud si domanda: quali sono le esigenze della
specie che si esprimono nelle pulsioni? La procreazione,
a cui è preposta la pulsione sessuale, e la difesa della prole, a cui è
preposta la pulsione aggressiva.
Freud colloca queste due pulsioni
nell'inconscio, ovvero in quel sottosuolo di noi stessi a cui solitamente non
prestiamo alcuna attenzione, perché impostiamo la nostra vita a partire dall'Io,
dalla sua progettualità, dall'investimento che noi facciamo su di noi, dal
senso che cerchiamo di reperire nella nostra esistenza, dimenticando che noi
siamo fondamentalmente «funzionari della specie».
Tra l'economia dell'Io e
l'economia della specie c'è un profondo conflitto, perché l'Io non si rassegna
a essere un semplice funzionario della specie, e perciò per vivere cerca in
qualche modo di illudersi, giocando con i suoi pensieri, le sue speranze, i
suoi progetti, i suoi scenari di autorealizzazione, nel tentativo di reperire
un senso alla propria esistenza, anche se è la specie a determinare e a
qualificare le tappe della sua vita che, dopo la nascita e la crescita, prevede
la procreazione e infine la morte come vuole la natura per tutti i viventi.
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L'INCONSCIO SOCIALE e la FONDAZIONE
DELLA MORALE
Oltre all'INCONSCIO PULSIONALE, dove
ci sono le esigenze della specie, esiste anche un INCONSCIO SOCIALE, dove sono
espresse le esigenze della società che, come abbiamo visto, confliggono con
quelle della specie. Compito dell'Io è tenere l'equilibrio tra queste due
istanze tra loro conflittuali, perché se esprimessimo senza freni tutte le
nostre pulsioni sarebbe impossibile la convivenza sociale e con essa sarebbero
impossibili le condizioni per la costruzione e il progresso della società.
Le istanze sociali trovano
espressione nei limiti e nei divieti che ciascuno deve dare a se stesso, onde
evitare che la piena esplicazione delle proprie pulsioni porti a uno stato di
perenne conflittualità e di sopraffazione continua. Queste limitazioni, secondo
Freud, vengono acquisite nell'infanzia attraverso l'interiorizzazione dei
divieti genitoriali che il bambino accoglie non per amore dei genitori, ma per
un'istanza egoista. I genitori, infatti, sono percepiti dal bambino come la
condizione imprescindibile per la propria sussistenza, per cui è vantaggioso
attenersi alle loro prescrizioni onde evitare che questa condizione venga meno.
L'introiezione del divieto è
quindi un baratto. Il bambino si autolimita perché se i genitori non dovessero
essere più suoi alleati, se non dovessero più prestare il loro soccorso, se non
dovessero essere più i mediatori del cibo, delle cure e delle attenzioni di cui
il bambino ha bisogno, il bambino non sopravvivrebbe. L'interiorizzazione dei
divieti avviene dunque su questa base fondamentalmente egoista. Del resto
l'amore, al di là dell'enfasi profusa dalla letteratura intorno a questa
parola, di fatto è sostanzialmente una relazione con l'altro che risulta
vantaggiosa per la propria vita. L'egoismo, che è il tratto costitutivo
dell'istinto di conservazione, sa utilizzare anche strategie amorose, nella
forma della seduzione o dell'ubbidienza, per garantire la sopravvivenza
dell'individuo.
All'inizio il bambino si attiene
alle regole solo in presenza dei genitori, e in questo modo segue quella che
viene denominata morale eteronoma, tipica di chi assume un comportamento
corretto solo in presenza di un sorvegliante che può sanzionare e punire. Non è
infrequente constatare che a questo stadio morale si arrestano, anche in età
adulta, quanti si attengono alla norma solo in presenza di un controllo o di
una sanzione.
Per giungere a una morale
autonoma occorre che l'assimilazione del divieto avvenga compiutamente, che il
sorvegliante esterno venga interiorizzato, per cui non c'è più bisogno di
essere controllati per attenersi alla norma e osservare la legge. Ora dobbiamo
chiederci: perché per Freud anche il Super-io è «inconscio»? Perché, una volta
interiorizzati i divieti, non è più necessario riflettere su quello che
dobbiamo o non dobbiamo fare. Cessano gli indugi a favore di un comportamento
automatico, e quindi «inconscio», che più non richiede particolari riflessioni
per decidere se comportarci in un modo piuttosto che in un altro.
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Il principio di piacere e il
principio di realtà
L'uomo è un animale desiderante,
e il desiderio desidera ciò che non possiede, per cui la struttura psichica è
regolata da quella dimensione che si chiama «mancanza», come già bene aveva
evidenziato Platone nel Simposio dove, abbandonando la tradizione mitologica
che parlava di Amore come figlio di Afrodite, dice che Amore è figlio di
Povertà (Penìa). Il desiderio, infatti, prevede un intervallo tra ciò che si
desidera e l'oggetto che soddisfa il desiderio. Nella copertura di questo
intervallo sta la costruzione della psiche.
Giusto per fare un esempio, tutti
possiamo constatare che il bambino quando nasce non conosce la distanza tra il
desiderio e la sua soddisfazione: quando ha fame viene immediatamente nutrito,
quando ha sonno viene immediatamente coccolato e messo a dormire. La
soddisfazione immediata del desiderio è chiamata da Freud principio di piacere,
che però mal si adatta alla realtà.
Crescendo, siamo in qualche modo
costretti a raggiungere la soddisfazione dei nostri desideri attraverso quello
che Freud chiama lavoro psichico, che copre la distanza che la realtà impone
tra il desiderio e la sua soddisfazione. Col lavoro psichico si accede, secondo
Freud, al principio di realtà. La realtà, infatti, ci impone sempre un certo
lavoro per raggiungere la soddisfazione dei desideri. L'infantilismo non è
altro che la rinuncia al lavoro psichico che, se eccessivamente protratta,
determina una regressione al mondo dell'infanzia e quindi a un mancato sviluppo
psichico.
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Le fasi dello sviluppo psichico
Nell'infanzia lo sviluppo
psichico è scandito da Freud in tre fasi dove si concentra quella che lui
chiama libido, che non va intesa solo in termini sessuali, perché il
riferimento è a quell'energia psichica che, nelle fasi dello sviluppo
infantile, si concentra nelle aperture del nostro corpo, che sono la bocca,
l'ano e i genitali.
Nella fase orale la libido si
raccoglie innanzitutto nella bocca, perché se non ci fosse un piacere nella
suzione, a rischio sarebbe l'alimentazione, dal momento che, per mangiare,
bisogna muovere dei muscoli, bisogna fare una certa fatica, che può essere
superata solo se compensata da un piacere.
La seconda fase, che secondo
Freud prende avvio dopo il secondo anno di vita, è la cosiddetta fase anale, in
cui il bambino incomincia ad acquisire una sorta di padronanza del proprio
corpo, quando avverte che dipende da lui rilasciare o trattenere le feci. E' questa la prima forma di controllo che, dice Freud, i bambini utilizzano
talvolta come forma di gioco, talvolta di ricatto nei confronti delle attese
delle madri.
È facile intuire che da una
fissazione in una fase o dalla regressione alla fase precedente dipendono molte
patologie. Persone fissate o regredite alla fase orale soffrono spesso di
disturbi dell'alimentazione o, senza arrivare a queste forme patologiche,
mantengono un rapporto privilegiato con la libido orale di continuo
sollecitata. Sottesa a questa forma nevrotica c'è, secondo Freud, una carenza
d'essere e quindi un bisogno di incorporare, di avere.
Connessa alla fase anale è invece
la relazione col potere. In questa fase si formano infatti le personalità leader e le personalità gregarie.
Il leader è una figura che non può prescindere dal bisogno del controllo
generalizzato del mondo che lo circonda. La sua versione patologica è la
«paranoia», ovvero il bisogno di un controllo totale, dove ogni fallimento
viene interpretato come l'effetto di una persecuzione ordita da altri.
La terza fase, denominata fase
genitale o fase edipica, è per Freud la più significativa, perché
caratterizzata da quello stadio dello sviluppo psichico in cui si costituiscono
le strutture dell'identità e della relazione.
Il complesso di Edipo
Freud prende spunto dalla
tragedia dell'Edipo re di Sofocle, dove è messo in scena il dramma di un uomo
giusto che, senza saperlo e senza volerlo, ha ucciso suo padre e sposato sua
madre. Freud riprende questo mito e ne fa una tappa dello sviluppo psichico
quando, tra i quattro e i sei anni, si guadagnano quelle due dimensioni
fondamentali dell'esistenza umana che sono l'identità e la relazione. Se non ho
identità non so chi sono, se non ho acquisito la struttura della relazione non
so rapportarmi agli altri. Il percorso non è del tutto identico per il maschio
e per la femmina.
Edipo e il mondo maschile. Dal
punto di vista del figlio maschio, il bambino vuole uccidere il padre e andare
a letto con la madre. Non impressioni il linguaggio un po' truculento, dal
momento che il nostro inconscio non dispone del linguaggio forbito ed educato
della coscienza. Per sedurre la madre il bambino imita il padre: fa tutto
quello che dice il papà, gioca e gareggia con lui in un continuo processo di
imitazione. Naturalmente il padre si confonde e
pensa che tra lui e il figlio si sia creato un magnifico rapporto. In realtà il
figlio sta imitando il padre nell'illusione di poter essere alla sua altezza, e
quindi in grado di poter fruire dei favori della madre. In questo processo di
imitazione, il figlio acquisisce la propria identità maschile, impara cioè a
diventare maschio.
Quando poi verifica che non può
raggiungere il suo scopo, il bambino, dice Freud, subisce una sorta di
castrazione, ossia una frustrazione che ha un effetto depressivo non
necessariamente negativo se, per superarlo, il bambino sposta la sua libido
dalla madre a un'altra figura femminile sulla quale investirà la sua libido
quando, dopo l'età della latenza (che a parere di Freud va approssimativamente
dai sei ai dodici anni), la sessualità farà la sua comparsa. Imitando il padre
e desiderando la madre, prima rappresentante dell'altro sesso, il bambino,
superando il complesso edipico, acquisisce la propria identità e il proprio
orientamento relazionale.
Edipo e il mondo femminile. Il
complesso edipico femminile, che va pensato rovesciato rispetto a quello
maschile (la bambina ama il padre e vuol prendere il posto della madre), è
molto più complicato rispetto a quello maschile e più difficile da superare. La
ragione va cercata nel fatto che nella madre è molto più evidente che nel padre
quella doppia soggettività che nella donna si esprime nell'essere da un lato un
Io e dall'altro una funzionarla della specie. Anche il padre ha un Io ed è
funzionario della specie, ma di questo secondo aspetto non ne offre un
percezione fisica e tantomeno psichica. Ne consegue che, nella costruzione
della propria identità, la figlia resta incerta se prendere a modello l'Io
della madre o quell'aspetto della madre
che la identifica come funzionaria della specie.
Questa ambivalenza si fa ancora
più netta quando, nell'età della pubertà, la ragazza, proprio mentre sta
acquisendo la sua identità a partire dal suo corpo, che costruisce secondo i
suoi desideri e secondo i modelli sociali diffusi, avverte che quel corpo non
risponde solo alle esigenze del suo Io, ma anche a quelle della specie. Il
processo mestruale interviene come una memoria che dice alla ragazza: tu sei un
Io, ma sei anche una funzionaria della specie.
La doppia soggettività, così
evidente nella donna e così poco manifesta nel maschio, fa sì che il complesso
edipico femminile non è mai totalmente comparabile a quello maschile, non è
così preciso e definito. E questa indeterminatezza istituisce nella donna una
sorta di ambivalenza, che si riflette sulle sue capacità percettive, cognitive
ed emotive molto meno precise di quelle maschili ma, proprio per questo, più
complesse, più variegate, più sottili, più capaci di cogliere tutte quelle sfumature
psichiche che al maschio solitamente sfuggono.
Il disagio della civiltà
Come è noto Freud non si è
occupato solo della psiche individuale e delle dinamiche che la determinano, ma
anche della società in cui gli uomini si trovano a vivere e degli effetti
nevrotici che la forma che la società va via via assumendo nel suo progresso
può determinare nei singoli individui.
Dopo aver negato l'autonomia
della coscienza e indicato ai suoi confini un complesso di forze che la condizionano,
Freud legge ogni espressione culturale espressa dall'umanità come una
sublimazione delle pulsioni, la cui forza viene deviata dalla meta sessuale,
alla quale esse naturalmente tendono, per essere indirizzata verso creazioni a
cui è riconosciuto quel valore che si chiama «cultura». In un saggio del 1908
intitolato La morale sessuale «civile» e il nervosismo moderno Freud scrive:
«La pulsione sessuale mette a
disposizione del lavoro culturale delle quantità di energia estremamente
grandi; e ciò è dovuto alla peculiarità particolarmente accentuata in essa di
poter spostare la sua meta senza ridurre sensibilmente la propria intensità.
Questa capacità di scambiare la meta sessuale originaria con un'altra meta che
non è più sessuale, ma è psichicamente imparentata con la prima, viene chiamata
capacità di sublimazione».
Se la civiltà nasce dalla
repressione e dalla sublimazione delle pulsioni, procede in base a esse e di
esse si nutre, ne consegue che la felicità consiste nella piena esplicazione
delle pulsioni, e che la libertà è tanto maggiore quanto minore è la
repressione delle pulsioni. Scrive infatti Freud ne II disagio della civiltà
(1929): «La libertà individuale non è un frutto della civiltà. Essa era massima
prima che si instaurasse qualsiasi civiltà, benché in realtà a quell'epoca non
avesse mai un grande valore, in quanto difficilmente un individuo era in grado
di difenderla. La libertà subisce delle limitazioni a opera dell'incivilimento,
e la giustizia esige che queste restrizioni colpiscano immancabilmente tutti».
Il problema però è la misura
della restrizione pulsionale. Può accadere, infatti, che una società sia troppo
severa in termini di regole, convenzioni, divieti, generando quel «disagio
della civiltà» che Freud così descrive: «Oltre agli obblighi, cui siamo
preparati, concernenti la restrizione pulsionale, ci sovrasta il pericolo d'una
condizione che potremmo definire "la miseria psicologica della
massa". Questo pericolo incombe maggiormente dove il legame sociale è
stabilito soprattutto attraverso l'identificazione reciproca dei vari membri
[...]. La presente condizione della civiltà americana potrebbe offrire una
buona opportunità di studiare questo temuto male della civiltà. Ma evito la
tentazione di addentrarmi nella critica di tale civiltà; non voglio destare
l'impressione che io stesso ami servirmi dei metodi americani».
In questo rapido accenno al
«legame sociale stabilito per identificazione reciproca dei vari membri», Freud
anticipa la diagnosi che Herbert Marcuse farà nel 1964 con L'uomo a una
dimensione, dove, pur nella differenza della terapia, si conferma l'ipotesi
freudiana secondo la quale «l'uomo ha barattato una parte della sua possibilità
di felicità per un po' di sicurezza». Il mito della sicurezza è un mito
particolarmente sentito oggi, ma non dobbiamo dimenticare che la sicurezza
richiede un impianto di regole che, quando diventa eccessivo, comprime la vita,
e anche la felicità.
Luogo eminente delle regole,
delle convenzioni, delle pratiche e delle azioni descritte e prescritte è il
mondo della tecnica, che Freud ai suoi tempi non poteva prendere in
considerazione, ma che noi oggi non possiamo evitare di considerare e inserire
in quel tema della sicurezza da lui segnalato. La tecnica, infatti, è un
impianto di regole molto rigoroso, che assume a modello la macchina, rispetto
alla quale gli uomini sono inferiori in termini di efficienza, precisione,
regolarità.
La pervasività di questo modello
può far pensare che, oltre che dall'inconscio pulsionale e dall'inconscio
sociale segnalati da Freud, l'uomo oggi è condizionato anche da una sorta di
inconscio tecnologico, che non gli consente di essere davvero se stesso, quanto
piuttosto un semplice funzionario dell'apparato di appartenenza, dove più che
il suo nome proprio, conta la sua funzione, il suo ruolo. Ne consegue che,
oltre a essere funzionari della specie, come Freud ci ha segnalato, oggi siamo
anche funzionari di apparati che ci impongono azioni che non sono più
propriamente nostre, perché sono quelle descritte e prescritte dall'apparato di
appartenenza.
Questo concetto di «inconscio
tecnologico», che mette rigorosamente tra parentesi la nostra soggettività, ci
consente di accedere a quell'altro grande esponente della psicoanalisi del
Novecento che è Jung, il quale indica come scopo della pratica psicoanalitica
quello di diventare se stessi al di là delle maschere, al di là dei ruoli, al
di là delle funzioni che la società tecnologicamente avanzata esige da noi, per
la sua economia e non per la nostra economia.
Lo sguardo di Bleuler e Jung sul
rapporto tra ragione e follia
Freud era un neurologo, Jung uno
psichiatra, allievo di Eugen Bleuler che aveva ribattezzato quella che allora
era considerata una «demenza precoce (dementia praecox)» col termine
schizofrenia. Sottesa a questo cambio di denominazione c'era la persuasione che
noi nasciamo sostanzialmente «schizofrenici», abitati da molte personalità, da
molte figure, da un teatro di demoni che Bleuler chiama «complessi autonomi».
Tra questi, l'Io è il complesso autonomo che instaura il miglior rapporto con
la realtà e riesce a contenere tutte le altre personalità latenti.
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Umberto Galimberti racconta -
Freud, Jung e la psicoanalisi
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