giovedì 23 febbraio 2012

Caffè Filosofico. Freud, Jung e la Psicoanalisi. Il disagio della civiltà. Di fatto l'uomo primordiale stava meglio, poiché ignorava qualsiasi restrizione pulsionale. In compenso la sua sicurezza di godere a lungo di tale felicità era molto esigua. L'uomo civile ha barattato una parte della sua possibilità di felicità per un po' di sicurezza




Tre ferite narcisistiche, tre colpi all’egocentrismo difficili da digerire
Ne parla Freud in "Una difficoltà della psicoanalisi", 1916, Opere VIII, Boringhieri, 1976.
1 - Copernico: il nostro pianeta, la terra, non è più al centro del mondo
2 - Darwin: noi esseri umani non siamo più tanto diversi dagli altri viventi
3 - Freud: la coscienza occupa solo una piccola parte della nostra psiche
e del resto ben poco si sa. 




Umberto Galimberti racconta
Freud, Jung e la psicoanalisi
La Biblioteca di Repubblica, 2011




http://www.leparoletranoileggere.it/2012/01/07/freud-jung-e-la-psicoanalisi/



"Libro molto interessante, e per chi vuol rinfrescare nozioni assopite, e per chi non sa nulla dell’argomento - grazie alla sua chiarezza espositiva, e, soprattutto, per capire a che punto siamo, individualmente e collettivamente.
Galimberti espone con molta chiarezza il percorso e i punti cardine della teoria freudiana: la suddivisione tra io ed inconscio, che a sua volta è costituito da una parte pulsionale (Es, sede delle esigenze della specie) ed una superegoica (Super-io, dove si interiorizzano le esigenze della società); la distinzione tra nevrosi (che incrina l’equilibrio dell’io) e psicosi (che invece arriva a dissolvere l’io inteso come mediazione tra Es e Super-io, cioè tra spinte a soddisfare le pulsioni della sessualità e dell’aggressività da una parte e divieti imposti dalla società dall’altra); la distinzione tra morale eteronoma (cioè con la sorveglianza esterna) e morale autonoma; il principio di piacere e il principio di realtà; le tre fasi dello sviluppo psichico (orale, anale, edipica); la formazione dell’individualità e della capacità di relazione tramite il superamento del complesso edipico; la costruzione della cultura intesa come sublimazione delle pulsioni; infine “il disagio della civiltà” che nasce dall’oppressione esercitata da una società troppo rigida in termini di divieti e caratterizzata da un «legame sociale stabilito per identificazione reciproca dei vari membri».
Galimberti mette in luce come Freud anticipi Marcuse (“L’uomo a una dimensione”) con l’ipotesi secondo la quale «l’uomo ha barattato una parte della sua possibilità di felicità per un po’ di sicurezza»; molto convincente, a tal proposito, l’affermazione dell’esistenza di un ulteriore condizionamento per l’umanità contemporanea derivante da un “inconscio tecnologico” (che produce in noi un senso di inadeguatezza, in quanto inferiori alla macchina in termini di efficienza e regolarità).
Il filosofo passa quindi ad esaminare la teoria di Jung e le diversità di questa rispetto ai concetti freudiani: gli esseri umani nascono sostanzialmente schizofrenici, abitati da molte personalità, tra le quali l’IO, il complesso autonomo che tiene i rapporti con la realtà; l’inconscio si configura come uno sfondo indifferenziato da cui emerge la coscienza; a differenza di Freud che spiega l’uomo dal punto di vista patologico, la teoria junghiana mira alla comprensione dell’uomo in quanto sano; per Jung il simbolo non è solo un segno manifesto di un contenuto latente, ma un’istanza operativa che promuove lo sviluppo sia dell’individuo che della collettività, è quell’energia eccedente suscettibile di essere impiegata in modo nuovo e diverso rispetto a ciò che è codificato; in questo senso l’inconscio non è solo il deposito del rimosso, ma è anche un “progetto di esistenza” da esplicare e realizzare. Con l’introduzione del concetto di inconscio collettivo – e la correlata “scoperta” degli archetipi, quali forme “a priori” dell’apprendimento – Jung si distingue dal modello concettuale di Freud nel descrivere la psiche utilizzando invece un modello “immaginale”. Per Jung la totalità della psiche è il “Sé”, che costituisce l’espressione indifferenziata di tutte le possibilità umane – ed è anche la sede della follia – e da cui si emerge tramite la ragione; ma, dopo aver raggiunto questa padronanza razionale, l’individuo, per realizzare a pieno la propria personalità, deve ampliare la propria coscienza ricorrendo di nuovo a quell’indifferenziato luogo di follia che è il Sé. Infine è messa in luce quella che, a detta dello stesso Jung, è la sua maggior differenza da Freud: «La consapevolezza del carattere soggettivo di ogni psicologia».
Galimberti propone un’ultima riflessione sul valore, per il nostro oggi, del pensiero dei due padri della psicoanalisi, ricordando l’importanza della fiducia di Freud nella ragione in quanto regolatrice del caos e promotrice del cosmo ( oggi, più che mai, ma forse come sempre nella storia umana, il sonno della ragione genera mostri: http://fatimallospecchio.blogspot.com/2012/01/genio-e-sregolatezza.html ); ma anche dell’affermazione di Jung riguardo alla necessità di ricorrere all’inconscio, dopo aver rafforzato l’IO – e con l’avvertimento che «Non tutte le porte vanno aperte», perché la vita possa alimentarsi di nuovi motivi.
In questo scenario il futuro della psicoanalisi deve tener conto del passaggio da quella società della disciplina, che caratterizzava il mondo di Freud, alla società dell’efficienza che può generare un «senso di insufficienza».
Il libriccino, molto denso, riporta brani delle opere di Freud – di particolare interesse quelli tratti da “il disagio della civiltà”.
Alla fine due pagine di Maurizio Ferraris, in cui si riassumono le tre grandi ferite all’orgoglio umano: da Copernico (l’uomo non è il centro dell’universo); da Darwin (l’uomo non viene da Dio, ma dal mondo animale); dalla psicoanalisi (la coscienza non è la padrona assoluta, perché è l’inconscio che ci muove e l’Io non è padrone in casa propria)".

L'Io dunque «non è padrone in casa propria» perché è abitato da una dimensione inconscia che l'uomo ha sempre evitato di considerare, perché un inganno narcisistico gli ha fatto credere di essere al centro dell'universo, creatura di Dio, e padrone dell'orizzonte dispiegato dalla sua coscienza e dal suo procedere razionale.
Umberto Galimberti



La doppia soggettività
Ma CHE COS'È UNA NEVROSI? Freud che, contrariamente a quanto si crede, non si appassiona alla medicina di stampo positivista in voga al suo tempo, rifiuta la tesi che la nevrosi sia una malattia del sistema nervoso, e avanza l'ipotesi che la nevrosi sia un «conflitto» tra il mondo delle pulsioni (da lui denominato Es) e le esigenze della società (denominate Super-io) che ne chiedono il contenimento e il controllo. In questa dinamica è possibile scorgere il tragitto dell'umanità e il suo disagio che Freud condensa in queste rapide espressioni che possiamo leggere ne Il disagio della civiltà (1929): «Di fatto l'uomo primordiale stava meglio, poiché ignorava qualsiasi restrizione pulsionale. In compenso la sua sicurezza di godere a lungo di tale felicità era molto esigua. L'uomo civile ha barattato una parte della sua possibilità di felicità per un po' di sicurezza».
Ma da dove Freud trasse questa sua concezione, a dir poco rivoluzionaria, di nevrosi? Non dalla medicina del suo tempo ovviamente, ma dalle intuizioni filosofiche del romanticismo, da Goethe, da Schelling e soprattutto da Schopenhauer, che Freud considera suo «precursore», e a proposito del quale scrive nel saggio Una difficoltà della psicoanalisi (1917): «Probabilmente pochissimi uomini hanno compreso che ammettere l'esistenza di processi psichici inconsci significa compiere un passo denso di conseguenze per la scienza e per la vita. Affrettiamoci comunque ad aggiungere che un tale passo la psicoanalisi non l'ha compiuto per prima. Molti filosofi possono essere citati come precursori, e sopra tutti Schopenhauer, la cui "volontà inconscia" può essere equiparata alle pulsioni psichiche di cui parla la psicoanalisi».
Secondo Schopenhauer, infatti, ciascuno di noi è abitato da una doppia soggettività: la «soggettività della specie» che impiega gli individui per i suoi interessi che sono poi quelli della propria conservazione, e la «soggettività dell'individuo» che si illude di disegnare un mondo in base ai suoi progetti, che altro non sono se non illusioni per vivere e non vedere che a cadenzare il ritmo della vita sono le immodificabili esigenze della specie.
L'io e l'inconscio
Questa doppia soggettività viene codificata dalla psicoanalisi con le parole Io e inconscio. Nell'inconscio occorre distinguere un «inconscio pulsionale» che Freud chiama col pronome neutro latino Es, dove trovano espressione le esigenze della specie, e un «inconscio superegoico» denominato Super Io, dove si depositano e si interiorizzano le esigenze della società.
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Sono esigenze della specie la sessualità, senza di cui la specie non vedrebbe garantita la sua perpetuazione, e l'aggressività che serve per la difesa della prole. Queste due pulsioni, proprio perché sono al servizio della specie, l’Io (la nostra parte cosciente) le subisce, le patisce, e perciò diventano le sue «passioni», che la società, per salvaguardare se stessa, chiede di contenere, nella loro espressione, entro certi limiti. Ciò avviene attraverso l'educazione, durante la quale, interiorizzando i divieti genitoriali, ciascun individuo acquisisce gradatamente i divieti sociali che svolgono una funzione di contenimento dei moti pulsionali.
L'Io dunque «non è padrone in casa propria» perché è abitato da una dimensione inconscia che l'uomo ha sempre evitato di considerare, perché un inganno narcisistico gli ha fatto credere di essere al centro dell'universo, creatura di Dio, e padrone dell'orizzonte dispiegato dalla sua coscienza e dal suo procedere razionale. Scrive in proposito Freud nell’Introduzione alla psicoanalisi (1915-1917): «Nel corso dei tempi l'umanità ha dovuto sopportare due grandi mortificazioni che la scienza ha recato al suo ingenuo amore di sé. La prima, quando apprese che LA NOSTRA TERRA NON È AL CENTRO DELL'UNIVERSO, bensì una minuscola particella di un sistema cosmico che, quanto a grandezza, è difficilmente immaginabile. Questa scoperta è associata per noi al nome di COPERNICO, benché la scienza alessandrina avesse già proclamato qualcosa di simile. La seconda mortificazione si è verificata poi, quando LA RICERCA BIOLOGICA annientò la PRETESA POSIZIONE DI PRIVILEGIO DELL'UOMO NELLA CREAZIONE, GLI DIMOSTRÒ LA SUA PROVENIENZA DAL REGNO ANIMALE E L'INESTIRPABILITÀ DELLA SUA NATURA ANIMALE. Questo sovvertimento di valori è stato compiuto ai nostri giorni sotto l'influsso di CHARLES DARWIN, di Wallace e dei suoi precursori, non senza la più violenta opposizione dei loro contemporanei. Ma la terza e più scottante mortificazione, la megalomania dell'uomo è destinata a subirla da parte dell'odierna INDAGINE PSICOLOGICA, la quale ha l'intenzione di DIMOSTRARE ALL'IO CHE NON SOLO EGLI NON È PADRONE IN CASA PROPRIA, ma deve fare assegnamento su SCARSE NOTIZIE RIGUARDO A QUELLO CHE AVVIENE INCONSCIAMENTE NELLA SUA PSICHE. Anche questo richiamo a guardarsi dentro non siamo stati noi psicoanalisti né i primi né i soli a proporlo, ma sembra che tocchi a noi sostenerlo nel modo più energico e corroborarlo con un materiale empirico che tocca da vicino tutti quanti gli uomini».
Nevrosi e psicosi
Tra le ESIGENZE DELLA SPECIE (ES O INCONSCIO PULSIONALE) e le ESIGENZE DELLA SOCIETÀ (SUPER-IO O INCONSCIO SOCIALE) C'È IL NOSTRO IO, LA NOSTRA PARTE COSCIENTE, CHE RAGGIUNGE IL SUO EQUILIBRIO NEL DARE ADEGUATA E LIMITATA SODDISFAZIONE A QUESTE ESIGENZE CONTRASTANTI, la cui forza può incrinare l'equilibrio dell'Io (e in questo caso abbiamo la nevrosi), o addirittura può dissolvere l'Io sopprimendo ogni spazio di mediazione tra le due forze in conflitto, e allora abbiamo la psicosi o follia.
L'IO DUNQUE AGISCE DA EQUILIBRATORE TRA QUESTE DUE ISTANZE, che possono invadere lo spazio dell'Io in misura maggiore o minore da individuo a individuo. Rispetto a questo schema ideale, ogni invasione dello spazio dell'Io provoca la nevrosi, mentre la psicosi ha luogo quando lo spazio dell'Io è interamente occupato dall'uno o dall'altro inconscio, oppure da entrambi quando vengono a contatto, non rendendo più possibile il governo di sé.
La psicoanalisi, che nel suo momento terapeutico necessita della presenza dell'Io del paziente, può operare solo con la nevrosi, aggiustando le incrinature dell'Io, mentre è impotente con la psicosi, dove inconscio pulsionale e inconscio sociale confliggono corpo a corpo, senza uno spazio di mediazione, e dove l'assenza dell'Io non consente alcuna elaborazione.
Scopo della psicoanalisi è che l'Io (la nostra parte cosciente) sia in grado di guadagnare sempre più spazio all'inconscio, come gli olandesi (l'esempio è di Freud) hanno guadagnato un'estensione della terra sottraendola al mare, perché, scrive Freud nell'Introduzione alla psicoanalisi. Nuova serie di lezioni (1932): «L'intenzione degli sforzi terapeutici della psicoanalisi è in definitiva di rafforzare l'Io, di renderlo più indipendente dal Super-io, di ampliare il suo campo percettivo e perfezionare la sua organizzazione, così che possa annettersi nuove zone dell'Es. Dove era l'Es, deve subentrare l'Io. E questa l'opera della civiltà, come per esempio il prosciugamento dello Zuiderzee». Ma vediamo più in dettaglio questo percorso.
L'inconscio pulsionale e le esigenze della specie
A proposito dell'uomo parliamo di «pulsioni» e non di «istinti» perché l'istinto è una risposta rigida agli stimoli. Se a una mucca mostro una bistecca, la mucca non reagisce, se le mostro un covone di fieno, la mucca si mette a mangiare. Gli uomini non hanno istinti perché non hanno risposte rigide agli stimoli. Lo stesso Freud, che nei suoi primi scritti impiega il termine Instinkt, in seguito lo sostituisce col termine Trieb, che noi traduciamo con «pulsione»: spinta generica a meta indeterminata. Ne è prova il fatto che, per esempio, in presenza di una pulsione sessuale l'uomo, a differenza dell'animale, può accedere a tutte le «perversioni», così come può assegnare alla pulsione sessuale una meta non sessuale, quale può essere un'opera letteraria o artistica. In questo caso Freud parla di «sublimazione».
Chiarita questa differenza, che già Platone, Tommaso d'Aquino, Kant, Gehlen avevano segnalato, Freud si domanda: quali sono le esigenze della specie che si esprimono nelle pulsioni? La procreazione, a cui è preposta la pulsione sessuale, e la difesa della prole, a cui è preposta la pulsione aggressiva.
Freud colloca queste due pulsioni nell'inconscio, ovvero in quel sottosuolo di noi stessi a cui solitamente non prestiamo alcuna attenzione, perché impostiamo la nostra vita a partire dall'Io, dalla sua progettualità, dall'investimento che noi facciamo su di noi, dal senso che cerchiamo di reperire nella nostra esistenza, dimenticando che noi siamo fondamentalmente «funzionari della specie».
Tra l'economia dell'Io e l'economia della specie c'è un profondo conflitto, perché l'Io non si rassegna a essere un semplice funzionario della specie, e perciò per vivere cerca in qualche modo di illudersi, giocando con i suoi pensieri, le sue speranze, i suoi progetti, i suoi scenari di autorealizzazione, nel tentativo di reperire un senso alla propria esistenza, anche se è la specie a determinare e a qualificare le tappe della sua vita che, dopo la nascita e la crescita, prevede la procreazione e infine la morte come vuole la natura per tutti i viventi.

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L'INCONSCIO SOCIALE e la FONDAZIONE DELLA MORALE
Oltre all'INCONSCIO PULSIONALE, dove ci sono le esigenze della specie, esiste anche un INCONSCIO SOCIALE, dove sono espresse le esigenze della società che, come abbiamo visto, confliggono con quelle della specie. Compito dell'Io è tenere l'equilibrio tra queste due istanze tra loro conflittuali, perché se esprimessimo senza freni tutte le nostre pulsioni sarebbe impossibile la convivenza sociale e con essa sarebbero impossibili le condizioni per la costruzione e il progresso della società.
Le istanze sociali trovano espressione nei limiti e nei divieti che ciascuno deve dare a se stesso, onde evitare che la piena esplicazione delle proprie pulsioni porti a uno stato di perenne conflittualità e di sopraffazione continua. Queste limitazioni, secondo Freud, vengono acquisite nell'infanzia attraverso l'interiorizzazione dei divieti genitoriali che il bambino accoglie non per amore dei genitori, ma per un'istanza egoista. I genitori, infatti, sono percepiti dal bambino come la condizione imprescindibile per la propria sussistenza, per cui è vantaggioso attenersi alle loro prescrizioni onde evitare che questa condizione venga meno.
L'introiezione del divieto è quindi un baratto. Il bambino si autolimita perché se i genitori non dovessero essere più suoi alleati, se non dovessero più prestare il loro soccorso, se non dovessero essere più i mediatori del cibo, delle cure e delle attenzioni di cui il bambino ha bisogno, il bambino non sopravvivrebbe. L'interiorizzazione dei divieti avviene dunque su questa base fondamentalmente egoista. Del resto l'amore, al di là dell'enfasi profusa dalla letteratura intorno a questa parola, di fatto è sostanzialmente una relazione con l'altro che risulta vantaggiosa per la propria vita. L'egoismo, che è il tratto costitutivo dell'istinto di conservazione, sa utilizzare anche strategie amorose, nella forma della seduzione o dell'ubbidienza, per garantire la sopravvivenza dell'individuo.
All'inizio il bambino si attiene alle regole solo in presenza dei genitori, e in questo modo segue quella che viene denominata morale eteronoma, tipica di chi assume un comportamento corretto solo in presenza di un sorvegliante che può sanzionare e punire. Non è infrequente constatare che a questo stadio morale si arrestano, anche in età adulta, quanti si attengono alla norma solo in presenza di un controllo o di una sanzione.
Per giungere a una morale autonoma occorre che l'assimilazione del divieto avvenga compiutamente, che il sorvegliante esterno venga interiorizzato, per cui non c'è più bisogno di essere controllati per attenersi alla norma e osservare la legge. Ora dobbiamo chiederci: perché per Freud anche il Super-io è «inconscio»? Perché, una volta interiorizzati i divieti, non è più necessario riflettere su quello che dobbiamo o non dobbiamo fare. Cessano gli indugi a favore di un comportamento automatico, e quindi «inconscio», che più non richiede particolari riflessioni per decidere se comportarci in un modo piuttosto che in un altro.

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Il principio di piacere e il principio di realtà
L'uomo è un animale desiderante, e il desiderio desidera ciò che non possiede, per cui la struttura psichica è regolata da quella dimensione che si chiama «mancanza», come già bene aveva evidenziato Platone nel Simposio dove, abbandonando la tradizione mitologica che parlava di Amore come figlio di Afrodite, dice che Amore è figlio di Povertà (Penìa). Il desiderio, infatti, prevede un intervallo tra ciò che si desidera e l'oggetto che soddisfa il desiderio. Nella copertura di questo intervallo sta la costruzione della psiche.
Giusto per fare un esempio, tutti possiamo constatare che il bambino quando nasce non conosce la distanza tra il desiderio e la sua soddisfazione: quando ha fame viene immediatamente nutrito, quando ha sonno viene immediatamente coccolato e messo a dormire. La soddisfazione immediata del desiderio è chiamata da Freud principio di piacere, che però mal si adatta alla realtà.
Crescendo, siamo in qualche modo costretti a raggiungere la soddisfazione dei nostri desideri attraverso quello che Freud chiama lavoro psichico, che copre la distanza che la realtà impone tra il desiderio e la sua soddisfazione. Col lavoro psichico si accede, secondo Freud, al principio di realtà. La realtà, infatti, ci impone sempre un certo lavoro per raggiungere la soddisfazione dei desideri. L'infantilismo non è altro che la rinuncia al lavoro psichico che, se eccessivamente protratta, determina una regressione al mondo dell'infanzia e quindi a un mancato sviluppo psichico.

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Le fasi dello sviluppo psichico
Nell'infanzia lo sviluppo psichico è scandito da Freud in tre fasi dove si concentra quella che lui chiama libido, che non va intesa solo in termini sessuali, perché il riferimento è a quell'energia psichica che, nelle fasi dello sviluppo infantile, si concentra nelle aperture del nostro corpo, che sono la bocca, l'ano e i genitali.
Nella fase orale la libido si raccoglie innanzitutto nella bocca, perché se non ci fosse un piacere nella suzione, a rischio sarebbe l'alimentazione, dal momento che, per mangiare, bisogna muovere dei muscoli, bisogna fare una certa fatica, che può essere superata solo se compensata da un piacere.
La seconda fase, che secondo Freud prende avvio dopo il secondo anno di vita, è la cosiddetta fase anale, in cui il bambino incomincia ad acquisire una sorta di padronanza del proprio corpo, quando avverte che dipende da lui rilasciare o trattenere le feci. E' questa la prima forma di controllo che, dice Freud, i bambini utilizzano talvolta come forma di gioco, talvolta di ricatto nei confronti delle attese delle madri.
È facile intuire che da una fissazione in una fase o dalla regressione alla fase precedente dipendono molte patologie. Persone fissate o regredite alla fase orale soffrono spesso di disturbi dell'alimentazione o, senza arrivare a queste forme patologiche, mantengono un rapporto privilegiato con la libido orale di continuo sollecitata. Sottesa a questa forma nevrotica c'è, secondo Freud, una carenza d'essere e quindi un bisogno di incorporare, di avere.
Connessa alla fase anale è invece la relazione col potere. In questa fase si formano infatti le personalità leader e le personalità gregarie. Il leader è una figura che non può prescindere dal bisogno del controllo generalizzato del mondo che lo circonda. La sua versione patologica è la «paranoia», ovvero il bisogno di un controllo totale, dove ogni fallimento viene interpretato come l'effetto di una persecuzione ordita da altri.


La terza fase, denominata fase genitale o fase edipica, è per Freud la più significativa, perché caratterizzata da quello stadio dello sviluppo psichico in cui si costituiscono le strutture dell'identità e della relazione.

Il complesso di Edipo
Freud prende spunto dalla tragedia dell'Edipo re di Sofocle, dove è messo in scena il dramma di un uomo giusto che, senza saperlo e senza volerlo, ha ucciso suo padre e sposato sua madre. Freud riprende questo mito e ne fa una tappa dello sviluppo psichico quando, tra i quattro e i sei anni, si guadagnano quelle due dimensioni fondamentali dell'esistenza umana che sono l'identità e la relazione. Se non ho identità non so chi sono, se non ho acquisito la struttura della relazione non so rapportarmi agli altri. Il percorso non è del tutto identico per il maschio e per la femmina.

Edipo e il mondo maschile. Dal punto di vista del figlio maschio, il bambino vuole uccidere il padre e andare a letto con la madre. Non impressioni il linguaggio un po' truculento, dal momento che il nostro inconscio non dispone del linguaggio forbito ed educato della coscienza. Per sedurre la madre il bambino imita il padre: fa tutto quello che dice il papà, gioca e gareggia con lui in un continuo processo di imitazione. Naturalmente il padre si confonde e pensa che tra lui e il figlio si sia creato un magnifico rapporto. In realtà il figlio sta imitando il padre nell'illusione di poter essere alla sua altezza, e quindi in grado di poter fruire dei favori della madre. In questo processo di imitazione, il figlio acquisisce la propria identità maschile, impara cioè a diventare maschio.
Quando poi verifica che non può raggiungere il suo scopo, il bambino, dice Freud, subisce una sorta di castrazione, ossia una frustrazione che ha un effetto depressivo non necessariamente negativo se, per superarlo, il bambino sposta la sua libido dalla madre a un'altra figura femminile sulla quale investirà la sua libido quando, dopo l'età della latenza (che a parere di Freud va approssimativamente dai sei ai dodici anni), la sessualità farà la sua comparsa. Imitando il padre e desiderando la madre, prima rappresentante dell'altro sesso, il bambino, superando il complesso edipico, acquisisce la propria identità e il proprio orientamento relazionale.

Edipo e il mondo femminile. Il complesso edipico femminile, che va pensato rovesciato rispetto a quello maschile (la bambina ama il padre e vuol prendere il posto della madre), è molto più complicato rispetto a quello maschile e più difficile da superare. La ragione va cercata nel fatto che nella madre è molto più evidente che nel padre quella doppia soggettività che nella donna si esprime nell'essere da un lato un Io e dall'altro una funzionarla della specie. Anche il padre ha un Io ed è funzionario della specie, ma di questo secondo aspetto non ne offre un percezione fisica e tantomeno psichica. Ne consegue che, nella costruzione della propria identità, la figlia resta incerta se prendere a modello l'Io della madre o quell'aspetto della madre che la identifica come funzionaria della specie.
Questa ambivalenza si fa ancora più netta quando, nell'età della pubertà, la ragazza, proprio mentre sta acquisendo la sua identità a partire dal suo corpo, che costruisce secondo i suoi desideri e secondo i modelli sociali diffusi, avverte che quel corpo non risponde solo alle esigenze del suo Io, ma anche a quelle della specie. Il processo mestruale interviene come una memoria che dice alla ragazza: tu sei un Io, ma sei anche una funzionaria della specie.
La doppia soggettività, così evidente nella donna e così poco manifesta nel maschio, fa sì che il complesso edipico femminile non è mai totalmente comparabile a quello maschile, non è così preciso e definito. E questa indeterminatezza istituisce nella donna una sorta di ambivalenza, che si riflette sulle sue capacità percettive, cognitive ed emotive molto meno precise di quelle maschili ma, proprio per questo, più complesse, più variegate, più sottili, più capaci di cogliere tutte quelle sfumature psichiche che al maschio solitamente sfuggono.

Il disagio della civiltà
Come è noto Freud non si è occupato solo della psiche individuale e delle dinamiche che la determinano, ma anche della società in cui gli uomini si trovano a vivere e degli effetti nevrotici che la forma che la società va via via assumendo nel suo progresso può determinare nei singoli individui.
Dopo aver negato l'autonomia della coscienza e indicato ai suoi confini un complesso di forze che la condizionano, Freud legge ogni espressione culturale espressa dall'umanità come una sublimazione delle pulsioni, la cui forza viene deviata dalla meta sessuale, alla quale esse naturalmente tendono, per essere indirizzata verso creazioni a cui è riconosciuto quel valore che si chiama «cultura». In un saggio del 1908 intitolato La morale sessuale «civile» e il nervosismo moderno Freud scrive:
«La pulsione sessuale mette a disposizione del lavoro culturale delle quantità di energia estremamente grandi; e ciò è dovuto alla peculiarità particolarmente accentuata in essa di poter spostare la sua meta senza ridurre sensibilmente la propria intensità. Questa capacità di scambiare la meta sessuale originaria con un'altra meta che non è più sessuale, ma è psichicamente imparentata con la prima, viene chiamata capacità di sublimazione».
Se la civiltà nasce dalla repressione e dalla sublimazione delle pulsioni, procede in base a esse e di esse si nutre, ne consegue che la felicità consiste nella piena esplicazione delle pulsioni, e che la libertà è tanto maggiore quanto minore è la repressione delle pulsioni. Scrive infatti Freud ne II disagio della civiltà (1929): «La libertà individuale non è un frutto della civiltà. Essa era massima prima che si instaurasse qualsiasi civiltà, benché in realtà a quell'epoca non avesse mai un grande valore, in quanto difficilmente un individuo era in grado di difenderla. La libertà subisce delle limitazioni a opera dell'incivilimento, e la giustizia esige che queste restrizioni colpiscano immancabilmente tutti».
Il problema però è la misura della restrizione pulsionale. Può accadere, infatti, che una società sia troppo severa in termini di regole, convenzioni, divieti, generando quel «disagio della civiltà» che Freud così descrive: «Oltre agli obblighi, cui siamo preparati, concernenti la restrizione pulsionale, ci sovrasta il pericolo d'una condizione che potremmo definire "la miseria psicologica della massa". Questo pericolo incombe maggiormente dove il legame sociale è stabilito soprattutto attraverso l'identificazione reciproca dei vari membri [...]. La presente condizione della civiltà americana potrebbe offrire una buona opportunità di studiare questo temuto male della civiltà. Ma evito la tentazione di addentrarmi nella critica di tale civiltà; non voglio destare l'impressione che io stesso ami servirmi dei metodi americani».
In questo rapido accenno al «legame sociale stabilito per identificazione reciproca dei vari membri», Freud anticipa la diagnosi che Herbert Marcuse farà nel 1964 con L'uomo a una dimensione, dove, pur nella differenza della terapia, si conferma l'ipotesi freudiana secondo la quale «l'uomo ha barattato una parte della sua possibilità di felicità per un po' di sicurezza». Il mito della sicurezza è un mito particolarmente sentito oggi, ma non dobbiamo dimenticare che la sicurezza richiede un impianto di regole che, quando diventa eccessivo, comprime la vita, e anche la felicità.
Luogo eminente delle regole, delle convenzioni, delle pratiche e delle azioni descritte e prescritte è il mondo della tecnica, che Freud ai suoi tempi non poteva prendere in considerazione, ma che noi oggi non possiamo evitare di considerare e inserire in quel tema della sicurezza da lui segnalato. La tecnica, infatti, è un impianto di regole molto rigoroso, che assume a modello la macchina, rispetto alla quale gli uomini sono inferiori in termini di efficienza, precisione, regolarità.
La pervasività di questo modello può far pensare che, oltre che dall'inconscio pulsionale e dall'inconscio sociale segnalati da Freud, l'uomo oggi è condizionato anche da una sorta di inconscio tecnologico, che non gli consente di essere davvero se stesso, quanto piuttosto un semplice funzionario dell'apparato di appartenenza, dove più che il suo nome proprio, conta la sua funzione, il suo ruolo. Ne consegue che, oltre a essere funzionari della specie, come Freud ci ha segnalato, oggi siamo anche funzionari di apparati che ci impongono azioni che non sono più propriamente nostre, perché sono quelle descritte e prescritte dall'apparato di appartenenza.
Questo concetto di «inconscio tecnologico», che mette rigorosamente tra parentesi la nostra soggettività, ci consente di accedere a quell'altro grande esponente della psicoanalisi del Novecento che è Jung, il quale indica come scopo della pratica psicoanalitica quello di diventare se stessi al di là delle maschere, al di là dei ruoli, al di là delle funzioni che la società tecnologicamente avanzata esige da noi, per la sua economia e non per la nostra economia.

Lo sguardo di Bleuler e Jung sul rapporto tra ragione e follia
Freud era un neurologo, Jung uno psichiatra, allievo di Eugen Bleuler che aveva ribattezzato quella che allora era considerata una «demenza precoce (dementia praecox)» col termine schizofrenia. Sottesa a questo cambio di denominazione c'era la persuasione che noi nasciamo sostanzialmente «schizofrenici», abitati da molte personalità, da molte figure, da un teatro di demoni che Bleuler chiama «complessi autonomi». Tra questi, l'Io è il complesso autonomo che instaura il miglior rapporto con la realtà e riesce a contenere tutte le altre personalità latenti.


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Umberto Galimberti racconta - Freud, Jung e la psicoanalisi 

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