sabato 18 febbraio 2012

La Ricchezza del Pensiero nei Processi Evolutivi della Scienza


http://www.ceepsib.org/Filosofia.html

"Le domande dell'uomo saggio contengono già la metà delle risposte"
R.W.Emerson

La Ricchezza del Pensiero nei Processi Evolutivi della Scienza

Indice: Il prodigio del linguaggio – La diffusione dell’alfabeto - L’epoca delle colonie – La scuola di Mileto – Talete il saggio - L’enigma dei numeri – Il mistero dell’inizio - L’audacia della dimostrazione – Il pozzo di Talete – Gli albori dell’occidente - AristoteleLogica e filosofia – Fisica e metafisica - L’ordine del mondo - L’essenza del movimento – Energia e dinamica – Essenza del tempo - Platone, Aristotele e il dialogo – La dottrina delle categorieLo spirito del filosofo – Teoria e prassi – Platone - L’anima e i numeri - L’idea del bene - L’arte della dialettica – La settima lettera - L’armonia del bello – La misura delle cose – Il Teeteto e la conoscenza - L’istante dell’intuizione – Epicureismo e stoicismo – La formazione delle scuole – Il giardino di Epicuro - L'epoca dell’ellenismo – Nel solco di DemocritoLa consapevolezza dei limiti – Il poema di LucrezioIl porticato degli Stoici – La libertà dalle passioni - L'attualità dello Stoicismo – Caso e volontà ordinatrice – Da Eraclito a Socrate – Il fulmine governa ogni cosa - I confini dell’anima – Le contaminazioni della Chiesa - L’autenticità dei testi – Il logos dell’unità – Empedocle e Zenone – Socrate in Sofista – Socrate l’educatore – La realizzazione di un idealeLe scienze dell’esperienza - Il metodo della conoscenza - L’esperimento e il fatto – Verità scientifica e verità metafisicaLa filosofia come sistema – Il pensiero e l’estensioneIl sogno delle monadi - L’ottimismo della ragione - Il pessimismo della ragione – Kant e la fine del sogno dogmaticoLa fine del sogno dogmatico – La teoria dell’abitudineLa necessità dei concetti – La possibilità dell’esperienza - L’apriori e la casualità – La deduzione trascendentale - I limiti della ragione – La fondazione della moraleDovere e responsabilità – La sofistica delle passioni - Da Kant a Fichete – Un geniale guardiano di ocheIl vigore morale della ragione – La libertà dell’autocoscienza - L’autonomia della morale - L’io e il non ioLe disposizioni di un nazionalista – Il superamento di KantIl sapere del genio – La finalità del giudizio - L’organismo del vivente - Conclusioni - Hegel il genio della conciliazione – Il genio della conciliazione – Il vero il bene il bello – Il positivo e il negativo – La vita dello spirito – La forza del destino – La molla del pensiero – Il senso della vita – Parmenide - Senofane il rapsodo – Il poema di Parmenide – La questione del Nulla – Il pensiero dell’Essere - L’equilibrio degli opposti – Unità e molteplicità – Essere e Divenire - L’unità della diversità

Epistemologia

Indice: Introduzione - Epistemologia nel XX secolo – Hume - Le rivelazioni di Karl Popper - Karl Popper e la ragione incerta - Iniziative per il centenario della nascita del grande filosofo austriaco - Kuhn

Neopitagorismo e Relatività
Indice: Il “ritorno” a Pitagora - “Gaussbuster” ovvero all’origine della metafisica moderna - L’eredità di Gauss: dalla “perdita dell’intuizione” alla “libertà cantoriana” - Dagli assiomi ai postulati: il programma di Hilbert tradotto in fisica - Conclusioni: le basi metafisiche della teoria della relatività
"Filosofia" è una parola greca. Perciò ha senso chiedersi perché ciò che anche noi oggi chiamiamo "filosofia" sia venuto alla luce in un determinato momento della storia dell’umanità. Bisogna dire, infatti, che in molte culture (sotto forma, certo, di tradizioni religiose, di cicli leggendari e altro ancora) si trovano risposte alle questioni ultime della vita umana: il mistero della morte, il miracolo della nascita, infinite forme di organizzazione religiosa della vita, di inserimento degli adolescenti, ormai maturi, nel gruppo e nella società – tutte queste cose rappresentano ovviamente un patrimonio culturale comune. Però è soltanto in un’unica cultura antica europea, anzi, quasi ai margini dell’Europa, che nasce la "filosofia" – come parola e come problema.

IL PRODIGIO DEL LINGUAGGIO
Che cos’ha di peculiare questo interesse che ci lega alla filosofia? Certamente… questa è una domanda alla quale possiamo dare qualche risposta solo per grandi linee, offrendo magari un’idea di che cosa fosse la Grecia in quei secoli passati, in cui si fecero i primi passi verso la fondazione di quell’insieme di questioni e dottrine filosofiche dell’Occidente (e ormai dell’intero pianeta) che rappresentano per noi oggi la filosofia nel suo complesso. Se vogliamo farci un’immagine di tutto ciò, questa è la prima cosa da considerare, tanto più al giorno d’oggi, visto che abbiamo cominciato a tener conto degli immensi intervalli di tempo della storia della Terra o addirittura della storia dell’universo. Da quando, insomma, la fisica ha cominciato a presentarci il Big bang come vero inizio di strutturazione del sistema cosmico di cui fa parte il nostro pianeta, sorge spontanea una domanda: se alle nostre spalle c’è l’intera storia dell’evoluzione di questi sistemi di corpi celesti, e infine la nascita stessa della vita sul nostro pianeta, … se questo è il metro con cui misuriamo le nostre origini, allora è davvero sorprendente che la tradizione del pensiero umano abbia potuto produrre in pochi secoli l’intero complesso di ciò che chiamiamo filosofia. Non c’è dubbio che fu innanzitutto il linguaggio il primo grande prodigio nell’evoluzione dell’umanità. Noi naturalmente non sappiamo quando sia nato, ma la scrittura… – di questa e della capacità figurativa possiamo fissare un inizio: di tali segni e tracce rimane infatti testimonianza. Abbiamo scoperto pitture rupestri, abbiamo trovato iscrizioni, forme di scrittura del testo parlato anche agli albori della grecità, ma ciò che chiamiamo filosofia, e che ha rappresentato l’evoluzione del pensiero occidentale nel flusso ininterrotto della tradizione, ha certo invece una storia relativamente recente. Questa storia comincia a un certo punto…. Sappiamo naturalmente che la Grecia, così come gli altri Paesi europei, è stata colonizzata dal movimento migratorio e culturale dei popoli indoeuropei. È nota pure la preesistenza in quelle regioni di altre grandi culture, più prossime alle origini anche agli occhi degli stessi Greci. C’è un passo stupendo nel Timeo di Platone in cui Solone, uno dei più grandi statisti ateniesi, giunto in Egitto vede qualcosa che lo interessa, al punto tale da chiedere: "Ah, fanno anche qui come noi?" E allora il sacerdote del posto gli risponde: "Voi Greci siete sempre rimasti fanciulli! Non riuscite a capire quanto tardi siate arrivati nella storia della nostra vita culturale".

LA DIFFUSIONE DELL’ALFABETO
Dunque, è vero che la tradizione scritta comincia assai tardi, ma l’autentico passo avanti è segnato piuttosto da qualcos’altro, cioè dalla particolare forma in cui si sviluppò in Europa – in questo caso in Grecia – l’alfabeto, ovvero la nuova scrittura alfabetica. Si tratta di un processo che ci lascia davvero con il fiato sospeso, se pensiamo, oggi, che nel giro di pochi decenni l’alfabeto creato in Asia minore – con poche correzioni e modifiche – è diventato quell’ABC di cui tutti conosciamo almeno la prima e l’ultima lettera: l’alfa e l’omèga. Questa evoluzione dell’alfabeto ha portato in brevissimo tempo a una trasformazione della tradizione orale relativa a leggende,… miti,… storie di dèi e di eroi, memorie di grandi eventi come per esempio la guerra di Troia, testimonianze esistenti già prima che ci fosse la possibilità di una registrazione scritta. Lo stesso si può dire, ovviamente, anche per quanto concerne la storia ebraica delle origini, ovvero tutto ciò che conosciamo dall’Antico Testamento. Quando io ero giovane, la storiografia collocava ancora la preistoria del popolo ebraico (e quindi anche della coscienza storica occidentale) subito dopo le dinastie regnanti egizie. Oggi sono al centro della nostra attenzione ipotesi di un inizio ancora più remoto; ma un fatto è tangibile: l’alfabeto; grazie al quale anche il racconto di Omero (il grande epos della guerra di Troia e del ritorno di Ulisse) è diventato uno dei testi fondamentali della letteratura universale. Dopo di lui, Esiodo attinge la storia della tradizione religiosa ancora più indietro nel tempo, agli albori della leggenda. Si tratta di memorie già esistenti, evidentemente. In che tipo di cultura, in quale ambiente, è maturato tutto ciò? La provenienza dell’alfabeto dal Vicino Oriente ci offre già una risposta: la navigazione, il commercio. Anche da un punto di vista geografico, è nel mare Egeo, in questo lembo più orientale del Mediterraneo, che si trovano i luoghi in cui la filosofia conobbe le sue prime testimonianze. Ciò accade in un momento della storia greca che chiamiamo epoca delle colonie.

L’EPOCA DELLE COLONIE
Oggi l’espressione "età coloniale" ha assunto ormai un sapore politicamente negativo: siamo consapevoli dei limiti della cosiddetta "civilizzazione", che l’Europa ha preteso offrire nell’età moderna. Ma il tempo delle colonie greche fu in realtà assai diverso. In quell’epoca si era già largamente profilata la differenza tra aristocrazia di campagna e artigianato in città, e fu proprio in questo periodo che i Greci avviarono un’ampia politica di colonizzazione, di fondazione di nuove città; in questo arco di tempo essi distribuirono per tutto l’ambito del Mediterraneo una moltitudine di giovani, imbarcati su navi greche. È noto che sulle coste dell’Asia minore si trovavano grandi città come Mileto ed Efeso – di cui torneremo a parlare – e lo stesso vale per la cosiddetta Magna Grecia, e cioè la Sicilia, il Meridione italiano, il Sud della Spagna, il Nord dell’Africa… la Francia meridionale. Dovunque troviamo colonie greche: questo è il nome dato a insediamenti che divennero vere e proprie città greche, caratterizzate dalla laboriosità artigianale greca, dall’arte della navigazione e dalla cultura dei Greci, secondo il modello delle pòleis di provenienza che avevano ispirato queste nuove fondazioni,… come per esempio le grandi e fiorenti città commerciali, quali appunto Mileto ed Efeso, sulle coste dell’Asia minore.
L’inizio della filosofia non ebbe luogo nel nucleo originario della terra natìa, in quella che chiamiamo la patria greca. Atene è certamente il punto culminante in cui si concentrò la cultura greca con le sue arti e scienze, ma ciò avvenne relativamente tardi. L’inizio del pensiero greco ebbe luogo invece nelle città portuali dell’Egeo, in un periodo nel quale erano ormai evidentemente in declino i precedenti dominatori di questi porti commerciali e navali, vale a dire i Fenici, probabilmente i responsabili della diffusione dell’alfabeto in Grecia. Essi si ritirarono, attestandosi sulla costa settentrionale dell’Africa, dove sopravvissero molto a lungo nella storia di Cartagine. Adesso dunque ci è noto, approssimativamente, dove il primo filosofo sollevò il capo – per usare un linguaggio figurato… anche un po’ poetico. Ma non sappiamo affatto in che modo ciò sia avvenuto. Tutto quello che conosciamo dei primi pensatori deriva da una ricostruzione appositamente creata, escogitata, ad Atene, trasmessa poi nei suoi tratti fondamentali da Platone e Aristotele, e che in seguito ha subìto ulteriori integrazioni da parte dei loro commentatori eruditi.

LA SCUOLA DI MILETO
Ho già menzionato Mileto: uno dei grandi porti sulla costa dell’Asia minore. Queste città esistono ancora oggi, anche se solo in forma di ruderi, tanto più che i porti sono già da tempo insabbiati e non possono più avere l’importanza di un tempo. Anche la scoperta di Troia, nella stessa area, a Nord, nel punto di transito per il Mar Nero, fa parte ormai del patrimonio culturale di tutti. È noto che ci fu una guerra tra Greci e Troiani per motivi mitici, leggendari – del resto, le ragioni delle guerre rimangono per lo più ignote! Ebbene, Mileto è la prima di queste città della quale sappiamo qualcosa di più preciso, si parla, infatti, persino di una "scuola di Mileto". Quali fonti ci parlano di questa scuola di Mileto? Aristotele innanzitutto: pensatore tardo… dell’epoca classica,… la cui vasta erudizione era rivolta anche alla tradizione greca, e che, nel confrontarsi con il suo celebre maestro, Platone,… si è interessato particolarmente agli inizi del pensiero greco. È naturale però, che quando qualcuno si occupa di qualcosa, finisca per ritrovarvi quello che gli interessa. Ed è proprio questo che accade ad Aristotele. In sèguito avremo modo di dire perché Aristotele sia stato attirato proprio dai primi pensatori greci che – come Talete – avevano individuato nell’acqua l’elemento primo che tutto regge, tutto copre e tutto vivifica.… Sappiamo anche di altri uomini di pensiero, che hanno considerato l’aria come il primo elemento sostanziale; è quello che si dice di Anassimene. Ma perché proprio l’acqua e l’aria? Questo è facile da capire: è evidente che la vita dipende dall’acqua, soprattutto nei Paesi meridionali è impossibile dimenticarlo, anche solo per un momento. Allo stesso modo si dovrà pensare che la vita dipende dall’aria. Così si genera una sorta di circolazione: dall’acqua all’aria, il vapore; dal ghiaccio e dalla neve alle forme più aeree, come l’alito di brezza o il vento di burrasca. Si comprende allora, come sia stato possibile dire: "questo è stato l’inizio!", oppure: "questo è il tutto!". In origine c’era l’acqua o l’aria, e in seguito, grazie alla loro evoluzione, in una sorta di cosmogonia, si è giunti al nostro mondo ordinato.
"Cosmogonia" è di nuovo un’espressione greca; mi dispiace dover citare così tanti termini greci, ma è appunto la Grecia ad aver maturato il linguaggio della filosofia, trasmettendocelo in eredità. "Cosmogonia" significa nascita del cosmo, genesi dell’ordine del mondo.… Tutto ciò ricorda molto ciò che interessava Aristotele, e avremo ancora occasione di mostrare come, in effetti, tale tradizione sia stata ordinata e presentata in base a determinati concetti nei quali, con buona approssimazione, riconosciamo più che altro Aristotele, e non tanto ciò che egli intende descrivere con essi.…

TALETE IL SAGGIO
Di Talete sappiamo in realtà qualcosa. Ci è noto, innanzitutto, che era un eminente cittadino di Mileto, grazie ai suoi grandi meriti: si dice che egli seppe prevedere un periodo di siccità, oppure un raccolto abbondante, e in questi casi consigliava di immagazzinare i prodotti, in modo da evitare il pericolo di carestie. Uno come lui era considerato saggio agli occhi della sapienza greca, più ancora che a quelli della filosofia. Di lui sappiamo anche un’altra cosa: elaborò un teorema matematico sull’angolo retto e il triangolo. Questo è già un primo segnale di allarme: qui comincia qualcosa di nuovo.
Nella storia dell’umanità, almeno in quella del nostro mondo occidentale, ivi compreso il Vicino Oriente, troviamo indubbiamente che l’osservazione delle stelle fu decisamente precoce: possediamo antichissimi inventari delle eclissi solari, giacché una delle grandi esperienze di terrore dell’umanità primitiva era la visione del sole che si oscura. Vi si riconoscevano segni premonitori per il futuro e perciò, per esempio a Babilonia, esisteva una casta sacerdotale che nelle sue tabelle aveva già registrato una sorta di ricorrenza ritmica di queste eclissi solari (e ciò non è privo di importanza per le ingegnose previsioni della siccità attribuite a Talete). Un altro aspetto importante era l’alto grado di perfezionamento pratico raggiunto in Egitto dall’agrimensura, e quindi dalla geometria, in quanto il faraone aveva bisogno di riscuotere tasse, e queste erano legate alla misurazione del terreno agricolo fertile. Per poter effettivamente calcolare l’estensione di terreno agricolo fertile, i geometri egiziani, i "misuratori della terra" – questo significa letteralmente la parola "geometra" – conoscevano il sistema più semplice: suddividere il terreno in tanti triangoli. Da qui si è sviluppata la trigonometria, con tutto il complesso di nozioni che conosciamo come geometria euclidea, la scienza fondamentale dei Greci. Ora, per tornare a Talete, si racconta che egli avrebbe enunciato una determinata verità geometrica, che non è necessario spiegare in questa sede. Di essa si disse, con ragione: "È una banalità! Gli egiziani lo sapevano già da tempo!". Un matematico olandese, un mio caro amico, van der Warden, ne ha tratto la giusta conclusione, che cioè Talete non avrebbe scoperto questo principio, bensì avrebbe cercato, per primo, una dimostrazione in grado di fondarlo. Ecco, questa è, per così dire, la prima espressione che contraddistingue lo spirito greco e – in realtà – lo spirito scientifico dell’Occidente.

L’ENIGMA DEI NUMERI
La geometria e il prodigio dei numeri… sono davvero questioni che esercitano grande fascino su tutti i pensatori. Ancora oggi è difficile sottrarsi alla riflessione di fronte all’enigma del numero. Si pensi ad esempio ai numeri primi, a questa singolare particolarità, di cui abbiamo anche una prova certa (come ha dimostrato la matematica moderna), che cioè i numeri proseguono all’infinito: infatti esiste sempre un numero maggiore – e sembrerebbe che ciò non dipenda da nient’altro se non dal fatto che noi seguitiamo ad aggiungere! Esatto! Eppure ci sono certamente… numeri primi, che cioè non sono divisibili per due. Perché mai esistono questi numeri, se in fondo noi non facciamo nient’altro che contare, aggiungendo, da uno a due, a tre, a quattro, e così via all’infinito?
Credo che qui siamo di fronte a un primo problema scientifico, che ha certamente dato da pensare: Talete fornisce la prova di un principio geometrico di per sé evidente. Ma a questo si aggiunge un secondo aspetto, un’osservazione che io stesso ho fatto. Di Talete si tramanda che avrebbe dimostrato come determinate cose galleggino sull’acqua riaffiorando sempre, anche se spinte verso il fondo. Possiamo sperimentarlo in qualsiasi piscina: ad esempio, una trave riemerge ogni volta, e per quanto un giovane si sforzi di spingerla verso il fondo, la trave ritorna sempre a galla. – Che cosa succede? Qui si manifesta un principio, una questione che certamente ha impegnato l’umanità fin dall’inizio: come mai la Terra su cui abitiamo rimane in equilibrio? Che si tratti di un disco, o di una sfera, o comunque la si possa immaginare, il problema rimane. La mitologia racconta che un gigante, un certo Atlante, fosse stato condannato dal dio supremo a reggere la Terra, sostenendola sulle sue spalle da atleta. Gli indiani raccontano un’altra storia, … di un elefante… che sta su una tartaruga. Ma, comunque stiano le cose, è evidente che questa storia che si narra di Talete va intesa nel senso della enunciazione di un principio fondamentale: la terra è in equilibrio. E questo principio è stato tramandato: Anassimandro parla di un "disco terrestre", e così via, fino a quando non si è riusciti a individuare finalmente la forma sferica della terra.
Qui prende il via per la prima volta la riflessione sull’ordine del mondo, una sorta di cosmogonia che non racconta più storie di dèi, né saghe leggendarie, bensì, in sostituzione di quelle tradizioni mitiche, osa proporre ipotesi audaci su come, a partire da fatti esistenti e osservabili, si sia progressivamente sviluppato e formato l’ordine del mondo che conosciamo, l’ordine celeste, i rapporti tra mare, aria e terraferma, e così via.

IL MISTERO DELL’INIZIO
Evidentemente la filosofia greca si è sviluppata da questo primo grande studio dell’ambiente, sempre più arricchito da molte osservazioni, fino a diventare una teoria cosmogonica. È naturale che ad una comunità di marinai facciano capo un’infinità di esperienze: si conoscono fossili, si incontrano strani animali o abitudini singolari – è una specie di immensa curiosità per il mondo, quella che sorge in queste antiche e audaci città marinare. Il termine greco per questo sapere è "historíe", che non significa "storia", quanto, piuttosto "sete di sapere", cioè una curiosità che vuole assimilare tutto ciò… che è osservabile nel mondo.
A proposito di questi uomini di Mileto e delle località vicine si parla della cosiddetta "scuola di Mileto". Questa è ovviamente la tipica proiezione all’indietro che fanno sempre i maestri di scuola, e così anche Aristotele, "il maestro di color che sanno", come lo ha chiamato Dante. Aristotele ha anche retrodatato la nascita delle scuole di pensiero – di una delle quali egli stesso fu fondatore eminente – facendo di queste grandi figure di pensatori della tradizione, altrettanti iniziatori di scuole. Naturalmente non esisteva affatto una "scuola di Mileto": poteva forse trattarsi di una tradizione di famiglia, o magari soltanto di un paio di personaggi di spicco che in seguito, usando retrospettivamente categorie successive, furono insigniti del titolo di capiscuola. Senza dubbio erano patrizi provenienti da famiglie agiate, che potevano effettivamente coltivare questo interesse del tutto teoretico, questa passione per la conoscenza del mondo. E in fin dei conti si vedrà che la cosiddetta "scuola di Mileto", ovvero questo determinato modo di pensare, ha osato per la prima volta interrogarsi su qualcosa di affatto sorprendente: che cos’è il tutto? Come si è formato il tutto? Come è sorto quest’ordine cosmico? – Sono questioni che affondano nel mistero dell’inizio. C’è un celebre passo di Aristotele che afferma: "L’inizio è la metà del tutto". Un proverbio tedesco dice: "Ogni inizio è difficile". Comunque sia, possiamo osservare che furono posti questi interrogativi, caratterizzati da un originario interesse teoretico per l’ordine del mondo, vere e proprie questioni-limite. Come il problema-limite della morte, sospeso al di sopra di ogni vita umana, rappresenta per le religioni un punto di partenza imprescindibile che alimenta speranze e promesse, così vi sono altri problemi di questo tipo: che cosa c’era prima del "Big bang", prima della grande esplosione? È una domanda che certo fa sorridere i fisici, eppure nessuno può fare a meno di porsela. I primi pensatori greci si sono occupati criticamente di tali questioni fondamentali, in alcuni testi che sono giunti fino a noi.

L’AUDACIA DELLA DIMOSTRAZIONE
L’inizio di questa curiosità scientifica per il mondo affonda naturalmente le sue radici nelle altre grandi culture dell’Asia anteriore. Noi non pensiamo più che il mondo abbia avuto inizio con la creazione di cui riferisce l’Antico Testamento, come ancora si riteneva ai tempi dell’Umanesimo classico o dell’Umanesimo cristiano, all’inizio dell’età moderna. Nel racconto biblico riconosciamo una verità religiosa, non certo una conoscenza scientifica. E naturalmente oggi riusciamo a penetrare, per molti aspetti, anche in altri ambiti, grazie all’ampliamento che a poco a poco ha interessato la conoscenza storica del passato… e grazie alle attive ricerche di archeologia preistorica. Gli scavi archeologici sono stati un altro dei grandi eventi della storia e per la storia dell’umanità. Ovunque ci imbattiamo in tracce di vita vissuta e, un po’ alla volta,… questa tradizione, ricostruibile attraverso rovine e relitti, si mescola con il nostro orizzonte storico mediato dalla tradizione scritta, e quindi dall’alfabeto e dagli alfabeti. Se osserviamo le cose da questa prospettiva,…allora sì, [che] risulterà evidente la nuova conquista dei Greci. Essi appresero dagli Egiziani innumerevoli conoscenze, ereditarono dai matematici babilonesi tecniche importanti per le equazioni, per la teoria delle equazioni, quindi per l’algebra, come diremmo oggi.
Eppure soltanto i Greci raccolsero questi materiali, come nel caso di Talete, in un concetto del sapere e, per così dire, in un ideale di scienza, così formulabile: bisogna dimostrare ciò che si asserisce. Ed è noto a tutti che in effetti il grande, definitivo risultato di questo ideale di dimostrazione (che ha portato alla prima forma di scienza) ha conservato tutto il suo valore fino ai nostri giorni grazie alla logica di Aristotele, conoscendo negli ultimi due secoli un sorprendente processo di affinamento e differenziazione. In ogni caso, grazie a tutto ciò, oggi sappiamo che in quelle città commerciali (con i loro traffici mondiali, con quel miscuglio di conoscenze provenienti da tutto il mondo conosciuto) si è manifestata anche l’audacia dell’indagine scientifica.
IL POZZO DI TALETE
E qui posso ricordare un altro episodio a proposito di Talete. Certa manualistica ricorre spesso e volentieri a un aneddoto che si racconta di lui, quasi per riconoscervi con soddisfazione, già nell’antichità più remota, l’archetipo del professore distratto. Si dice che Talete sarebbe caduto in un pozzo e che una servetta tracia lo avrebbe aiutato a venirne fuori, visto che da solo non ci riusciva. Questa storia nasce nel contesto di una critica teoretica, rivolta all’assurdità di un’esistenza ingenuamente teoretica. Gli spiriti pratici raccontano sempre con piacere qualche strano aneddoto sugli uomini di pensiero, e, com’è noto, anche sui professori. Che cosa accadde, in realtà? Oggi lo sappiamo con una certa precisione. Naturalmente Talete non cadde nel pozzo, ma si calò in un pozzo asciutto, perché questo era il "cannocchiale" degli antichi. Grazie infatti alla schermatura offerta dalle pareti della cavità, si può registrare con grande precisione l’orbita delle stelle così inquadrate, riuscendo inoltre a vedere molto più che a occhio nudo: una sorta di vero e proprio cannocchiale greco. Quindi non siamo affatto di fronte a uno sbadato che cade in una buca. La verità è un’altra, e in realtà questo aneddoto rende onore all’audacia del pensiero, costretto prima a servirsi di uno scomodo azzardo, come quello di calarsi in un pozzo, e poi a rimettersi all’aiuto di qualcun altro per uscirne.
Audacia teoretica e passione per il sapere vengono espresse in questo aneddoto quasi con la stessa efficacia con cui esso comunica anche il desiderio della tarda antichità di farsi beffe della stravaganza dei sapienti.
Vedremo però che questa vasta conoscenza del mondo, conservata in innumerevoli testimonianze, e poi sviluppata da Anassimandro ed Anassimene (cioè dalla "scuola di Mileto", come è stato detto) divenne certamente il presupposto primario affinché le questioni fondamentali, da sempre un rompicapo per la riflessione umana, venissero affidate a vie di soluzione razionale, sempre più di competenza del pensiero, del pensiero concettuale.
GLI ALBORI DELL’OCCIDENTE
La tradizione scritta dei Greci fu senza dubbio segnata dalle epopee di Omero e di Esiodo. È certo, però, che fin dagli albori ebbe inizio anche la trattatistica, anche se Talete, come ci viene riferito, non avrebbe lasciato alcuno scritto, il che nel suo caso è molto probabile.
Ma sorprendentemente abbiamo un testo antico che, per così dire, demarca l’inizio di tutti i testi di filosofia. Altrimenti, infatti, ci sarebbero note solo singole proposizioni filosofiche. Invece, appunto, possediamo anche un testo antico, ed è il caso di presentarne brevemente la storia. Si tratta del cosiddetto Poema di Parmenide. Su Parmenide dovremo render conto in dettaglio, perché qui abbiamo un testo vero e proprio – e un testo è altra cosa rispetto a una semplice frase. Una frase non è un testo. "Testo" significa, come dice la parola stessa, "ciò che è intessuto in un intero", l’intreccio di un intero, un ampio percorso di pensiero. Si tratta di un testo che troviamo all’interno di un commento ad Aristotele, ricopiato dall’ultimo erudito dell’Accademia platonica nel periodo bizantino, nel sesto secolo, allorché l’Accademia fu sciolta per decreto di Giustiniano. Dai tempi di Platone, nel quarto secolo avanti Cristo, fino al sesto secolo dell’era cristiana, operò ad Atene l’Accademia, nella quale avevano studiato, è inutile dirlo, anche molti Romani. L’erudito si chiamava Simplìcius, e il nome di questo dotto aristotelico fu in seguito usato con derisione da Galilei: Simplìcius significa infatti "sempliciotto": in latino simplex vuol dire semplice. Ma questo "sempliciotto" era un uomo assai colto, e in occasione della chiusura dell’Accademia aveva trovato il manoscritto che riportava il Poema di Parmenide. Egli ebbe cura allora di ricopiarne un brano – un passo significativo, sul quale torneremo. Dunque, possediamo un unico scritto in sé concluso della filosofia greca anteriore a Platone o a Socrate. Esso ci darà modo di osservare i primi passi della filosofia in senso proprio.
Siamo di fronte a un sentiero particolare, a un cammino: qui infatti la conoscenza del mondo – quella curiosità onnivora che abbiamo osservato nei Greci, e che procede in tutte le direzioni per superare ogni frontiera – si avvia in un percorso in cui trovano espressione quei problemi-limite, quella conoscenza del mondo alla quale nessuna esperienza può condurci. Il Poema di Parmenide deve quindi essere il primo oggetto di un approfondimento più preciso, insieme con un contemporaneo di Parmenide, Eraclito, che, in un contesto analogo, dovremo considerare come uno dei padri del concetto occidentale di filosofia.
ARISTOTELE
Tra i membri dell’Accademia fondata da Platone c’erano molti personaggi di rilievo,… soprattutto giovani, che, grazie al dialogo educativo condotto da Platone con i suoi allievi per tutta la vita, maturarono straordinarie conoscenze e capacità. Uno di questi giovani fu Aristotele. Era figlio di un medico macedone… e studiò nell’Accademia. Di lui si racconta che un giorno, essendo malato, non prese parte a una piccola discussione di gruppo; e allora Platone avrebbe detto: «Oggi è mancato lo spirito».… In effetti, i due ebbero fin dall’inizio… un legame profondo. In seguito Aristotele diverrà celebre come critico della dottrina delle idee, anche se la principale obiezione mossa a Platone sarà introdotta da un’affermazione diventata a sua volta famosa:… «Sono amico di Platone, ma più ancora sono amico della verità».
Chi fu dunque Aristotele? Dotato fin da giovane di eccellenti qualità intellettuali, iniziò presto a insegnare nell’Accademia, occupandosi soprattutto di retorica. Egli proseguì in tal modo l’opera di rivalutazione e riabilitazione della retorica avviata da Platone nel Fedro; senza dubbio, questo suo interesse particolare, testimoniato anche dalle lezioni sulla retorica e da altri scritti, diede vita a una vera e propria antropologia, a una sorta di dottrina filosofica dell’uomo, e non a un semplice manuale tecnico di eloquenza. Egli realizzò il vecchio programma del Fedro, secondo il quale chi vuole tenere un buon discorso deve aver di mira innanzitutto gli individui ai quali si rivolge e sui quali vuole far presa.
LOGICA E FILOSOFIA
Aristotele fu ben presto incaricato di occuparsi anche delle lezioni di logica. Questo è il secondo aspetto che di lui tutti conoscono, che cioè fu il fondatore della logica formale, e più precisamente di una certa parte di quel complesso edificio che è la logica formale, vale a dire la dottrina della corretta deduzione, la cosiddetta sillogistica aristotelica. Spieghiamo che cosa significa: si trattava, per così dire, dell’analisi logica dei procedimenti in uso nella matematica del tempo.
La logica formale è la dottrina della conoscenza, in forma un po’ ampliata; è la dimostrazione di cui si faceva uso in matematica. Come è noto, la filosofia come tale non è riducibile a questa logica formale. Anche Aristotele, ovviamente, ne era consapevole: infatti, subito dopo i suoi scritti di logica, c’è un capitolo nel quale descrive come avvenga, propriamente, l’atto del filosofare umano. In questa sede egli illustra anzitutto come certe impressioni fugaci si fissino nella memoria, e come, da queste, si formi in seguito un ricordo unitario di ciò che sappiamo… e infine come questo sapere… venga comunicato agli altri. Egli spiega, insomma, in che modo si produca il sapere delle archài (questa è l’espressione greca che noi traduciamo con «princìpi», «inizi»). Qual è il punto cruciale? La dimostrazione è sempre dimostrazione che muove da premesse, cosicché la conclusione, cui si perviene, risulta valida. Non vi è dubbio, perciò, che debbano già esservi dei presupposti, quelli che in logica vengono chiamati «premessa maggiore» e «premessa minore». Ma quando si tratta dei princìpi, non si può presupporre qualcosa che sta ancor prima del principio. Quindi la filosofia non può coincidere con la logica della dimostrazione. Essa deve consistere piuttosto in una induzione che risale all’origine, ai presupposti primi. Il termine greco è epagoghè, «induzione». E Aristotele – un maestro nelle immagini forti – ne offre appunto un drastico paragone. Come nasce in realtà questa universalità della nozione di principio? – Ecco – egli dice – è come quando un esercito fugge davanti al nemico; e finalmente uno si gira a guardare se il nemico incalza, fermandosi. Gli altri intanto continuano a correre; poi un altro si guarda intorno e vede quel soldato che ha smesso di scappare perché il nemico è già lontano, e così – uno dopo l’altro – si voltano tutti quanti, fino a che le milizie obbediscono di nuovo al comando di uno solo. Per «comando», la parola greca è ancora archè: «ciò che è primo,… e che domina». Questa è dunque l’analisi logica di che cos’è filosofia, secondo la descrizione di Aristotele. E in un certo senso questa induzione, che conduce all’universale, è proprio la stessa via percorsa dai dialoghi platonici, che muovono dal non-sapere alla visione di ciò da cui tutto dipende.
Non ho intenzione di raccontare qui la vita di Aristotele. Non è molto importante, in effetti. Quello che conta, invece, è che Aristotele fondò una propria scuola – anzi la prima vera scuola – che si è poi sviluppata e ha fatto storia nel corso dei secoli, grazie anche ai commenti delle opere aristoteliche. Ed eccoci all’opera fondamentale!
FISICA E METAFISICA
Si dice in genere che Aristotele sia il fondatore della metafisica. È vero, ma innanzitutto dobbiamo prestare ascolto a questo termine. Che cosa fondò? La meta-fisica? Allora è il fondatore di una scienza che fonda la fisica? Che razza di scienza è mai questa, come è possibile che essa si dia? E come può essere nata dall’ispirazione platonica? In effetti, si è soliti affermare: «È metafisica tutto ciò che ha avuto inizio con Parmenide, e poi con Eraclito e con Platone» –Ma tutte queste sono interpretazioni successive! Se si dovesse definire Platone, si dovrebbe dire, in realtà, che fu innanzitutto un meta-matematico: il mistero dei numeri, questo fu, da buon pitagorico, il suo punto di partenza. Fu il rigore scientifico della geometria euclidea a stimolarlo, come ho potuto mostrare analizzando il Teeteto, in cui Platone convince a poco a poco un giovane e geniale matematico del fatto che, al di là della matematica, vi è anche una conoscenza argomentativa, dialogica. Qui riecheggia, in parte, un innegabile spirito agonistico: bisogna ammettere che la filosofia è dialettica; è cioè nei lògoi, nello scambio di domanda e risposta,… nell’alternarsi di critiche e riformulazioni… è insomma attraverso questo processo che le discussioni tra gli uomini pervengono infine a risultati, magari non tangibili, ma pur sempre significativi e fecondi. Una discussione è valida anche quando si capisce di essere approdati a qualcosa, benché gli interlocutori non sappiano esattamente a che cosa, e si tratta in realtà di una prospettiva comune, che è venuta formandosi.
Una cosa, comunque, è chiara. Metafisica significa questo: che Aristotele cominciò con la fisica. Egli ha attuato il programma espresso da Socrate nel Fedro: posso cogliere un ordine della natura, solo se capisco che tutto è conforme a una certa finalità. In tal senso si parla di «teleologia», cioè mirare a uno scopo: questo è un principio unitario che spiega tutto ciò che incontriamo.
L’ORDINE DEL MONDO
[Per esempio] Aristotele interpreta la caduta dei sassi, e, in generale, di ciò che cade, dicendo: il sasso vuole tornare dai suoi sassi; e lo stesso vale per il fuoco che avvampa verso l’alto, per raggiungere gli altri fuochi, nel cielo. Evidentemente si tratta di modelli di spiegazione basati interamente sull’esperienza umana della finalità, dell’azione conforme a uno scopo. Si può certo sorridere di ciò, tanto più se si è figli, come noi, della scienza moderna. Nondimeno, uno dei più importanti teorici della storia della scienza, Thomas Kuhn, ha riconosciuto di essere giunto alla sua teoria delle rivoluzioni scientifiche, perché aveva tanto ammirato il fatto che la fisica aristotelica rappresentasse un’immagine complessiva del mondo, unitaria e coerente, come la scienza moderna. Io non sono d’accordo con Kuhn, perché penso che qui le differenze siano sostanziali; ma in ogni caso il suo giudizio risulta illuminante per il nostro contesto: che cosa c’è di nuovo, dunque, nel modo aristotelico di fare filosofia partendo dalla fisica? «Fisica» significa: comprendere l’essere del movimento; l’essenza dell’“aritmetica”, infatti, sta nel cogliere la “a-ritmicità”… dei rapporti immutabili tra numeri e figure da essa elaborati, che non partecipano del movimento. Il giovane Platone concepiva ancora il movimento come un non-essere, perché differente da quell’essere, la cui immutabilità, come diceva Parmenide, è sempre e ovunque presente. Aristotele, invece, fa proprio il programma che possiamo già intravvedere nel tardo Platone, il quale aveva criticato a sua volta la dottrina dei due mondi contrapposti, elaborata in realtà solo da Plotino (nella tarda antichità), come vera e propria concezione filosofica.… Platone stesso, dunque, aveva assunto, di fronte a questa dottrina, un atteggiamento critico, cercando di mostrare come il mondo delle strutture immutabili come i numeri e le figure si rispecchi negli eventi di questo mondo, e abbiamo visto come ciò trovi espressione nel concetto di misura e armonia, di ordine e bellezza.
L’ESSENZA DEL MOVIMENTO
Aristotele cerca soprattutto di comprendere che cosa sia il movimento. Ma già nel pronunciare questo termine,… il nostro pensiero corre subito al movimento da un luogo a un altro; però, come è ovvio, si finisce per concepirlo, immediatamente, con i concetti della meccanica galileiana: pensiamo alla caduta dei gravi, pensiamo all’accelerazione, al rapporto fra tempo e spazio percorso – insomma alle ben note leggi della meccanica galileiana. Si cadrebbe ovviamente in errore, se per la fisica aristotelica si ricorresse a un sistema di elementi astratti: un tempo vuoto, un corpo qualsiasi, indefinito, che percorre un certo spazio in un determinato tempo a una velocità data. Questo sarebbe già il nuovo edificio della meccanica, assurta al rango di scienza fondamentale fra le discipline scientifiche moderne. Quando Aristotele parla del movimento, intende l’essenza di ciò che è mosso:… da grande biologo, qual era – come spesso accade ai figli di medici – si è sempre molto interessato, per esempio, ai diversi movimenti degli animali, quelli che strisciano, che volano, che corrono, eccetera, descrivendone tutte le infinite varietà. In altri termini, rispetto ai presupposti fondamentali della scienza moderna, ha operato scelte differenti: non la compagine astratta di spazio, tempo e velocità, nella quale i punti-massa sono concepiti del tutto astrattamente, bensì proprio la diversità degli enti, che partecipano del movimento… questo è l’elemento essenziale. Tutti ricordano dai tempi della scuola l’esperimento in cui si mostra che, nel vuoto, un pezzo di piombo e una piuma cadono più o meno alla stessa velocità. Galilei lo sapeva già, prima ancora di aver potuto creare il vuoto, e poi l’esperimento lo ha confermato: effettivamente, il peso non influisce sulla caduta.… Con Aristotele siamo ancora in un mondo tutto pieno, nel quale ci sono enti di diverso tipo, ciascuno con un movimento differente.
Ma che cos’è, in generale, il movimento? Non è, semplicemente, un non-essere-qui. Ma non è nemmeno, soltanto, un essere-qui. Infatti, se di movimento si tratta, è insieme qualcosa che è qui – e non è più qui. Queste sono le aporie a partire dalle quali Agostino ha successivamente affrontato il mistero del tempo: di nessun istante si può dire: «è adesso»; non appena lo si nomina, infatti, l’istante è già passato. Lo stesso vale, ovviamente, anche per il movimento, ad esempio il «percorrere una via». (Il tedesco «Bewegung» – movimento – è ancora strettamente connesso a «Weg», la «via» che esso percorre).
ENERGIA E DINAMICA
Aristotele si è posto il seguente problema: questa presenza dell’essere – che già Parmenide conosceva e che Platone ha descritto come l’immutabile presenzialità dell’idea – come si concilia con la motilità degli eventi del mondo e della natura che vi prendono parte? Quando Platone dice: «ogni ente prende parte dell’idea» – che tipo di partecipazione è questa?, chiede Aristotele: che cosa significa?
«Partecipazione» traduce il greco métexis. Precisiamo, allora, questo concetto di «partecipare»: possiamo anche dire «prendere parte»; e sappiamo bene che «prendere parte» non significa prendere soltanto una parte. Ugualmente, quando diciamo «partecipare», non intendiamo dire che abbiamo soltanto una parte di ciò di cui partecipiamo: si partecipa di tutto! Questo è “prender parte”, questa è partecipazione! Che cosa ne consegue? Che Platone ne ha parlato solo per immagini: ecco perché ha detto «ogni ente prende parte dell’idea».
Aristotele si chiede: che cosa significa attribuire l’essere allo spazio e al tempo (il primo come luogo in cui si trova un ente, l’altro come il tempo in cui esso si muove)? Che tipo di essere è mai questo? … In generale, spazio e tempo sono pur qualcosa – qualcosa di effettivamente reale. L’espressione greca che Aristotele ha coniato per dire questo è enèrgheia. Vi risuona per noi la parola «energia»: ovvero qualcosa che non è semplicemente presente, ma che è in grado di provocare certi effetti, e perciò è davvero «effettiva», «reale». Ebbene, Aristotele ha individuato qualcosa come un «essere all’opera», un «essere in opera», o, come potremmo anche dire, il «compiersi» di qualcosa. Che cos’è il compiersi del movimento? Il movimento si compie non quando l’ho già compiuto: se sono già arrivato, il movimento è terminato, non c’è più moto, ma quiete. Che cos’è invece il movimento in quanto movimento?… Il movimento come tale! – questo dobbiamo descrivere, esso è due cose: adesso è all’opera, e al tempo stesso già non è più, è l’istante dopo. In altre parole: il movimento dev’essere descritto come intreccio di dynamis ed enèrgheia.
Dynamis – noi conosciamo il termine «dinamica», vale a dire «forza efficiente». È un’espressione frequente nella lingua greca: anche Platone la usa, in passi importanti,… per mostrare che, quando parla dell’essere, intende appunto… la realtà effettiva, e non solo un insieme di rapporti numerici e di relazioni tra figure. Nel Sofista Platone parla della dynamis, di questa capacità di produrre effetti. Aristotele, con l’incredibile acume che lo contraddistingue, ha poi osservato che, pensando insieme le due cose, il non-ancora, che produrrà effetti, e l’essere di ciò che è effettivo – in altri termini il «non-ancora» e l’«essere già» – si arriverà a cogliere appieno la natura di ciò che è in movimento.
ESSENZA DEL TEMPO
Lo stesso vale anche per il flusso del tempo; facciamo un esempio: l’attimo – l’istante del tempo – in verità, è già passato? E l’istante successivo – non è ancora? Ecco, proprio questo trapassare dal non-ancora al non-più: questo è l’istante.
Aristotele ha analizzato anche il concetto di tempo, creando un apparato concettuale davvero epocale, che ha esercitato su tutto il nostro pensiero europeo un’influenza decisiva. Qui il tempo è già trattato come una sequenza numerica che scorre parallela al movimento. Proprio così, infatti, Aristotele ha definito il tempo: come il numero del movimento dell’istante. È un’astrazione immensa, se si considera che cos’è la vita e che cos’è il tempo:… per esempio il futuro o il passato – non sono mica semplici somme di istanti! Pensiamo a esperienze come la speranza o l’attesa, oppure a quando ci capita, per un attimo,… di sprofondare in un pensiero, o nella contemplazione di qualcosa di bello! È ben altra cosa il tempo che occupiamo, rispetto a questo tempo astratto!
Con questi esempi desidero solo far capire l’immane spirito fondativo che agisce all’interno del pensiero aristotelico. (E non solo in quello aristotelico, naturalmente). Nel Timeo di Platone affiorano già dei cenni in questo senso – offerti in maniera poetica, con descrizioni vivaci – ma incentrati proprio sull’essenza del tempo. Però in entrambi emerge un aspetto davvero imprescindibile: cominciamo a capire come in questa fisica greca, all’apparenza tanto ingenua… che ci parla di un fuoco nostalgico, desideroso di tornare alle stelle, oppure di pietre che aspirano a ricongiungersi con l’amata Madre-Terra – al di là di queste espressioni ingenue, antropologiche – si esprima già la capacità di astrazione propria dell’Occidente.
Ritengo assai importante mostrare anzitutto come Aristotele si sia richiamato alla tesi platonica, che afferma espressamente: l’idea non è un mondo a sé stante, bensì è (come può dirsi del bello) in ogni cosa.… Platone aveva di mira questa immanenza dell’idea quando parlava di un «prendere parte», ma questo non significa affatto che egli abbia detto le stesse cose che, in seguito, fu invece Aristotele a elaborare, facendo del concetto di essere l’universale che è presente nelle singole cose concrete, e dichiarandolo esplicitamente. D’altro canto, però, si vede quanto vicine risultino essere queste due posizioni, allorché si impari a leggere i testi della filosofia cercando di comprenderli… ermeneuticamente, vorrei dire.
PLATONE, ARISTOTELE E IL DIALOGO
Quando leggo i dialoghi di Platone, so che si tratta di poesia pensante, grazie alla quale ci viene offerto, come per incantesimo, un dialogo con tutti gli aspetti imponderabili della comunicazione, della comprensione, del fraintendimento, dell’incontro reciproco nel consenso; di fronte, invece, al Corpus Aristotelicum, alla gran massa degli scritti di Aristotele (2000 pagine nella editio maior del Becker), la nostra cultura ermeneutica dovrebbe indurci a domandare: che cosa abbiamo davanti a noi? Libri da acquistare in libreria, come facciamo noi, oggi, andando a comprare le opere di Aristotele? No di certo: erano appunti, sulla base dei quali Aristotele faceva lezione; era una retorica vivente, di cui dobbiamo sempre percepire la presenza quando leggiamo le argomentazioni e le analisi aristoteliche. Questo non significa che debbano essere argomentazioni coerenti, nel senso attuale del termine. Tutto è invece incentrato sulla ripetizione, che nella retorica rappresenta un principio fondamentale dell’arte di persuadere. Intendo dire che dobbiamo renderci conto di quanto siano diverse le modalità della conversazione e del colloquio adottate nello stile dialogico, poeticamente raffinato di Platone, rispetto alle bozze di lavoro che ci ha lasciato Aristotele.
A dire il vero, Aristotele ha scritto anche dialoghi, che però non conosciamo; ma sappiamo, da Cicerone, che furono celebri nell’antichità per il «flumen aureum orationis», per quell’«aureo fluire dell’eloquenza» che vi si trovava.
(Dall’imitazione ciceroniana dei dialoghi aristotelici, ancora famosi all’epoca, sappiamo che erano dibattiti scritti, nei quali due personaggi – di regola due soltanto – discutevano tra di loro, e poi interveniva un terzo personaggio che assisteva al colloquio, con il compito di proporre una qualche soluzione mediatrice: nello stesso modo è strutturata la Politica di Cicerone, al pari di altri suoi scritti. Da questi testi possiamo immaginare approssimativamente come fossero i dialoghi artistotelici. Ma non è questo che ci interessa, ora.)
L’ importante, adesso, è imparare a far proprie le intenzioni sottese ai diversi stili, traducendole nel rispettivo pensiero; solo così emergono i punti di reciproco contatto, anche fra Platone ed Aristotele, come accade in ogni dialogo fecondo.
Chi, nel corso di una disputa, concentra la sua attenzione nel chiedersi «che cosa posso obiettare?», non presta ascolto come dovrebbe. Se invece si pensa: «che cosa intende dire l’altro? Perché non mi convince?», «Che cosa mi sfugge?» (e l’interlocutore, adottando a sua volta lo stesso atteggiamento, chiede: «che cosa vuole propriamente dire?») si ottiene che i due partner in gioco siano già molto vicini a una possibile comprensione reciproca. Bisogna essere consapevoli di questa essenza del dialogo, della vera discussione, e del contenuto di verità che può celarsi nel pensiero filosofico. Una volta Platone commentò: «Il pensiero è il dialogo interiore dell’anima con se stessa»; – e aveva pienamente ragione: anche in questo modo possiamo approssimarci alla verità: immaginando delle obiezioni, così da mirare, grazie al loro esame, a un nuovo possibile punto di accordo. Questa è la via del pensiero.
LA DOTTRINA DELLE CATEGORIE
Tornando alla Metafisica: non posso certo tralasciare di dire che essa non consiste della sola dottrina dell’enèrgheia e della dìnamis. Ci si aspetta, ovviamente, che io parli della dottrina delle categorie: quella parte della Metafisica sulla quale Kant ha espresso il celebre verdetto: «Aristotele è stato solo rapsodico… ma non sistematico nell’elaborare la tavola delle categorie». Certo: solo rapsodico! – cioè solo retorico! Egli le raccolse dall’esempio vivo delle lezioni e delle spiegazioni che teneva nella sua scuola. In realtà, che cosa ha fatto Aristotele? Innanzitutto ha elaborato ciò che, nella nostra proposta interpretativa, avevamo intravisto già nel tardo Platone, ricavandone concetti. Che cos’è l’essere? L’essere non è mai soltanto l’universale; l’essere è sempre anche «questo essere qui». Entrambi sono essere: l’universale, e il «determinato».
Questo è un altro modo di descrivere quella che ci appare come l’intenzione della dottrina platonica: l’idea del bene si mostra nella forma del bello. Il bello, infatti, è sempre un tóde ti, è sempre un «questo qui». Il bello deve apparire. Non serve a niente pensare una bellezza che non compare affatto: non avrebbe «sostanza».
Con questo concetto… cominciamo a esplorare il significato della dottrina delle categorie; quest’ultima esercita, in effetti, una ben precisa funzione di raccolta, visto che l’essere dell’ente si diversifica in altre forme, inseparabili da esso, che si trovano già prefigurate in Platone: il poión, (il «come è fatto»), il posón, (il «quanto», il «quanto grande»),… e soprattutto il prós ti,… ovvero ciò che pensiamo «in relazione con», «in riferimento a» qualcosa. Queste sono dunque le categorie fondamentali che Aristotele ha sviluppato, e che sono rimaste un saldo punto di riferimento nella storia della Stoà e nella tradizione della metafisica successiva. Queste quattro categorie comportano naturalmente anche dei problemi: Che ne è, in loro, dell’essere? Prendiamo la «relazione»: chi è diventato padre, è con ciò in relazione con il figlio che è nato. Ricordo qui un passo geniale di Eraclito, che ho ricostruito io stesso: il padre non ha generato soltanto il figlio, ma anche se stesso, in quanto padre. Queste sono le misteriose strutture della relazione! E altrettanto può dirsi per la «qualità» e la «quantità» (per usare i nomi latinizzati delle categorie). E infine abbiamo l’enigmatica struttura della sostanza, unitaria e determinata.
LO SPIRITO DEL FILOSOFO
Ebbene, la Metafisica ha cercato di mostrare, su questa base, che c’è una sorta di ordine nella totalità dell’essere, la cui espressione più alta è – ancora una volta – una realtà eterna – nella quale non si ha più alcun movimento: il primo motore, il concetto filosofico di Dio, nel quale sembra trovare coronamento la metafisica aristotelica. Certamente oggi, dopo tutte le ricerche e gli studi che si sono occupati della Metafisica aristotelica, si sono fatti dei progressi interpretativi e perciò diremmo che questa è una delle possibilità che Aristotele ha maturato: la enèrgheia suprema, un essere che è sempre in sé e presso di sé, oggetto di amore cui tutto aspira, e quindi causa del movimento di tutte le cose. Questa è soltanto una delle possibilità. Ma oggi la mia convinzione è questa: sono state le metafisiche del tardo Medioevo e soprattutto della Controriforma – penso a Suàrez – a fare di tutto ciò un sistema. Metafisica non significa sistema: in Aristotele essa connota tutto ciò che non si poteva includere nella fisica. Vi si affrontano, perciò, ambiti diversissimi, come il «principio di non contraddizione» (la bebaiotàte archè, il principio più sicuro, secondo Aristotele, per garantire correttezza al pensiero) o appunto i concetti di sostanza, o di potenza, e molte altre cose che vi possiamo incontrare e che procedono in direzioni assai differenti, nelle quali forse, al di là della fisica, possono maturare princìpi fondamentali.
La retorica resta la forma viva nella quale il pensiero greco ha riflettuto e, nel leggere i testi antichi, non dovremmo mai dimenticare che nessun Greco è stato capace di leggere senza scandire ad alta voce.… Agostino ammirava Ambrogio, vescovo di Milano, per il fatto che sapeva addirittura leggere in silenzio. In realtà, fu solo nel dodicesimo secolo che nacque la lettura silenziosa, non accompagnata dalla voce. Leggere significava ascoltare: lettura e ascolto vigile erano inscindibili. Vorrei raccontare un altro aneddoto su Aristotele (ma gli argomenti incalzano: su di lui c’è molto da dire). È una storia davvero bella.
Tra i suoi amici, Aristotele era soprannominato «il grande lettore»: leggeva continuamente… e di sera, quando era disteso sulla klìne, cioè sul letto, aveva da un lato una bacinella di ottone, e mentre leggeva teneva in mano una sfera di metallo; ogni volta che si addormentava, la sfera cadeva con gran rumore nella bacinella, così egli si risvegliava e poteva continuare a leggere. Questa è un’immagine inventata, con grande sagacia, per accostare il filosofo, il suo spirito vigile, allo spirito divino, caratterizzato appunto dalla presenza costante. Infatti, il concetto di Dio della metafisica aristotelica è quello di uno spirito che non è interrotto, come quello umano, dalla veglia e dal sonno, o da analoghe situazioni.
Questo bell’episodio che troviamo in Diogene Laerzio (una vera e propria miniera di informazioni), si presta assai bene per mostrare che non c’è niente di tanto interessante quanto gli aneddoti inventati.
TEORIA E PRASSI
Ma ora devo trattare anche dell’altro versante del pensiero di Aristotele,… e cioè di quell’aspetto per cui, a partire da Socrate, il discorso su Dio non deve allontanarci dal mondo. Si tratta del problema della vita etica, dello Stato e della società: su tutto ciò Aristotele ha svolto, in effetti, una riflessione consapevole, collocandosi, certo, anche nel solco dei dialoghi platonici della vecchiaia, come il Filebo e il Politico. Si tratta cioè della filosofia pratica, un pensiero che intende cogliere la vita effettiva dell’uomo, la sua prassi. Il termine «prassi» ci è ben noto, anche e soprattutto nei suoi significati secondari, derivati, che richiamiamo sempre alla memoria quando, per esempio, parliamo di prassi amministrativa o della prassi abituale di un ufficio. Che cos’è, nel nostro caso, la «prassi»? Certo, non è un agire, no, no! E che cosa dovrebbe essere, allora? Un certo modo di stare?! Così già va meglio, a patto che si intenda uno stare là dove si agisce! Dunque: prassi non è affatto l’applicazione della teoria; essa è piuttosto un modo particolare… di sapere e di essere, un modo di stare nelle situazioni. – I Greci concludevano le lettere con la formula: «èu prátein», che si può rendere con «ti auguro di star bene». Noi stessi non diciamo: «agisci bene», bensì auspichiamo: «stammi bene!» Prátein si usa anche per significare che le cose vanno bene, oppure vanno male. Insomma: la filosofia pratica non è semplicemente una dottrina dell’azione; essa tratta di come l’uomo si muove e si situa nella vita, in quanto essere che agisce e patisce. E così Aristotele, distinguendo opportunamente i concetti e seguendo il proprio metodo didattico, ha scoperto innanzitutto che la vita umana è caratterizzabile attraverso l’èthos e la frònesis,… cioè quell’impronta data dall’abitudine e dall’educazione… che si riflette nella scelta responsabile e consapevole del meglio e del giusto, che orienta il comportamento nelle diverse situazioni.
In altre parole, l’«etica». Questo nome è diventato familiare solo con Aristotele, sebbene esistesse già come sostantivo, usato però nel senso di «stile di vita», riferito agli animali,… o anche agli uomini.
Ma qui sopravvive la lezione di Socrate. Se il socratismo comincia con Platone, Aristotele è il secondo grande socratico, e ha tentato di mostrare che qui tutto dipende da questo intreccio di èthos, di educazione e di abitudine che diventa come una seconda natura, un secondo «essere». È quello che intendiamo – più o meno – quando diciamo che uno ha «carattere»,… oppure che ha «un suo essere», e con questo vogliamo appunto sostenere che qualcosa è entrato a far parte della sua natura grazie all’educazione, all’istruzione ricevuta, alle influenze sociali, ma anche (come oggi ben sappiamo) in larga misura, a causa della natura stessa, del patrimonio genetico. Tutto ciò rappresenta un presupposto affinché si possieda un certo sapere, che non è però lo stesso della scienza. Per la scienza non deve avere importanza il fatto che uno abbia certe inclinazioni e un altro ne abbia certe altre, che uno sia stato educato in un modo e un altro diversamente, che ci sia chi abbia un certo temperamento e chi ne mostri uno differente; tutto ciò è invece decisivo per la vita pratica e per l’azione consapevole, per sapere come comportarci di fronte a ciò che consideriamo giusto.
Voglio dire, in definitiva, che Aristotele, nel tener fede all’eredità socratica, e cioè ammettendo che non c’è solo imitazione, ma anche libera scelta… e responsabilità consapevole, ha proposto, in realtà, quello che già era stato descritto, seppur con immagini mitiche, nella Repubblica di Platone: uno Stato nel quale non si può agire scorrettamente, e un sapere che governi questo Stato. La vita umana è queste due cose insieme: filosofia teoretica e filosofia pratica. E il divino sta in entrambe.
PLATONE
Adesso che cominciamo a trattare la grande opera filosofica e letteraria cui Platone dedicò tutta la sua vita, il nostro discorso può poggiare su solide basi. Non si tratta più di ricostruire e quasi indovinare intuitivamente i motivi di fondo che hanno guidato il pensiero, come accade con i cosiddetti presocratici. Qui si celebra un grande evento, vale a dire la svolta introdotta da Socrate, che crea un nuovo, originalissimo stile filosofico… dominato dalla questione del bene: proprio questo è il punto, grazie al quale Socrate, inteso come personaggio platonico, risulta vincente rispetto a tutti i suoi interlocutori. Egli chiarisce loro, infatti, che in realtà non sanno affatto che cosa sia il bene.… Abbiamo spiegato che Platone, con i suoi dialoghi, eresse un monumento al suo maestro Socrate, mettendolo a confronto con i sofisti e con tutto il vuoto fermento dialettico della gioventù ateniese del tempo.
La storia della filosofia ha guardato a Platone, come pure ai «presocratici», anzitutto nella prospettiva di Aristotele. In quest’ottica, Platone è uno dei «Pitagorici»,… uno degli appartenenti alla setta religiosa fondata da Pitagora, pensatore che tutti conosciamo fin dai banchi di scuola come matematico, ma che fu soprattutto il fondatore di una congrega politico-religiosa, anzi di una federazione che ha interessato tutta la Magna Grecia, e in modo particolare l’Italia meridionale e la Sicilia. In questa regione esisteva una federazione di città, una sorta di patto, basato sui precetti pitagorici, che attribuì alla matematica, fin dal principio, una valenza quasi divina, anche se poi, nel corso del quinto secolo, assunse sempre più l’aspetto di una comunità scientifica. Platone fu in contatto con i pitagorici di Taranto e di Siracusa, dove si recò più volte, nel corso della sua vita, per incontrarli.
Platone viene così associato ai Pitagorici, al mistero dei numeri. Che cosa sono i numeri? È un enigma! Ne abbiamo già parlato.
Se pensiamo all’eredità lasciata dalle grandi figure del pensiero «presocratico», dobbiamo dire, riassuntivamente, che essa consiste soprattutto di due aspetti: la domanda sull’essere, posta da Parmenide, e la questione dell’anima, sollevata da Eraclito, attraverso la profondità speculativa del suo pensiero, ed espressa con parole ispirate.… Che rapporto intrattengono questi due temi con l’eredità di pensiero dei Pitagorici? La setta pitagorica, come del resto tutte le altre espressioni del tempo, fu una conseguenza della pressione esercitata sulla Grecia dall’impero persiano, che portò alla nascita di nuove città nel bacino del Mediterraneo, in particolare nell’Italia meridionale e in Sicilia, con ripercussioni di portata storica universale. Si dovrebbe sempre tener presente che quando Platone visiterà i tiranni – i despoti – di Siracusa, sarà del tutto consapevole dell’importanza strategica di questi centri come baluardo contro la grande potenza fenicia, ovvero cartaginese e punica. Questo retroterra politico spiega perché Platone si sia tanto interessato a Siracusa… e abbia cercato di farne, da terreno di dispotica tirannia, un vero e proprio centro culturale, anche se, come è noto, questo progetto fallì. Anche i Pitagorici rientrano in questo quadro di resistenza dei Greci di fronte alla pressione cartaginese – Cartagine era appunto… il porto collocato all’incrocio delle vie di comunicazione del Mediterraneo, tra l’oriente greco – la patria – e il confine occidentale del Mediterraneo, in Spagna, e appunto tutte le coste del Mediterraneo erano state popolate da coloni greci.
L’ANIMA E I NUMERI
Abbiamo visto che Socrate introdusse la questione del bene,e fu considerato un pitagorico. Il bene è qualcosa di inafferrabile è una realtà indefinibile, e lo stesso si può dire anche a proposito dei numeri e del modo misterioso in cui, unendosi, formano somme ed equazioni, frazioni e calcoli complessi. Il merito di Platone è di aver unificato il problema del bene e la questione dei numeri all’interno del suo più celebre capolavoro letterario: vale a dire il Fedone, il dialogo in cui Platone ci presenta Socrate condannato a morte, nel giorno dell’esecuzione (pronto a subirla) mentre riceve i suoi amici per l’ultima volta e discute con loro dell’anima, dell’immortalità dell’anima e della relazione che essa intrattiene con qualcosa di imperituro, immutabile, sicuro e noto, proprio come sono i numeri.
In un famoso passo, Nietzsche ha definito questo dialogo di Socrate morente come «l’affermazione del nuovo ideale della gioventù greca», che soppianta l’esempio eroico di Achille, come pure il geniale, avventuroso, astuto modello di Ulisse. È un nuovo ideale di sapienza: il saggio che vive per la propria cultura e che, con il quieto abbandono del suo spirito indagatore, libero dai dogmi accetta con serenità il destino che la vita gli assegna, e beve la coppa di veleno.
Numeri e anima – due cose che non sono di questo mondo: entrambe inafferrabili, entrambe dotate di un modo d’essere che è innanzitutto una sfida per il pensiero. È un mistero che, come mostra il Fedone, il due si generi aggiungendo uno all’unità! O forse il due nasce dall’unità stessa, divisa a metà? In entrambi i casi abbiamo il due. Analogo al problema del due, è il dilemma del pensiero umano, orientato sempre verso qualcosa che noi non troviamo direttamente, ma che desumiamo solo da ciò che è già dato nell’esperienza. È la celebre fuga nei lògoi, la fuga nel ragionamento e nel misterioso interesse per la verità che esso soddisfa.
L’IDEA DEL BENE
Chiediamoci ora: in che rapporto sta l’anima con la matematica, con le sue incredibili, affascinanti conoscenze, insomma con quanto espresso nel significato letterale della parola greca «matematica»: «ciò che possiamo apprendere», vale a dire "ciò che non necessita di alcuna esperienza" – ne è prova il fatto che, come accade anche al giorno d’oggi, vi sono bambini geniali per i quali la matematica è una specie di gioco dello spirito, capace di elevarli fino alle vette di questa disciplina. È nota la storia del piccolo Gauss: il suo maestro fu costretto a isolarlo (per potersi dedicare agli altri allievi della classe, meno dotati) assegnandogli intanto il compito di contare tutti i numeri da 1 a 1000. Cinque minuti dopo lo vide tornare: aveva scoperto una nuova regola numerica, che riassumeva in un baleno l’intera numerazione. Ecco, nel campo della matematica queste cose sono possibili.
Ma torniamo alla questione del bene. Nel dialogo Il Fedone, Socrate mostra che, al pari dei suoi predecessori, lo stesso Anassagora, il filosofo del noùs – la ragione universale, potremmo dire,… (che ha avuto un ruolo centrale nella cosmogonia) aveva ricavato l’ordine del mondo da una sorta di spirito che mescolava gli elementi e regolava il movimento. Ma nemmeno questa concezione era quella giusta agli occhi di Socrate, poiché non coglieva che l’ordine è perseguito da uno spirito che pensa e cerca il bene. L’idea del bene è perciò il vero e proprio culmine… del pensiero platonico, è la finalità formativa verso la quale è rivolto l’intero sistema educativo dell’utopia statale proposta da Platone. Ma questa idea del bene non è tangibile «hôs tà álla mat-hèmata», «come gli altri contenuti apprendibili»; essa è piuttosto «idea», cioè «visione», della totalità. E Socrate afferma che sarebbe interamente soddisfatto solo se tutte le conoscenze finora acquisite dai sapienti sul corso del sole e della luna, sulle stelle e le stagioni, sugli elementi, sulla terra e sul mare e così via, potessero essere intese come espressioni dell’idea del bene: è una celebre frase, ma non si è osservato abbastanza che essa costituisce in realtà il programma della fisica aristotelica, nel senso teleologico di un universo ordinato finalisticamente e orientato secondo certi scopi, nel quale anche l’uomo, con i suoi obiettivi limitati e la sua incessante tensione verso il meglio, guarda a ciò che è buono e vantaggioso.
L’ARTE DELLA DIALETTICA
Dunque, la questione del bene ha una portata universale. Non si deve dimenticare che l’esistenza di Socrate, animata da questo problema, è sempre sotterraneamente presente nell’evoluzione della cosiddetta dottrina delle idee. Quest’ultima si fonda, certo, sull’essenza ideale dei numeri e dei triangoli, quindi sulla matematica, ma non si riduce a questo sapere. Pensiamo, ad esempio, alla scuola che Platone fondò ad Atene (il termine «scuola» va naturalmente inteso nel senso che aveva in quel determinato ordinamento sociale: si trattava cioè di una sorta di club intellettuale, con fini anche politici, diretto da Platone). Sulla porta d’ingresso stava scritto: «Qui non può entrare chi non conosce la matematica» – «Medèis a-gheo-métretos eis-íto». Certo, la matematica (eredità della setta pitagorica) era diventata uno dei più efficaci veicoli di trasmissione del pensiero scientifico, però la questione del bene si spinge ancora più in là. Il problema del bene pone un quesito che non si può mai risolvere come si fa nelle dimostrazioni matematiche, offrendo prove certe. Occorre invece il dialogo; sono richieste argomentazione e replica, domanda e risposta; è infine necessaria quella che Platone, riferendosi all’arte socratica di dialogare, ha chiamato «dialettica».
L’idea del bene non è qualcosa che si possa intendere come un principio supremo da cui dedurre tutto ciò che è. Questo è lo schema secondo il quale è costruita la geometria euclidea: dagli assiomi ai principi, fino alle dimostrazioni; ma la dottrina platonica delle idee mostra come dietro ogni sforzo di comprensione da parte dell’uomo, dietro ogni discussione, ogni volta si apra un orizzonte verso il quale intimamente si tende. Perciò la dottrina delle idee è al tempo stesso lo sfondo sul quale si staglia la possibilità della convivenza umana, da un punto di vista linguistico, etico e politico; qui si fonda la possibilità di una condivisione ordinata del mondo. È un punto, questo, che non sarà mai ribadito abbastanza: infatti il genio matematico dei Greci, che riecheggia con forza anche nel genio filosofico di Platone, in tempi più recenti ha ripetutamente indotto a cercare nello stesso Platone una sorta di teoria della conoscenza che è propria della scienza moderna.
LA SETTIMA LETTERA
Io stesso sono stato allievo della Scuola di Marburgo, in cui Natorp (il mio maestro) scrisse il famoso libro su: "La dottrina platonica delle idee" nel quale tentò di mostrare che le idee sono più o meno equivalenti alla legge di natura nella fisica moderna, qualcosa che, per così dire, apre la strada alla verità scientifica lungo la via di un progresso che procede per ipotesi. Ma questo non basta. Bisogna capire, piuttosto, che così facendo si oltrepassa il concetto di scienza nel senso di epistème e di dimostrazione. Si tratta di una fondazione della verità ancora più radicale, e a questo proposito possediamo un documento importantissimo.
Come è noto, Platone ha scritto soltanto dialoghi, nei quali non parla mai in prima persona, ma sempre per bocca dei vari interlocutori, un po’ come Shakespeare, insomma, che, attraverso le sue figure tragiche, sapeva esporre le più grandi verità sul destino dell’anima umana. Non ha alcun senso assumere quel candore professorale, lungamente adottato, con cui di volta in volta si esaminavano singole proposizioni dei dialoghi platonici, quanto alla loro compatibilità teoretica e coerenza interna, per ricavarne poi una qualche teoria. Platone era un ateniese, aveva in sé tutto il sapore dell’arguzia attica: non temeva il rischio del gioco, l’azzardo dello scherzo, della trovata improvvisa, e tutto ciò ha contribuito a far sì che egli ci trasmettesse un’immagine viva del pensiero. C’è un solo eccezionale documento, a noi noto, in cui è Platone stesso a parlare. Si tratta della celebre lettera settima, che non intendo discutere qui nel suo significato politico legato al sovrano di Siracusa; essa contiene un paio di pagine nelle quali Platone cerca di spiegare perché non ha mai redatto a proprio nome né un libro, né altro scritto. Tutti i mezzi della conoscenza umana (le parole, le frasi, la grammatica, il racconto per immagini, quella che noi oggi chiameremmo: la lavagna, che per i Greci era naturalmente la sabbia, su cui disegnavano le figure matematiche,… insomma tutto ciò che si può adoperare per dimostrare qualcosa) sono per Platone dei mezzi che rimangono sempre ambigui, che possono indurre non già a comprendere le cose, ma solo a ripetere, a reiterare il discorso. Soltanto nella convivenza umana, nello scambio di argomenti e discorsi, di domande e risposte, si dà quell’attimo nel quale, all’improvviso, scocca la scintilla grazie alla quale lo spirito vede chiaramente. Questo è quanto viene affermato nel celebre «excursus» – così viene chiamato – della lettera settima, e dobbiamo sempre tenerlo presente quando leggiamo i dialoghi platonici.
L’ARMONIA DEL BELLO
Insomma, la dottrina delle idee non è ciò che ne è stato fatto. È corretto affermare che l’idea, così come la incontriamo comunemente, rappresenta sempre la visione di ciò che è – così come è in verità – e che, al pari dei numeri, essa è immutabile, indipendente da altro, evidente in sé; tutto questo è giusto, ma è anche altrettanto chiaro che l’esperienza umana da sempre può solo approssimarsi a questo fine ultimo della conoscenza.
Soprattutto negli anni della tarda maturità, Platone ha spiegato queste cose con evidente chiarezza, ma anche con quel tono vagamente misterioso che fa di lui un grande scrittore. Quello che ci dice… può forse sorprendere… nella sua formulazione: il rapporto che ha il bene con il bello…. Il bene non è soltanto ciò che sta oltre, ciò che trascende l’imperfezione e la contingenza delle cose terrene, la mutevolezza, fugacità e transitorietà degli eventi che si succedono. Il bene non è solo questa «ulteriorità», bensì è qualcosa che può collocarsi anche nel flusso degli eventi mondani. Ci sono due dialoghi del vecchio Platone che voglio richiamare alla memoria; uno è il Filebo, che pone esplicitamente la questione dell’esistenza virtuosa e ne inquadra la problematica in un’ottica di questo genere: il bene della vita è certamente una mescolanza; non è il puro vivere per determinati scopi, come il sapere o l’intuizione del vero. Esso è piuttosto la somma di visione (di gioia di vedere)… di vivacità… godimento, piacere, serenità: è tutto questo insieme. In questo dialogo platonico (condotto, ancora una volta, da Socrate) viene a galla questa verità: non c’è solo il mondo dei numeri ideali e dei loro reciproci rapporti e poi, accanto ad esso, separato, un mondo… di eventi mutevoli; esiste piuttosto un intreccio di queste due cose, vale a dire il ricomporsi… del dissidio multiforme in armonica unità. Qui risuona, una volta di più, la voce di Eraclito che disse: «l’armonia nascosta è più forte di quella manifesta». È l’armonia della bellezza. Questo è il fine di cui parla Diotìma nel Simposio, definendola l’idea più elevata,… il bello in quanto tale. Ma che cos’è il bello come tale, se non la bellezza che è propria di tutte le cose belle?
Il bello in sé non è certo qualcosa di astratto, di universale, né si identifica con le cose: è piuttosto l’armonia che appare dappertutto.
LA MISURA DELLE COSE
Qui ci viene in aiuto un altro passo (la cui importanza non è ancora stata colta pienamente) e che peraltro può servire per anticipare la vicinanza di Aristotele al suo maestro Platone; lo troviamo nel dialogo intitolato Il Politico. In esso Socrate fornisce una lunga descrizione di che cosa sia un tessuto, e l’arte della tessitura, e molto altro ancora, finché l’interlocutore, sempre più impaziente, sbotta: «Tu la stai facendo molto, molto complicata. Non si potrebbe arrivare al dunque più velocemente?» Al che Socrate ribatte: «Eh, sì, sì, capisco. Ma adesso voglio dirti una cosa. Ci sono due tipi di misura». C’è un metro con cui ci accostiamo a qualcosa che è, per misurarlo. Si tratta ovviamente di un criterio che tutti ben conosciamo attraverso la matematica, i numeri, … le unità di misura, e con il quale noi calcoliamo le cose. Ma poi c’è anche un altro tipo di misura, non più legata a pure relazioni fra grandezze:… è quella misura che le cose hanno in se stesse. Non è più il mètron, che vale uniformemente per tutto, bensì il mètrion implicito nelle cose, per esempio l’armonia dei suoni, l’armonia del corpo, ovvero quell’accordo meraviglioso e misterioso che è la salute.… La medicina moderna è un ottimo esempio per capire chiaramente di che cosa si tratti. La medicina è la scienza della malattia e dei suoi rimedi: essa è l’enorme risultato di misurazioni precise e accurate. Tutti sanno che cosa sia un termometro per la febbre e a tutti è noto quale sia la temperatura corporea normale: in questo campo il progresso è assai avanzato. Ma il vero e proprio mistero resta comunque la salute: come la misuriamo? Certo non rapportandola a valori standard: la salute è un misterioso accordo di tutto l’insieme,… e questo grande mistero, che è la salute, viene ricordato anche da Platone, proprio a proposito, come esempio di questo equilibrio interiore. Riferendosi a ciò, egli osserva che questo è qualcosa di cui il sapere esatto delle scienze non può fare a meno: bisogna sempre guardare non solo a ciò che è misurato – ma anche a ciò che è commisurato, cioè adeguato, opportuno, adatto alla circostanza: questo è propriamente il fine più alto, al di là dei numeri, delle regole, e delle quantità.
Sembra quasi un messaggio rivolto al mondo moderno, in cui le scienze quantitative hanno affermato profondamente il loro predominio metodologico, senza forse tenere in debito conto che i loro successi sono possibili solo in presenza di un altro sapere, quale ad esempio l’occhio clinico del medico esperto, oppure l’istinto dell’organismo ammalato, comune a chi soffre di una malattia: insomma ciò che il medico adotta come criterio quando, ad un paziente sul quale ancora non possiede una diagnosi, gli domanda : «Si sente malato?».… Ebbene, tutto questo vale certamente anche in altri campi (e infatti tali cose vengono dette in un dialogo sul politico ideale) ad esempio nella vita sociale e nella vita politica. Si possono promulgare leggi, produrre ordinamenti, ma se non si è in grado di cogliere il momento giusto e di uniformarsi, con il proprio intervento, all’«imperativo dell’ora», si perderanno di vista anche gli scopi, cui è orientato il proprio sapere.
Trattando di tali questioni, mi rendo conto della necessità di confutare un pregiudizio assai diffuso nella storia della filosofia. Questo aspetto di Platone, del quale ho appena parlato e che affiora dappertutto nei dialoghi della sua tarda maturità, è già molto, molto vicino alla filosofia di Aristotele e, quando ci occuperemo di quest’ultimo, dovremo domandarci perché mai Platone fu tanto criticato da Aristotele, al punto che la tradizione fu indotta, per molto tempo, a vedere in Platone l’idealista e in Aristotele il realista, almeno fino a quando Hegel mostrò, per la prima volta, la profonda e intrinseca prossimità fra Parmenide ed Eraclito, fra Platone e Aristotele, riunificandoli a suo modo in una grande sintesi.
Proviamo a fare un esempio.… Questi dialoghi tardi di Platone si contraddistinguono in parte, anche sul piano esteriore, per l’atteggiamento di Socrate, che resta in silenzio, rinunciando a condurre la conversazione: è un aspetto molto importante, come lo è anche la presenza, qui, dell’uomo che ha davvero reso testimonianza al bene, per tutta la sua vita, e anche con la sua morte.
IL TEETETO E LA CONOSCENZA
Proviamo a verificare come Platone, nella sua opera poetico-filosofica, abbia sviluppato le sue tarde concezioni a proposito dell’intima connessione tra le scienze matematiche ideali e la realtà concreta della vita etica e sociale. Due dialoghi ci possono aiutare e li richiamo brevemente alla memoria; uno è il Teeteto. Teeteto fu un giovane e famoso matematico, che diede contributi decisivi alla geometria euclidea nella sua forma definitiva, che tutti impariamo a scuola. Morì in una delle innumerevoli guerre con le quali le città greche combattevano militarmente tra loro. Platone ha inteso onorarne la memoria, dedicandogli un dialogo socratico. In quest’ultimo si assiste al dibattito fra Teeteto e il suo maestro di matematica, Teodoro, il quale riconosce di aver seguito un tempo l’arte dialettica di Protagora – e quindi dei sofisti – ma di aver poi voltato le spalle a quel vuoto argomentare, dedicandosi alla matematica. Ebbene, Socrate chiede a Teeteto che cosa sia, secondo lui, la conoscenza.… Una prima risposta è: «Conoscere è vedere le cose davanti a sé così come sono realmente». Purtroppo è invalso l’uso di tradurre tutto ciò con «percezione sensibile»: è un controsenso. Qui abbiamo la percezione sensibile di un matematico, che quindi vede figure geometriche, non cose qualsiasi. È per questo che Teeteto definisce la conoscenza come «evidenza» – preferisco questo termine – l’evidenza propria di qualcosa che ci sta davanti in carne e ossa. In sèguito risultera’ che questa sua risposta è indifendibile, così come sono ingiustificabili anche la seconda e la terza risposta: «la conoscenza è opinione vera» e «la conoscenza è opinione vera accompagnata da ragione». L’esito è negativo, ma Teeteto impara nel corso del dialogo… una cosa importante: ha preso parte a una discussione lontana dalla vuota sofistica, e alla fine si rende conto che ancora non sa ciò che dovrebbe sapere. Assistiamo, insomma, alla prima, indiretta introduzione di un matematico nell’arte del dialogo e della dialettica.
La seconda opera, della quale vorrei parlare, riguardo allo stesso tema, ci fa tornare a quanto dicevamo all’inizio. Platone scrisse un dialogo intitolato a Parmenide, uno dei più grandi misteri della produzione dialogico-letteraria di Platone. Agli occhi di Hegel questo è il massimo capolavoro della dialettica antica. Secondo il celebre… compagno di studi e amico di Bertrand Russell, Whitehead, l’unico modo per definire la filosofia contemporanea è: «Note a margine su Platone».
L’ISTANTE DELL’INTUIZIONE
Ci sono dei piccioni che accompagnano, tubando, questa conversazione. Senza dubbio anche il mondo greco non condusse i suoi dialoghi filosofici in appositi locali isolati: si sentivano risuonare le onde del mare, e sicuramente si udiva anche il tubare dei colombi.E se ora volgiamo la nostra attenzione al dialogo su Parmenide, innanzitutto risulta evidente l’immensa dignità che Platone attribuisce al vecchio Parmenide, poiché questo, con grande superiorità, riconosce al giovane Socrate il genio che lo contraddistingue, e discutendo con lui, lo convince infine di non avere in mente alcuna idea razionale di ciò a cui sempre si tende quando si pensa a queste verità immutabili e ideali di cui prendiamo parte. In che senso vi prendiamo parte? Che cosa sono queste verità, certe e incrollabili? È come se dicessimo: «Sì, noi uomini siamo pieni soltanto delle nostre esperienze. Quello che accade nel mondo dei numeri è sapienza divina. E così ci sono due mondi che non sanno nulla l’uno dell’altro. Non c’è nulla che possiamo conoscere con la precisione dei matematici»! È questa, dunque, l’essenza del pensiero?
Questa premessa induce poi Parmenide a creare un gioco di passaggi dialettici, dal cui fondo emerge qualcosa che, rispetto a tutte le opposizioni e a tutte le variabili, si staglia come una verità superiore; ed è la singolare, sempre inafferrabile e incalcolabile immediatezza dell’intuizione. L’essenza misteriosa dell’istante improvviso, dell’exaífnes, è per noi quasi un’eredità che il pensiero greco ci ha lasciato per affrontare il nostro futuro. Vi fu un pensatore che per primo colse l’importanza di questo passo, che ci parla dell’istante senza tempo, impossibile da misurare e perciò estraneo all’alternativa fra quiete e movimento. L’essenza di quello che forse potremmo chiamare «attimo», o magari anche «momento», fu riscoperta da quel grande filosofo, e cioè Kierkegaard. Nel suo libro Il concetto dell’angoscia egli ha dedicato una lunga nota a questo passo del Parmenide platonico, mostrando che l’essenza dell’attimo è il mistero della nostra presenza psichica e spirituale, che racchiude e sostiene in sé tutte le differenze.
EPICUREISMO E STOICISMO
Bisogna ricordare che la grande epoca in cui la filosofia greca, ad Atene, ha affrontato i temi vitali della società con particolare vigore (pensiamo alla città ideale di Platone, ai suoi dialoghi sulle leggi, alle lezioni di Aristotele sull'etica e la politica) è stata in verità anche l'epoca del declino della vita politica della polis greca. L'ideale di questa democrazia è stato pienamente descritto da Aristotele, il quale osserva, fra l'altro, che una città non dovrebbe mai ingrandirsi al punto da impedire che la voce stentorea di un araldo raggiunga simultaneamente tutti i cittadini. Sarebbe paradossale tentare di applicare questa profetica norma di Aristotele all'epoca attuale, nella quale i mass media sono certamente in grado di soddisfare questa condizione, ma purtroppo non hanno un Aristotele che metta in pratica quell'ideale. In ogni caso, la grande cultura, questo immenso potenziale culturale che viene via via raccogliendosi ad Atene, continua anche in epoca macedone, anche sotto l'amministrazione dei successori di Alessandro e per molto tempo ancora, in sostanza fino alla fine dell'Accademia, intorno al V,VI secolo dopo Cristo. L'Accademia, fondata da Platone, ha avuto una durata paragonabile a quella dell'Impero romano.
LA FORMAZIONE DELLE SCUOLE
Insomma, è chiaro che la filosofia viene costituendosi in scuole, anzi, solo in questo periodo si può cominciare a parlare di "scuole" vere e proprie. Tutto quello che precede Platone e Aristotele è semplicemente una proiezione a ritroso di ciò che solo in seguito si è andato configurando come il sistema educativo greco. Così anche tutti i filosofi successivi, che continuarono a concentrarsi in Atene, sono stati considerati fondatori di scuole. Oggi possiamo dire che vi fu qualcosa come una "scuola cinica". Ma sicuramente non si trattò di una scuola vera e propria: basti pensare che la sua sede sarebbe stata la celebre botte di Diogene, dalla quale, rivolgendosi ad Alessandro Magno, alla richiesta di quest'ultimo: "Che cosa posso fare per te?", il filosofo aveva risposto: "Togliti, mi copri il sole!". Non si tratta più di una scuola vera e propria. La polis ha perso la sua autonomia, come tutte le città della Grecia. Ormai sono i re macedoni e i loro discendenti a dominare la politica della regione, e poco alla volta si fa percepibile, a oriente, anche l'influenza di Roma. Ma in ogni caso, viene maturando una filosofia che è espressione di questa situazione sociale e politica, che noi chiameremmo nazionale, anche se questo concetto ancora non esisteva. Diciamo piuttosto che la società cittadina, (cornice politica di tutto il pensiero degli ateniesi nei secoli precedenti)… non è ormai più quella di un tempo. Abbiamo dunque a che fare con correnti filosofiche, in cui - per citare una famosa frase di Karl Marx -… "brilla la lanterna del privato". I pensatori si ritraggono dalla scena pubblica, abbandonandola, e le scuole diventano… refugia, luoghi di ritiro. E in particolar modo… questo vale per le grandi scuole dell'epoca, soprattutto per due di esse, che hanno mostrato una consistente durata storica: la scuola degli epicurei e quella degli stoici. Vorrei cercare di mostrare come questi due indirizzi, che si formarono inizialmente ad Atene come correnti di pensiero e di scuola, abbiano influenzato attraverso i secoli, diffondendosi a Roma, l'intera storia universale dell'Occidente, su cui hanno esteso la propria sfera d'azione.
IL GIARDINO DI EPICURO
Già il nome stesso della scuola in cui Epicuro riuniva i suoi amici ed esponeva le proprie dottrine, è sintomatico: si chiamava "il Giardino". Sicuramente ciò deriva dal fatto che queste riunioni avevano luogo in una dimora con un bel giardino, appunto. Che il nome dell'intera scuola fosse infine proprio questo, è un fatto assai eloquente; e ci fa venire in mente anche la celebre frase con cui Voltaire rispondeva a chi gli domandava che cosa pensasse del futuro, o di cose simili: "Lasciate che io vada a occuparmi del mio giardino!" (queste erano più o meno le sue parole). Il giardino rappresenta già nella prima antichità qualcosa come… la sfera protetta della vita privata. Ma questo "giardino"… ha anche la peculiarità di dare il nome a una scuola, perché il suo fondatore, Epicuro, vi insegnava e rappresentava filosoficamente il mondo e la condotta di vita degli epicurei. Per capire il significato di ciò, dobbiamo per un momento liberarci da una certa immagine che ormai fa parte del nostro linguaggio, secondo la quale è epicureo un uomo dedito al piacere. Non è del tutto falso; va detto, però, che egli non è dedito al piacere perché ama il buon cibo, ama bere, desidera le belle donne o altro ancora,… bensì in quanto coltiva nei confronti di queste cose… anche una certa… cura spirituale e interiore, insomma una cultura dell'anima… in senso proprio. Vorrei peraltro ricordare che la parola "cultura" ha esattamente questo significato: il latino agricultura, la cura dei campi, conserva ancora oggi questa valenza di "coltivazione". E così, ad esempio, quando parliamo dei terreni in campagna, diciamo: "a che punto sono le colture?". Ebbene, una cosa è chiara: Epicuro… ha saputo concepire, in quest'epoca di decadenza politica… e della vita pubblica, una sorta di… rifugio, un atteggiamento… di serenità e di armonia dell'anima, in cui si riconoscevano persone molto dotate, spiritualmente aperte, giovani e non più giovani. Certamente non disponiamo delle opere di queste scuole filosofiche nella stessa misura in cui possediamo quelle di Platone e di Aristotele (casi fortunati, più unici che rari). Il fatto che ci rimangano tutti gli scritti di un filosofo come Platone, si spiega naturalmente con la straordinaria qualità poetica e letteraria dello stile platonico. Che poi di Aristotele, pur non possedendo nulla degli scritti da lui pubblicati, resti comunque la massa dei manoscritti e degli appunti sulla base dei quali costruiva le sue lezioni, è ancora una volta un bel colpo di fortuna. La storia ci lascia in eredità un'opera di grande valore, capace di enormi ripercussioni. Né di Epicuro, né della Stoà, né delle altre scuole di questa nuova era, ci sono pervenuti scritti in forma altrettanto completa.
L'EPOCA DELL'ELLENISMO
In quale epoca ci troviamo? Oggi abbiamo un nome con cui chiamarla: si parla infatti di "età dell'ellenismo". È un'espressione fittizia,… inventata e imposta da uno storico tedesco, Johann Gustav Droysen, che per primo scrisse una "storia dell'ellenismo", affrontando, in più volumi, un periodo che l'Umanesimo e… l'età rinascimentale avevano fatto passare più o meno sotto silenzio. Non già i filosofi che vi appartennero, bensì quest'epoca nel suo complesso è stata considerata come un'età di decadenza. Trascorsa la fase classica (dopo i vertici artistici della tragedia greca, della scultura e della filosofia ateniese), seguiva un periodo di declino, finché a Roma, in particolare con l'assimilazione del cristianesimo, ebbe inizio una nuova età del mondo. Proprio così era visto il periodo fra la morte di Alessandro Magno e l'inizio dell'era cristiana. In tal senso è stato un grosso risultato, per uno storico, aver mostrato che l'ellenismo non fu semplicemente un'epoca di declino, ma offrì in tutti i campi una preparazione del futuro incredibilmente feconda. Noi parliamo oggi di scienza ellenistica. Con ciò intendiamo dire che la filosofia non ebbe più il ruolo di istituzione pubblica, e comunque non con il significato che avevano avuto l'Accademia o il Liceo ad Atene, che - certo - continuarono la propria attività, ma ormai solo alla stregua di scuole superiori, prive delle originarie capacità innovative. Lo stesso si può affermare per tutto ciò che avvenne in quel periodo. Ma l'aver mostrato che quest'epoca, questa presunta decadenza, rappresentò in realtà la preparazione della nuova religione mondiale: il cristianesimo, questo è - in primo luogo - il merito di Droysen. Il termine "ellenismo" gli fu, per così dire, suggerito dalla stessa lingua greca, in cui "ellenízein" significa appunto "parlare greco". L'ellenismo è dunque l'epoca in cui nell'intera "oikumène", in tutto il mondo abitato intorno al Mediterraneo, si comincia a parlare greco. Vedremo che in questo senso l'ellenismo giunge fino a Plotino e alla Corte imperiale romana, nel secondo e nel terzo secolo dopo Cristo.
Ho voluto fare questa digressione, solo per offrire il quadro storico di un'epoca che conobbe grandi sviluppi scientifici, nel campo dell'astronomia (con la cosmologia tolemaica), ma anche nella meccanica e nella medicina: in tutti i settori della cultura greca ci fu in un certo senso una sorta di età delle scienze.
Epicuro… fu il vero e proprio fondatore di un siffatto centro culturale, chiamato appunto "il Giardino", in quanto seppe attribuire a questa vita ritirata nella pace del giardino… un certo significato simbolico. Risale a Epicuro… (soprattutto…) la scoperta dell'importanza che la scienza e la conoscenza della natura possono assumere per la pace dell'anima, quando corrono tempi non più tanto idilliaci per le cose del mondo. Che cosa pensasse Epicuro, lo ricaviamo dai suoi scritti (dirò subito che cosa è in nostro possesso). Da essi emerge chiaramente su che cosa si fonda la fortuna storica di Epicuro. Di lui possediamo invero due lettere, - lunghe lettere - proprio nel senso "letterario" del termine - indirizzate ad altrettanti amici del filosofo, nelle quali espose lucidamente e in maniera sintetica, verso la fine della sua vita, le tematiche della sua dottrina e i propri suggerimenti per la felicità dell'uomo. Le due lettere, indirizzate a Erodoto e a Meneceo, ci consegnano circa una ventina di pagine in tutto, redatte in una lingua insieme elegante, fluente e aulica, ma senza la pretesa di erigersi a capolavoro di un determinato stile. È anche per questo che risultano ben traducibili, e hanno trovato diffusione in tutte quelle lingue del mondo, in cui ci si interessa di filosofia greca, e naturalmente i loro contenuti vanno al di là dell'immagine popolare che si tramanda degli epicurei.
Ma prima di entrare nel dettaglio vorrei ricordare un'altra cosa importante… esiste un bellissimo libro, un romanzo… di Walter Pater, un filologo inglese che era anche poeta. Il racconto è intitolato Marius the epicurean (Mario l'epicureo), un romanzo in due volumi che descrive un giovane aristocratico all'epoca dell'imperatore Marco Aurelio. Costui trascorre la sua giovinezza sotto l'influenza decisiva della filosofia epicurea, venendo infine a contatto con il cristianesimo che si va diffondendo nelle catacombe - un incontro per il quale egli non è spiritualmente e interiormente ancora pronto, e che lo colpisce in maniera inquietante per la misteriosa solidarietà della comunità catacombale…. Quest'uomo, però, con tutta la sua spiritualità, mostra già i segni dell'avvento della religione universale cristiana in un rappresentante della cultura romana.
NEL SOLCO DI DEMOCRITO
L'ellenismo copre un arco di tempo che si estende dagli anni intorno al 300 avanti Cristo… fino all'epoca del secondo, terzo secolo dopo Cristo, appena prima che il cristianesimo si affermasse come religione universalmente riconosciuta, con l'età di Costantino. Ma la preparazione vera e propria di quella temperie religiosa, di quel clima di sgomento che ormai in età romana dominava l'intero mondo spirituale greco, non era ancora avviata… l'interesse era ancora rivolto a ciò che rimaneva irrisolto nella questione della felicità… Questa incapacità di essere pienamente felici, coincideva per molti versi con l'incapacità a rassegnarsi ai limiti imposti sotto molti aspetti alla vita umana. Per questo la visione del mondo epicurea è innanzitutto una sorta di inno alla gioia della conoscenza teoretica. In giovinezza, Epicuro divenne indirettamente famoso grazie alla figura di Democrito, di cui fu allievo, il che ha influito su tutta la sua vita. Pertanto, è opportuno soffermarsi brevemente su Democrito. Non lo abbiamo ancora fatto nella nostra trattazione della filosofia greca, ma non per nostra trascuratezza. Su di lui grava infatti il giudizio della storia universale. Democrito era un contemporaneo di Socrate,… ma, come viene riferito nella letteratura greca, proveniva da Abdera, nel settentrione del Paese, una delle tante piccole pòleis in cui era divisa l'Ellade - una città portuale, naturalmente. (In Grecia ci sono solo città portuali! Peraltro con una costa collinosa. Particolarmente adatta ai vigneti). Democrito di Abdera, dunque. Si racconta che fosse uno scrittore celebrato: ha lasciato una massa enorme di scritti, come sappiamo dalla Biblioteca Alessandrina, e, ciò nonostante, a noi non resta neppure una pagina. Tutto sparito! Egli uscì per così dire - sconfitto - da una grande disputa filosofica. Lo smacco da lui subìto risulta evidente ad esempio in un aneddoto, che mi sovviene, secondo il quale Democrito avrebbe detto: "Quando giunsi ad Atene, non c'era nessuno che mi conoscesse". Sono parole di un uomo famoso, che arriva in un centro di cultura filosofica, ma non viene riconosciuto. Per quale ragione? Questa è una di quelle grandi decisioni della Storia che spesso segnano effettivamente il destino della filosofia, come accade fino alla nostra epoca.
LA CONSAPEVOLEZZA DEI LIMITI
Democrito è, come tutti ricorderanno, il fondatore della teoria atomistica. È lui il primo ad aver introdotto nella fisica l'idea di atomo, ovvero di una particella ultima indivisibile. Non si tratta, naturalmente, della nozione di atomo dei moderni. È un concetto estraneo a quella particella infinitesimale di cui sono costituite le molecole, e che risulta composta a sua volta, come sappiamo noi oggi, di corpuscoli ancora più piccoli, misteriosamente saldati fra loro. Quello di Democrito è, evidentemente, un concetto di atomo più ingenuo, di natura corporea. Io stesso ho pubblicato uno studio sulla differenza fra l'antica teoria atomistica e quella dei moderni, e ho avuto la grande gioia di vedere molto apprezzato il mio saggio dal collega e amico Heisenberg. Ma torniamo alla teoria atomistica. È evidente che uno dei possibili sviluppi dell'illuminismo greco era quello di spingere così a fondo la conoscenza della natura, da considerare in realtà anche il grande passato mitico e religioso e la tradizione della Grecia come una minaccia per la pace dell'anima… Epicuro fu colui che seppe trarre questa conseguenza, con la sua dottrina, con la saggezza, con la serenità e con l'ideale di screditare la paura della morte, mostrando che chi teme la morte non è in grado di pensare. Chi pensa, infatti, si rende conto di questo: "Di che cosa hai paura in realtà? Che cos'è mai - la morte? Quando ci siamo noi, essa non c'è ancora, e quando essa c'è non ci siamo più noi. Perciò, manteniamo la calma! È del tutto naturale per un vivente seguire la propria curva vitale dalla nascita alla maturità, fino alla cessazione definitiva. Questi sono all'incirca i termini con cui Epicuro si rivolge agli uomini, con grande finezza psicologica, per chiarire che cosa sia in effetti la conoscenza, in che cosa consistano i piaceri della teoria, cioè la beatitudine di cui ci si appaga quando si percepisce innanzi a sé, come qualcosa di sovrastante, la saggezza, l'ordine, l'armonia, ovvero, per usare le parole di Kant, "il cielo stellato sopra di noi"… Di qui… l'importanza della scienza astronomica, ma anche di tutte le conseguenze spirituali legate a questa passione teoretica per ciò che è grande, armonico e stabile. In tal senso Epicuro, nelle sue lettere, non si è limitato a raccomandare soltanto la dedizione all'esistenza teoretica, alla ricerca e alla comprensione dell'ordine della natura,… ma ha anche descritto gli effetti che vi si connettono, cioè la conquista di una superiore serenità di fronte ai… limiti, ai confini che sono posti all'esistenza umana, la capacità di riconoscerli. E qui, con le parole di Epicuro, continua a parlarci un pensatore davvero grande, quale fu Democrito.
IL POEMA DI LUCREZIO
Democrito fu un grande pensatore, non solo perché la sua fisica - sia pure in forma molto modificata - si è imposta nel corso dei secoli XVII e XVIII, e infine nell'Ottocento come teoria fisica dominante, ma, appunto, non solo per questo, bensì anche e soprattutto per il suo atteggiamento di fondo… assai confacente al mondo moderno.
Il suo modo di atteggiarsi va ricondotto in un certo senso a un illuminismo radicale, nei confronti del quale la tradizione mitica e la consuetudine sociale non riescono a esercitare una funzione equilibratrice. Nel mondo moderno, nel nostro secolo, anzi già alla fine del XIX secolo, si è affermata con forza l'istanza che fu fatta propria dalla scuola viennese, i cui esponenti sono logici radicali, come… Carnap, Wittgenstein, e in qualche misura anche Popper, che in fin dei conti condivide, seppure in maniera critica, questo spirito viennese. Tutti costoro, in fondo, subiscono l'influenza di Democrito, cioè sono, nell'intimo, antiplatonici. È infatti Platone - in buona sostanza - il responsabile della "rimozione" di Democrito. Come e perché ciò sia accaduto, non lo so, non lo sa nessuno. Ignoriamo quale ne sia stata la ragione, ma è proprio così: Democrito non figura nemmeno una volta in tutta l'opera scritta di Platone, nella quale ritroviamo invece, in tutti i dialoghi, molti altri nomi di maestri del pensiero. - Ma non Democrito. È solo con Aristotele che ci giunge notizia della presenza di tali teorie di Democrito sugli atomi, assieme alle critiche che lo stesso Aristotele rivolse, uniformandosi evidentemente a Platone, a questo pensiero radicalmente illuminista. Ebbene, questo è un fatto… di enorme importanza. Noi non saremmo in grado di farci un'idea… dell'opera di Democrito e del significato che questa ebbe per la scienza antica (ma anche per quella moderna) se non possedessimo un poema della letteratura romana, opera di un lontano, anzi lon-ta-nis-si-mo allievo degli scolari di Epicuro e Democrito: il grande poema didascalico di Lucrezio, intitolato De rerum natura, "Sulla natura delle cose", nel quale, con rara forza poetica (e ormai nel primo secolo avanti Cristo), viene esposta la complessa materia della teoria atomistica e del radicale illuminismo democriteo. Vi si possono leggere cose sublimi, e fino all'epoca moderna non c'è grande pensatore o scrittore che non abbia letto e ammirato Lucrezio…. Si pensi, ad esempio, alle pagine in cui viene descritto l'amore come incerto tentativo di accedere, con le carezze, a quella segreta riservatezza che separa l'uno dall'altro… quasi l'ultimo anelito di conciliazione, nel compiere un atto di disperazione estrema. Si può dunque trovare anche nel pensiero sobrio e illuminista dell'epicureismo l'attrattiva di una disposizione d'animo realmente poetica. È quanto avviene in questo poema.
Quella di Epicuro e i suoi fu dunque senz'altro una grande scuola. A Napoli - da dove sto parlando ora - si è ricostruito il pensiero di molti allievi di Epicuro a partire da frammenti carbonizzati conservati nelle rovine di Ercolano e Pompei e che ora, grazie a moderne tecnologie, rivelano un poco alla volta, e con paziente lavoro, il segreto di quanto vi fu inciso. Sono stati rinvenuti scritti di Filodemo e di altri. Io stesso non ne so molto. Devo anche ammettere che trovo straordinario, come sia ancora possibile decifrare dei pezzetti di carbone. Ma, in fondo, non è necessario arrivare a tanto: ci basta poter leggere Lucrezio per sapere quale fosse propriamente l'intimo significato dell'epicureismo. Per questo ripenso a quel meraviglioso romanzo di Walter Pater, di cui consiglio una traduzione in tutte le lingue di cultura del mondo - laddove non esista - oppure una nuova edizione.
IL PORTICATO DEGLI STOICI
Da tutto ciò deriva l'impressione - ed è qui che voglio arrivare - che, accanto alle altre scuole ellenistiche, l'epicureismo non sia stato soltanto un ramo secondario, ma abbia rappresentato per l'appunto un presupposto fondamentale per lo sviluppo della cultura nell'antichità. Naturalmente ci sono anche altre scuole e, inoltre, le scuole si trasformano. Se le nostre conoscenze fossero maggiori, probabilmente tratteremmo dell'epicureismo come facciamo con altre correnti di scuola, distinguendo cioè un epicureismo originario, un epicureismo medio, e un tardo epicureismo. Proprio questa suddivisione si attaglia invece all'altra grande scuola filosofica dell'ellenismo, vale a dire quella stoica, la Stoà. Questa si presenta in modo un po' diverso. Non si tratta di un giardino; è piuttosto una sorta di porticato, attraverso il quale si può andare e venire, e in questo senso ha una maggiore apertura al mondo. Ma anche se non si può dire che la Stoà sia "illuminata dalla lanterna del privato", tuttavia anch'essa si trova a debita distanza dalla vita pubblica. Molta parte del destino del mondo tardo-antico si rispecchia nella dottrina stoica, secondo cui l'uomo non è cittadino di una nazione, bensì cittadino del mondo. "Cittadino del mondo" è anzi un concetto stoico. Esso non connota semplicemente una qualche disposizione liberale o una certa tolleranza, e tutto ciò che vi si richiama, ma sta a indicare qualcosa di molto diretto e preciso, vale a dire che la libertà… del cittadino è raggiungibile per chiunque, anche per lo schiavo in catene. Questo è stoicismo! E qui tutto dipende dalla propria forza d'animo, che consente di aver ragione del destino. Il pensiero di fondo della tarda Stoà è ben caratterizzato da questa espressione: "La nostra peculiarità dobbiamo… assumerla come un compito" - questa è la nostra libertà". Ma, in definitiva, dobbiamo comprendere che la cosa importante è uniformarsi correttamente alle leggi della natura. Lo slogan della Stoà era "homologuménos zèn", che letteralmente significa "vivere in accordo con se stessi". In seguito la scuola stoica estese questo concetto a indicare che innanzitutto è importante vivere in accordo con le leggi della natura. Qui devo fare un passo indietro, per mostrare in maniera ancora più precisa, il confronto fra queste due scuole, in contrasto fra loro, quella epicurea e quella stoica e per evidenziarne le implicazioni dottrinali.
LA LIBERTÀ DALLE PASSIONI
La scuola epicurea e la nozione stessa di "epicureo" hanno attraversato, come abbiamo visto, un arco temporale davvero ampio. Quando usiamo l'aggettivo "stoico", invece, ci riferiamo a una corrispondenza più diretta con la Stoà vera e propria. Si parla ad esempio di "impassibilità stoica"; in Orazio leggiamo queste parole: "Se anche la Terra, l'intero universo crollasse, impavidum ferient ruinae, le rovine seppellirebbero un impavido". Questa è la virtù stoica dell'impassibilità rispetto a tutte le passioni, e in particolare a tutte le paure, ed è anche il significato popolare che si attribuisce alla parola "stoico",… che non ha conosciuto la deformazione che ha invece interessato il concetto di "epicureo" in epoca moderna. Sarebbe opportuno riflettere sul motivo per cui questo atteggiamento stoico si sia conservato tale nelle diverse costellazioni culturali. Perciò, come è bene ricordare, nel caso della Stoà parliamo di una prima, antica Stoà (Zenone, Crisippo e altri),… di una Stoà media (Panezio e Posidonio), e… infine anche di una Stoà romana, che poi è entrata nella coscienza popolare con Cicerone e, soprattutto, con Seneca. Chi conosce i quadri famosi, nei quali insigni pittori hanno descritto la morte di Seneca, ha ben presente la forte esemplarità che gli stoici ponevano nel loro modo di atteggiarsi. Seneca, un ministro di primo piano, se così si può dire, nell'epoca imperiale di Nerone, cadde in disgrazia e fu infine condannato a darsi la morte. In circostanze del genere, alle persone benemerite veniva offerta la possibilità di sottrarsi all'esecuzione pubblica, suicidandosi. Però, le cose sono ancora… più complesse, nel caso della Stoà, perché entra in gioco anche la consapevolezza della libertà umana. C'è un'unica forma di suicidio… che, possiamo immaginare, consenta all'uomo la libertà di pentirsi: chi magari… si spara, o si getta sotto un treno in corsa, si lancia dalla finestra di un palazzo, può agire anche per mancanza di libertà, per paura del futuro, in preda a uno stato d'animo. Invece chi si taglia le vene dei polsi… e lentamente… lentamente si dissangua, in qualunque istante può dire: "Basta, voglio continuare a vivere!". Questo tipo di suicidio, assieme alla morte per inedia (la rinuncia al cibo, la volontaria morte per fame), erano dunque le classiche forme di suicidio del mondo stoico,… poiché conservavano la libertà fino all'ultimo momento. Persino nell'immagine popolare dello stoicismo è presente l'idea che per esso la libertà consista in tali forme di autocontrollo. Ciò che sta in noi - "tò ef'emîn" - questa è la parola d'ordine della tarda Stoà!
L'ATTUALITÀ DELLO STOICISMO
È giusto comunque tener presente che si trattò di un movimento molto grande, al quale vanno ascritti parecchi meriti:… anche nel campo della logica e della filosofia del linguaggio la Stoà ha compiuto un grosso passo avanti rispetto a Platone e ad Aristotele. Non posso qui entrare nei particolari; dovremmo scendere troppo nel dettaglio, e spiegare come anche la metafisica… sia stata trasformata dagli stoici. Quello che tutti conoscono della Stoà è la concezione del lògos. Quest'ultimo viene inteso come un seme: "lògos spermatikòs"; elementi della ragione seminale costituiscono l'intero universo. In definitiva, questo logos, questa forza evolutiva della ragione, si ritrova ovunque nell'essere. Anche l'uomo, nella sua libertà, dovrebbe sempre assumere come modello ciò che egli non può modificare, per impegnarsi stoicamente nell'accettazione di questi limiti, di cui fanno parte anche la malattia e la sofferenza. Se nel mondo, per ipotesi, si affermassero un tenore di vita e una disposizione d'animo stoici, si potrebbe ad esempio risolvere almeno un problema, ormai inesorabile, quello dei malati cronici nei nostri ospedali, che richiede altrimenti nel paziente una disposizione alla fede cristiana. Oggi, invece, molti si rifiutano di accettare i dettami del cristianesimo, e perciò in questi momenti di dolore e di trapasso si sentono terribilmente soli. Ma questo è un discorso a sé stante. Con tutto ciò volevo mostrare solo una cosa: qui si nasconde una sorta di esortazione ad appropriarsi realmente di quei concetti che appartengono alla libertà dell'uomo. In questo senso vorrei richiamarne uno che ha di fatto assunto il giusto valore solo nella visione del mondo degli stoici. È merito di un libro di Cicerone, il De officiis, quello di avergli dato la giusta evidenza. Si tratta del concetto di dovere. Se pensiamo che il dovere, la sua inderogabilità, rappresenti per la Stoà un grande sistema di indirizzo, possiamo farci un'idea di quale fu la forza vitale della concezione stoica del mondo attraverso i secoli. In effetti, non vi sono soltanto queste tre fasi della scuola stoica, la quale, dal canto suo, ha avuto una notevole evoluzione, come si può immaginare, non solo come impulso a conservare l'impassibilità dell'anima, ma anche come desiderio di comprendere l'armonia dell'universo. Un grande filologo ha scritto un libro molto bello su Posidonio, che si intitola Cosmo e simpatia. "Simpatia" non nel senso di umana passione, bensì come forza cosmica, che si esplica nell'azione comune e reciproca, e quindi anche nel prendere parte alle cose, alla vita dell'uomo e della natura nel suo complesso.
CASO E VOLONTÀ ORDINATRICE
Come ho già detto, è Lucrezio a mostrarci che Epicuro e la sua scuola discendono in realtà da Democrito. Chiediamoci: come è sorto l'ordine del mondo? Innanzitutto c'era una confusione di atomi e, in sèguito, casualmente, gli atomi hanno iniziato ad aggregarsi. Fu poi da questo punto di partenza che, per così dire, si è sviluppato il mondo. Non mi soffermerò a descrivere, ora, il modo in cui la fisica attuale presenta la nascita dell'universo dopo il "Big bang", ma il quadro d'insieme è simile. Non si tratta di altro che di un caso,… di una deviazione. Epicuro è ancora più estremo in tal senso, in quanto, come aristotelico, ha presente anche tutta la dottrina di Aristotele, e quindi conosce tra l'altro la nozione di caduta. Tutto ciò che è pesante cade, tende verso la terra. Perciò gli atomi sono anch'essi una sorta di continua pioggia di atomi. Però essi non cadono in maniera ordinata, bensì secondo "declinazione". È un termine da non confondere con l'espressione grammaticale a noi nota: esso appartiene alla teoria atomistica. Accade cioè che un atomo, nella sua caduta, finisca per aggregarsi a un altro atomo che gli sta accanto. In questa maniera, lentamente, proprio come direbbe un astrofisico dei nostri giorni, un poco alla volta si genera una differenziazione nella materia originaria, e da questa prende avvio l'intera storia dell'evoluzione dell'universo che negli ultimi decenni molti esperti scienziati sono effettivamente riusciti a descrivere. Ebbene, c'è voluto del coraggio intellettuale per ammettere che questo meraviglioso ordine del mondo fosse un prodotto del caso. A questa concezione si contrappone ovviamente… la convinzione opposta, altrettanto forte, assai rilevante in Platone e in Aristotele, e che non di rado troviamo espressa nei dialoghi: Platone, ad esempio, descrive Socrate nell'atto di rivolgersi a un suo interlocutore con queste parole: "Potresti tu forse immaginare che questo ordinamento, l'alternarsi del sole e della luna, e gli strani movimenti delle orbite dei pianeti, e tutto ciò che accade nel cielo con esemplare precisione possa essere frutto del caso? Dietro tutto questo deve esserci uno spirito ordinatore". Ecco, questa è la sua risposta! Perché, però, Democrito fu sconfitto, e vinse invece la linea di Platone? Il fatto è che Platone era un'anima naturaliter christiana; nella critica all'immagine atomistica del mondo egli poteva argomentare in maniera più convincente, in quanto il popolo, in generale, non era ancora in grado di comprendere un ordine diverso da quello creato dall'uomo stesso. Tale ordine, in definitiva, è lo spirito organizzatore che troviamo nel grande artigiano, nel grande artista, e soprattutto in Prometeo, una figura mitica che si leva al di sopra dell'intero sviluppo culturale greco. Ecco, la "poiesis" - il saper fare: questo è il modello del vero ordine. …Infine, l'evoluzione religiosa dell'Occidente poteva facilmente assorbire questa mentalità nel passaggio al mondo cristiano.
È probabile che nella lezione su Platone io non abbia parlato del Timeo. Ma il Timeo, che è descrizione del racconto mitico della costruzione del mondo da parte di un demiurgo,… è stato continuamente chiamato in causa nella tarda antichità e dai Padri della Chiesa come anticipazione della dottrina della creazione dell'Antico Testamento, ricevendo in tal modo il plauso della Chiesa cristiana.
Per finire, ancora un cenno a due concetti, che tutti possono intuire come fondamentali: il rifiuto di vivere contro le leggi della natura, e l'adempimento all'idea del dovere. Un grande imperatore romano, all'epoca di Plotino, ha scritto le sue memorie… - In se ipso - si tratta del vecchio Marco Aurelio, che esprime le sue idee stoiche, la sua autocritica come imperatore, il rifiuto di qualsivoglia tentativo di autoglorificazione, e lo fa nel modo migliore, utilizzando i mezzi del pensiero stoico. Da ciò si è generata nell'epoca moderna, nel Rinascimento e in ciò che da esso discende, una nuova Stoà. Questo nuovo stoicismo, oserei dire, rappresenta in verità la forma mentis, l'abito culturale degli scienziati di tutto il mondo.
DA ERACLITO A SOCRATE
È davvero una cosa insolita ripercorrere le fasi iniziali del pensiero greco (la "filosofia dei Presocratici", come si dice comunemente), evitando di adottare i criteri e i punti di vista della tradizione successiva, vale a dire quelli dell’Accademia platonica e della scuola aristotelica, in particolare. In queste interpretazioni si riassume l’intero destino che la storia ha assegnato a due imponenti figure, quali furono Parmenide ed Eraclito. Costoro, infatti, non rappresentano, in verità, dei semplici elementi di un edificio della storia del pensiero, che Aristotele stesso cercò di progettare e costruire; e che, naturalmente, era architettato secondo una ben precisa intenzione filosofica. Vedremo in seguito che Aristotele – nel tentativo di prendere le distanze dall’infinita superiorità e anche dal carisma del suo grande maestro, Platone, e di reperire una via autonoma – fu costretto a muoversi fra la tradizione da cui proveniva e la sua predilezione per la natura vivente, senza indirizzarsi al mistero dei numeri e dei loro rapporti. Per Aristotele questa fu, per così dire, una attrazione impellente, che lo spinse a interpretare tutti i pensatori precedenti come una propedeutica alla sua stessa fisica e alla sua filosofia della natura. Perciò, già parlando di Talete, ho voluto mostrare che in realtà vi si nasconde ben altro che il solo elemento - acqua. In età moderna questa filosofia è stata persino chiamata ilozoìsmo, intendendo con ciò l’ipotesi di una materia piena di vita; ma il termine hyle, "materia", è appunto una categoria aristotelica e non coglie affatto ciò che si aveva di mira fin dal principio, cioè il mistero della totalità dell’essere, (dove sia, come si regga, quale ordine abbia, come diventi cosmo). Ne abbiamo già trattato, e abbiamo visto che fu Parmenide a sollevare una prima obiezione nei confronti di questo modo di pensare, e la sua critica fu ripresa, in seguito, più da Platone che da Aristotele. Ma lo stesso Eraclito non può essere a sua volta inquadrato in queste categorie. Ho riportato solo un paio dei suoi enunciati più avvincenti, poiché nel suo caso la citazione è, per così dire, quasi la forma più adeguata per avvicinarsi a questo pensatore. Eraclito non fu una figura di maestro, quale magari si può supporre, e in parte anche ritrovare, in altre tradizioni; già nell’antichità ebbe fama di essere l’oscuro, cioè colui che pronuncia massime misteriose e profonde. Un aneddoto che ci è stato tramandato racconta che a Socrate fu sottoposto il libro delle massime di Eraclito, perché lo leggesse; di esso Socrate avrebbe detto:
"Quello che ho capito è eccellente; sono convinto che quello che non ho capito sia altrettanto eccellente. Ma ci vorrebbe un bravissimo pescatore per riportare alla luce tali prelibatezze dal fondo del mare".
Fu dunque un certo misterioso modello stilistico di Eraclito ad attirare fin da principio l’attenzione, grazie al paradosso, alla formulazione sorprendente, con cui viene detto: La via in salita e in discesa è una e medesima. Le quotidiane aspettative di tutti vanno in frantumi, e si dischiudono così nuovi orizzonti di pensiero. Si tratta, in realtà, di quello che nel linguaggio attuale chiamiamo lo "speculativo", e tale uso linguistico – lo speculativo – è quello proposto da Georg Wilhelm Friedrich Hegel. Quest’ultimo grande – "greco", starei per dire (sebbene Hegel fosse uno svevo che consolidò a Berlino la sua fama mondiale) disse, in effetti, dei frammenti di Eraclito:
"Non conosco alcuna proposizione di Eraclito che non avrei potuto accogliere nella mia logica, nel testo fondamentale in cui espongo le mie dottrine filosofiche".
Fino a tal punto l’elemento speculativo (questa segreta contraddizione tra l’asserzione contraddittoria e la convincente unità di senso che vi si esprime) rappresenta un tratto comune che unisce il brillante fabbro di aforismi, Eraclito, con il dialettico, Hegel, il cui metodo, anch’esso sovente misterioso, è universalmente noto.
Comunque sia, neanche Eraclito si inserisce adeguatamente nello schema col quale Aristotele ha voluto reperire i passaggi che hanno preceduto e preparato il suo proprio pensiero.
IL FULMINE GOVERNA OGNI COSA
Se ci chiediamo quale elemento giochi in Eraclito un ruolo decisivo al fine di rendere comprensibile l’ordine del mondo, la risposta che ne deriva è certamente singolare: è il fuoco. Davvero il fuoco spiega l’ordine del mondo? Ciò sarebbe del tutto incomprensibile, se già non sapessimo che per i Greci, nel pensiero degli albori, calore e fuoco erano strettamente connessi tra loro. Egli non ha in mente tanto il fuoco che consuma, divora e tutto distrugge quanto piuttosto un altro fuoco, un’altra sostanza. Che cos’è propriamente il fuoco per il pensiero greco? È qualcosa che appartiene a tutti noi esseri viventi, in quanto siamo animali a sangue caldo: una specie di materia prima del calore. Così possiamo avere una prima spiegazione del perché il fuoco debba essere un elemento. Ma questo, in che relazione sta, a sua volta, con i fuochi lassù in cielo, il sole e le stelle? Dobbiamo pensare a combinazioni molto azzardate; dovremmo supporre, che se Eraclito ha davvero parlato del fuoco con questa particolare enfasi che sappiamo, doveva trattarsi piuttosto di qualcosa di simile al fulmine altrettanto improvviso. C’e un detto di Eraclito, inciso sopra la soglia della celebre baita di Martin Heidegger nella Selva Nera; questo frammento dice: Il fulmine governa ogni cosa. Bisogna ascoltarlo attentamente, per cogliere anche qui, di nuovo, questa contraddittorietà carica di tensione. Non significa affatto – come potrebbe credere il banale pensiero mitico – il fulmine di Giove, che scaglia i suoi dardi, e così domina gli eventi del mondo. Ciò è del tutto estraneo a Eraclito, e anche alla filosofia. La nostra vita è già in cammino verso il lògos. Ma che cosa significa questo? Già, che cosa significa? Pensiamo all’esperienza del fulmine! Soprattutto, là dove essa appare in tutta la sua potenza, nella notte. Nel giro di un istante tutto si fa visibile nella luce più abbagliante, per inabissarsi, un attimo dopo, in una notte ancora più profonda. Questo è evidentemente il tratto più interessante del fuoco: la sua forza improvvisa, illuminante.
I CONFINI DELL’ANIMA
Abbiamo già visto, dagli esempi acuti e profondi di Eraclito, che queste cose c’erano davvero, nascoste nello sfondo, e all’improvviso tutto si capovolge nel suo contrario. Ho parlato di sonno e veglia, ma possiamo sostituirli con: vita e morte. Diciamo infatti che qualcuno dorme come un morto, eppure all’improvviso si risveglia. "Il fulmine governa ogni cosa". Siamo quindi al cospetto di un modo di pensare radicalmente diverso da quello che ha in mente Aristotele; e anche il linguaggio è del tutto differente. È quel modo di pensare in cui si staglia nettamente qualcosa che non è affatto pensabile con categorie quali la mescolanza di elementi e la compresenza di sostanze diverse, bensì che è misterioso come il risveglio, il "tornare in sé", e come il prender sonno, l’assenza di sé. Che cosa accade in questi frangenti? Eraclito fu il primo a compiere il passo da gigante di separare il concetto di anima, di psychè, dall’intimo legame con la vitalità in quanto tale. La potenza vitale è in effetti qualcosa che ha a che fare con il calore e con la vita, ma tutti questi enunciati che Eraclito ripetutamente azzarda, laddove hanno di mira l’anima non si riferiscono alla vitalità, quanto piuttosto a ciò che noi chiameremmo "coscienza". Che cosa intendiamo, infatti, dicendo "non è più in sé" oppure "è di nuovo in sé", o, di chi si risveglia: "ha ripreso coscienza"? È grosso modo in questi termini che Eraclito pensa l’autentico mistero. L’anima non è soltanto il respiro del vivente, bensì è proprio l’elemento pensante, che nella sua ampiezza porta già in sé tanti enigmi e tante verità. C’è un bellissimo detto di Eraclito che recita: Mai raggiungerai i confini dell’anima, per quanto lontano tu possa andare.
Questo è il nuovo universo. Si può immaginare che, stando così le cose, si possa spiccare il salto, assai rapidamente, fino magari all’idealismo tedesco, per il quale l’autocoscienza, con la sua estensione, con la sua portata universale, è al tempo stesso fondamento di ogni verità, della realtà e del mondo. Però, in realtà, si proietterebbe troppo falso modernismo nel pensiero di Eraclito, se davvero lo si mettesse in relazione con l’autocoscienza del pensiero moderno. Si potrebbe anche mostrare – e credo che nel corso di questa panoramica sulla storia della filosofia ciò apparirà abbastanza chiaramente – che questo concetto moderno di autocoscienza è inseparabile dal pensiero del metodo della scienza moderna. In fin dei conti questi scritti di Eraclito pongono compiti del tutto diversi al pensiero filosofico e all’esame scientifico della tradizione.
LE CONTAMINAZIONI DELLA CHIESA
Eraclito, nonostante la sua oscurità, fu un autore enormemente apprezzato, e, anche se i tempi cambiano, proprio in certe asserzioni molto oscure c’è sempre modo di riconoscere se stessi. Questo fa parte di quelle misteriose forme di cui l’incomprensibile si veste per continuare ad essere. Così è stato anche per Eraclito. Egli fu l’autore prediletto della prima età ellenistica, quando la Stoà, la filosofia stoica, prese a trarre conseguenze morali e psicologiche dalle dottrine della filosofia classica greca. A quel tempo molti temi stoici venivano riconosciuti nei detti di Eraclito. Poi arrivarono i Padri della Chiesa, nel tentativo di confrontarsi con la tradizione umanistica, se posso esprimermi in questo modo, che si ereditava dalla cultura greca, nella tarda antichità. Ed essi provarono a riformulare il pensiero greco in modo da trovarvi, per così dire, anticipato, un senso cristiano. In questo senso, per esempio, il fuoco si prestava benissimo a tradurre visivamente le fiamme dell’inferno. Inoltre c’era questa frase di Eraclito: Alla fine il fuoco divorerà e distruggerà tutto. E poi naturalmente si trova detto in Clemente (Alessandrino): "... e così le anime dei peccatori impenitenti saranno ridotte in cenere", o qualcosa di simile. In breve, nel corso dei secoli antichi, proprio nel caso di Eraclito, si esercita una vera e propria "tecnica di sovrapposizione": si interpretano i frammenti cercandovi anticipazioni di ciò che è già noto. Io stesso ho ricostruito un frammento di Eraclito, liberando da queste stratificazioni di concetti cristiani – persino quello di resurrezione – uno scritto che ho trovato. Sono asserzioni enigmatiche, per noi al limite dell’incomprensibile; nelle quali però, certamente, il culto dei morti e la glorificazione degli eroi (consuetudini tanto comuni nella grecità guerriera, da cui traevano origine) appaiono poi al Cristianesimo come un’anticipazione della resurrezione dei morti. In breve, il compito impostoci dai detti di Eraclito, non è solo quello di capirli, ma anche proprio di scoprirli. Molto probabilmente continueremo sempre a trovare negli scritti dei Padri della Chiesa una gran quantità di frasi di Eraclito, che, così stratificate, non sono ancora state scoperte. Il frammento che io ho identificato suona, nella mia ricostruzione: Il padre è figlio di se stesso. Evidentemente ciò significa che quando il padre genera un figlio, è allora che diventa padre; qui si esprime un’unità paradossale. È facile immaginare che questa frase si prestasse a meraviglia per spiegare la trinità, almeno nel suo primo momento, e naturalmente è proprio con questa intenzione che la ritroviamo nella Chiesa paleocristiana e nei suoi scritti. Insomma, per molto tempo (poi è diventato ancora più difficile) l’ambizione di un buon filologo era quella di trovare un detto di Eraclito, quasi ripescandolo, liberandolo dalle stratificazioni con cui la tradizione cristiana o tardo - antica aveva subordinato le parole eraclitee alle proprie intenzioni.
L’AUTENTICITÀ DEI TESTI
Si può ben capire: è tutt’altra cosa che leggere le citazioni o i frammenti che si tramandano di Parmenide, al di là del suo scritto che ci è pervenuto. Quel testo sembra quasi integralmente di mano di Parmenide, almeno nella sua prima parte, ma naturalmente anche in questo caso ci sono molti particolari, per esempio singoli versi, dei quali è possibile pensare che siano stati inseriti successivamente in un contesto che, come abbiamo visto, costituisce la parte dell’argomentazione dedicata all’unità dell’essere.
Comunque stiano le cose, è sorprendente il fatto che, stando alle interpretazioni correnti, si dica questo: Parmenide ha pensato l’essere statico, immutabile, mentre Eraclito ha avuto di mira il flusso sempre mutevole delle cose, e perciò avrebbe preparato il campo, per così dire, alla scepsi. Penso che gli esempi qui proposti di frasi eraclitee insegnino una cosa migliore: questi paradossi sono appunto paradossi: non vogliono dire che non si possa conoscere la verità. Al contrario! Essa è solo nascosta, e nella forma del paradosso viene allo scoperto, come quando si dice che il passaggio dalla fame alla sazietà è, appunto, un attimo improvviso. E allora si riconosce che in realtà entrambe testimoniano la stessa cosa, cioè il bisogno dell’organismo di nutrirsi. E così, naturalmente, Eraclito può essere per molti aspetti considerato in modo assai diverso da come è stato finora. Ma egli fu anche un incomparabile stilista: ancora oggi ritengo che il sistema migliore per scovare autentici detti di Eraclito, o anche solo per interpretarli, sia il metodo che io stesso ho usato: fare analisi stilistiche, cercare una sorta di morfologia delle proposizioni paradossali. Se si procede così, si può essere abbastanza certi nel dire: questo è un autentico Eraclito. Ma, quanto al significato, occorre liberare queste frasi dalle incrostazioni sovrapposte da tradizioni successive. Ogni citazione è in realtà una forma di appropriazione di qualcos’altro. Anche quando noi stessi ci serviamo di citazioni, vogliamo dire qualcosa che valga per questo momento preciso, ma con l’aiuto di versi preconfezionati, di proverbi, di affermazioni o di altro ancora.
IL LOGOS DELL’UNITÀ
Ecco dunque la straordinaria difficoltà di fronte alla quale stanno questi due pensatori, e la cosa che stupisce in loro è questa: nella totale diversità sono profondamente concordi, unanimi nel parlare entrambi dell’Uno. Eraclito dice: hén tò sophòn, uno è il saggio, e con ciò egli intende l’unità dietro le differenze e fra gli opposti, cioè questa unità speculativa. E, analogamente, Parmenide afferma: l’essere è l’Uno e non i molti. Ebbene, si può immaginare: se questa dottrina è da un lato l’insegnamento, il lògos della dea ispiratrice del poema didascalico di Parmenide, e se d’altro canto è la verità provocatoria della profonda meditazione di Eraclito, allora verrà naturale chiedersi: Ma come è possibile parlare di questo Uno, avere un lògos, formulare un discorso che sappia cogliere ciò che l’Uno dice di se stesso? È chiaro che questo sarà appunto il problema – e doveva essere il problema – che emerge dalla critica profonda rivolta alla curiosità del mondo e alle arditezze di pensiero dei filosofi di Mileto.
Possiamo dire senz’altro, che questi due pensatori furono più o meno contemporanei. L’uno visse a Efeso e, con intuizione profetica, colse il pericolo di un predominio straniero (da parte del regno persiano) su queste città portuali, e ammonì i suoi concittadini più volte in tal senso. L’altro visse ad Elea (Velia), a sud di Napoli. Erano dunque separati da distanze enormi. Si è cercato di trovare nell’uno allusioni all’altro: certo si può giocare con queste fantasie, quando le testimonianze sono così poche da non poter confutare tali finzioni. Ma io ne sono convinto: è probabile che non si conobbero affatto. Hanno avuto entrambi lo stesso retroterra. Il loro background comune fu appunto questa insorgenza di un pensiero razionale orientato al lògos, di fronte alla nuova apertura al mondo maturata dalla "Scuola di Mileto" – dai filosofi di Mileto – nel corso di varie generazioni di filosofi importanti.
EMPEDOCLE E ZENONE
Purtroppo non posso proporre, come vorrei, altri grandi nomi di esponenti del pensiero greco degli albori, chiamati solitamente presocratici, così come ho fatto con gli autori già trattati. Sono nomi certamente noti, il cui fascino non è minore. Uno di questi è Empedocle. Tutti lo conoscono dalla storia della letteratura, e in particolare i Tedeschi ricordano la ripresa dell’immagine esemplare di Empedocle nella poesia di Hölderlin. Si sa, comunque, che Empedocle fu una figura mitica, come lo fu la sua morte, che egli cercò nell’Etna (nel cratere dell’Etna, a quanto si dice) al pari di tutte le storie legate alla sua vita, ai suoi poteri prodigiosi e infine alla sua discesa nell’abisso. Ha lasciato una quantità di canti poetici di taglio filosofico, nei quali già si prepara e si sviluppa la teoria degli atomi e la dottrina dei quattro elementi, che appunto, secondo la tradizione greca, fu lui a proporre per la prima volta: acqua, aria, terra e fuoco. Potrei parlare anche – anzi devo certamente farlo – del rapporto davvero molto stretto che vi fu, a Elea, tra Parmenide e il suo allievo Zenone. Più avanti, trattando di Platone, torneremo a dire che Zenone e Parmenide sono considerati come un unico indirizzo o scuola di pensiero, e ciò è dovuto al fatto che Zenone fa proprio l’asserto: C’è soltanto l’Uno, l’essere è l’Uno, e intende corroborarlo – o, se si vuole, dimostrarlo – facendo vedere che l’ipotesi della molteplicità conduce a contraddizioni insolubili. Riteniamo che quest’arte della confutazione, introdotta da Zenone per rinvigorire la dottrina eleatica, sia proprio l’invenzione della dialettica. Perciò, anche da questo punto di vista, è evidente l’intima affinità tra Parmenide, da un lato, ed Eraclito dall’altro: Parmenide, il cui allievo ha operato questa confutazione indiretta evidenziando le contraddizioni; ed Eraclito, fra i cui seguaci nasce l’unificazione delle contraddizioni, quella dialettica speculativa che Hegel ha ravvisato nei suoi frammenti.
In effetti potrei fornire ancora un lungo elenco di pensatori successivi, per esempio potrei ricordare ancora una volta che la teoria atomistica di Democrito è stata sviluppata nella sua forma, non già matematica, ma fisica, con profonda radicalità. Quando si parla di teoria atomistica occorre guardarsi bene dal confonderla con il concetto di atomo, fondato matematicamente e fisicamente nella teoria atomica della scienza moderna. C’è un frammento di Democrito che descrive le forme degli atomi, grazie alle quali essi si aggregano l’uno all’altro, generando infine la materia coesa e compatta, il corpo solido; ma ci sono poi altre affermazioni, ne ricordo una solo per mostrare la differenza: L’atomo è ciò che non si può più suddividere ulteriormente; tutto qui! – non si dice "è la più piccola particella". Democrito dice infatti: "Potrebbe esserci un atomo grande quanto l’universo". A parte il fatto che anche Democrito muove da questa dottrina eleatica dell’essere-uno per giungere al pensiero degli atomi, non possiamo purtroppo aggiungere molto sul suo conto senza rifarci a Epicuro e a Lucrezio, cioè ai suoi seguaci della tarda antichità.
SOCRATE, IL SOFISTA
Ci stiamo, infine, avvicinando al periodo di Socrate, all’epoca, cioè, in cui le arti della dialettica si diffusero come una sorta di epidemia fra i giovani di Atene. In realtà non si può trattare della filosofia senza considerare anche il concetto che le si oppone, la sofistica. "Sofistica" è, per così dire, far girare a vuoto l’arte della dialettica, evidenziare contraddizioni solo per il gusto di ottenere ragione. Lo slogan dei sofisti era: far sì che la cosa più debole, grazie a ingegnosissime argomentazioni, diventi la più forte, in tribunale e soprattutto nelle dispute. Questo aspetto della dialettica fu, ai tempi di Socrate, senza alcun dubbio il fenomeno dominante nella coscienza pubblica ateniese. E poiché così stavano le cose, Socrate (una figura decisamente singolare) divenne infine la vittima dell’indignazione popolare contro questi virtuosi dell’argomentazione e del discorso che erano i sofisti. Egli fu condannato appunto come sofista. Certo, sono tutte cose note. Ma per noi la figura di Socrate è un’altra, di nuovo una figura epocale, che indica una svolta. Qui forse si può ricordare quello che Cicerone disse, in seguito, di Socrate: Egli ha portato la filosofia giù dal cielo per farla abitare nelle strade di Atene. In altre parole, quelle discusse con i suoi concittadini, nei Ginnasi, nelle palestre, nelle riunioni politiche e nelle strade sono le questioni pratiche della vita, che egli ha portato con sé tra gli uomini. Socrate fu, per così dire, l’uomo scomodo che poteva fermare chiunque andasse per strada gonfio della propria boria, sottoponendogli questioni insidiose alle quali costui non sapeva rispondere. Pare che lo abbia fatto soprattutto con i grandi del suo tempo: lo fece con gli ammiragli e con gli strateghi, per sapere che cosa fosse il coraggio; lo fece con i giudici, per sapere che cosa fosse la giustizia; lo fece infine persino coi veggenti e gli indovini, per mostrare loro che di questioni divine, sacerdotali e religiose non sapevano proprio nulla. Questa è la celebre figura di Socrate, ma da quali fonti la conosciamo? Certo egli ebbe tutta una serie di imitatori, ma tutti questi emuli impallidiscono al cospetto del solo Platone. E proprio a questo punto devo considerare, qui, lo specifico intervento di Platone, e precisamente, il compito che divenne per Platone la missione della sua vita, come gli fu presto chiaro. L’intenzione di Platone era quella di affrancare Socrate, da lui tanto ammirato, dall’errore giudiziario della democrazia ateniese, che lo aveva creduto un sofista, solo perché anch’egli sapeva argomentare in modo acuto, servendosi di ragionamenti dialettici.
SOCRATE, L’EDUCATORE
L’intera opera di Platone consta di due parti, ne conosciamo però soltanto una, non l’altra. Ciò che possediamo è la missione di tutta la sua vita di scrittore, con cui Platone si proponeva di mostrare che Socrate non era un sofista. È per questo motivo che scrisse i dialoghi socratici, nei quali l’ethos, per così dire, la potenza morale della dialettica di Socrate vengono messi in luce in maniera convincente, con il risultato che alla fine persino le figure importanti di quel tempo avevano dovuto dargli più o meno ragione, riconoscendo di non sapere nulla, e che pertanto Socrate era più saggio di tutti loro. Queste stesse cose valgono poi non solo per costoro: c’è infatti un altro arditissimo pensiero di Platone, vale a dire l’idea di un Socrate che discute con i sofisti, quelli con i quali fu sempre confuso. Un’invenzione: possiamo infatti dire, con una certa sicurezza, anche in base ad altre fonti, che egli non ha scambiato con nessuno di loro mai neanche una parola e che probabilmente non incontrò mai Protagora o Gorgia, o altri sofisti come loro. Piuttosto egli colse le conseguenze di questa dottrina sofistica sulla gioventù ateniese e sulla moralità pubblica, e ne fece oggetto della sua critica. Pertanto, se consideriamo l’opera dialogica di Platone, possiamo essere sicuri intanto che anche laddove Socrate vi compare come virtuoso della confutazione, Platone intenda dimostrare che non fu un sofista. Ed è per questo che lo pone in un confronto vincente con i sofisti: Protagora, Gorgia e gli altri.
Ma, oltre a questo, nell’evoluzione degli scritti platonici, troviamo qualcosa di assolutamente inconsueto: che cioè un pensatore di enorme potenza concettuale, capace di essere in campo matematico, se non proprio lo scienziato di punta, per lo meno l’ispiratore di nuove vie (a Platone risalgono certi problemi di astronomia matematica, da lui sottoposti ai suoi contemporanei, e altro ancora) – insomma che un uomo siffatto, che ha concepito calcoli astratti sulle variazioni e ha anticipato computazioni complicatissime sulla probabilità matematica e altri rompicapi del genere, al tempo stesso sia stato uno dei massimi talenti poetici della letteratura universale.
Credo sia un evento unico e forse irripetibile nella storia della filosofia, che uno dei massimi pensatori sia stato al tempo stesso anche un grande scrittore. E del resto è cosa nota, grazie anche all’incredibile spessore di cui Platone ha dotato la figura di Socrate nelle diverse circostanze di vita, molto al di là della semplice arte confutatoria, dotandolo delle capacità di un visionario.
E poi c’è, come tutti sanno, questo Stato ideale l’idea di una città ideale organizzata in modo tale che in essa vi sia solo la giustizia e nessuna iniquità, che vi sia fatto soltanto il bene e mai niente di male, e questo viene presentato come un ideale, che naturalmente possiamo qualificare solo col concetto di utopia. Credo che però dovremmo seguire l’esempio di Aristotele, che per primo si divertì a criticare chiunque prendesse sul serio, anzi troppo sul serio questa utopia platonica.
LA REALIZZAZIONE DI UN IDEALE
Tutti conoscono le singolari proposte che Platone avanza per la realizzazione di questa città ideale: la promiscuità delle donne, la comunanza dei figli e cose simili, per poi discutere in tutta serietà, se sia anche possibile realizzare effettivamente tutto ciò. E allora si dice: "Ah, questa non è certo una difficoltà; basta prendere tutti quelli che hanno più di dieci anni, allontanarli dalla città e tenere solo i bambini per costruire questo nuovo tipo di comunità". Ebbene! Bisogna davvero essere degli eruditi accecati da troppa erudizione per prendere sul serio una proposta del genere! Qui però bisogna vedere che si tratta di una considerazione critica, concernente i pericoli dei legami familiari per la sussistenza dello Stato, le insidie del nepotismo e della protezione che deriva dall’appartenenza a certi gruppi familiari o clan di affiliati, tutte cose che per la sana vita comune, per il sano senso dello Stato, rappresentano una minaccia. Perciò si può leggere in realtà la Repubblica di Platone piuttosto come uno scritto critico, pensato per una opinione pubblica alquanto estesa, e volto a mostrare quanto sia assurda, in fin dei conti, quella "cosa pubblica" di cui, fra gli altri, anche il venerato maestro Socrate fu a suo tempo vittima. Dunque, non c’è da stupirsi che ciò avvenga anche in altri dialoghi, nel celebre Simposio, oppure nel Fedro, nei quali Platone ci mostra un Socrate che addirittura si delizia di grandi fantasie mitiche, mentre con tutta la maestria di un artista rende anche credibile questo mondo di miti come una fantastica trasvolata al di sopra di una ben più modesta verità logica. Ebbene, tutto questo c’è senza dubbio nell’opera platonica, ma quello che più di tutto ci deve interessare è il modo in cui, in Platone, prende forma una sintesi filosofica del pensiero greco che lo ha preceduto. Sarà poi Aristotele a richiamarvisi, e su ciò dovremo soffermarci, poiché si tratta di uno dei capitoli più controversi della filosofia greca.
L’iniziatore della dottrina delle idee sarà criticato dal suo allievo più importante, Aristotele (se consideriamo a fondo i dialoghi platonici, ne troviamo già qualche traccia), giacché Platone avrebbe formulato una teoria dualistica in cui due mondi non potrebbero però coesistere, e perciò dovrebbe essere considerata, per così dire, come una deviazione del pensiero. E per la verità tutto ciò è già presente nel Parmenide di Platone – dove si critica il pensiero dualistico. Questa è la più grande di tutte le difficoltà nella teoria delle idee: pensare che le idee siano per gli dèi e che il nostro sapere empirico sia per noi, uomini mortali. È Parmenide a dirlo, di fronte al giovane Socrate, affermando che questa è l’aporia più seria, il più grave errore nella comprensione delle idee.
Sono problemi che dovremo affrontare: che cosa ha affermato Platone, in realtà, a proposito delle idee? E perché Aristotele ha operato un tale rovesciamento, tanto da essere considerato da tutta la storia della filosofia come un critico esasperato di Platone? Naturalmente le cose non stanno proprio in questi termini. C’è infatti un celebre passo di Aristotele che dice: "Sono amico di Platone, ma più ancora amo la verità". Quindi la sua critica, le sue modifiche, si legano sempre a ininterrotta amicizia e ammirazione per Platone. Sono tutte questioni alle quali ci dedicheremo nei prossimi incontri.
Quando ci occupiamo della filosofia moderna, la prima cosa che ci sorprende è la centralità del nome di Kant, l’unico filosofo tedesco dell’età moderna che abbia conosciuto una considerevole diffusione internazionale e che goda al tempo stesso di incontestata autorità. Dovremo comprendere quali siano le vere ragioni di questo, poiché, di fatto, il tedesco parlato da Kant e lo stile dei suoi scritti risultano tanto inusitati e disagevoli, quanto l’abbigliamento del balletto rococò (è noto del resto che lo stesso Kant portava il codino). Perché, dunque, ciò nonostante, dobbiamo cercare una guida proprio in Kant, se vogliamo sapere che cosa sia la filosofia nell’epoca moderna? E che cos’è, poi, l’epoca moderna? E infine, c’è un annoso dibattito: quando comincia l’età moderna? È chiaro, i concetti degli storici sono sempre grossolane approssimazioni alle autentiche cesure epocali, ma non c’è alcun dubbio che, malgrado ciò, la modernità sia stata innanzitutto vissuta come tale, e non risulti soltanto come un’invenzione operata «a tavolino» dagli storici.

C’è stata un’età nella quale si è avuta la consapevolezza epocale di trovarsi agli albori di un nuovo modo di sentire la vita; ma non è così semplice datarla con esattezza; da molto tempo si discute sul modo in cui l’era moderna è subentrata al Medioevo: si tratta di una cesura netta, oppure no? L’avvio del mondo moderno è stato ravvisato ora in questo ora in quell’episodio. È noto il celebre mito di Jacob Burckhardt contenuto nella Cultura del Rinascimento in Italia, uno dei classici che ogni persona colta dovrebbe leggere, non solo in Italia e in Germania. Però la visione di Burckhardt è quella… di un individualista, di un grande erudito di Basilea che ha visto… profilarsi con orrore il moderno stile di vita contraddistinto dalla Rivoluzione industriale, apprezzandone tuttavia con entusiasmo i segni anticipatori dell’età rinascimentale. Tutti noi in fondo sappiamo (anche se ciò può suonare strano) che l’elemento decisivo per la nascita dell’evo moderno fu la conquista turca di Costantinopoli. In quel momento, infatti, nel 15º secolo, si sviluppò in terra veneziana, come in altri centri culturali italiani, una sorta di «cultura dell’esilio»: vi trovarono rifugio gli intellettuali greci (fino a quel momento, infatti, a Bisanzio si era parlato greco) intellettuali che iniziarono a essere attivi in Italia con la loro sapienza e grande competenza linguistica. Gli storici parlano a questo proposito di nascita dell’Umanesimo, e usano anche la parola «Rinascimento», nel senso di una rinascita dello spirito antico, resa possibile dal ritorno alle fonti greche.
Deve essere chiaro che questo comportò anche un nuovo tipo di distanza dall’antichità: come è noto, infatti, in questi secoli la stessa Chiesa cattolica studiava le Sacre Scritture nella traduzione latina, privando però la comunità di un approccio diretto ai testi originali in una versione accessibile. Fu solo grazie alla Riforma che anche la Chiesa, ovvero la comunità protestante, iniziò a studiare gli scritti del Nuovo Testamento in lingua originale. È chiaro, comunque, che a quel tempo in Italia si studiava il greco, uno studio che si diffuse poi anche in Francia, in Germania, ovunque. Questo contribuì ad avviare un’epoca nuova. Come dobbiamo immaginarla? Dobbiamo forse pensare che, all’improvviso, l’eredità latina sia stata sostituita da un interesse per la cultura greca nella sua forma originale? Non è proprio così, ovviamente: sappiamo, comunque, che i grandi artisti del Rinascimento, non appena in Italia fu possibile accedere alle collezioni delle sculture greche, si trasferirono tutti a Roma, per studiare da vicino i capolavori della statuaria greca, come pure dell’architettura. Insomma: non soltanto le scienze e la filosofia, ma anche le arti contribuirono a questa riscoperta dell’antichità greca – non già nell’ottica dell’erudizione, bensì con lo slancio creativo tipico di quegli anni.
LE SCIENZE DELL’ESPERIENZA
Quest’epoca ci ha trasmesso il famoso motto: «È una gioia vivere». Da questo atteggiamento di apertura nei confronti di tali nuovi aspetti (non più di esclusivo appannaggio della Chiesa), maturò in seguito il destino più peculiare della modernità: le cosiddette scienze empiriche. Io uso sempre quest’espressione: scienze dell’esperienza, e lo faccio a ragion veduta. Si tratta di mettere insieme due cose realmente inconciliabili: se si ha scienza, non c’è più bisogno di fare esperienza; ma la scienza moderna possiede un sapere costruito interamente sull’esperienza. Le prime parole della celebre Critica della ragion pura di Kant suonano così: «L’esperienza è senza alcun dubbio la base di tutto il sapere». A proposito di questo incipit della più famosa opera kantiana Hermann Cohen ebbe a dire: «è come quando un predicatore inizia il suo sermone con la parola “però”».… Questo «però» ha il significato di una nuova sfida, lanciata all’indirizzo della cultura scientifica tradizionale, nel momento in cui l’esperienza divenne l’autentica base per verificare e accertare le nostre opinioni sulla realtà. Questo è il punto da cui si deve procedere per mostrare come si sia trasformata la filosofia: in precedenza essa si identificava con tutto quello che la ragione… può sapere e far conoscere. E sembrava evidente che nient’altro, se non la ragione stessa, potesse realmente cogliere l’enigma della realtà. Il termine greco per «ragione» era «logos», ovvero l’ordine che doveva dominare l’universo, il cosmo, ma anche governare l’ordinamento sociale e l’equilibrio psichico. Platone aveva concepito la struttura del cosmo, la città ideale e l’anima in accordo con se stessa, come le tre grandi forme di «ordine» nelle quali si era sviluppata l’essenza della filosofia. In effetti, tutto il sapere relativo all’esperienza, che troviamo certamente anche nel mondo antico, si raccoglieva attorno a questa grande struttura concettuale. Adesso, però, siamo di fronte a qualcosa di nuovo, e questo è certamente dovuto al clima di apertura e di innovazione diffuso dall’Umanesimo e dalla rinascita dell’antichità in Italia e nei Paesi limitrofi. Già in questi anni numerosi uomini di scienza varcavano le Alpi per i loro studi, e fu ancora una volta in Italia che Galileo Galilei, … l’italiano Galileo Galilei… con la scoperta della meccanica, diede vita a un metodo del tutto nuovo di descrizione della realtà naturale e dei suoi processi. Egli affermò qualcosa che contrastava nettamente con ciò di cui tutti facciamo esperienza: «la caduta di un corpo è governata da leggi indipendenti dalla natura di ciò che cade. Tutti conosciamo quel famoso esperimento che ha fatto riflettere almeno una volta coloro che hanno frequentato le scuole superiori; esso consiste nel creare il vuoto, all’interno di un cilindro, eliminando artificialmente l’attrito dell’aria, per riscontrare che in esso una barra di piombo e una piuma cadono alla stessa velocità: un’astrazione senza pari! Quel che conta non è più ciò che cade, bensì le regole che governano il rapporto fra spazio e tempo, dalle quali derivano poi le leggi della caduta dei gravi, del piano inclinato e così via. Tutto questo è frutto delle indagini di Galilei. Insomma: siamo ancora molto lontani dalla filosofia; sta di fatto, però, che adesso abbiamo a che fare con «verità» che contraddicono l’esperienza naturale! All’epoca, infatti, non era ancora possibile creare il vuoto: cadevano i fiocchi di neve (sia pur raramente, grazie al clima mite dei Paesi meridionali), e venivano giù lentamente, ma quando grandinava, la velocità di caduta era maggiore, e durante un temporale le gocce d’acqua scendevano ben più rapidamente di quanto non accada ai larghi fiocchi di neve, più soggetti all’attrito. Era dunque incredibile affermare che l’importante non è ciò che cade. Si trattava di un senso completamente nuovo della verità: la verità sperimentale.
Per questo genere di ragioni, definisco “scienze dell’esperienza” queste nuove scienze: proprio perché non è più sufficiente avere conoscenza razionale del fatto che 2+2 è uguale a 4; del resto, nessuno vorrà verificarlo: è la ragione a dirlo!
IL METODO DELLA CONOSCENZA
Al contrario, la nuova conoscenza del mondo è fondata sull’esperienza. Di qui, il passaggio alla filosofia è molto semplice: si tratta di un nuovo modo di considerare la matematica, grazie al quale è stato possibile dar vita al concetto di metodo dell’epoca moderna. E con ciò siamo già all’interno del linguaggio della filosofia, che sviluppò appunto questa nozione di metodo. Si è soliti dire, convenzionalmente (anche se le convenzioni sono approssimazioni prive di valore assoluto), che il merito fu soprattutto di Cartesio: impressionato da Galilei, e accogliendo le istanze di quest’ultimo (che suffragò la teoria copernicana, cioè eliocentrica, del mondo) Cartesio le fornì una giustificazione e una fondazione metodologica. Proprio così: tutto muove dal concetto di metodo; una parola greca, che rinvia però a qualcosa di moderno. Metodo significa, in effetti, seguire un cammino già segnato: i Greci sapevano che in ogni ambito del sapere c’è un «metodo», nel senso che si segue una via già tracciata da altri, e la si fa propria. Aristotele ha sempre detto che imparare la matematica o la geometria è altra cosa dall’applicarle, come fa, ad esempio, un architetto che progetta una parete verticale: siamo di fronte, infatti, a due metodi e a due finalità differenti. Un architetto che voglia fare le cose con la stessa precisione di un geometra, sarebbe ridicolo. Aristotele lo sapeva. Che cosa cambia però, quando l’espressione «metodo» è sinonimo di scienza? Nella scienza c’è un solo principio, un unico metodo, che poi si differenzia in innumerevoli forme e applicazioni; ma il «metodo» è uno solo: quello della certezza.… Heidegger una volta ha descritto, con particolare pathos, come, nel nostro modo di percepire la vita, il concetto di verità si sia progressivamente lasciato soppiantare da quello di certezza. Heidegger ha anche osservato che l’importante non è più tanto la conoscenza, quanto piuttosto la «certezza della conoscenza»: essere sicuri di ciò che conosciamo – questa è la garanzia offerta dal metodo. E così Cartesio, nel famoso saggio sulle Regole (lo scritto più radicale che egli dedicò ai metodi di ricerca e accertamento della verità), ha mostrato che l’essenza della nuova scienza risiede proprio in questo procedimento di continua verifica. Con questo siamo agli inizi dell’età moderna: nel corso del Seicento infatti, e poi nel secolo successivo, l’Illuminismo scientifico si affermò proprio su questa base.
L’ESPERIMENTO E IL FATTO
Noi parliamo di Illuminismo, e in questo termine risuona un accento nuovo; il suo contraltare è infatti l’oscurantismo; in altre parole: al posto della teologia dogmatica della Creazione del mondo, sancita dalla Chiesa (con tutto ciò che ne consegue), subentra una nuova idea di scienza.… Questa non rappresenta solo ed esclusivamente una sorta di lotta contro le antiche forme tradizionali della fisica aristotelica, ma comporta anche un continuo ampliamento delle nostre possibilità di esperienza: a questo procedimento scientifico si accompagna qualcosa di completamente nuovo – o meglio – che assume un significato del tutto originale: si tratta dell’esperimento: ossia costringere la natura a rispondere alle nostre domande (non limitandosi a osservare ciò che accade), così da poterne manipolare i risultati, allo stesso modo in cui trasformiamo, con il nostro lavoro, un determinato materiale servendoci di certi strumenti e di certe abilità. L’esperimento è dunque legato al fatto che intendiamo la natura, per così dire, secondo il modello del nostro operare artigianale, come se essa fosse un mastro artigiano che tramuta il seme in germogli, e poi le gemme (circondate di foglie) in una variopinta fioritura, e infine nel frutto maturo. Giunti a questo punto delle nostre riflessioni, dobbiamo comprendere chiaramente che attraverso il concetto di esperienza si fa strada un modo di pensare assolutamente nuovo. Nella nostra epoca, in cui le scienze hanno assunto il ruolo esclusivo di guida e di orientamento nel mondo, si usa un’espressione sintomatica (che in realtà deriva proprio dal pensiero kantiano): «fatto scientifico»; è la scienza a decidere che qualcosa sia un «fatto». Per noi è una provocazione, accettare una cosa del genere. Se qualcosa ha un significato storico nella vita dell’uomo, dovrà essere la conoscenza storica a definirlo come un fatto. È evidente che se uno di noi prende un raffreddore, è un fatto privo di importanza. Che invece Napoleone si sia raffreddato durante la battaglia di Wagram, e che per questo abbia perso la prima azione di guerra della sua vita, questo è appunto un «fatto storico».
Adesso anticipo decisamente ciò che dirò in seguito, ma lo faccio a ragion veduta, per esemplificare questo nuovo concetto di sapere che prese il sopravvento, al punto che nell’età contemporanea, nel nostro secolo, è stato necessario ricordare che il mondo della scienza non è tutto il mondo. A questo proposito in tedesco c’è un’espressione, che è ormai diventata universale: «Lebenswelt – il mondo della vita». Per molti decenni questo termine è stato ripreso in tutte le lingue di cultura come una parola straniera, oggi tutti hanno imparato a tradurla.
VERITÀ SCIENTIFICA E VERITÀ METAFISICA
Torniamo a quanto si diceva: la scienza moderna mette necessariamente in crisi il senso della filosofia. Cartesio, che ho già nominato, ha scritto il suo libro più famoso, intitolandolo: Meditazioni sulla filosofia prima. «Filosofia prima» è un altro modo per dire «metafisica», vale a dire quella filosofia che ha avuto la sua espressione più elevata con Aristotele, e che Cartesio riprende in questa nuova situazione, caratterizzata dallo sviluppo della meccanica e della descrizione matematica del movimento (egli fu infatti anche lo scopritore della geometria analitica). Cartesio si chiese che cosa poteva essere conservato di quella tradizione. La metafisica aveva rappresentato la conoscenza per antonomasia della verità. Come è noto, egli ripensò anche i grandi contenuti concettuali di questa metafisica (in primo luogo la nozione di Dio e la necessità di dimostrarne l’esistenza) riprendendoli dal Medioevo e dal Rinascimento, e attribuendo loro un significato nuovo. Quali cambiamenti vi introdusse? Vi sono due modi di riconoscere la verità: il primo si basa sulla tradizione della filosofia greca e sulla sua adozione nel cristianesimo; mentre l’altro ha il proprio fondamento nell’incessante progresso della ricerca nelle scienze moderne, tale per cui la scienza, vista ad esempio con gli occhi dell’economia, è diventata il massimo fattore produttivo dell’economia mondiale.
Che cosa comporta l’affermazione di un nuovo tipo di verità (quella della scienza) accanto alla vecchia verità della metafisica? In che rapporto stanno?… La sorprendente risposta a questa domanda è un segno caratteristico dell’epoca in cui Kant poté compiere infine il passo «critico», che fa di lui un rivoluzionario. La questione che i filosofi si trovavano ad affrontare era la seguente: riuscire a conciliare l’inconciliabile: armonizzare cioè le nuove scienze sperimentali con la tradizione greco-aristotelica. In altri termini, possiamo dire: essi cercavano un «sistema».
Il concetto di sistema è apparso per la prima volta nel Seicento, e si è poi ulteriormente diffuso nel secolo successivo. Il termine «sistema» deriva anch’esso da una parola greca, ricavata dal mondo della musica e dell’astronomia (che secondo i Greci erano sempre strettamente connesse) e possiede appunto il significato di comporre assieme ciò che è difforme. Un esempio classico di sistema è rappresentato dall’astronomia, preoccupata di comprendere il moto circolare dei corpi celesti che vediamo: se il sole e la luna compiono un’orbita circolare intorno alla Terra, e poi ci sono le stelle fisse (ben visibili di mattina e di sera); che cosa dobbiamo pensare del moto dei pianeti? Il termine «pianeta» ha in tedesco un sinonimo: «astro errante», cioè un corpo celeste che si comporta in modo improprio. Anziché tracciare un’orbita circolare, come dovrebbero, i pianeti seguono moti inesplicabili. Ciò rappresentava un problema per l’astronomia antica, che approntò opportuni calcoli matematici per intendere il moto visibile dei pianeti come somma di pure orbite circolari. Soltanto la circonferenza rappresenta infatti il movimento perfetto, poiché solo il cerchio non conosce alcuna fine e alcun principio: in ogni istante inizia e finisce. Questa è, appunto, la perfezione del movimento circolare: ogni istante è insieme l’inizio e la fine. In realtà, era proprio questo ciò che appariva agli occhi di chi esplorava il cielo, e oggi sappiamo che forse già diecimila anni prima di Cristo si era cominciato a osservare tutti i possibili fenomeni celesti, come ci hanno insegnato i sorprendenti ritrovamenti preistorici degli ultimi decenni.
LA FILOSOFIA COME SISTEMA
«Sistema» diventa dunque, improvvisamente, un’espressione filosofica. Al giorno d’oggi – ma a dire il vero anche in passato – ogni zelante professore di filosofia aspira a pubblicare un proprio sistema filosofico. Conseguenza di questa nuova situazione è appunto la conciliazione dell’inconciliabile. Abbiamo di fronte la grandiosa rappresentazione ordinata della metafisica greca tradizionale, che comprende anche la fisica, sul modello dell’agire umano: il fuoco va verso l’alto; quando qualcosa si muove è perché vuole andare in una certa direzione; dunque il fuoco va verso l’alto perché vuole unirsi con il fuoco eterno delle stelle, e il sasso cade verso il basso perché vuole unirsi agli altri sassi. La fisica illuminante di Aristotele, che egli ha sviluppato in modo meraviglioso, appare qui chiaramente come un elemento fondamentale, che ora, però, si rivela in tutta la sua ingenuità. Non è possibile intendere la natura in questo modo; bisogna cominciare a sviluppare nuove ipotesi muovendo da altre concezioni; si devono, per così dire, reinserire i «pianeti», le «stelle erranti» all’interno di un insieme comprensibile. Questo era il compito della filosofia che ha preceduto Kant. Noi dobbiamo restituire l’intero sapere alla pura ragione. Così come l’astronomia antica ha descritto il moto dei pianeti in movimenti circolari, così anche la filosofia cerca di mostrare i risultati complessivi delle moderne scienze empiriche come verità razionali. Nei diversi pensatori che hanno tentato una simile impresa, la nozione di «sistema» – espressa per lo più in francese, «système», «sistema nuovo», «système nouveau» – è stata variamente utilizzata. Conosciamo Malebranche, … Spinoza, e Leibniz, i tre grandi nomi che, per così dire, hanno reso popolare questo concetto di sistema.… Non è necessario distinguere ora, in modo dettagliato, con quali mezzi si siano potute presentare le scienze sperimentali come prodotti della ragione pura. Il mio intento è di offrirne un’immagine intuitiva. Leibniz fu l’ultimo grandioso e straordinario pensatore universale per eccellenza, insieme a Newton, altrettanto universale. Molti non sanno che, nel caso di Newton, la maggior parte dei suoi scritti non è dedicata alla fisica, bensì alla teologia. Questi scritti, però, non li legge più nessuno; l’opera fondamentale di Newton è invece quella cui ha guardato con interesse anche Kant, considerandola la meravigliosa, autentica soluzione, grazie alla quale la fisica celeste e la fisica terrestre – ovvero l’intero ambito descritto dalla meccanica galileiana – sono conciliate in una sola scienza. Si tratta della teoria della gravitazione e dell’attrazione universale, che noi tutti sappiamo verificarsi sulla Terra esattamente come nell’intero universo. Vorrei spiegare il senso di quest’espressione: il pensiero scientifico dell’esperienza sta di fronte al compito di pensare in unità ciò che appare così slegato: l’esperienza naturale – quella che possiamo fare coi nostri occhi – e l’esperienza scientifica, che formula precise leggi di natura in forma matematica e, grazie a ciò, conosce anticipatamente come sia la realtà …anticipa la realtà… È proprio da qui che nasce il significato di «scienza applicata» alla costruzione di nuove cose, cioè quella che noi chiamiamo tecnica: un pensiero orientato a «costruire», non a osservare la possibile regolarità dei fenomeni, come nel caso del prigioniero platonico, incatenato nella caverna, sulla cui parete di fondo riconosce un po’ alla volta la sequenza delle ombre. L’esperienza era, per i Greci, proprio questo. Adesso è diventata qualcosa di completamente nuovo: un continuo procedimento investigativo con cui si cerca di descrivere e conoscere le regole della natura, scoprendo così le leggi fondamentali, che è possibile estrapolare dalla materia, carpendole alla natura stessa.
IL PENSIERO E L’ESTENSIONE
Mi accingevo a dire che il compito della nascente età moderna era quello di conciliare nel pensiero realtà ormai totalmente divergenti all’interno di una nuova unità sistematica. Cartesio ha introdotto la distinzione fondamentale. Egli ha mostrato che la res extensa, la sostanza estesa, è conoscibile con gli strumenti della scienza matematica della natura. Ma c’è anche un’altra res, un’altra sostanza, cioè la res cogitans – il pensiero, la coscienza. Tutti sanno che questo problema è presente anche ai nostri giorni, sotto forma, ad esempio, del rapporto corpo-anima (a proposito del quale possiamo soltanto dire che quanto più approfondiamo la fisiologia del cervello e tutte le nuove conoscenze che descrivono i processi del pensiero scientifico, tanto più ci ritroviamo di fronte a questa stessa cesura evidenziata da Cartesio). Si tratta di questo: per quanto possiamo studiare e spiegare i procedimenti delle scienze naturali, non arriveremo comunque mai a chiarire che cosa sia il pensiero in quanto tale.… Si possono simulare i processi necessari al pensiero, con sorprendente precisione; ma alla domanda perché si pensi questo oppure quello non vi è, al momento, alcuna risposta, né sappiamo per quale via sia ipotizzabile ottenerla. Ci si chiede anche come esseri pensanti possano, al tempo stesso, riflettere sul proprio pensiero. Qui la filosofia si trova di fronte a compiti che risultano altrettanto enigmatici per la ragione umana quanto lo sono i messaggi della religione rivelata. L’espressione usata a questo proposito è nota a tutti: la «trascendenza»: ciò che sta al di là del nostro sapere empirico. Essa veniva riferita a questioni come Dio, la morte, l’immortalità dell’anima e altro ancora. In età moderna le cose non sono molto cambiate; rimane sempre qualcosa che sta al di là dell’esperienza, e a questo proposito Kant ha parlato di «filosofia trascendentale». Dovremo chiederci di che cosa si tratti effettivamente.… Come ho già detto, l’intento era questo: far sì che la materia estesa e osservabile nei suoi movimenti diventasse oggetto di scienza, conciliandola – d’altro canto – con tutte le esperienze interne della nostra coscienza (vale a dire il nostro pensiero e la coscienza che abbiamo di noi stessi).
Leibniz ha concepito un sogno fantastico, proprio per riuscire a farci capire il passaggio fra questi due piani. Si tratta della dottrina delle «piccole percezioni», cioè della forma minima di percezione, talmente minuscola che noi non ce ne accorgiamo nemmeno, ma che tuttavia partecipa anch’essa del nostro percepire. In seguito ne nacque la celebre teoria leibniziana delle monadi, con la quale egli diede vita a un grandioso e originalissimo progetto: quello di un’autentica unità tra sostanza pensante e non pensante. La monade è già sempre entrambe.
IL SOGNO DELLE MONADI
Non vi posso introdurre negli arcani della monadologia di Leibniz: ci porterebbe troppo lontano dalle nostre intenzioni. Dobbiamo aver chiaro, però, che siamo di fronte a un’idea che può sembrare del tutto assurda: che cioè la differenza fra il «pensante» e il «non-pensante» (ovvero, in altri termini, la «materia morta») non sussista affatto, e che vi sia, invece, un’essenza unitaria di entrambi, la quale procede, come in un’ascesa, dalla più piccola percezione – dalla minima relazione di qualcosa con qualcos’altro – fino all’universo della nostra coscienza pensante… Come è possibile? La risposta di Leibniz fu, come è noto, questa: «le monadi non hanno finestre». «Ciascuna unità è chiusa in se stessa, e si sviluppa in sé (pur con tutte le relazioni che intrattiene con il resto); che queste sostanze semplici si aggreghino a formare un mondo, può essere solo frutto dell’azione di Dio». La soluzione proposta da Leibniz era dunque la seguente: noi non possiamo, con la nostra ragione, conciliare realmente questa materia – soggetta alle leggi della matematica e dell’esperimento – con il nostro mondo dell’autocoscienza, della volontà e dell’agire, così da pensarne l’intima unità; soltanto Dio può farlo. In questo modo Leibniz ha ideato la teoria dell’«armonia prestabilita», ha cioè sostenuto che, come tanti orologi, tutte le monadi sono state regolate, nella Creazione, in modo tale che il nostro cosmo sia sempre ordinato. Ecco un’ultima ripetizione di quel concetto platonico di ordine che abbraccia tutti gli ambiti: la volta celeste, la società e la singola anima; l’ultima realizzazione di questo sogno, dovuta però a un singolare capovolgimento: Leibniz può affermare che le cose stiano così, solo ricorrendo all’ipotesi di Dio. Egli era effettivamente convinto che questa fosse l’unica dimostrazione davvero valida dell’esistenza di Dio; cioè l’idea più inverosimile che si possa avere: che le cose non sappiano niente l’una dell’altra, e ciò nonostante siano in perfetto accordo. Ebbene, questo pensiero del tutto inattendibile è addirittura una prova dell’esistenza di Dio: questo pensava Leibniz, celebrando così il trionfo dell’illuminismo e al tempo stesso la sua conciliazione con il cristianesimo. Si trattava, infatti, di un Dio dimostrato in virtù della stessa scienza.… La grandiosità di questo pensiero non sarà mai sottolineata abbastanza.
L’OTTIMISMO DELLA RAGIONE
Leibniz fu contemporaneo di altri pensatori importanti (si pensi a Hobbes o a Locke, e a tutta la filosofia empiristica inglese) che pure avevano tentato, a modo loro, di trovare una soluzione, affermando che tutti i nostri «concetti razionali» derivino in realtà dall’esperienza: che fosse impossibile concepire da un lato la ragione pensante, e dall’altro la materia inerte, bensì che tutto quello che conosciamo fosse il frutto dell’esperienza!
Non posso ora continuare a descrivere tutto ciò (e siamo ancora ben lontani dal toccare quel punto di partenza della riflessione di Kant, che avrebbe fatto di lui la stella centrale di tutta la filosofia moderna). Leibniz, con il grandioso sogno filosofico della monade,… fece davvero scuola; e come accade a tutti i grandi pensatori, venne a crearsi una corrente di pensiero, che diffuse le sue idee in maniera appunto «scolastica», adatta a essere insegnata e tramandata. Ogni scolastica è per un certo verso esanime, infruttuosa. Con ciò non mi riferisco alla grande Scolastica, quella del Medioevo, che possedeva una sua propria idealità, bensì appunto a quella cosiddetta «metafisica di scuola», che fu creata dai discepoli di Leibniz. Questa tentò ancora una volta di realizzare l’ideale dell’Illuminismo: la ragione è la fonte di tutto ciò che riconosciamo come vero. Uno dei grandi e significativi esponenti di questo Illuminismo rappresentò l’antecedente immediato del pensiero kantiano: Christian Wolff. Il suo nome è diventato molto famoso, ma non direi che sia un autore molto letto; scrisse parecchi libri. Wolff è il primo grande pensatore di rilievo che abbia redatto i suoi trattati sia in latino (com’era d’uso fra gli intellettuali di allora) sia in tedesco. Dagli scritti tedeschi vorrei citare un passo con cui chiarire lo spirito dei problemi trattati, o se preferite, la loro assenza di spirito. Christian Wolff ha scritto volumi dal titolo Concetti razionali sull’umano agire (e non agire), insomma qualcosa che potremmo definire un’«etica antropologica». In questo libro si trovano anche questioni molto pratiche: vi si parla, ad esempio, del modo razionale di costruire case, e, certo, anche delle finestre di queste case; quanto larghe devono essere le finestre? Può dircelo la ragione: lo scopo delle finestre è di poter guardare comodamente la strada. Ebbene, quando si fa qualcosa di divertente, si preferisce farlo in due; le finestre devono quindi essere abbastanza ampie da consentire a due persone di affacciarsi agevolmente sulla via. Questa è la dimostrazione razionale per la costruzione delle finestre. Mi sembra abbastanza facile intravvedere il lato comico di questa sorta di ottimismo illuministico; è sufficiente che tutto ciò che accade sia ordinato in modo razionale, e tanto basta a comprendere ogni cosa, e quindi anche a migliorarla. Questo è l’ottimismo illuministico; e come tutti sappiamo, o come sanno almeno gli uomini di scienza, questo modo di vedere le cose ha fatto epoca.
IL PESSIMISMO DELLA RAGIONE
Un’Accademia francese, nella fiera consapevolezza che l’Illuminismo poteva controllare qualsiasi cosa mediante la razionalità, bandì un concorso dal tema: i progressi dell’Illuminismo – cioè della ragione – nel miglioramento dei costumi. Ci fu un certo Rousseau, che a questo proposito rispose: «Progressi? – Nella morale? Non ho mai sentito niente del genere, posso solo mostrare i regressi che l’umanità, partendo dalle sue condizioni naturali di vita, ha provocato con la cultura e con la scienza»; «tout est bien sous les mains de la nature, tout dégénère entre les mains de l’homme» – «tutto è buono nelle mani della natura, tutto degenera nelle mani dell’uomo».… Questo è il grande evento del 18º secolo: giunto al culmine del suo splendore, l’Illuminismo comincia a percepire sempre più il contrattacco di personaggi come Rousseau.… E con ciò sono arrivato in un certo senso a Kant.… Di Kant possediamo l’intero lascito bibliografico: è un caso davvero singolare. Ormai è stato tutto quanto pubblicato: il fatto stesso che venga ultimata un’edizione di questa portata è veramente un prodigio. L’opera completa di Kant è interamente disponibile. Non so nemmeno a quanti volumi ammonti. Essa raccoglie anche tutti i suoi appunti di lavoro. Nel suo lascito è stata rinvenuta anche questa frase: «Rousseau mi ha messo sulla giusta via, mi ha corretto il tiro: è sbagliato attendersi dalle scienze un progresso morale». Mostrerò perché la filosofia kantiana abbia due volti: da un lato essa vuole comprendere le moderne scienze sperimentali nella loro legittimità, renderle quindi intelligibili attraverso i concetti della ragione, dall’altro vuole affermare e mostrare la natura umana nelle sue possibilità e nei suoi compiti etici e sociali, nella sua «autonomia» – per usare una parola divenuta famosa grazie a Kant. Proprio su quest’ultimo punto Rousseau ha aperto gli occhi a Kant.
KANT E LA FINE DEL SOGNO DOGMATICO
Nel corso del Settecento, il secolo in cui la figura di Kant dominò la scena culturale per un lungo periodo di tempo, vediamo emergere due aspetti del pensiero kantiano: il primo è rappresentato, evidentemente, dalla pubblicazione della sua opera critica fondamentale, la Critica della ragion pura; il secondo dai suoi scritti di filosofia morale, ovvero dalla “metafisica dei costumi”, come la chiamava Kant. In effetti, dietro questi due indirizzi della filosofia kantiana ci sono idee di incredibile novità e audacia. Ho già parlato della metafisica di scuola, che dominava la vita accademica di quel tempo, facendo l’esempio, forse un po’ caricaturale, di Christian Wolff. Vorrei evitare però di trasmettere un’immagine contraffatta dell’illuminismo tedesco: non c’era soltanto l’aspetto risibile; in un certo senso questa scolastica aveva anche qualcosa di autentico, che si richiamava alla straordinaria idea leibniziana della conciliazione. (Non voglio certamente negarlo o passarlo sotto silenzio.) Bisogna considerare, del resto, che non si può pensare l’illuminismo solo e unicamente come una contrapposizione nei confronti della tradizione cristiana: la stessa biografia di Christian Wolff a questo proposito è un esempio interessante. A quei tempi Wolff era professore a Halle, ed entrò in conflitto con la Chiesa. In Prussia regnava allora il padre di Federico il Grande; Halle era l’università modello della Prussia dell’epoca, ed era anche la roccaforte del “pietismo”. Wolff, entrando in polemica con la Chiesa, dovette abbandonare la città; fu accolto nell’università dove anch’io ho studiato: Marburgo, nella quale poté insegnare per alcuni anni senza essere disturbato da un’ortodossia troppo angusta e gretta. Alla morte del re di Prussia, Federico il Grande gli successe al trono. Una delle prime cose che fece, fu richiamare Christian Wolff a Halle. Egli tornò quindi da trionfatore in quella città, e questo ci mostra anche che uno “spirito libero” del calibro di Federico il Grande (che non era un cristiano praticante) ha avuto il coraggio di difendere la “causa dello spirito” perfino contro i gruppi ecclesiastici dominanti. Christian Wolff non era affatto una figura da disprezzare, anche se facendo l’esempio del suo scritto Concetti razionali sull’umano agire (e non agire) ne ho parlato in tono ironico. Comunque, Kant è maturato su questo terreno e già in giovane età divenne professore a Königsberg, una città che non abbandonò mai,… pur conservandosi uomo di vasti orizzonti di pensiero. Non bisogna credere che Königsberg fosse a quel tempo un centro di scarsa importanza: era pur sempre una città portuale con un vastissimo entroterra russo, illuminato dalle riforme dello zar Pietro. Per questo, egli fu alla tavola di Federico il Grande (che teneva quotidiani banchetti), dove si ritrovavano alti ufficiali, affermati uomini di commercio e diplomatici. Sono convinto che, durante quei banchetti di Corte, Kant abbia sempre appreso molte cose, ed è per questo che, leggendo la sua Antropologia e alcuni altri scritti, si è tanto sorpresi dalla sua straordinaria conoscenza del mondo. Nonostante ciò, nelle altre zone della Germania, e soprattutto nelle regioni estranee alla Prussia, c’era un atteggiamento critico nei confronti di questo mondo orientale lontano, descrittoci da uno scrittore elegante e sconosciuto, che ebbe parole ironiche e sagaci per le visioni mistiche di Swedenborg. Anche se questo non venne tenuto in gran conto.
Infine uscì la Critica della ragion pura. Quando fu pubblicata, Kant aveva quasi 60 anni, e i commenti gli vennero soprattutto da Gottinga. Gottinga era a quei tempi (e lo è ancora, in realtà) un’università un po’ all’inglese. Le recensioni di allora furono alquanto distruttive, e la Critica della ragion pura non ebbe una grande risonanza (vedremo in seguito perché).… La situazione non era del resto favorevole a Kant.
La Critica della ragion pura, alla sua pubblicazione, non conobbe il successo. Quando però lo stesso Kant si rese conto di non essere stato compreso, perché aveva scritto in modo troppo difficile, e si decise a redigere un’opera di carattere introduttivo (i cosiddetti Prolegomena), le cose cambiarono all’improvviso, tramutando un’accoglienza tiepida in un successo travolgente. Nel giro di pochi anni, la filosofia critica di Kant si affermò in tutto il mondo culturale tedesco, facendo sentire il suo influsso anche all’estero. Cerchiamo di riflettere un momento su quanto fa da sfondo a tutto questo: essendo un pensatore formatosi sulla metafisica di scuola, abituato a tenere lezione basandosi su un libro di testo prestabilito, Kant non ebbe modo di esporre direttamente la Critica della ragion pura, il suo famoso libro, e dovette limitarsi a discutere il manuale di metafisica previsto dal programma, arricchendolo con le sue spiegazioni e annotazioni critiche. Fu proprio da questa attività didattica (e dalle incredibili energie lavorative di cui era dotato) che nacque il suo capolavoro. La sua giornata era suddivisa in modo molto preciso, ogni sua passeggiata terminava alla stessa ora, tanto che a Königsberg si usava dire: gli orologi vengono regolati sulla passeggiata di Kant; non è Kant a regolarsi sugli orologi di Königsberg. [In effetti egli usciva e rientrava sempre alla stessa ora.
LA FINE DEL SONNO DOGMATICO
Non è semplice, in realtà, far comprendere il contributo di Kant alla filosofia. Con la genialità che lo caratterizzò, egli colse in maniera molto chiara gli aspetti positivi dell’illuminismo tedesco, e in particolare di Leibniz. Così come quest’ultimo tentò una conciliazione (come ho già avuto modo di dire) fra le due sostanze, la res extensa e la res cogitans (dando quindi vita al sistema della Monadologia) allo stesso modo anche Kant cercò di approfondire questa impostazione e di legittimare le assurdità del sogno filosofico leibniziano (un Dio che pone un’infinità di orologi), servendosi di una costruzione, per così dire, un po’ meno macchinosa. In effetti Kant esordì con una dissertazione che, proprio come accadeva in Leibniz, rivelava una forte influenza platonica. Il titolo di questa sua tesi è: [De mundi sensibilis atque intelligibilis forma et principiis] – “La forma e i principi del mondo sensibile e intelligibile”, una formulazione che noi oggi definiremmo subito “neoplatonica”; (ma, in realtà, la differenza tra platonismo e neoplatonismo è soltanto post-kantiana: la troviamo per la prima volta in Schleiermacher e in Hegel,… e non senza motivo!) Per Kant era chiara comunque una cosa: si poteva a buon diritto parlare di un “mundus intelligibilis”, rappresentato in primo luogo dall’enigma dei numeri (come nella concezione platonica), e poi, naturalmente, anche dalle idee geometriche correlate ai numeri, dunque dalla geometria euclidea. Sicuramente Kant, già nell’impostare la sua filosofia, volle recuperare la tradizione della metafisica nella sua totalità. Ma nei suoi saggi (tanto nel campo della metafisica, quanto in quello della filosofia morale) l’evoluzione del suo pensiero non era all’altezza degli scopi da lui perseguiti, tanto che egli dovette un giorno riconoscere: “David Hume mi ha svegliato dal sonno dogmatico”. Questa celebre espressione di Kant merita un chiarimento quanto al suo significato! Chi era David Hume? Perché Kant si era espresso in questo modo?
LA TEORIA DELL’ABITUDINE
Nella mia precedente disamina dei presupposti kantiani, ho solo accennato agli sviluppi inglesi. Anche questi erano qualificati dalla nascita delle scienze moderne, ma la filosofia inglese tentò il cammino inverso rispetto a quello intrapreso dai Tedeschi i quali, con Leibniz, avevano tentato di ripristinare la metafisica, superando mediante il concetto di monade l’opposizione tra essere pensante ed essere inanimato. …Kant… scusatemi, Hume tentò, assieme agli altri inglesi, di percorrere una strada diversa, chiedendosi: dove risiede la facoltà pensante nell’uomo? Da dove provengono i concetti? Esistono già da sempre? No! Vengono acquisiti dall’esperienza. E così Hume ha sviluppato… una teoria che descrive il modo in cui i concetti vengono appresi.
Il celebre detto di Kant, da me citato, si riferisce anzitutto alla spiegazione di quello che, a partire da quell’epoca, viene chiamato “principio di causa”, ossia quella regola (la cui validità è in un certo senso inconfutabile) secondo cui ogni effetto ha una causa. In natura non accadono miracoli. Noi tutti sappiamo che la lotta contro i miracoli, intesi come il presunto inganno della Chiesa, fu uno dei cavalli di battaglia dell’Illuminismo.…
Hume offrì in primo luogo una spiegazione della nostra certezza che ogni effetto abbia comunque una causa. Secondo lui, si tratta di un’abitudine acquisita da lungo tempo. “Abitudine” è la parola chiave della critica di Hume alla metafisica.… Di fronte a questa affermazione, oggi si pensa subito al pragmatismo americano, il quale esamina i concetti ricercandone le origini in situazioni di vita assolutamente pragmatiche.
Kant viene dunque a contatto con i testi di Hume (che peraltro era un grande scrittore) e riconosce subito che in essi c’è qualcosa di vero. Noi non possiamo pensare che l’intera realtà si risolva nella razionalità; non possiamo fare come se il concetto di logos (che nell’eredità antica della metafisica era la nozione universale fondamentale) conservasse l’ultima parola anche all’interno delle moderne scienze sperimentali. E allora non resta altra alternativa che tornare a riflettere sulla possibilità di un rapporto positivo fra l’esperienza e i concetti entro cui la pensiamo.
LA NECESSITÀ DEI CONCETTI
Proprio quest’indagine sul contributo dell’esperienza e su quello dei concetti fondamentali, di cui ci serviamo, costituisce il punto di partenza della riflessione di Kant. Egli ha compreso che non si può prescindere dall’esperienza; ho già citato il famoso inizio della Critica della ragion pura: “L’esperienza è senza alcun dubbio la base di tutto il sapere”. Però Kant non ha proseguito affermando: “e i concetti con cui noi la pensiamo sono acquisiti anch’essi dall’esperienza” (che era la linea di Hume e dell’empirismo inglese). Egli mostra invece che i concetti hanno già sempre una necessità costitutiva per l’esperienza stessa. Il ricondurre ogni fatto, ogni mutamento della natura, a una propria causa, non rientra già nel campo dell’esperienza, bensì è ciò che la rende possibile. Kant giunse così alla sua famosa formulazione. Tutto questo risulta evidente se pensiamo, ad esempio, al computer dei nostri giorni e alla sua capacità universale e illimitata di immagazzinare dati; se noi avessimo solo questa memoria per acquisire conoscenza del mondo, saremmo rovinati: soffocheremmo in una selva di informazioni, senza possederne realmente alcuna: “informarsi” significa sapersi orientare in una determinata questione, far luce su qualcosa di non chiaro. In questo esempio limite, traspare anche un’assurda convinzione dei giorni nostri (dai risvolti talvolta inquietanti) secondo cui l’informatica sarebbe la fine della scienza come tale. No! Il computer è uno strumento straordinario, ma è un congegno che presuppone in massimo grado l’immaginazione scientifica e il senso critico della scienza. “Misurare tutto il misurabile” è ancora ben lungi dal comprendere. Le misurazioni devono essere dapprima preparate, e lo stesso vale anche per gli esperimenti. Credo che la logica dell’esperimento sia la confutazione vivente del concetto di “registrazione”. Chi fa un esperimento deve elaborare una domanda, e deve riflettere sul modo in cui può indurre la natura a rispondervi. Tutti coloro che hanno un minimo di esperienza di ricerca sperimentale, sanno che solo per la preparazione di un esperimento è indispensabile un lavoro di anni, che si concretizza poi in pochi minuti o poche ore di misurazione. È però necessario che vi siano domande mirate, perché le nostre tecniche di misurazione, perfezionate, conducano alla conoscenza.
LA POSSIBILITÀ DELL’ESPERIENZA
Questa è solo un’immagine popolare che spiega perché Kant abbia potuto affermare: “i concetti, con cui facciamo esperienza, non sono a loro volta nozioni che provengono dall’esperienza, ma necessarie condizioni di possibilità della nostra esperienza”. C’è un proverbio che dice: “chi guarda in giro non mette giudizio”. La parola tedesca per “giudizio” – “Urteil” – è molto efficace: va diretta al nocciolo della questione. In essa risuona il verbo “separare”: distinguere ciò che è essenziale da ciò che non lo è. Di una persona diciamo, ad esempio: “ha giudizio”, cioè non si limita a registrare gli eventi, bensì individua problemi, vede le possibili soluzioni, e fra queste coglie quelle giuste, e merita la lode; diremo invece: “non ha giudizio”, se sceglie le soluzioni sbagliate. Attraverso questo ricorso al linguaggio comune voglio spiegare una specie di parola magica: “apriori”. Che cosa significa? Questo soltanto: che per poter fare esperienza, devono già esserci domande, in forma di concetti. Riflettiamo un attimo su una bella espressione: “porre una domanda”. Non basta solo domandare, è necessario che le condizioni di una possibile risposta siano già presenti nell’atto di porre la domanda. È qualcosa di cui tutti facciamo esperienza: “uno sciocco può volere più risposte di quante non possano darne tutti i saggi del mondo”, perché, appunto, non sa porre le domande. A questo proposito, in tedesco usiamo l’espressione “una domanda contorta”, tale, cioè, da impedire qualsiasi risposta. Una questione mal posta presuppone ovviamente così tante contraddizioni interne che è impossibile condurla verso una qualche soluzione. Come si può constatare, sto cercando di lasciar da parte tutte le espressioni tecniche, per chiarire che cosa significhi “apriori”: esso è ciò che rende possibile l’esperienza, e pertanto non può essere a sua volta spiegato ricorrendo a quest’ultima; al contrario: è l’apriori che deve spiegare l’esperienza. Questa fu la grande svolta copernicana di Kant.
Kant era uno splendido scrittore, e deve esser stato anche un magnifico intrattenitore. Non sarebbe stata possibile, infatti, la presenza di un ospite noioso in una cerchia di commensali quale fu quella della Corte di Königsberg.
L’APRIORI E LA CAUSALITÀ
Dunque Kant pone la domanda sulla possibilità dell’esperienza ricorrendo al concetto di apriori, che compare occasionalmente già in precedenza, ma ora assume un ruolo fondamentale. Egli si chiede inoltre: “come si accordano nella nostra esperienza del mondo l’eredità della metafisica – cioè i concetti razionali – e questa conoscenza di tipo nuovo, basata sulla misurazione e l’esperimento?”. Nella seconda edizione della Critica della ragion pura Kant ha aggiunto, in una prosa piuttosto difficile, una descrizione davvero illuminante, che ci mostra come, accanto ai concetti razionali, l’esperimento apporti una nuova fonte di conoscenza. Per poter fare esperimenti bisogna saper porre domande, e questo avviene soltanto se, ad esempio, di fronte a qualcosa, si chiede: “qual è la causa di ciò?”.… Pertanto, se non è valida la categoria di causalità, non è possibile alcun tipo di esperienza. Uno degli errori più grandi di certi nostri contemporanei (spesso ignoranti di filosofia) è quello di appellarsi ai più recenti sviluppi della teoria quantistica per dire a cuor leggero che la causalità non vale più. Costoro non hanno affatto compreso che cosa sia la causalità! Essa è, infatti, il presupposto fondamentale dell’esperienza! Ben altra cosa è, ovviamente, stabilire se e come sia possibile trovare in modo inequivocabile la causa dei fenomeni osservati. Laddove, ad esempio, è la misurazione stessa a perturbare l’oggetto da misurare, tale reperimento potrebbe risultare evidentemente impossibile, ed è proprio su questo presupposto che si fonda la fisica quantistica di Heisenberg e della Scuola di Copenhagen.… Ma torniamo indietro alla concezione kantiana. Si esprime un concetto apparentemente banale, quando si afferma che l’esperienza implica sempre il pensiero. Non ci sarebbe bisogno di attendere un genio come Kant per rendersene conto. Nelle sue indagini sulle condizioni di possibilità, Kant si è chiesto come sia possibile sapere, prima di averne fatto esperienza, che, ad esempio, ogni effetto ha la sua causa. Si potrebbe obiettare che anche questa è, appunto, una cosa che dev’essere comprovata dall’esperienza! Ma chi afferma questo, non ha capito che cosa siano la ricerca, l’applicazione della matematica alla natura, il senso degli esperimenti. Per ottenere risposte da questi ultimi è necessario porre domande;… tale rapporto tra domanda e risposta è così profondamente radicato nella nostra esperienza, che anche la vita di tutti i giorni continua a riproporcelo, esattamente negli stessi termini. Non tutto il nostro vissuto diventa esperienza: una situazione vissuta diviene per noi un’esperienza (cioè ci trasmette una nuova conoscenza, che prima non avevamo) perché risponde a una domanda. Da questo punto di vista Kant ha meditato a lungo, in particolare nei Prolegomena, soprattutto sull’applicazione della matematica all’esperienza, e da questa sua riflessione si è generata poi, nel Neokantismo, l’espressione “fatto della scienza”: quello che è accertato dalla scienza dimostra, con ciò stesso, una corretta applicazione dei concetti che vi sono implicati. Certo, non è poi così semplice (come sembrerebbe dal mio discorso) giustificare la correttezza delle nozioni che riferiamo alla nostra esperienza. Su questo problema Kant stesso ha fatto alcune considerazioni interessanti, mostrando come prima di ogni esperienza, cioè nella “percezione pura” – vale a dire in quegli elementi puri da cui si struttura l’esperienza – è già presente un’attività formatrice. Non ci si può limitare a una semplice reazione agli stimoli, si deve (per esprimersi con Kant) in un certo qual modo già sintetizzare la ricettività della nostra facoltà sensibile; questo è ciò che Kant ha chiamato “affinità trascendentale del molteplice”, vale a dire il fatto che innumerevoli dati si rappresentano come unità ancor prima che vi sia il pensiero, anche se sarà poi quest’ultimo a elaborarli con il proprio ulteriore e decisivo contributo.
Ho voluto così offrire un primo orientamento all’interno della questione da affrontare. L’empirismo ha aperto la via ad alcune concezioni problematiche. Empirismo non significa infatti essere a favore dell’esperienza, quanto piuttosto credere che tutti i concetti provengano dall’esperienza. Questa affermazione è confutabile perché è unilaterale; e in effetti Kant fu così convincente che riuscì ad attribuire alla metafisica una sua validità, quanto meno entro i limiti dell’esperienza possibile. Qui entra in gioco la celebre bipartizione kantiana delle facoltà: l’intuizione e il pensiero concettuale, (ovvero l’intuizione e l’intelletto). Spazio e tempo, le due forme dell’intuizione, presenti in ogni nostra percezione del mondo, sono anch’essi apriori, come i concetti con cui li pensiamo. Questo è uno degli aspetti più dibattuti, ma anche più rapidamente rifiutati, di tutta la dottrina kantiana. Già Fichte, insieme agli immediati successori di Kant, cominciò a chiedere: “non dobbiamo forse concepire anche le forme dell’intuizione come forme del pensiero? Anche lo spazio e il tempo hanno lo stesso statuto della causalità!” Questo è un fatto da non passare sotto silenzio, grazie al quale è stata possibile la stessa fisica moderna (pensiamo ad esempio alla dissociazione dal postulato dell’intuizione già avanzata dalla teoria generale della relatività, con il presupposto dello spazio curvo e ormai invalsa in tutte le forme moderne della fisica atomica). Ma torniamo indietro.…
LA DEDUZIONE TRASCENDENTALE
Come mai Kant si svegliò dal sonno dogmatico? Egli comprese di dover giustificare il fatto che i concetti, entro cui noi pensiamo la natura, siano legittimamente applicati ai nostri materiali percettivi, alla nostra ricettività sensibile; si accorse, inoltre, che è lecito pretendere che ogni effetto abbia la sua causa, e ponendo questa domanda pervenne a una risposta. Che cosa significa dunque “effetto” se non l’effetto di una causa? Che cos’altro può voler dire, se non questo: che vi è un elemento la cui azione produce conseguenze?
Per questa via si può arrivare a capire come mai Kant si sia dedicato con incredibile cura alla giustificazione dell’uso di categorie come la causalità; la parte decisiva della Critica della ragion pura, la cosiddetta “deduzione trascendentale”, è appunto la dimostrazione del fatto che i concetti sono effettivamente a priori e, al tempo stesso, sono già applicati all’esperienza, sono già impliciti in essa. Kant ha potuto, a suo modo, dimostrare questo grazie all’analisi dell’autocoscienza. Ricostruire per intero questo ragionamento ci porterebbe troppo lontano. È sufficiente sapere che cosa ne è derivato. Kant ha mostrato che l’autocoscienza stessa, vale a dire la res cogitans della tradizione cartesiana,… contiene già quegli stessi concetti con cui facciamo le nostre esperienze, ma non li contiene nel senso di disposizioni innate, bensì come “necessarie condizioni di possibilità” dell’esperienza. Ecco come suona la formula da sempre nota nel kantismo: il trascendentale è il discorso sulle condizioni di possibilità delle cose, non sul loro modo di essere! Questo aspetto obbligò Kant a percorrere strade completamente nuove. All’interno delle scienze della natura egli trovò una giustificazione del motivo per cui queste ultime, con il loro apparato procedurale, possono fare esperimenti, valutandoli, interpretandoli e rendendo così intelligibile la loro istanza di verità. A questo proposito Kant si espresse in termini provocatori, e nelle sue parole si avverte tutto l’orgoglio di un grande pensatore, laddove egli osa affermare: “l’intelletto prescrive alla natura le sue leggi”; (è una frase che ha dell’incredibile!). Che cosa deve fare il nostro intelletto? – Il significato dell’affermazione è il seguente: possiamo parlare della natura come di qualcosa di comprensibile soltanto se la concepiamo come il risultato di esperimenti intesi a scoprirne le leggi. La natura è – come dice Kant – “materia soggetta a leggi”: dobbiamo quindi capirne le leggi. E le leggi della natura sono per l’appunto “forme”, in cui si rappresenta, ad esempio, il concetto di “necessità”.
I LIMITI DELLA RAGIONE
Esponendo e illustrando questo aspetto della filosofia kantiana si riesce probabilmente a comprendere il motivo reale della sua risonanza internazionale. Di Kant è stata infatti ammirata solo la legittimazione delle scienze della natura di fronte al nostro pensiero. Questo conferimento di legittimità avviene grazie ai “giudizi sintetici a priori”, come ad esempio: “ogni effetto ha una causa”. Questo è un giudizio sintetico a priori, cioè noi non lo possiamo sperimentare direttamente, ma dobbiamo pensarlo come una condizione di possibilità di tutta l’esperienza. Se ora guardiamo alla ripresa degli studi kantiani nell’Ottocento, legata ai progressi dell’incipiente Rivoluzione industriale (prima in Inghilterra, poi anche nel continente), ci rendiamo conto che essa valorizzò solo quest’aspetto del pensiero kantiano, per il quale trovò persino il nome adatto: “teoria della conoscenza”. Quest’espressione è stata coniata non prima della metà dell’Ottocento. L’inglese “epistemology” e le corrispondenti variazioni nelle lingue romaniche risalgono al concetto greco di “epistème”, sapere, conoscenza. In sostanza, si tratta soltanto di due diverse espressioni per esprimere la stessa cosa, visto che anche “epistème” si riferisce alla scienza; e nient’altro (non c’entra l’esperienza di vita, né tutto ciò che concerne le nostre scelte, nel senso del nostro operare come creature libere; qui si intende solo la scienza). Ecco quale fu, agli occhi del mondo, il grande merito di Kant: aver giustificato l’epoca della scienza. Questo però non si concilia molto bene con l’altrettanto famosa espressione kantiana: “ho indagato i limiti del nostro pensiero solo per far posto alla fede”. Siamo di fronte, dunque, a un teologo in incognito? Che cosa dobbiamo pensare? No! Non si tratta di questo: Kant è figlio dell’Illuminismo, e in fondo ogni Illuminismo che non si sopravvaluti dovrebbe mettere in conto che incontrerà i limiti dell’intelletto e della nostra possibilità di conoscenza. Del resto, Kant aveva anche un altro interesse, oltre a quello dell’indagine sui limiti dei concetti speculativi. Non si può ovviamente dimostrare concettualmente che Dio ha creato il mondo o che l’anima umana è immortale o cose del genere. Qui si può solo argomentare a favore o contro, e nel suo celebre trattato Kant ha denominato queste argomentazioni “antinomìe della ragion pura”; ossia: la ragione pura (quella cioè che non si riferisce al mondo dell’esperienza) non è mai in grado di dare risposte prive di contraddizioni. Per ogni argomento c’è sempre un argomento contrario di pari evidenza.
LA FONDAZIONE DELLA MORALE
C’è poi un altro elemento fondamentale: si tratta dell’intima realizzazione del mundus intelligibilis. Kant ha riportato al centro dell’attenzione la ragione pratica, ovvero ha mostrato che l’uomo, considerato come persona, detiene un sapere diverso da quello fornito dalla conoscenza delle leggi e dalla comprensione di un processo (inteso come caso particolare di una legge): si tratta della legislazione che noi dobbiamo dare a noi stessi come uomini, e che, in verità, ciascuno deve dare a se stesso, se vuole comprendersi nella sua umanità. Si tratta del famoso “imperativo categorico”, che provoca sempre un “sacro timore” in tutti quanti, pur trattandosi di una cosa semplicissima, che è agevole spiegare.… Kant mostra infatti che tutti sappiamo, necessariamente, di poter concepire noi stessi come esseri che agiscono liberamente e di dover pensare anche l’altro come essere libero. Questo non ha niente a che vedere con il fatto che la scienza ci spinga in questa direzione, oppure no. Anche se la psicologia del profondo, nel Novecento, ci ha insegnato quali tracce profonde si imprimano nel nostro inconscio… durante i primi anni di vita, e anche se al giorno d’oggi sono note le cause genetiche dei vari comportamenti, ciò non toglie assolutamente che chi è consapevole di aver commesso un’ingiustizia non potrà dire: “è colpa del codice genetico”, oppure “è una tendenza primordiale inconscia”! La causa può essere di qualsiasi genere, ma questo non impedisce affatto di sentirsi responsabili. Perciò è chiaro che nessuno potrà declinare la propria responsabilità,… neanche rispetto all’altro, altrimenti non potrebbe vivere in una comunità. Kant ci offre così il secondo carattere della sua filosofia. Non solo si è svegliato, grazie a Hume, dal sonno dogmatico (fornendo la giustificazione dei nostri concetti di ragione), ma ha sviluppato anche un aspetto ulteriore, al quale ho già fatto cenno precedentemente, parlando dell’influsso ricevuto da Rousseau. Quest’ultimo ha effettivamente colto la differenza tra il progresso teoretico del sapere e l’educazione morale dell’uomo. Egli ha visto che è una presunzione dell’Illuminismo credere che solo chi ha appreso le scienze diventi un uomo migliore.
Per sviluppare questo aspetto della questione, Kant ha dato vita alla sua filosofia morale, indicando l’esistenza di imperativi categorici, ai quali appartiene anche la forma imperativa più palese: “Tu devi considerare ogni altro essere umano come un fine in sé”. Certo, può suonare molto strano (noi filosofi ci troviamo nella necessità di utilizzare un linguaggio tecnico), e tuttavia per capire questa affermazione basta pensare per un attimo alla sua paradossalità. Un “fine in sé” è uno scopo impossibile da porsi, in quanto, appunto, è già posto di per sé. Ogni uomo è – “in sé” – già libero, cioè è a lui che devo imputare le sue azioni, allo stesso modo in cui i miei pensieri dipendono da me – ma possiamo concepire noi stessi come esseri pensanti soltanto se ciò implica anche questa componente morale, che fa di noi persone responsabili. È su questo che si fonda la società e ogni possibile teoria del diritto, e anche ogni possibile “dottrina delle virtù”, come è chiamata dalla tradizione.
DOVERE E RESPONSABILITÀ
Su questo punto sarebbe opportuno entrare maggiormente nel dettaglio, perché i fraintendimenti della filosofia morale kantiana hanno imperversato in tutto il mondo fino ai nostri giorni. Di fronte all’espressione: “legge incondizionata” si parla del “dovere”. Ed è vero che Kant, servendosi di espressioni in voga nel suo tempo, tratte dal linguaggio stoico (o meglio dal Neostoicismo dell’epoca rinascimentale e del Cinquecento), parla sempre del concetto di dovere, che troviamo anche nel De officiis di Cicerone. Ma che cosa si intende con questo? Naturalmente egli non ha pensato (sarebbe stato incoerente) che la sua concezione dell’imperativo categorico dovesse insegnare agli uomini un maggiore autocontrollo. Kant ha descritto che cosa accade in un individuo che è consapevole del proprio dovere. Se ad esempio dico: “sto solo facendo il mio dovere”, significa che sono disposto ad assumermi la responsabilità della mia azione, poiché la ritengo giusta; in altri termini: sono convinto di ciò che faccio, e assicuro di agire mosso dalla consapevolezza del dovere. Il dovere, quindi, non ha nulla a che fare con l’ottusa sottomissione ai comandi. Questo è il grande errore che ho sempre trovato, persino nelle interpretazioni di affermati studiosi di Kant, i quali dichiarano: “siamo di fronte al militarismo prussiano, cioè a quel sentimento di sottomissione, di sudditanza, che la Prussia militarizzata ha sempre fatto risalire a Kant”. Può darsi che in questo ci sia qualcosa di vero: i fraintendimenti hanno un forte impatto sociale. Ma ciò non equivale a una genuina comprensione di Kant, il quale intendeva dire una cosa del tutto diversa. Egli ha affermato: “Non ho bisogno di dimostrare l’esistenza del dovere; posso ovunque presupporla; invece che cosa esso sia, e come posso riconoscerlo, questo, sì, deve essere dimostrato e spiegato. Se “dovere” significa: fare una cosa solo se mi aggrada o mi arreca vantaggio, allora siamo di fronte – direbbe Kant – a “imperativi ipotetici”, che rispondono alla formula: “devi compiere l’azione se vuoi raggiungere questo scopo”; però se hai a che fare con un “fine in sé”, che non può essere oggetto della tua volontà, la situazione cambia. Qui Kant rivolge effettivamente il suo sguardo all’uomo in quanto tale, cogliendo la coscienza della libertà, la comprensione di sé, il rispetto dell’altro e della sua vita, il rispetto della legge, e tutto questo insieme. Così facendo, Kant ha formulato l’imperativo categorico nel senso di un’“etica formale” (che cioè non presuppone nessun contenuto specifico), con argomenti che sanno rivolgersi all’uomo della strada, e ha mostrato perché Rousseau aveva ragione nell’affermare che l’uomo comune, trovandosi in situazioni di conflitto, non è affatto inferiore, per sottigliezza morale, al più colto e disciplinato degli intelletti. Kant lo ha espresso molto bene, e in maniera chiarissima.
LA SOFISTICA DELLE PASSIONI
Nella Fondazione della metafisica dei costumi – in un passo che amo particolarmente – Kant afferma: “se il dovere è qualcosa di così meraviglioso, come vien detto qui, a che cosa serve allora tutta questa filosofia? Basterebbe che ciascuno seguisse la voce della coscienza, e le cose andrebbero per il meglio!”. Egli osserva: “È una bella cosa l’innocenza, peccato, però, che sia così facile perderla, e noi tutti tendiamo – pur essendo consapevoli del dovere – in primo luogo a farci illusioni su noi stessi, sulle nostre stesse forze, dicendo, ad esempio: “certo, in generale non devo mentire, ma se ora dico la verità metto a repentaglio la mia vita. In tal caso deve pur essere concessa un’eccezione””. L’imperativo categorico è un comando che non ammette alcuna deroga. Questo è il senso dell’imperativo categorico: non c’è alcuna condizione in cui, per esempio, ho il diritto di trattare l’altro come uno strumento, un mezzo, senza che egli accondiscenda. Questo non significa che qualcuno non possa servire da mezzo per l’altro, bensì che nessuno dev’essere usato come strumento senza il proprio consenso, senza la sua disponibilità, tanto che si tratti di un soldato o di chi riveste una carica, e altro ancora. Dunque, l’influenza fondamentale di Rousseau nel pensiero di Kant sta nell’aver mostrato come la ragione umana inganni se stessa per sottrarsi ai propri doveri; e come essa debba rendersi conto di ciò grazie a una riflessione, poi messa in atto da Kant. … A questa problematica Kant ha dato altresì il nome di “sofistica delle passioni”: sotto l’influsso delle passioni, delle emozioni, noi tutti siamo sempre pronti a esporci a questi errori morali – chi non lo fa! – Non siamo né perfetti, né santi: possiamo sbagliare in ogni momento. Ma una volta scomparsa l’emotività, siamo in grado di capire che la nostra azione non era giusta, e sappiamo renderci conto che: “se tutti ragionassero così…!”. – Ecco l’esempio che fa Kant …“se tutti ragionassero così…!”… – “Se mi trovo in difficoltà, mi vedo costretto a raccontare una bugia per ottenere in prestito del denaro”: è un celebre argomento, al quale Kant ribatte: “se questa diventasse una legge universale, nessuno più presterebbe denaro agli altri”. Se ognuno sapesse che l’altro può anche mentire, non ci sarebbero più prestiti. …Se ognuno sapesse che l’altro può mentire… Kant non ha legittimato questa situazione, ma ne ha indicato il perché: noi siamo convinti di dire la verità quando vogliamo farci prestare del denaro, per poi restituirlo. Queste sono le riflessioni che hanno indotto Kant, nella sua seconda Critica (ma soprattutto nella Fondazione della metafisica dei costumi) a istituire l’autonomia della ragione come primato della ragion pratica. Dalla qual cosa discendono molte conseguenze.
DA KANT A FICHETE
A proposito di Kant abbiamo già chiarito perché egli sia stato la personalità filosofica centrale di tutta l’età moderna. Non c’è dubbio che proprio la sua conciliazione della grande eredità del pensiero metafisico greco e medioevale con le scienze moderne risponde a un’esigenza intorno alla quale si raccolgono tutti gli sforzi della filosofia moderna. Come è possibile affrontare le grandi questioni dell’umanità, alle quali la metafisica aveva risposto in accordo con la teologia? Le domande sull’inizio di tutte le cose,… sulla libertà dell’uomo, gli interrogativi su Dio e sul divino, sul cui sfondo si staglia la finitezza umana, hanno da sempre costituito i problemi della metafisica; il proposito della filosofia di rispondere agli enigmi dell’umanità si è risolto in un continuo avvicendarsi di tentativi sempre nuovi e di altrettanti fallimenti. Lo stesso Kant, con la Critica della ragion pura, pose l’esigenza di considerare l’attività della ragione nel suo legame con l’esperienza…
Considerando la posizione kantiana nella storia dell’epoca moderna abbiamo chiarito la centralità di Kant nella filosofia dell’intera età moderna. Lo stesso Kant fu del resto consapevole di essere l’iniziatore di una nuova epoca. A questo proposito aveva trovato un’espressione straordinariamente suggestiva, secondo cui la sua filosofia rappresenterebbe una «svolta copernicana». Così come in astronomia il modello geocentrico del mondo fu sostituito da quello eliocentrico, così la novità della concezione kantiana era racchiusa in questa asserzione: «è l’intelletto a prescrivere le sue leggi alla natura». Abbiamo visto che ciò non implica affatto un soggettivismo assoluto, bensì un’indagine sui limiti dell’apporto che la pura ragione offre alla conoscenza: essa infatti, non è in grado di produrre autonomamente il conoscere. Questo è il risultato della Critica della ragion pura: i concetti razionali hanno valore conoscitivo solo nei limiti dell’esperienza possibile. Quando ci troviamo al di là di essi (come accade nella metafisica, che pensa l’immortalità dell’anima, l’esistenza di Dio o l’origine del mondo) entriamo in problematiche che oltrepassano l’esperienza; e il merito di Kant è stato proprio quello di mostrare che la ragione, quando inizia ad argomentare su questioni metafisiche, cade sempre e necessariamente in contraddizione. Non deve affatto meravigliare, quindi, che Kant, riconciliando le scienze empiriche con la metafisica (in nome di una critica alla metafisica dogmatica) abbia conquistato una posizione dominante nell’epoca moderna. Come è noto, Kant era già un uomo molto anziano (aveva quasi sessant’anni) quando diede alle stampe la Critica della ragion pura, e continuò la sua produzione filosofica fino a tarda età. Ho avuto modo di illustrare in entrambi gli ambiti (sia in quello della pura conoscenza della natura, che in quello della realtà sociale, della filosofia morale e del diritto) il suo intento filosofico davvero nuovo e rivoluzionario. Abbiamo anche visto che da un lato egli tenne conto del pensiero di David Hume, il grande filosofo dell’Illuminismo inglese, e dall’altro riconobbe la piena autonomia dell’esistenza morale e sociale dell’uomo, risentendo dell’influsso di Rousseau. Furono proprio tempi rivoluzionari, i suoi; la pretesa di dar vita a qualcosa di assolutamente nuovo con la propria filosofia, non deve stupire: era, infatti, l’epoca della Rivoluzione francese,… in cui spirava un nuovo vento di libertà, e la borghesia, di cui lo stesso Kant faceva parte, stava acquisendo un peso politico sempre maggiore. Di Kant vanno ricordate innanzitutto le tre «Critiche»: la Critica della ragion pura, la Critica della ragion pratica e la Critica del Giudizio; in quest’ultimo scritto – sulla cui fortuna dovremo dire ancora molte cose … [ripete]… – si trova un’annotazione contemporanea allo scoppio della Rivoluzione francese, in cui si esprime più o meno così: «da qualche tempo una grande nazione si è data da sé una nuova costituzione, e sarà quindi possibile iniziare nuovamente una buona gestione dello Stato».… Il riferimento è all’Assemblea Costituente della Rivoluzione francese del 1789; mentre l’annotazione di Kant risale al 1790, quando ancora la sua opera era in corso di stampa. Kant era già allora molto anziano, e per darne un’immagine concreta racconterò un aneddoto: il suo settantanovesimo compleanno fu ovviamente occasione di festeggiamenti. Il rettore dell’università lo andò a trovare. Kant era un vecchio molto indebolito, e si alzò con notevole fatica dalla sedia. Il rettore disse: «Professore, La prego,… rimanga pure comodo», ma Kant rispose: «No! No! Mi è rimasto ancora un residuo di umanità».
UN GENIALE GUARDIANO DI OCHE
La grande figura di cui adesso dobbiamo occuparci, si colloca nell’eredità spirituale kantiana, ma in maniera del tutto particolare: si tratta di Fichte. Egli era legato a Kant in modo davvero singolare. Quando era ancora studente (e diremo poi per quali vie egli giunse a farsi una cultura) pubblicò un libro dal titolo Critica di ogni rivelazione. In questa pubblicazione anonima il mondo volle vedere una nuova opera, lungamente attesa, del vecchio Kant. Quest’ultimo si premurò di affermare: «No! No! L’autore non sono io, bensì Johann Gottlieb Fichte». Questa fu ovviamente una nobilitazione per il giovane e ambizioso Fichte che, come professore a Jena, raggiunse ben presto una posizione di rilievo. Come era quest’uomo? Molto diverso da Kant. Non era affatto un frequentatore dell’alta società, no! Faceva il guardiano di oche in una tenuta nobiliare, e una domenica, di ritorno dalla funzione, ripeté alle oche l’intera predica del pastore. In quel momento passava di lì il conte, proprietario della tenuta, che colse in lui la presenza del genio e finanziò interamente i suoi studi, iscrivendolo all’eccellente scuola di Pforta, lo stesso celebre istituto che poi fu frequentato anche da Nietzsche. Fichte era quindi un uomo straordinariamente dotato, proveniente dalla classe sociale più bassa; (anche questo è un simbolo dell’epoca rivoluzionaria). In effetti egli aveva tutt’altra indole rispetto a Kant: proveniva dalla Germania centrale (dalla Sassonia), ed era dotato di un’energia e di una forza di volontà irrefrenabili. Nell’intitolare i suoi libri non esitò, per esempio, a formulare sottotitoli come questo: «Un tentativo di costringere il lettore alla comprensione». Fu un uomo di rara eloquenza e di incredibile sagacia; comparve sulla scena filosofica con la pretesa di essere l’unico ad aver compreso Kant e di volerlo esporre secondo la propria interpretazione, attuando quindi il primo sistema filosofico in senso kantiano. Lo stesso Kant – infatti – non ha lasciato un vero e proprio sistema, ma soltanto indagini nelle quali se ne potevano cogliere [solo] le tracce.… Fichte chiamò il proprio progetto filosofico Dottrina della scienza; è necessario però intendere bene il significato del termine «scienza» alla fine del 18° secolo: non era propriamente la «scientia», cioè la conoscenza nel senso in cui la intendiamo noi, bensì la totalità del conoscere. Quando usiamo l’espressione «ne ho scienza» intendiamo dire, semplicemente: «lo so»; la Dottrina della scienza di Fichte voleva risolvere l’enigma insito nel fatto che noi sappiamo, conosciamo qualcosa.… Ci si chiederà subito: non siamo di fronte, forse, a una prosecuzione davvero singolare della filosofia kantiana, visto che abbiamo mostrato chiaramente che il conoscere è possibile solo grazie alla cooperazione delle scienze sperimentali con i concetti della ragione? Sì, è vero, e in questo senso ritengo che la comparsa sulla scena di Fichte rappresenti l’apertura di un nuovo secolo.
IL VIGORE MORALE DELLA RAGIONE
Egli non era certo giunto alla filosofia piovendo dal cielo o… dal suo lavoro di guardiano di oche; si era invece formato all’interno del grande e brillante bacino culturale della borghesia in ascesa dell’ultimo decennio del 18° secolo. Fu chiamato, ancora molto giovane, come professore a Jena, e qui, nel 1794, scrisse il testo fondamentale di tutta la sua filosofia: Fondamenti dell’intera dottrina della scienza, un libro che ha avuto per l’epoca successiva un’importanza pari a quella della Critica della ragion pura.
Fichte ha dedicato tutta la sua carriera d’insegnante a migliorare, rielaborare, precisare e ampliare questa sua opera fondamentale. Per questo aspetto, e per altre circostanze, la figura e la vita di Fichte sono analoghe alla figura e alla vita di Heidegger. Anche quest’ultimo, in effetti, ha sempre ribadito, nel corso di tutta la sua attività successiva, che in Essere e tempo c’era già tutto il suo pensiero, e ripeteva: «La mia “svolta” – la successiva evoluzione – non volge lo sguardo altrove rispetto all’impresa filosofica progettata in quell’opera».
Torniamo a Fichte: Fichte era un uomo dotato di una incredibile forza suggestiva e di coerenza intellettuale. Mi sembra che egli abbia di fatto trasformato la filosofia di Kant, dandole basi diverse: Kant fu l’elegante mediatore delle scienze sperimentali con la tradizione della metafisica; Fichte cercò di dimostrare che vi è solo una totalità unitaria: la ragione, che dispiega se stessa. Essa trae tutta la sua forza dalla natura umana, cioè innanzitutto dal vigore morale della ragione stessa. Fichte ha quindi preso le mosse da un problema kantiano, vale a dire il primato della ragion pratica; egli cercò di mostrare come il concetto di libertà sia fondamentale anche per tutta la nostra conoscenza teoretica. Per condurre tale dimostrazione dovette in primo luogo far vedere che non possiamo presupporre nulla al di fuori dell’«intimo possesso di sé» da parte di un essere razionale, quindi nemmeno l’esperienza, che proviene dall’esterno: questa era la sua massima ardita! In essa si riconosce bene l’uomo di umili origini, che, grazie al suo genio, ha saputo elevarsi a venerato «eroe dello spirito».
LA LIBERTÀ DELL’AUTOCOSCIENZA
Quest’impressione è ancor più netta là dove afferma: «Kant ha visto tutto correttamente; lo si è però sempre frainteso, anche quando ha parlato della “cosa in sé”. Egli ha mostrato, giustamente, che l’esperienza coglie sempre solo fenomeni, mentre la “cosa in sé” non è esperibile; ma se veramente avesse pensato questo, non sarebbe stato il genio che era, bensì uno sconclusionato, e io intendo mostrare che non lo era affatto; così la sua filosofia dev’essere pensata fino in fondo, e se lo facciamo, ci accorgiamo che non c’è “niente in sé”, se non uno stimolo per il pensiero, proveniente da una realtà indescrivibile (di cui non possiamo disporre in quanto tale) ma che possiamo trasformare in conoscenza». Che cosa significa questo?
Con una straordinaria energia, Fichte – come del resto anche Heidegger – meditò a fondo anche a partire dal linguaggio, e servendosi di esso formulò in modo nuovo i propri pensieri. Certamente lo aveva fatto anche Kant, sfruttando le opportunità offerte dal Settecento. Non solo portava il codino, ma aveva anche un certo senso stilistico tipico del rococò: la leggiadria, la raffinatezza, la duttilità del linguaggio di Kant, confluivano però in un periodare ampio e particolarmente difficile. Fichte tentò dunque di dimostrare come al di fuori della coscienza non ci sia nulla che – grazie alla nostra attività – non possa diventare un fenomeno per la coscienza stessa; e per questo escogitò l’espressione: «non ci sono fatti, c’è soltanto l’azione, la Tathandlung». In tedesco questa parola non esiste: è all’incirca come il «Gestell» di cui parla Heidegger a proposito della tecnica. («Esiste solo l’azione, la Tathandlung»). Tuttavia questo termine coglie il nocciolo della questione, ovvero: i contenuti della nostra coscienza – che si raccolgono tutti nell’espressione «autocoscienza» – sono possibili solo in virtù dell’energia del volere umano, quindi in forza del «primato della ragion pratica», cioè della dottrina della libertà. Tutto questo sembra essere la prosecuzione coerente del concetto cartesiano del «cogito me cogitare»: «io sono un essere che si pensa nel proprio pensiero,… cioè sono autocoscienza». Da questo punto di vista Fichte è un vero uomo epocale, che cerca di oltrepassare l’atteggiamento di conciliazione con le scienze empiriche (assunto da Kant) mediante l’identificazione di esperienza e pensiero.
L’AUTONOMIA DELLA MORALE
In un certo senso, si trattava di un rinnovamento della metafisica, che credeva senz’altro di poter attuare partendo da concetti puri; tuttavia in Kant, come nei suoi predecessori, rimaneva pur sempre presente l’influenza della teologia cristiana della Creazione: se la natura umana è definita dalla libertà e dall’autodeterminazione, ciò non significa (nell’uso kantiano del termine «autonomia») che sia l’uomo a darsi le proprie leggi. Anche se questa fu senza dubbio l’interpretazione della filosofia di Kant da parte dei suoi successori ottocenteschi.
Ho già parlato del concetto kantiano di autonomia. Autonomia è un’espressione molto usata: essa nasce come termine giuridico-costituzionale, riferito al caso di popolazioni, città e Paesi che intendono sottrarsi al dominio di un conquistatore per ottenere l’autonomia, come sta accadendo oggi con gli Stati dell’Europa dell’Est, che cercano di staccarsi dall’«impero russo». Ma che cosa si intende qui con questa parola? È assurdo affermare che noi ci diamo le nostre leggi! Sarebbe come pensare che tutti gli uomini siano esseri liberi e debbano essere riconosciuti come tali, allo stesso modo in cui io concepisco me stesso nella mia libertà. No! Autonomia è qualcosa di diverso! Autonomia significa che le leggi vigenti nelle nostre consuetudini, (le norme che regolano tutte le considerazioni morali sul nostro agire consapevole) non devono essere raggirate chiedendosi: «come posso giustificare i miei impulsi e i miei desideri, anche quando la legge afferma che non sono ammissibili perché contrari al decoro?» Proprio qui interviene la nozione di «autonomia»; il concetto di onestà, che tutti possediamo, non deve essere visto nell’ottica di chi cerca di sottrarsi a una legge imposta dall’esterno. Se intendiamo autonomia come lo «statuto morale» di cui io stesso sono il legislatore, ebbene: un legislatore non cerca eccezioni con cui sfuggire alla legge da lui stesso emanata. Egli considera la legge in quanto tale, senza badare alle sue possibili deroghe. Ecco la grandiosa idea di Kant: questa è la vera autonomia! Kant vi perviene sulla scorta di una concezione del ruolo dell’uomo nel mondo, che affonda le sue solide radici nella teologia cristiana della Creazione.
L’IO E IL NON-IO
Fichte inizia a elaborare le sue riflessioni prendendo le mosse dall’essenza dell’autocoscienza, per mostrare così la centralità dell’Io (se non ricordo male, al suo esordio egli veniva chiamato, in maniera un po’ derisoria, il «grande Io», perché parlava sempre dell’Io puro). Con la sua grande autostima, Fichte concepì una nozione opposta all’Io puro (escogitandola di sana pianta): il Non-Io. Abbiamo, quindi: Io e Non-Io. Si pensi alla problematica concezione cartesiana del mondo: res cogitans e res extensa. «No» – dirà Fichte – «Io e Non-Io!». Tutto ciò che è altro, il Non-Io, è posto dall’Io, dalla sua attività ed energia, dalla sua forza di pensiero e di volontà. Fichte ha così potuto spingersi ad affermare che cosa sia in realtà il male, la malvagità del mondo. Il male è l’assopimento della volontà del pensiero, l’abbandono a qualcosa d’altro, come per esempio la materia. Che cosa significa questo? La materia dev’essere per noi un compito da realizzare. Fichte non ha del tutto torto quando afferma che il concetto di materia, il termine greco hyle, è tratto dal lavoro artigianale. La parola hyle significa anche «bosco», ossia il legno che si usa per costruire – con questa materia prima – tutto ciò che serve alla civiltà. Torniamo dunque alla tesi di fondo: laddove Kant afferma la «cosa in sé», Fichte ribatte: «No! L’energia della nostra volontà – la forza del pensiero – ecco che cosa ci consente di comprendere in maniera unitaria l’intero universo! E noi dobbiamo renderci conto di ciò, traendone conseguenze coerenti sia in campo teoretico che nella sfera pratica – a partire da noi stessi».
Questa è la Dottrina della scienza di Fichte, che egli ha sviluppato con instancabili limature e rifacimenti.
LE DISPOSIZIONI DI UN NAZIONALISTA
Fichte presentava tratti di inflessibile asprezza: i suoi modi bruschi erano una vera provocazione; i tipi come lui hanno conflitti interiori. Anche da questo punto di vista non è sbagliato fare un paragone con Heidegger, e colgo l’occasione per dire che, nell’ampia cerchia dei miei allievi, non mi è mai riuscito purtroppo di indurre qualcuno a ridestare a nuova vita Fichte, prendendo spunto dalle lezioni di Heidegger, o anche dalle mie. Non sarebbe poi così difficile! Fra gli esiti più interessanti dell’opera di Fichte troviamo infatti un altro libro dal titolo piuttosto singolare: «Disposizioni» (già in questa parola risuona il carattere di Fichte: viene impartito un ordine) Disposizioni per la vita beata …[ripete «la vita beata»]… da un lato c’è un’istanza religiosa, dall’altro, però, è un certo concetto di vita a prendere il posto del sapere. Si tratta, in realtà, della versione più matura della Dottrina della scienza. Qui Fichte parla della vita, della luce e – solo secondariamente – dell’autocoscienza e del pensiero: queste sono le sue riflessioni più profonde, formulate verso la fine della sua esistenza, purtroppo precocemente interrotta, già nel 1814. Egli deve la sua notorietà e la sua fama anche ai Discorsi alla nazione tedesca, che fanno di lui quasi l’artefice del nazionalismo tedesco, il quale esortava alla liberazione dall’occupazione napoleonica. In questo senso Fichte è diventato una figura epocale per tutto il mondo moderno, visto che l’entusiasmo nazionalistico non si limitò affatto alla Germania, e allo scoppio della Prima Guerra Mondiale lo abbiamo sperimentato tutti con amarezza e sorpresa: persino i sindacati, ossia le organizzazioni dei lavoratori, aderirono con entusiasmo al movimento nazionalista.
Non intendo parlare di Fichte come di un influente organizzatore; vorrei piuttosto indicare gli sviluppi drammatici della sua vita. Entrò in conflitto con la Chiesa (il che ai suoi tempi non era poi così difficile). Benché tutti avessero cercato di aiutarlo per il meglio, con la sua intransigenza (priva di senso diplomatico) Fichte rese impossibile la sua permanenza all’Università di Jena. Dovette quindi trasferirsi da privato cittadino a Berlino, dove visse come libero docente, finché, dopo la liberazione, (anzi, già un po’ prima), divenne professore alla nuova Università di Berlino; questo avvenne nel 1810, ed egli insegnò lì ancora un paio d’anni.
IL SUPERAMENTO DI KANT
Non è molto semplice familiarizzare con l’incredibile densità concettuale del pensiero di Fichte, eppure fra tutti i pensatori di lingua tedesca a me noti,… egli ha senz’altro esercitato l’attrazione più forte. La forza suggestiva di un grande maestro consiste proprio nel fatto che, ascoltandolo, si crede di comprendere tutto. Anche Heidegger, che ho frequentato direttamente, aveva questi stessi poteri di Fichte, e come vedremo, ciò accadeva, in modo del tutto misterioso (come quando Hegel parlava in dialetto svevo a Berlino). La lingua usata da Hegel a Berlino non era infatti il tedesco. Ma il «caso Hegel» va trattato a parte (per mostrare come sia stato possibile tutto ciò). In Fichte, non desta meraviglia che il suo temperamento forte e la sua entusiasmante capacità retorica (uniti al massimo acume concettuale) esercitassero un’influenza straordinaria. Quali potevano essere gli sviluppi successivi, dopo l’avvento di Fichte? Che cosa ci si poteva aspettare, dopo che l’autocoscienza, posta a fondamento morale e teoretico, era stata elevata a unico universo assoluto? Che Kant non potesse essere d’accordo con Fichte, appare ormai evidente da quanto si è detto fin qui; ma perché anche altri hanno voluto procedere subito oltre Kant? È noto che Hegel, in un certo senso, ha portato a compimento la tendenza che era in fieri nella filosofia di Fichte. In Germania si parla del «movimento tedesco» – secondo la denominazione data da Dilthey, che poi è divenuta quasi internazionale: si tratta di quel movimento che va da Fichte a Hegel, e di cui dovremo occuparci in seguito.
Restando però a Fichte, dobbiamo chiederci in che modo abbia messo in atto il suo superamento di Kant; e a questo proposito è necessario ricordare la terza Critica kantiana, di cui non abbiamo ancora parlato: la Critica del Giudizio, forse il libro più ricco e più enigmatico che Kant ci abbia lasciato. Egli era già molto anziano e non aveva affatto in programma di scrivere una terza Critica. (In questo senso possiamo notare che Fichte è stato un prosecutore molto coerente del pensiero kantiano, pur partendo solo dalla Critica della ragion pura e dalla Critica della ragion pratica).
IL SAPERE DEL GENIO
Qual è il contenuto della Critica del Giudizio? Non si tratta solo della fondazione dell’estetica, come pensava il Neokantismo, che aveva suddiviso il sistema filosofico in filosofia teoretica, pratica ed estetica. Certo, lo scritto kantiano inizia con la critica del «bello», che comporta, come è noto, un compito molto difficile! Che cosa significa «bello»? Chi giudica della bellezza? Che cosa vuol dire «trovare bello qualcosa», al di là della conoscenza, al di là del dovere morale suggerito dalla nostra eticità? Che senso ha dire, di una cosa, che è bella? La tradizione ha una parola per suggerirlo, «il gusto!»…[ripete in italiano]…. L’estetica del Settecento ha coniato un’espressione che ha assunto ormai un valore quasi concettuale: il gusto è un «je ne sais quoi», «un certo non so che»; ma questo «non so che» è un sapere. «Non so dire perché: è bello e basta!» (cioè non so indicare quali regole o leggi ne facciano una cosa bella). Sappiamo bene in quale situazione disperata si trova un critico d’arte quando deve dire concretamente perché qualcosa è bello, o magari perché in un’opera d’arte c’è qualcosa che disturba. Chi si cimenta nell’impresa, rischia di fare il critico pedante, una figura ben tratteggiata da Richard Wagner nei Maestri Cantori: uno che si affida alle regole, per poter dimostrare che qualcosa è bello oppure no. Kant comprese però che tutto ciò non basta: questo è il limite del discorso sul bello; esso richiede, infatti, in qualsiasi forma artistica, che non ci si accontenti della semplice applicazione di schemi. Attraverso questa via egli perviene al concetto di «genio» quale fondamento dell’arte …[ripete]…. Non posso qui analizzare in quale rapporto stiano il bello di natura e il bello artistico; posso solo affermare, in via preliminare, che nella Critica del Giudizio il bello di natura è il punto di partenza, da cui discende il fatto che la natura ha conferito agli uomini geniali un particolare talento; essa li ha favoriti, concedendo loro il potere di creare, senza obbedire a regole, qualcosa di nuovo, che valga esso stesso da modello e da norma. Questa concezione, implicita all’estetica del genio, conquistò (come si può immaginare) l’attenzione di tutti, facendo dimenticare il «bello di natura», allo stesso modo in cui, nei nostri parchi pubblici,… le regole del giardino barocco furono soppiantate dai paesaggi all’inglese. In Germania tutti conoscono il «Giardino inglese» di Monaco: esso prende il suo nome proprio dalla nuova «arte del giardinaggio». Secondo me quest’esempio ci spiega come la natura, lasciata alla propria naturalità, offra al tempo stesso un nuovo modello di ispirazione geniale, con il quale interpretare la stessa creazione artistica.
LA FINALITÀ DEL GIUDIZIO
La Critica del Giudizio non tratta soltanto della facoltà del giudizio estetico…[ripete]... essa presenta anche un altro aspetto, che oggi è considerato altrettanto attuale. Parlando con i biologi o con persone che negli ultimi decenni hanno cercato di descrivere lo stato attuale della nostra ricerca scientifica… (ad esempio nel campo della genetica, o in altri settori) si può riscontrare che essi, senza aver letto Kant (o comunque senza ricorrere espressamente a concetti kantiani) a modo loro hanno ripetuto la critica del giudizio teleologico. Ma che cos’è il giudizio teleologico? L’espressione «teleologia» significa «finalità». Tutti noi sappiamo che la scienza moderna non ne vuole sapere più nulla di finalità e scopi, intesi come mezzi esplicativi della natura. Ed è proprio così: noi non crediamo più che il fuoco vada verso l’alto…[ripete]… per riunirsi al fuoco astrale. Ci sembra molto suggestivo immaginare la natura in questo modo tutto umano, ma non possiamo accettare l’esistenza di finalità ultime nei processi naturali, orientati alla realizzazione della propria «natura». Però nel caso dell’essere vivente, dell’organismo, dobbiamo supporre proprio questo! Non possiamo descrivere la peculiarità di un essere vivente se lo riduciamo soltanto a materia, o se lo concepiamo come una macchina, che si mette in moto schiacciando un bottone, e che (ricevendo in tal modo l’energia necessaria) comincia ad attivarsi e (come diciamo nell’era dell’informatica) a caricare il proprio programma. Non è certamente questo il mistero del vivente. Nell’organismo vivente accade invece che ogni sua parte non sia soltanto «una parte». Se con la mano mi pizzico in questo punto, non dico che «qui duole», ma che «fa male a me»: io sono totalmente presente nel punto in cui mi procuro questo piccolo dolore. Questo vuol dire che tutte le nostre parti sono membra di un essere vivente, al quale, del resto, appartiene ben altro, ad esempio la capacità riproduttiva. Insomma, nel regno del vivente, che comprende ovviamente anche l’uomo, non si può rinunciare al concetto di scopo.
L’ORGANISMO DEL VIVENTE
Le membra hanno tutte una finalità: non c’è un «mezzo» che non sia nel contempo un «fine». Che la mia pelle sia così sensibile da potermi procurare dolore, pizzicandomi qui, come ho già detto, sta a dimostrare che nulla, in me, è semplice strumento. Ogni parte è al tempo stesso parte vivente del tutto; quindi la forza vitale dell’organismo deve essere l’elemento-chiave per descriverlo. Se adesso muovo la mano, non posso dire di esservi indotto da qualche terminazione nervosa (questa è una pura spiegazione meccanica dell’evento)…No! Nessuno si esprime così: sono «io» a compiere il movimento. Che cosa ne concludo? Questo, ovviamente: che «io» concepisco me stesso come un essere che persegue scopi; e lo stesso posso dire anche della natura, quando essa genera esseri viventi. Con i loro istinti e impulsi questi tendono all’autoconservazione e alla riproduzione, e così tutti gli altri esseri. Ciò comporta per noi una nuova serie di problemi (lo sappiamo), ma che sia necessario ricorrere al modello della «finalità», questo ce lo ha indicato Kant nella Critica del Giudizio. Volgiamo lo sguardo, dalla Critica del Giudizio, ai compiti che vi si nascondono. Dobbiamo osservare un fatto singolare. In essa vengono pensate insieme due cose diversissime: la «natura bella» e la natura che si conserva nella propria vitalità. In parole povere: se noi (conformemente alla formula moderna introdotta da Fichte) abbiamo un particolare interesse per il bello artistico, per questo «dono» della natura, per il talento naturale (grazie al quale artisti geniali producono qualcosa di meravigliosamente bello, di armonioso in se stesso, senza seguire regole) dobbiamo ripetutamente ricorrere al concetto di «organismo», inteso come modello per descrivere che cosa sia l’intima coerenza di un’opera d’arte. Muovendo da questa riflessione possiamo immediatamente semplificare tale problematica, affermando: da un lato c’è l’arte, e dall’altro la natura vivente (non quella della fisica). In questo stesso libro compare una sezione intitolata Critica del giudizio teleologico. Qui si trova la famosa asserzione: «non ci sarà mai un Newton del filo d’erba!». Non saremo mai in grado di spiegare il vivente partendo dalle leggi di natura, e non potremo mai calcolarne e misurarne i processi seguendo l’insegnamento newtoniano della teoria gravitazionale, che considera la fisica celeste e la fisica terrestre come una grande spiegazione unitaria della natura.… Kant ha ritenuto impossibile un «Newton del filo d’erba», e forse la nostra scienza informatica non dovrebbe pretendere di confutare questo asserto. Dovremmo sempre tornare a chiederci se tutti i progressi avvenuti nel campo delle tecniche di misurazione scientifica non incorrano in limiti insuperabili. Si tratterebbe anche qui di una «critica», nel senso kantiano di «delimitazione». In questo caso la Critica del Giudizio è costretta a parlare di finalismo, senza nessun’altra pretesa che quella di descrivere il comportamento del vivente.
CONCLUSIONI
Nell’esporre la Critica del Giudizio abbiamo considerato due grandi temi: la natura vivente, che non è oggetto della fisica, e la questione del modo in cui tale natura vivente, nella sua totalità, si rapporta al prodigio della natura spirituale dell’uomo. In un certo senso, con queste parole abbiamo già formulato il programma di Schelling (della sua filosofia della natura) e anche di tutto il Romanticismo. Abbiamo inoltre gettato lo sguardo sulla sintesi concepita poi da Hegel, ancora una volta come conciliazione, sia pur momentanea, fra natura e spirito.
HEGEL IL GENIO DELLA CONCILIAZIONE
Abbiamo già visto quanto sia attuale la problematica emersa in seno all’epoca moderna, che ha il suo fulcro negli anni a cavallo del 19º secolo. Ho ricordato due scritti programmatici che, nel quadro del dibattito sullo sviluppo dell’Idealismo tedesco da Kant a Hegel, sono ancor oggi al centro della nostra attenzione. Ho mostrato che è molto difficile (per non dire impossibile) stabilire esattamente chi sia l’autore dei pensieri espressi in quei documenti. Infatti, il movimento filosofico che va da Kant a Hegel rappresenta un cammino unitario, che testimonia l’ineludibilità delle problematiche in esso affiorate. Perciò è del tutto corretto che (dopo questo sguardo generale) io passi a trattare del giovane Hegel. Peraltro, anche “il giovane Hegel” è una scoperta relativamente tarda. E’ noto a tutti l’ascendente universale che Hegel esercitò sul 19º secolo e l’importanza che egli mantiene nella nostra cultura come ideatore della dialettica filosofica, così come l’influenza esercitata, da pioniere del pensiero, su grandi economisti come Karl Marx, e l’impronta determinante che diede a tutta la teologia e alla filosofia dell’età successiva, non soltanto in Germania. Eppure, dal punto di vista filosofico, nel corso del nostro secolo, Hegel è apparso ancora più vicino a noi. Questa nuova prossimità a Hegel è dovuta in parte anche al ritrovamento dei suoi manoscritti giovanili. Il merito di questa riscoperta va a un grande storico dello spirito tedesco, Wilhelm Dilthey, che reperì questi scritti nella Biblioteca di Stato di Berlino. Egli incaricò poi uno dei suoi allievi, Hermann Nohl, di predisporli per la pubblicazione; tale raccolta è stata chiamata Scritti teologici giovanili. Questo titolo è artefatto, come la maggior parte dei titoli adottati in un secondo tempo, i quali possiedono però una verità più alta di quella meramente documentaria. Infatti, anche questi scritti di Hegel (questa serie di appunti e di abbozzi risalenti a occasioni diverse) rispecchiano più che altro il programma dell’Idealismo tedesco di cui abbiamo già parlato, e in particolare il problema della possibile coabitazione degli uomini in un mondo comune, grazie anche ad una religione vissuta non più all’insegna delle dispute e delle autorità ecclesiastiche, bensì come un’autentica religione popolare. L’espressione “religione popolare” è strettamente connessa con l’aspirazione ad una “poesia universale”, che ho ricordato per indicare come il Romanticismo si ricolleghi a tale tendenza dell’Illuminismo settecentesco.
IL GENIO DELLA CONCILIAZIONE
Il “giovane Hegel” fu quindi una grossa sorpresa. Anche il titolo Scritti teologici giovanili non è del tutto falso, nella misura in cui era già un giovane “teologo” quello che formulava i suoi primi pensieri confrontandosi con il cristianesimo (anche se si misurava criticamente non proprio con il cristianesimo, bensì con la teologia cristiana). Vedremo che questi scritti consentono effettivamente un approccio diverso a quella che il pensiero hegeliano della maturità chiamerà “filosofia dello spirito”.… In che rapporto stanno la tradizione cristiana e il concetto di Spirito? Certamente c’è un vincolo assai stretto. Sappiamo infatti che il messaggio cristiano è legato al concetto di amore (formulato nel Nuovo Testamento) con quelle parole enigmatiche secondo cui dobbiamo amare il nostro prossimo… e l’amore verso gli altri coincide quasi con l’amore per Dio. Come si riconnette tutto ciò ai pensieri filosofici dell’Illuminismo e ai limiti imposti da Kant alla speculazione metafisica? In realtà, Kant è molto presente in questi scritti hegeliani, tanto che alcuni tratti illuministici che essi rivelano possono apparirci quasi come una provocazione. Per anticiparne uno solo (che altrimenti nel contesto del mio discorso non avrei occasione di citare) vorrei ricordare che nel giovane Hegel si trova un appunto che parla di Gesù come “genio della conciliazione”. È una frase di sapore schiettamente illuministico. Dietro queste parole vi è il problema della divinità di Gesù e la questione della Trinità. Il giovane Hegel ha infatti meditato incessantemente sull’intimo nesso del rapporto trinitario, non solo sulla relazione tra il Padre e il Figlio (che poi è l’incontro misterioso di Dio con l’umanità), ma anche sulla terza persona della Trinità, lo Spirito Santo. E con questo siamo già al cuore della problematica hegeliana. Che cos’è lo Spirito? Che cos’è l’amore? Come pensare l’unità di queste persone? Come comprendere il mistero dell’Incarnazione, dello Spirito che si fa carne e di Dio che si fa uomo? Questi erano i problemi che tenevano in ansia i giovani teologi nell’epoca dell’Illuminismo, non solo Hegel, ma anche Schelling, che fu per lui un amico e un compagno di studi; e infine colui che il 20º secolo scoprirà come il nuovo grande poeta, Friedrich Hölderlin, il quale, in alcuni dei suoi scritti critici, si avvicina molto a certe annotazioni di Hegel, che quest’ultimo avrebbe poi sviluppato nella sua filosofia. Cerchiamo di farci un’idea di questa esperienza basilare del cristianesimo: il comandamento dell’amore.… È paradossale che l’amore debba o possa essere comandato. Kant lo avvertì come uno scandalo, e perciò volle ridimensionare assai la portata di questo precetto. In verità, però, il comandamento dell’amore non vuol essere una prescrizione, bensì una realtà vissuta, che ci accompagna tutti, con maggiore o minore intensità, per l’intera esistenza. Il “prossimo” non è infatti una determinata figura… che incontriamo una volta sola, bensì affianca costantemente il nostro vivere, come una continua esortazione a considerare gli altri, a rispettarli e onorarli in tutti i loro diritti e nella loro vera essenza. Tutto ciò è già implicito nel comandamento cristiano dell’amore, che in tal senso non impone di amare, ma di soddisfare le premesse grazie alle quali l’amore può svilupparsi come un’autentica unificazione tra me e te, fra un “Io” e un “Tu”, fra il cittadino di una regione e la società in cui vive, il suo governo, il suo Stato. L’amore, infatti, è soggetto a ben precise condizioni. Proprio su questo tema il giovane Hegel si era impegnato con molta energia. Naturalmente, egli non rifletteva solo da teologo, ma anche da filosofo, in grado di approfondire le opere di Kant – come fece a Tubinga – e poi anche di Fichte, il cui ingresso nella storia della filosofia gli offrì il punto di partenza da cui poter sviluppare autonomamente il proprio pensiero.
IL VERO, IL BENE, IL BELLO
Ma la filosofia, come abbiamo già visto, faceva in un certo senso rivivere un’accezione ben diversa della Trinità, che si fondava a sua volta, probabilmente, proprio sulla Trinità del cristianesimo. Si tratta della triade composta dal “vero”, dal “bene” e dal “bello”. L’accento principale cadeva proprio su quest’ultimo concetto. Qui il “bello” non si riferisce, come potrebbe sembrare, all’“estetica”, alla sfera dell’arte, bensì evoca l’antica formula che fu espressa in Platone, secondo cui il vero è il bene, e il bene è visibile solo nel bello. Il che, appunto, non significa che esso compaia solo nell’arte (così come la intendiamo noi) ma solo che è alcunché di visibile. Il bello è il modo in cui il bene si mostra. Ed è anche implicito che esso si manifesti a tutti, venga condiviso da ciascuno (come accade quando, al cospetto di una figura assai bella, esclamiamo, ad esempio: “Oh! Che fanciulla stupenda!”). E ci aspettiamo che anche gli altri dicano: “Sì, davvero!”. Pertanto, l’esperienza della bellezza è un tratto comune a tutti. Non posso entrare ora nel merito dell’importanza che queste riflessioni ebbero già per Kant, che nella sua terza opera fondamentale, la Critica del Giudizio, ha considerato l’esperienza del bello come qualcosa che si deve presupporre in tutti gli esseri umani: soltanto un “barbaro”, infatti, rimane indifferente di fronte alla bellezza della natura e valuta le creazioni artistiche esclusivamente dal punto di vista del possibile uso, o del loro prezzo. Ci troviamo quindi al centro di quella tradizione del pensiero europeo, fondata da Platone, che istituisce una correlazione tra il vero, il bene e il bello, sintetizzata – in sostanza – in quella domanda intorno al bene, che Socrate rivolgeva ai suoi concittadini con tanta insistenza da diventare sgradito e da essere infine condannato a morte. Sarà poi Platone a perpetuare la memoria di quest’uomo straordinario, descrivendoci un Socrate dotato di grande sensibilità erotica, il cui fascino conquista i giovani che lo frequentano (fanciulli e giovinetti, secondo le consuetudini della società di quel tempo), e che ci appare, insomma, come un iniziato ai misteri dell’amore. In un dialogo di Platone, la celebre Diotìma, sacerdotessa di Delfi, si intrattiene con Socrate, spiegandogli l’importanza di educare alla bellezza se stessi, i concittadini e tutta la società. Questi pensieri di Platone si ritrovano nel platonismo dell’epoca che si apre con Kant. La famosa Dissertatio kantiana è intitolata… La forma e i principi del mondo sensibile e intelligibile, e distingue appunto un mondo diverso da quello sensibile. Non possiamo parlarne come di un discorso platonico in senso stretto, ma essa si inserisce nel grande solco che quel pensiero ha lasciato nella storia della filosofia occidentale e che oggi chiamiamo “neoplatonismo”. Sul finire dell’età antica alcuni grandi pensatori hanno scavato questa traccia, che fu ripresa proprio da Kant e che domina il connubio fra la scienza moderna e la tradizione della metafisica. Non desta quindi sorpresa che anche il giovane Hegel abbia meditato sull’idea della bellezza come unità del vero e del bene all’interno della realtà.
IL POSITIVO È… NEGATIVO
Cerchiamo ora di affrontare direttamente la nostra questione: che idea dobbiamo farci del giovane Hegel?… Il ritrovamento di questi documenti destò una grande sorpresa. Hegel era infatti considerato un dialettico ingabbiato in una sorta di armatura formale astratta – “tesi”, “antitesi”, “sintesi”, “unificazione dialettica delle contraddizioni”, “genialità speculativa”, un continuo superamento di contraddizioni in una sintesi più alta – questo era il filosofo che dispiegava quelle armi dialettiche, che incontreremo nella Fenomenologia dello spirito e nella Logica. Ma qui siamo di fronte agli appunti del giovane Hegel sulla natura dell’amore e sul superamento della “positività” del cristianesimo! È opportuno spiegare l’uso di tale termine: in questo caso “positività” è una connotazione negativa del fenomeno del cristianesimo. “Positivo” significa, letteralmente, “ciò che è posto”, o “imposto”. Conosciamo, ad esempio, l’espressione “diritto positivo”, che riguarda leggi, statuti e regolamenti spesso scomodi, i quali ci impediscono di agire secondo giustizia (cioè considerando di volta in volta ciò che è opportuno e giusto fare). Di fronte alle norme del diritto positivo, il giudice, vincolato al rispetto del codice, deve trovare il modo di avvicinarsi il più possibile alla giustizia, emettendo una sentenza. Anche il cristianesimo possiede questo aspetto della legge, del precetto restrittivo, ed è questo il punto critico che Hegel denuncia con l’espressione “positività del cristianesimo”: egli vuole affermare la vitalità del comandamento dell’amore e dell’eredità spirituale del messaggio cristiano. Agli esordi del pensiero hegeliano c’è dunque la positività del cristianesimo e la sua critica. Dov’è che noi uomini ne facciamo esperienza? In ogni luogo, potremmo dire; in tutte le situazioni, infatti, ci accorgiamo che il nostro amor proprio deve misurarsi anche con l’esistenza degli altri, ma che tuttavia siamo anche in grado di superare questa distanza, questa estraneità nei confronti del prossimo. In tal caso parliamo di “esperienza dell’amore”. La conosciamo, ad esempio, nell’amore tra i sessi, che culmina nel prodigio per cui infine il corpo dell’altro abbandona quell’estraneità testimoniata dal senso di pudore, dall’uso di coprirsi, dalla riservatezza, per fondersi nell’unione amorosa di “una sola carne”, come insegna anche il cristianesimo. Questo era uno degli aspetti attraverso cui Hegel cercava di illustrare il senso più alto del comandamento dell’amore, ridefinendo in tal modo i compiti della sua epoca culturale, nel rispetto delle esigenze di una nuova consapevolezza, che si diffondeva ovunque con l’affermarsi della scienza: non si deve cioè accettare ciecamente un precetto; è invece necessaria un’intima adesione, con la quale la legge ci diventa tanto familiare e vicina quanto la persona amata, con la stessa intensità con cui l’uomo e la donna formano un corpo solo, superando ogni estraneità fra loro. Ci troviamo così di fronte a una delle esperienze più concrete in cui (questo vi sorprenderà!) Hegel riconosce il concetto di spirito. Si tratta di una concezione del tutto conforme alla dottrina dello Spirito Santo: la discesa dello Spirito Santo, il miracolo della Pentecoste, ha proprio questo significato, cioè la formazione di una comunità in cui l’estraneità nei confronti del prossimo viene superata nell’esperienza e nella volontà comune, nella quale confluiscono le molte lingue di fuoco che rappresentano il miracolo della Pentecoste in innumerevoli raffigurazioni pittoriche.
LA VITA DELLO SPIRITO
Il giovane teologo è dunque un pensatore assai concreto. Dopo questa mia introduzione sugli esordi della sua teologia, possiamo ribadirlo con convinzione.… Egli ha prodotto infinite variazioni su questo tema, nell’intento di stabilire esattamente il significato della frase “l’amore è vita”. Che cos’è la vita? Qual è il mistero della “vitalità”? Di fronte a un enigma si possono dare molte risposte, e poiché la vita è appunto un mistero, la religione ritiene pressoché ovvio che essa sia un dono divino e non un’opera dell’uomo. È innegabile che il miracolo della nascita e il segreto della morte non rappresentano soltanto i confini entro cui si inscrive la vita dell’uomo, bensì la accompagnano in ogni istante, facendone quel miracolo che è l’esistenza. Essa è come un filo ininterrotto, a cui siamo appesi continuamente, dalla nascita alla morte. Quante cose ci capita di incontrare: inusitate, spiacevoli, tristi, dolorose! Ma alla fine tutto questo fa parte di noi, è la nostra vita. Tutti noi ricordiamo i disagi superati, le disgrazie passate, ma poi la vita riesce sempre in qualche modo a rigenerarsi da se stessa. Questa è la grande intuizione di Hegel: la vita è la capacità di ritornare a sé. C’è un celebre detto di Hegel, sul quale non si mediterà mai abbastanza: “Il segno di distinzione della vita e dello spirito è che le sue ferite guariscono senza lasciare piaghe, senza tracce di lesione”. È una frase importante, che fa luce davvero sul miracolo della vita, sullo spirito vivente! Io vengo da Heidelberg, dove uno dei miei colleghi di un tempo, quando fu ricostruita la sede dell’Università propose il motto: “allo spirito vivente”. (Lo scritto che ho avuto modo di citatare, il Programma di sistema, è stato trovato proprio a Heidelberg, e lì stesso pubblicato dall’Accademia delle Scienze, di cui sono stato anche presidente, e della quale continuo a essere membro con grande soddisfazione). “Allo Spirito vivente”, dunque: tutto ciò che ho cercato di illustrare nella concretezza dell’unione amorosa e della sua attuazione nella sfera dei sensi, quindi, ha valore anche per tutta la nostra vita spirituale e umana. Da audace pensatore qual era, Hegel cercò di mostrare che anche le alienazioni più gravi possono essere superate e guarite. Una delle più radicali è rappresentata, senza dubbio, per una società moderna dotata di un codice di leggi, dalla punizione del delinquente. Perciò, al centro di uno degli scritti giovanili, di cui stiamo parlando, si trova questo problema: “che cos’è la punizione e che cos’è il crimine?”
LA FORZA DEL DESTINO
Il crimine rappresenta un’alienazione, una perdita della solidarietà della società di diritto in cui tutti viviamo. È un’affermazione di sapore idealistico, molto ottimista, con la quale non intendo affermare che Hegel fosse particolarmente soddisfatto della situazione giuridica del suo tempo, così come noi stessi possiamo avere motivo di lamentarci dell’amministrazione della giustizia e del modo in cui questa fa valere la volontà generale del consorzio civile. E tuttavia in questo ordinamento vi è pur sempre un nucleo di verità che possiamo riscontrare anche in altri settori dell’esperienza. Hegel si spinse a dire che attraverso la punizione avviene la ricomposizione tra il crimine e l’ordine giuridico. L’accettazione della pena è il grande mistero attraverso cui la vita rinnova la propria vitalità, la propria unità e armonia. È un’esperienza che tutti possiamo fare, anche in circostanze non così pubbliche e drammatiche come la violazione della legge e la punizione. Tutti noi conosciamo anche altri oltraggi, senza bisogno di considerare le forme estreme del crimine e della violazione della legge. Ci sono innumerevoli ferite nella nostra vita:… il destino, che spesso è doloroso, ci impone delle limitazioni, delle privazioni, ci costringe ad accettarle, e a esercitare così una facoltà propria dello spirito, della nostra eticità, o dell’uomo in quanto tale. Rimane un mistero insondabile, che uomini colpiti da una condanna riescano a sopravvivere (non mi riferisco, qui, alla condanna in senso giuridico, bensì penso, ad esempio, a quelli che rimangono paralizzati a causa di un incidente, o che subiscono una terribile menomazione, che impedisce loro di godere dei piaceri della vita). Si dice: “è meraviglioso che una persona riesca a vincere tutto ciò, e a condurre nonostante tutto una vita degna di questo nome, accettando i propri limiti!”. Ecco che cosa intendeva Hegel, affermando che le ferite dello spirito non lasciano piaghe e guariscono totalmente! Ma c’è di più: tutto ciò si riferisce anche all’esperienza dell’amore. Bisogna rendersi conto che le ferite non sono solo lesioni, che cioè le limitazioni che il destino impone sono al tempo stesso una grande opportunità che la vita ci offre e della quale noi possiamo farci carico, allo stesso modo in cui l’uomo, proprio attraverso il dono di sé nell’amore, guadagna una dimensione di vita ancora più autentica e più concreta. Chi non ha visto apparire il mondo sotto una luce del tutto nuova, quando la freccia di Cupido lo ha colpito! Tutte le cose, allora, si trasfigurano: non solo la persona amata, alla quale ci doniamo interamente nel nostro struggimento amoroso, che vediamo realizzato! L’intero mondo assume un aspetto differente. Tutti questi esempi sono tratti da situazioni profane (tutt’altro che teologiche) legate alle nostre esperienze di vita. …[ripete]… E tuttavia in un certo senso testimoniano e illustrano il messaggio cristiano dell’amore. Il mondo trasfigurato, risanato, quel mondo che noi riconosciamo come nostro: sono cose importanti, alle quali la vita di fatto ci invita e delle quali noi dobbiamo farci carico, anche quando si tratta di accettare la morte. Non vi è dubbio che tutte le grandi religioni universali cerchino di affrontare l’enigma della morte, ma forse il cristianesimo è quella che ha dato la risposta più profonda a questo mistero, annunciando che possiamo portare il fardello che la natura ci ha imposto, fino all’agonia, fino alla lotta con la morte, aggrappandoci a quella impetuosa volontà demonica di vivere che ebbe anche Gesù – come raccontano i Vangeli – quando accettò di morire sulla croce. Come si può vedere, nel muovere i primi passi del suo pensiero, Hegel non si allontana dall’ambito teologico del cristianesimo.
LA MOLLA DEL PENSIERO
L’insieme degli appunti e degli scritti del giovane Hegel è oggi opportunamente organizzato in una edizione critica, che ci consente di intenderne più esattamente la genesi; se però vogliamo capire la filosofia (e in particolare quella hegeliana) rendendoci conto di quale fosse il compito affidato al pensiero nell’epoca tra Illuminismo e Romanticismo, troviamo un ausilio particolare proprio in queste esperienze fondamentali di cui ho parlato, e che vengono affrontate nelle annotazioni di Hegel. Adesso non è azzardato chiedersi: “ma è proprio questo l’atto di nascita della dialettica hegeliana?” – Sì, è proprio qui che affiora la dialettica di Hegel. Il suo messaggio, in fondo, è questo: “il movimento dei nostri pensieri è provocato dalla contraddizione”. C’è, insomma, qualcosa che non si adatta, non si conforma alla nostra linea di pensiero.… Ma mentre cerchiamo di pensare la contraddizione nella sua unità, scorgiamo nuove, grandi concordanze. Questa sarà la via del metodo dialettico, che in Hegel diventa la regola della dimostrazione filosofica, e che gli consente di spingersi oltre la posizione prudente e disciplinata esposta da Kant nei suoi scritti filosofici. Il termine “dialettica” ha invero un’origine antica, ma Kant lo riprese nella Dialettica trascendentale della Critica della ragion pura, additando problemi ai quali la ragione stessa non può dare una risposta univoca, perché anche la soluzione contraria appare altrettanto evidente e dimostrabile quanto la prima. Un esempio siffatto è la questione del mondo nella sua totalità: l’universo c’è da sempre? Oppure ha un inizio nel tempo? Entrambe le alternative sono giustificate, e lo stesso può essere ripetuto per quanto concerne l’esistenza di Dio. Tutti questi problemi sono stati trattati da Kant nella cosiddetta Dottrina delle antinomie, lo studio delle tesi che si contraddicono reciprocamente. Anche in questo caso Hegel è partito dai risultati dei lavori dei suoi predecessori. In Fichte si può trovare qualcosa di molto simile. Uno degli scritti di Fichte si intitola: Introduzione alla vita beata.* Anch’egli era un pensatore cristiano, le cui concezioni filosofiche erano imbevute dell’eredità cristiana della cultura occidentale.
IL SENSO DELLA VITA
La dialettica hegeliana (di cui parleremo successivamente) ha questo sfondo vitalistico che ho precisato, tale per cui il pensiero stesso possiede la forza di superare le contraddizioni e quindi di accrescersi, di perfezionarsi, di concretizzarsi e di realizzarsi sempre di più. Questo è il cammino spirituale che noi tutti in fondo percorriamo nel corso della nostra storia e della nostra esperienza personale. Questa è la ricchezza di cui ci ricompensa una vita che è in sé dura e misera. Torno a ricordare che anche certe menomazioni gravi e inguaribili, come la paralisi, la cecità, o qualsiasi altra infermità permanente, riescono tuttavia a far nascere miracolosamente in noi un senso di vitalità e addirittura di gratitudine per la vita. La filosofia di Hegel, nonostante tutta la rigidità e il rigore metodico che possiede, dovrebbe sempre essere vista sullo sfondo di quella esperienza trinitaria della vita che si riproduce nella nostra vicenda personale. Se si fa questo, si vede subito qual è il vero compito della vita umana: direi che esso consiste nella perenne ricostruzione della propria continuità. La vita è sempre un ritorno a sé dopo tutte le alienazioni e tutte le offese. Questa è la missione al cui servizio dobbiamo porre noi stessi, se non vogliamo essere sbattuti qua e là dalla vita, ma intendiamo invece “condurre” la nostra esistenza. L’espressione tedesca “Lebensführung”, “condotta di vita”, significa proprio questo: anche se non sappiamo in anticipo dove essa ci conduce, accade però che tutte le nostre esperienze confluiscano a plasmare non solo il nostro destino e i nostri limiti, ma anche quelle inalienabili libertà, quell’apertura verso il bene, il vero e il bello, che sanno guidare il nostro destino personale, con nuovi stimoli e nuove prospettive, verso un futuro migliore. Vi è un grande messaggio in queste parole, nonostante tutti i limiti impliciti; e forse esso può essere accolto anche in questo nostro mondo, afflitto da tante alienazioni: penso all’indicibile senso di straniamento che l’uomo moderno può provare in una grande città, dominata dal rumore, disturbata e oppressa da un incessante martellare – anche questo mondo metropolitano e industrializzato possiede tali possibilità di realizzazione, grazie alle risorse spirituali che la vita, in quanto tale, sempre concede.
PARMENIDE
L’inizio è sempre oscuro. Da un primo approccio alla questione, risulta che ciò vale anche per l’inizio della filosofia, la quale ha percorso il suo cammino in Occidente, e anzi soltanto in Occidente ha potuto farsi strada come filosofia. Abbiamo visto che anche questo inizio ha avuto luogo nel bel mezzo della grande storia dell’evoluzione dell’universo, anche se, a dire il vero, piuttosto tardi. Sono trascorsi milioni di anni dalla grande esplosione che demarca, per gli astronomi e gli scienziati di oggi, l’origine dell’universo. E nonostante questo, le domande che cominciarono infine ad agitare il pensiero umano in una terra minuscola come la Grecia, e le coste a essa vicine, hanno a che vedere proprio con le questioni circa l’enigma dell’essere, e riguardano il problema decisivo che noi stessi non possiamo non porre di fronte all’inizio dell’universo: "Che cosa c’era prima?".
Abbiamo anche visto che i primissimi inizi del pensiero greco, presso le coste dell’Asia minore intorno al 600 avanti Cristo, in realtà tendevano già al mistero della cosmogonia, alla nascita dell’ordine del mondo. E senza dubbio questo non fu altro che la naturale conseguenza di una certa curiosità, di una apertura al mondo, di una disposizione al pensiero, che erano maturate in queste fiorenti città commerciali della costa egea. Di quegli uomini nulla sappiamo, se non che furono ammirati per il loro sapere e per certe premonizioni, non meno che per la loro profonda dedizione a… quella passione teoretica che è tipica dell’uomo.
Abbiamo parlato di Mileto, e anche della "Scuola di Mileto". Vorrei ricordare, brevemente, che non si trattò affatto di una scuola: fu piuttosto lo spirito "scolastico" della dossografia posteriore – Aristotele e altri ancora – a presentare come una scuola quella che fu invece la presenza di singoli sapienti assai ammirati, i quali, superando di gran lunga il rango spirituale degli altri, per la prima volta seppero portare le loro nobili idee tra gli uomini, in queste fiorenti città commerciali.
Questo fu dunque il principio, la "Scuola di Mileto". Già qui fu colto il mistero dell’inizio, della nascita dell’ordine… la parola "ordine" traduce appunto il greco kòsmos. Che già a quei tempi si afferrasse il grande enigma del pensiero, dipende certamente da una curiosità insaziabile, che non ci stupiamo di trovare in città portuali dove confluiscono e si incontrano popoli provenienti da tutti i Paesi. Tale fu quindi la "Scuola di Mileto", alla quale connettiamo innanzitutto il nome di Talete, che Aristotele definisce come il primo "fisiologo". "Fisiologia" è una tipica parola greca, e significa "dottrina della physis", ma certamente si tratta di una denominazione tarda, dovuta ad Aristotele e ai suoi contemporanei. Però non è del tutto inadeguata, giacché questo era appunto l’enigma, come ho mostrato, come cioè questo mondo di acqua, terraferma e cieli lontani possa muoversi restando saldo, senza che un Atlante debba sostenere l’intero universo sulle sue spalle atletiche, come riportava la tradizione mitologica.
Fissiamo dunque un primo punto di partenza da cui continuare a seguire la storia del pensiero occidentale: e qui vediamo con chiarezza quale sia stato il contributo dei pensatori di Mileto. Essi furono i primi che, senza ricorrere al mito… con la pura osservazione della realtà… elaborando conoscenze provenienti dall’esperienza, hanno cercato di formulare il mistero dell’essere. E così hanno detto: l’acqua è ciò che viene prima di tutto. Oppure l’aria, che si trasforma ora in vento e in tempesta, ora in pioggia o in nebbia, insomma in una infinita variazione di fenomeni alterni, mantenendosi però identica a se stessa; persino la terraferma può essere considerata, per così dire, come una sorta di deposito espulso dall’elemento umido.
Dal mythos al logos
Si passa dunque dal mythos al lògos, con la fatica consapevole del pensiero che rende conto delle cose, rinunciando a tutto quel sapere mitico di cui si aveva conoscenza a partire da Omero ed Esiodo, smettendo quindi di scomodare gli dèi, costretti ad agire per spiegare le esperienze della vita. È un intento poderoso e audace che si servì, come ho mostrato, delle conoscenze matematiche dei geometri egiziani e degli astronomi babilonesi, ma che vi aggiunse, come novità, il lògos, vale a dire il bisogno di dimostrare ciò che si riconosce per vero. Questo fu certamente il primo passo verso l’Occidente. È una cosa che non dobbiamo nasconderci: noi abbiamo modo di ricordare questa prima peculiarità dell’Occidente, e ciò nel momento in cui la cultura e la civiltà occidentale ed europea entrano sempre più in stretto contatto con le altre grandi civilizzazioni mondiali, attraverso l’informazione e le tecnologie. Il mondo cinese, giapponese, indiano, tutto quello che potrà ancora offrirci l’oscura terra d’Africa, rappresentano altrettante occasioni di acquisire consapevolezza della nostra peculiarità e dei compiti che essa comporta per noi e per gli altri, al fine di sviluppare modelli fecondi di vita in comune. Abbiamo dunque ottimi motivi per familiarizzare con gli inizi del sentiero che ci è destinato. Per questo mi accingo a mostrarvi che quel primo passo compiuto nell’esperienza del meditare e del dimostrare, si imbatté però subito in enigmi. La cosiddetta "Scuola eleatica"… fu la prima a condurre questi enigmi alla dignità del concetto.
"Scuola eleatica" – è un’espressione comune; ma in realtà siamo certi che non si trattò di una scuola, come al contrario ce la fa apparire una sintesi di una tradizione successiva di pensiero che si sviluppò nella Magna Grecia, quindi nell’Italia meridionale, e in particolare a Velia, come oggi si chiama la città in cui Parmenide scrisse il primo testo di una certa ampiezza che ci sia stato tramandato.
Come ho avuto modo di dire, è un fatto davvero inconsueto che quest’epoca ci consegni già un testo pienamente filosofico, redatto peraltro in versi, dei quali possediamo un’intera serie. Si tratta di un poema didascalico. Ma, come vedremo, pur essendo scritto nella lingua di Omero, pur essendo redatto con il lessico omerico, pur possedendo l’efficacia espressiva dell’epica omerica, … formula argomentazioni estremamente astratte e concettuali. Ma il fatto davvero straordinario è che si sia conservato un testo. In seguito dovremo esaminare le conseguenze del fatto che i cosiddetti "presocratici" (ossia tutti i pensatori che, in realtà, precedono Platone), non ci sono noti, a parte questo caso, attraverso testi veri e propri. Fu un erudito di nome Simplicio che, alla chiusura dell’Accademia di Atene, decise di ricopiare il celebre testo del Poema di Parmenide, facendolo arrivare fino a noi.
SENOFANE IL RAPSODO
Occupiamoci ora un po’ di questa "Scuola eleatica". Se si dà retta alla consuetudine scolastica (che in certo senso inizia già con Platone), si deve cominciare con Senofane… un rapsodo greco. I rapsodi erano cantori, che erano soliti declamare, cantando, le grandi storie di eroi e le antiche leggende della tradizione, nei nuovi centri della cultura greca. Sappiamo che dopo Omero ci fu un’intera letteratura cosiddetta "ciclica", i kìkloi, una gran quantità di saghe e racconti epici, di cui non sappiamo più nulla. Poi, però, arriva questo Senofane. (Tutto questo fa parte di uno dei destini della storia greca, che fece avvertire nelle città della costa, nei centri portuali dell’Asia minore, l’impeto dei Persiani – una minaccia per la libertà di città come Mileto ed Efeso – al punto da costringere molti a emigrare verso la Magna Grecia, verso l’Italia meridionale). Fu qui che Senofane recitò i suoi canti, in Sicilia soprattutto e nel sud dell’Italia. Ma questi non erano più storie di eroi o di dèi: Senofane fu piuttosto il primo rapsodo che conosciamo, che cominciò a cantare con successo, presso le aristocrazie della Magna Grecia, riferendosi al cosmo, alla natura, alla nascita del tutto, all’ordine che governa il mondo. Questi canti sono in parte conservati, ma naturalmente non sono paragonabili al Poema di Parmenide. Essi dovevano infatti dilettare le aristocrazie e il pubblico che frequentava le regge di Sicilia, dovevano suscitare la curiosità di uomini… che erano fieri di avere interesse anche per tali questioni e non soltanto per la guerra di Troia o… per il sacrificio di Ifigenia o per tutto ciò che sarà rielaborato qualche tempo dopo in vario modo dalla tragedia greca.
Senofane è dunque il presunto fondatore della "Scuola eleatica", e molti si sono chiesti, ripetutamente, come un semplice rapsodo sia giunto a tanto. Naturalmente già da tempo si è compreso che in realtà le cose non stanno proprio così: egli non fu il fondatore di questa scuola, bensì fu il primo che, da rapsodo, riportò le nuove teorie della "Scuola di Mileto" come qualcosa di sensazionale … e che attraverso questa sua funzione ha destato effettivamente un interesse teoretico nella nuova "Magna Grecia", sviluppatasi nell’Italia meridionale, muovendo così un primo passo che preparò infine il terreno al poema didascalico di Parmenide.
Questo è tutto ciò che sappiamo. Anche di Parmenide ci è noto ben poco: tutte le testimonianze che abbiamo su di lui sono molto incerte, però possediamo un brano consistente del suo Poema.
IL POEMA DI PARMENIDE
Vediamo un po’ più da vicino questo testo poetico. Esso comincia con versi di grande potenza descrittiva, in cui si narra di un uomo di notevole esperienza (che evidentemente deve essere l’autore stesso), il quale, in un viaggio favoloso su un carro solare guidato dalle figlie di Hèlios, è condotto fuori dalle città verso il palazzo della dea, che, in segno di particolare favore, gli darà chiarimenti sulla verità dell’essere. "Verità" si dice in greco alétheia: questa parola, se vogliamo spiegarne esattamente l’uso linguistico, significa in realtà il "non occultamento", nel senso, ad esempio, di non nascondere niente in ciò che si dice e si pensa. Ma attualmente, e per buoni motivi, traduciamo di solito "sve-la-men-to". L’importante, in questa espressione, è appunto il modo in cui vi traspare l’immensa curiosità dei Greci per il mondo, lo sforzo di scoprire che cosa c’è sotto, di portare allo scoperto ciò che si nasconde e di collocarlo in nuova luce.
Ebbene, di questo scritto poetico, come ho già detto, è stata ricopiata la prima parte, una piccola porzione rispetto all’intero poema. È sorprendente… che ci sia un componimento così lungo sulla natura, sul cosmo, sulla genesi e l’essenza del mondo… già in questo periodo. Anche i sapienti hanno bisogno dell’interesse del loro pubblico, e perciò Parmenide ha forgiato i suoi versi per rappresentare al tempo stesso l’intera conoscenza della fisiologia (parliamo di physiòlogoi appunto) la nuova conoscenza della natura, ma anche al fine di esporla criticamente, e questo è in effetti il motivo per cui diciamo che, con Parmenide, comincia propriamente a essere posta la questione dell’essere. Questa prima parte del poema, l’unica che si conservi, ha perciò suscitato fin da principio un immenso interesse nella storia della filosofia. Platone ha scritto un dialogo intero, nel quale fa incontrare il vecchio Parmenide con Socrate. Gli studiosi inglesi, seguendo in ciò il loro carattere obiettivo e realistico, hanno congetturato a lungo se questo incontro fosse cronologicamente possibile, se potesse essere avvenuto; ma io credo che dovremmo risparmiarci questo cruccio: la fantasia greca non aveva bisogno di legittimarsi di fronte alla prosaicità inglese: la credibilità di questi racconti sta nell’essere verosimili; i Greci se ne dilettavano, pur riconoscendoli come giochi dello spirito, giochi della fantasia, nei quali però si parlava di cose importanti.
LA QUESTIONE DEL NULLA
La conoscenza del mondo che si aveva in questo secolo che ora affrontiamo, tra il 600 e il 500 avanti Cristo, si è certo ampliata enormemente. Ma la filosofia non è semplice conoscenza del mondo, filosofia è interrogarsi sugli enigmi che appaiono sullo sfondo di questo mondo che ci si apre davanti. Come è nato quest’ordine cosmico? Da che cosa si è generato? E che cosa c’era prima? Se esso è generato, allora prima non c’era nulla.… Davvero? … Si può davvero pensare che nulla… ci fosse?… Proprio questo è il grande interrogativo con il quale il pensiero si incammina a interrogarsi sull’essere. Esiste il nulla? Possiamo evitare questa domanda? Che cosa c’era prima? Donde è venuto? E così via… tutte questioni poste in seguito da Aristotele nella sua fisica e nella sua cosmologia.
In ogni caso, qui il pensiero è ormai diventato pensiero critico. Un filosofo ha rivolto ai saggi di Mileto la seguente questione: "Che cosa ne pensate, dunque, della genesi… dell’ordine cosmico? È dal nulla che è venuto all’essere? Che cosa vuol dire questo?". In effetti Parmenide ritiene che tale domanda sia il frutto di una vera e propria ispirazione divina. E mette in bocca alla dea ciò che avrebbe dovuto apprendere da lei. Come si può imparare a capire la nostra conoscenza del mondo? Come si può imparare a intendere il mondo come ordine, senza pensare un concetto inimmaginabile quale è il nulla? È davvero un assurdità – il nulla! Ecco, la filosofia, quando pensa, ha talvolta a che fare anche con pensieri astrusi, ma forse possiede anche la forza di esaminare criticamente certi termini oscuri, quali "il nulla", "il non essere". Questo poema è costruito in modo tale per cui Parmenide è accolto come ospite dalla dea, che viene sempre identificata con alétheia, la verità stessa. (Possiamo intenderla anche così, volendo, ma il poema non lo dice). Dice solo che essa esprime l’alétheia, la verità: come si deve pensare se si vuol restare nel vero e nel giusto; e questo sì, è del tutto esplicito nelle parole della dea.
Il testo dice infatti con parole assai chiare: "Se volete pensare secondo ragione, dovete tenervi lontani dalla via nella quale bisognerebbe pensare il nulla". È chiaro: divenire, nascere, movimento, alterazione… implicano sempre un nulla. Dal nulla nasce qualcosa. Come possiamo evitarlo? Bisogna imparare a pensare che cosa significhi essere, senza volerlo spiegare a partire dal nulla.
IL PENSIERO DELL’ESSERE
Che cos’è "essere"? Ecco, la dea insegna: "Segui il noûs!" – Questo è il termine greco per dire "ragione", o "spirito", o pensiero; ma questa parola noûs ha una peculiarità tutta sua… come vedremo. Il noûs è, per così dire, l’immediatezza del cogliere il vero interiormente, come quando si dice, per esempio: "me ne avvedo", vale a dire: "lo vedo con i miei stessi occhi"; "penso a ciò che vedo con i miei occhi". Naturalmente non è qualcosa che vedo davanti a me, ma che intuisco visivamente. Come si potrebbe concepire, altrimenti, l’inizio di tutto l’essere? Non ha alcun inizio, l’essere. Soltanto un ente può esserci o non esserci. "Questa è la prima cosa che devi imparare, mio diletto: quando dici che qualcosa è presente, oppure è assente, ciò non significa che l’una cosa è, e l’altra non è. Entrambe sono. Devi imparare che ciò che è presente e ciò che è assente sono entrambi. L’essere è Uno, tutt’intero, ed è ovunque uniformemente adesso. Non può essere generato, perché altrimenti un tempo non sarebbe stato… Non può muoversi, perché altrimenti in un luogo non sarebbe". Il movimento, la kìnesis, la ghènesis, richiamano in fondo il problema del divenire, del nascere dal nulla, di fronte al quale il pensiero si trova come davanti a un enigma. Ma nel Poema di Parmenide c’è tutto un complesso di argomentazioni, una specie di sentiero della verità su cui la dea vuole condurre il suo allievo, indicandogli, per così dire, dei segnavia: "Non deviare da questa strada e non ricadere in un impensabile come il nulla". E così la dea cerca di introdurre questo giovane (non è detto però che sia giovane)… questo suo allievo, a ciò che intendiamo propriamente per "essere". L’essere è ovunque, c’è sempre, non può mutare, non si dà alcun divenire, nessun trapassare in altro: tutto ciò infatti non è essere. E qui arriviamo al punto particolare che ha fatto storia: infatti, sotto il segno dell’essere sta anche l’inscindibilità di essere e noûs, noèin, che si traduce con "pensiero". Come si dovrebbe rendere, altrimenti? Sarebbe meglio dire, come ho proposto, "avvedersi di qualcosa", "intuire", con la stessa immediatezza che si ha nel vedere. Noèin è, per così dire, l’esperienza immediata … "ecco!", "è qui!". Già dire "qualcosa", è dire troppo: si tratta soltanto di un "c’è!". Noi non possiamo fare nient’altro che dire "c’è qualcosa", ma questa è già una proposizione assai complessa.
"C’è qualcosa": in seguito avremo modo di apprendere quanti problemi si nascondano dietro questo "qualcosa" che dobbiamo adoperare ogni volta che pensiamo.
L’EQUILIBRIO DEGLI OPPOSTI
Dunque, il colloquio procede per strade faticose, e viene detto anche che noèin ed èinai – pensare ed essere – sono inscindibili, si coappartengono; "Senza l’essere… non potrai mai trovare… questo intuire, questo avvedersi. Il nulla non è; questo pensiero, in cui ognora ci si smarrisce come mortali disorientati, deve essere del tutto abbandonato". Certo, questo ammonimento a evitare l’assurdo pensiero del nulla è, per così dire, una lezione divina. Ma gli uomini, possono far questo? Non devono forse pensare la pluralità di ciò che accade, che si altera, si organizza, è presente o assente – non è lecito che si pensi magari anche a queste cose? "Sì" – risponde la dea – "e voglio anche mostrarti come lo si può fare secondo ragione, senza pensare l’assurdità del nulla". E con ciò prende avvio la parte più ampia del poema, quella perduta, in cui Parmenide ripercorre le conoscenze dei pensatori di Mileto, sotto una nuova luce critica.
Qual è questo pensiero critico? Gli uomini devono sempre esprimersi per opposti. Ciò dipende dal loro modo di orientarsi. Si conosce, per così dire, il chiaro e lo scuro, oppure il caldo e il freddo. Si tratta sempre di opposti; lo aveva già detto Anassimandro, uno dei filosofi di Mileto: gli opposti si equilibrano; questa è la nostra visione dell’ordine del mondo. Non c’è inverno che duri in eterno, non c’è estate che bruci tutto: esiste un ordine delle stagioni, un ordine… della notte e del giorno, ed è evidente – se solo pensiamo bene le cose – che tutto ciò è inscindibilmente connesso con l’ordine del mondo. Parmenide nomina anche tale atteggiamento dell’uomo; non rimane imbrigliato da questo essere unico, immutabile e onnipresente. … I Greci si sono sempre formati le loro opinioni, si sono scambiati punti di vista, hanno fatto distinzioni e dato nomi diversi a cose differenti, e perciò hanno parlato ad esempio della diversità tra il giorno e la notte, come se qui davvero si combattessero due opposti: quando sorge il sole e il giorno rischiara, la notte, tenebrosa, deve arretrare. È forse davvero sbagliato pensarla così? Stanno proprio così le cose, che cioè due potenze si scontrano, notte e chiarore del sole o del giorno? – i Greci non sapevano ancora, inizialmente, che è il sole a portare la luce; per una esperienza ingenua, del sole non si vede ancora nulla quando l’alba già diffonde il suo chiarore. Solo in seguito i Greci compresero che invece è già il sole a far luce; in effetti, questo presume conoscenze assai complesse sul corso del sole e, in fondo, anche sul fatto che la Terra è sferica.
UNITÀ E MOLTEPLICITÀ
Insomma, non era così semplice spiegarsi come mai il giorno e la notte… si avvicendino. Ma questo era appunto il nuovo tipo di conoscenza che in fondo già i pensatori di Mileto possedevano, senza averne ancora colto il significato; vale cioè a dire: non si tratta affatto di un’opposizione, giorno e notte sono una cosa sola. In altri termini: c’è una via per spiegare le differenze e la molteplicità, la varietà dell’esperienza, senza dover pensare il nulla. Essa consiste nel concepire le cose come presenti nella luce e come dileguantisi da essa. Così come il giorno e la notte si succedono perché sono la stessa cosa, così la luce e il buio sono in verità forme nelle quali le cose scompaiono, sì, alla vista, ma non per questo cadono nel nulla. Questa è la nuova concezione, grazie alla quale, infine, anche la grande curiosità per il mondo dei fisiologi è stata considerata in maniera più acuta e più critica.
Ora, però, qualcuno potrebbe facilmente dire: "Ma come puoi tu, così, spiegare davvero l’ordine del mondo? Se l’essere è ovunque uniforme, non si deve in qualche modo pensare qualcosa come una mescolanza delle molte cose che sono? Che sono, appunto: non è necessario il nulla, ma almeno ci dovrebbe già essere la molteplicità". E di fatto c’è: è la grande intuizione degli atomi, con cui, in seguito, in diretto riferimento al pensiero eleatico, i Greci hanno sviluppato la teoria atomistica: pensiamo a Democrito e ai suoi predecessori, dei quali sappiamo veramente poco. Gli atomisti non hanno segnato la storia universale del sapere, come è avvenuto invece per la teoria atomica della scienza moderna, che dal 17º secolo a oggi ha diretto la nostra immagine del mondo. In ogni caso, essi ebbero un certo ruolo – Democrito fu comunque uno studioso importante, anche se, per motivi di cui diremo, le sue dottrine non ci sono pervenute in forma dettagliata.
Eppure ha lasciato più di cento manoscritti. Gli Alessandrini ne avevano ancora conoscenza, e la tarda antichità – in particolare Epicuro – ha ricavato molte delle sue nozioni proprio dall’indagine democritea. Ma, come si è già detto, questa è solo una tarda conseguenza di quella sfida per il pensiero che Parmenide mette in bocca alla dea: "Voi dovete pensare soltanto l’essere, uno, immutabile e vero, e nient’altro. Questo soltanto è propriamente vero. Tutto il resto… è luce mutevole e… buio che avanza, e così tutte le altre variazioni, in cui gli opposti si separano a vicenda, come il caldo e il freddo, il secco e l’umido e così via".
Questo è dunque il Poema di Parmenide, la cui parte teoretica, cioè la dottrina dell’essere, ci è tuttora conservata nei suoi versi.
Ebbene, non è certo facile mostrare come si potesse tener fede a questa sfida di pensare l’essere come immutabile e uno… di fronte alla pluralità e alla molteplicità dell’esperienza del mondo che hanno gli uomini. E perciò non dovremo meravigliarci del fatto che il pensiero eleatico, e Parmenide in particolare, avessero un concetto dell’essere come intuizione: "qui!", "questo qui!", riproposto poi sempre alla filosofia successiva, anche se nel frattempo si sono dovute considerare forme più complicate, più differenziate per poter cogliere la molteplicità dell’accadere, del diventare altro, del perire e del nascere.
Proviamo a seguire la prospettiva aristotelica, alla quale dobbiamo le nostre conoscenze (infatti, colui che ricopiò il Poema parmenideo era a sua volta un aristotelico, Simplicio).
ESSERE E DIVENIRE
Seguendo i manuali e le divulgazioni, di solito troviamo un accostamento, o meglio una contrapposizione, fra questo eleatico che immobilizza il cosmo, negando ogni movimento e ogni alterazione e – come sua controparte – la dottrina di Eraclito. È un’idea facile da pensare, e c’è poi un famoso frammento di Eraclito che dice: "Tutto è divenire. Tutto scorre". Se si confronta questa affermazione con quel concetto di conoscenza dell’essere, ne ricaviamo una dissoluzione sconsolata della possibilità di sapere in quanto tale. Se fosse vero questo che "tutto scorre", allora ci sarebbe solo quella estrema disperazione del sapere che chiamiamo scepsi. E in effetti, nel seguito della tradizione eleatica, si è supposto anche questo, che in realtà noi non possiamo sapere nulla. È la posizione dei cosiddetti sofisti – una parola che a quel tempo non suonava come un’accusa, quale appare invece oggi: era semplicemente un’espressione per "colui che… della sapienza ha fatto una professione, e la insegna". Già, ma che dire di Eraclito? Non potremo far altro che cercare anche in questo caso di vedere più da vicino questo personaggio. Purtroppo non abbiamo… testi di una certa ampiezza, ma fortunatamente conosciamo almeno la prima frase di un suo scritto; la riferisce infatti Aristotele, poiché vi si trova un problema di punteggiatura. Coincidenze di questo genere ci fanno capire che Eraclito faceva uso nei suoi scritti di una prosa altamente differenziata. Ma non lo sapremmo, se conoscessimo soltanto quelle citazioni che nella tarda antichità vediamo ripetutamente riprese dagli scritti di Eraclito.
Veniamo così a un problema teoreticamente importante per la nostra conoscenza degli inizi della filosofia: il fatto, cioè, che possediamo solo citazioni. Il Poema di Parmenide è ben di più che una citazione, è una trascrizione molto diligente. Ma nel caso di Eraclito… abbiamo soltanto singole frasi, anche se di una pregnanza, di una incisività, di una concisione estreme. Faccio solo un esempio: "La via in salita e in discesa è una e medesima".… È possibile darne una lettura aristotelica, che rimedita la visione della natura che c’era a Mileto. Potrebbe essere questa: "Ah, gli eventi naturali sono sempre un ciclo. Dall’alto vengono il fuoco, il calore e la luce, e poi ancora le nuvole e l’acqua, e… in mezzo… l’aria e alla fine la terraferma". Con questa visione retrospettiva viene individuata in questo frammento di Eraclito la ciclicità dei processi della natura, e in effetti, poi, molti hanno inteso così. Però, se consideriamo l’insieme dei molti frammenti eraclitei conservati, allora vediamo che questo non è certo il modo più avveduto di comprendere questa proposizione.
L’UNITÁ NELLA DIVERSITÁ
"La via in salita e la via in discesa" – un’osservazione grandiosa! – "è la medesima". È proprio necessario che qualcuno ce lo dica, che sono la stessa cosa: sono così diverse! La salita è faticosa; anche la discesa è gravosa per le ginocchia, ma è più facile. Ma si potrebbe anche tradurre "l’andata e il ritorno sono la stessa strada" – in greco le parole sono uguali – ed ecco un’altra esperienza, anche chi non è alpinista: può farla.. All’andata la strada è più lunga; ma al ritorno per noi è più corta, perché la conosciamo già. Perciò, forse… anzi ne sono addirittura certo, Eraclito non ha voluto dire nient’altro che questo: ciò che ci appare così diverso, in realtà, invece, è il medesimo.
E questo vale anche per il famoso fiume. "Tutto scorre". "Non possiamo scendere due volte nello stesso fiume: è acqua sempre nuova che ci lambisce". Piano! Non nello stesso fiume! È infatti lo stesso fiume quello in cui scorre l’acqua! E allora il "tutto scorre" non esclude affatto che vi sia un’uguaglianza. E così possiamo imparare dalle citazioni di Eraclito molte cose interessanti, come avremo modo di vedere.
C’è un passo, riportato da Platone, che è indubitabilmente di Eraclito,: "L’uno che si sdoppia, torna a richiudersi in se stesso". Qui si riassume già tutto: lo sdoppiarsi, l’essere-differente, che non è però il distacco… come condizione irreversibile. Sempre, in ogni distacco, c’è – improvviso – il ritrovarsi insieme. È un’esperienza che si fa. Ecco un altro esempio, evidente a ciascuno, anch’esso sicuramente di Eraclito: "la fame e la sazietà…". Sembra che non ci sia un passaggio tra le due: conosco persone che dicono drasticamente e con grande sicurezza: "grazie, sono sazio", e non mangiano più. Oppure prendiamo altri casi: la guerra e la pace. Che impatto improvviso, quando la vita ordinata della pace da un giorno all’altro – letteralmente – si trasforma in un mondo completamente diverso! Eraclito, evidentemente, quando ha cercato questa unità nella differenza, l’unità nella diversità, aveva di mira una cosa di importanza decisiva: l’unità che, in tutte le differenze, torna sempre a prorompere. E a questo proposito ci sono delle esperienze – sulle quali dovremo un po’ intrattenerci prossimamente – che tutti conosciamo. Forse, una delle forme più impressionanti di questo passaggio istantaneo è quella fra il sonno e la veglia. Diciamo di addormentarci con piacere, mentre nel nostro mondo civilizzato troviamo sempre assai sgradevole il risveglio. E magari sarà anche vero. Ma, in fondo, come sappiamo benissimo: è un istante, e si è di nuovo "in sé"; è questo che diciamo, quando ci ritroviamo svegli. Così come è un istante … quello in cui ci si addormenta e non si sente più nulla, "come un morto". Vedremo che Eraclito ha riflettuto proprio su questi fenomeni e con ciò ha posto alla filosofia – accanto alla concezione parmenidea dell’essere – una nuova grande sfida.
Vedremo come Platone, nel solco di Eraclito, abbia fatto proprie queste due grandi potenze del pensiero, espresse da queste imponenti figure intorno al 500 avanti Cristo – prima ancora che la tragedia, come è noto a tutti, producesse la grande stagione della cultura greca di Atene. In questo preciso momento, dunque, erano già state gettate le basi di quella che sarà la strada del pensiero e dell’insegnamento nelle prime scuole filosofiche, quella di Platone per i socratici, e quella di Aristotele per i platonici.

Epistemologia

Introduzione
Dal greco episthmh (Episteme = scienza). Epistemologia: discorso intorno alla scienza (letteralmente). Benché il termine si trovi usato in altri significati (gnoseologia, teoria del conoscere…), il significato dominante è quello di “indagine critica intorno alle scienze naturali e matematiche”.
Distinzione: la scienza può considerarsi quanto a contenuto e quanto alla forma. Il contenuto è la materia, cioè l’oggetto di cui essa si occupa; la forma è la struttura razionale che le dà il carattere scientifico per cui si differenzia da quel conoscere che pure circa il medesimo oggetto è conoscere volgare.
L’epistemologia è l’indagine critica intorno alla forma e non al contenuto delle scienze. Essa trova nello sviluppo scientifico la condizione indispensabile del suo sorgere e del suo progredire. Il sapere scientifico si è configurato in due modi principali: per gli antichi e per i moderni. Per gli antichi era scienza la filosofia, per i moderni scienza in senso proprio e tipico è la fisica. Quindi solo con il concetto moderno si ha una distinzione adeguata fra sapere filosofico e sapere scientifico e pertanto solo con esso l’epistemologia può davvero definirsi e svilupparsi.
L’epistemologia galileana è la prima epistemologia moderna (cioè la scienza viene distinta dalla filosofia: la filosofia ricerca le essenze, mentre la scienza descrive l’esatto comportamento mediante la legge). Legge significa rapporto costante fra elementi di un fenomeno e fra vari fenomeni e il rapporto si verifica numericamente. L’indagine scientifica ha come meta la formulazione matematica della legge. La filosofia dunque è un’indagine qualitativa, mentre la scienza è un’indagine quantitativa. Dal metodo logico – deduttivo proprio del sapere filosofico si distingue il metodo sperimentale della scienza di Galileo, articolato nei suo momenti essenziali:
  • osservazione, che somministra il dato;
  • ipotesi (o teoria), che somministra la ragione;
  • verificazione (o esperimento), con cui si razionalizza il dato e si datizza la ragione.
Gli strumenti di cui si avvale la scienza moderna della natura sono due: la matematizzazione dei fenomeni (usata dai greci nell’astronomia. Si ebbero modelli meccanici celesti ma nessuna applicazione ai fenomeni terrestri, perché lì non trovarono ciclicità); la sperimentazione sistematica (di cui non si trova traccia nei greci).
La caratteristica essenziale di un esperimento è la sua artificialità che lo distingue dall’osservazione di un processo nella sua forma naturale. Tale metodo (di Galileo) sintetizza fecondamente i due momenti dell’induzione e della deduzione. La sperimentazione sistematica in laboratorio venne per la prima volta praticata nel XVII secolo (i tempi di Galileo).
Newton enuncia i canoni di un procedimento metodico nel quale il momento anticipativo e razionale (ipotesi), di cui il cartesianesimo abusava, viene guardato con diffidenza (“ipoteses non fingo”), in favore di un’estensione dell’efficacia orientativa e conclusiva dell’esperienza. Sia Galileo sia Newton costruiscono la loro meccanica con esperimenti artificiali che rivoluzionano le scienze fisiche. Il concetto newtoniano fu frainteso ed esasperato dall’Illuminismo, ove la scienza sarà descrittiva e raccoglitrice.
Kant imposta un nuovo concetto di scienza e sembra riconquistare l’equilibrio galileano:
  • autonomia della scienza nei riguardi della filosofia (ma esaspera il dualismo fenomeno – noumeno e non riesce a liberarsi della metafisica);
  • sintesi di esperienza e ragione, fondato su un concetto del tutto nuovo di esperienza che non è più data e presupposta come mondo da scoprire nei suoi nessi costitutivi ma è quella che si dà all’osservatore che la costituisce secondo i suoi modi di pensare; tuttavia tale sintesi diventa qualcosa di strutturale e non di metodica come era essenzialmente in Galileo;
  • razionalizzazione dell’esperienza che però diventa universalizzazione e soggettivizzazione di essa (nuovo concetto di oggettività: conoscenza intersoggettiva)
La potenza dell’elemento soggettivo nella scienza kantiana è l’aspetto più importante per comprendere l’evoluzione successiva del concetto di scienza nella filosofia del Romanticismo. In essa, sulla base del soggettivismo metafisico gnoseologico, la scienza viene intesa quale momento più o meno autentico del sapere filosofico (deduttiva a priori), infatti l’ideale della scienza sarebbe la deduzione dell’intero universo.
Il secolo XIX si apre con la più radicale affermazione della struttura meccanica dell’universo. Secondo La Place teoricamente è possibile trattare l’universo come un’enorme macchina automatica i cui movimenti sono esattamente predeterminabili con l’aiuto dell’osservazione e del calcolo. Questa concezione si fonda sui grandi progressi della meccanica newtoniana. L’esattezza della meccanica e di tutte le altre scienze, per cui ogni fenomeno è considerato come scientificamente spiegato quando è ridotto a fenomeno meccanico. Il movimento (urti di atomi, attrazione e repulsione…) è il protagonista di tutti i processi naturali. La scienza del movimento è la meccanica razionale; dunque la meccanica razionale è la regina delle scienze naturali. Essenziale alla concezione meccanicistica è la nozione di sostanza (materia), poiché il movimento è sempre movimento di qualcosa; altra nozione essenziale del meccanicismo è la nozione di causa (forza, energia…), poiché la sostanza in sé è immobile (in quiete) dunque le nozioni di sostanza, movimento e sua trasmissibilità da una sostanza all’altra sono essenziali alla concezione meccanicistica del mondo Tuttavia la luce, il calore, il magnetismo ed i fenomeni elettrici non sembrano collegabili a movimenti e perciò non sembrano spiegabili in modo meccanico. Ecco perché vengono immaginate come sostanze fluide la cui azione sui corpi non ne altera il peso e la massa.
Nel primo Ottocento la fisica è divisa in due parti:
  • fisica delle masse, in moto o in quiete, costruite sul modello della meccanica razionale;
  • la fisica degli imponderabili, costruita in modo diverso ma ricondotta sempre alla nozione di sostanza (benché imponderabile quindi non suscettibile di osservazione empirica).
Nel corso del secolo il meccanicismo muoverà alla conquista della fisica degli imponderabili, riuscendo a spiegare in termini di movimento i fenomeni termici, quelli luminosi e infine quelli elettrici e magnetici. Si avrà così la termodinamica, la teoria ondulatoria ed elettromagnetica della luce; in chimica si userà le teoria dei pesi atomici, che spiega meccanicisticamente le modificazioni chimiche dei corpi; in biologia l’individuo sarà concepito come un’organizzazione di organi interdipendenti, nella quale la modificazione di un organo comporta il mutamento degli altri; persino la psicologia nell’associazionismo troverà una tipica applicazione del modello meccanicistico. I progressi della tecnica e la gigantesca produzione industriale incoraggeranno verso una soluzione scientifica dei problemi politici, sociali e morali.
Di fronte a questa situazione quale atteggiamento assume la filosofia romantica? Dopo la giustificazione kantiana della possibilità della scienza come indagine matematico – sperimentale della natura, Fichte tenta la ricostruzione di una nuova metafisica, quella della mente, svalutando la conoscenza dell’oggetto come conoscenza scientifica. La vera conoscenza è quella filosofica, tutte le conoscenze possono essere dedotte, anche prima dell’osservazione, dal principio iniziale dell’intero sapere umano: l’Io. Il divorzio tra scienza e filosofia è avvenuto.
La filosofia della natura di Schelling è stata giudicata come “superamento del meccanicismo prevalso dall’età cartesiana fino all’Illuminismo”. La natura, secondo, Schelling, è trascorsa da due forze opposte: attrazione e repulsione di masse (fenomeni meccanici) o di qualità (fenomeni chimici). Quando le forze opposte sono in equilibrio abbiamo i fenomeni chimici ed elettromagnetici, quando l’equilibrio è perduto e la lotta degli opposti è continua abbiamo il mondo biologico. Così per Schelling la natura è vivente, cioè costituita da materia intrinsecamente energetica e la matematica non è la base della vita me ne è una produzione. Alcune intuizioni di Schelling costituiranno stimoli per una riflessione sulle scienze naturali (l’assimilazione tra elettricità e magnetismo, il movimento intrinseco alla materia, l’insufficienza del meccanicismo a spiegare i fenomeni biologici) ma la sua ostinazione a considerare l’esperienza come incapace a sostenere il discorso scientifico, la condanna sommaria del meccanicismo, la pretesa di ricostruire una fisica a priori ritornando alla rinascimentale filosofia della natura, il rifiuto del metodo sperimentale e il corrispondente ricorso ad una metafisica della qualità, alla deduzione astratta e all’intuizione geniale, sminuirono le sue intuizioni e caratterizzarono l’atteggiamento della filosofia romantica verso la scienza. Le ricerche particolari furono svalutate e fu considerata di poco valore la sperimentazione meticolosa e analitica.
La romantica interpretazione unitaria di fisica e biologia, di natura e uomo, in mancanza di regole esplicite per la sua applicazione, avveniva sulla base dell’intuizione e in un linguaggio più mitologico – filosofico che scientifico. In Hegel, data l’identificazione del reale col razionale, la dialettica del pensiero deve rintracciare la dialettica della natura. Ma l’analisi matematica non è adatta (perché superficiale e dogmatica) a spiegare i fenomeni della natura e l’esperienza ci dà sempre il particolare, l’accidentale, che non spiegano nulla, anzi vanno spiegati. Ancora meno valido è il trattamento matematico dei dati dell’osservazione, in quanto i dati empirici non diventano mai astrazioni matematiche. E siccome calcolo matematico ed esperienza erano i fondamenti metodologici della fisica newtoniana, Hegel non accetta la meccanica di Newton.
La scienza è concepita da Hegel come spiegazione totale della natura per cui ogni suo aspetto, ogni oggetto, ogni evento può essere dedotto nella sua necessità logica dalla totalità dei fenomeni. Ma una scienza sì fatta è una speculazione astratta sulla natura: da qui un sostanziale divorzio fra filosofia e scienza.
Tuttavia bisogna riconoscere che la preferenza per la dinamica invece che per la meccanica, la simpatia per il vitalismo a riguardo dei fenomeni biologici, l’impostazione storicistica della cultura romantica (e non solo in Schelling e in Hegel) favoriscono indirettamente nuovi sviluppi specialmente nelle scienze biologiche. Il La Marck infatti sostiene che il mondo biologico ha una sua vera e propria storia nel senso letterale della parola (evoluzione delle specie viventi). Secondo La Marck non è l’organo a creare l’ambiente ma l’ambiente che crea l’organo. Il catastrofismo di Crunier prevalse al momento alla concezione lamarckiana ma la critica ai concetti di genere, specie, classe ha una forza prorompente e diverrà dominante con Darwin che, criticando lo psicologismo di La Marck (= tendenza degli organismi alla variazione) e il suo meccanicismo semplicistico (l’azione dell’ambiente sulle abitudini degli organismi), sostituisce l’idea della selezione naturale dovuta alla lotta per l’esistenza.
La teoria di Darwin colpisce un principio base del meccanicismo classico: quello della reversibilità dei fenomeni naturali. I fenomeni biologici sono irreversibili come i fenomeni termici e ciò riporta e riaccende le perplessità già suscitate dalla termodinamica; di lì a poco il meccanicismo entrerà in crisi.
Il positivismo, pur convenendo sulla tesi della univocità del sapere, rovescia la posizione degli idealisti romantici, vedendo la filosofia come momento dell’autentico sapere che è quello scientifico inteso come sperimentale a posteriori.
Anche in questo caso l’epistemologia è un corollario della tesi gnoseologica che limita il conoscibile al dato, al fatto, al positivo. La filosofia, condannata come ricerca a priori e astratta, si salva come sintesi delle scienze o come loro metodologia. La scienza coordina i fatti e quindi è sapere parzialmente unificato, la filosofia è il sapere completamente unificato (Spencer). La scienza ha per fine la previsione dei fatti. Il positivismo ha il merito di aver epurato i procedimenti scientifici ma l’angustia delle premesse gnoseologiche impedisce alla scienza positivista di ergersi a conoscenza universale valida, a verità, e alla legge positivista di porsi come forma di necessità. Non per nulla il positivismo si travagliò intorno al problema del fondamento dell’induzione.
Tuttavia il positivismo poggia ancora sulla concezione meccanicistica della scienza e siccome la meccanica razionale a sua volta è fondata sulla geometria, tutta la costruzione dipende dalla solidità di quest’ultima. Fino ai primi decenni dell’Ottocento nessuno aveva messo in dubbio la validità delle geometrie euclidee ma dopo che Gauss alla fine del Settecento si era convinto che il quinto postulato di Euclide era indipendente dagli altri e capace di reggere una geometria diversa da quella costruita sui postulati di Euclide, Lobacevski, Bolyai e Riemann pubblicarono opere che dimostravano la veridicità dell’intuizione di Gauss. Con questi sviluppi si rivelava l’insufficienza del valore epistemologico dell’intuizione su cui Cartesio aveva fondato la costruzione della filosofia e della scienza.
L’evidenza colta dall’intuizione non è sufficiente a costruire un sistema rigorosamente deduttivo come quello geometrico; nessuna geometria è più vera delle altre, nessuna può dirsi rappresentazione speculare della realtà ma ciascuna può essere più comoda a seconda delle circostanze. Anzi la matematica appare sempre più come riflessione su relazioni astratte; essa non si occupa tanto di oggetti o forme quanto delle loro relazioni; se il sistema delle relazioni è differente, si avrà una geometria differente. Quindi bisogna abbandonare la pretesa di una conoscenza unitaria e universale della verità e della realtà; quindi decade la concezione sostanzialistica dello spazio; quindi la validità della geometria sta nel suo intimo rigore formale. Così, dopo che Voutrax (1874) ebbe contestato il carattere deterministico delle leggi scientifiche e mostrata la contingenza insediata nel cuore stesso della scienza, fu l’empiro – criticismo di Mack e Avenarius (1888) a smascherare nel meccanicismo deterministico la sottostruttura metafisica della scienza positivista e ad affermare che la scienza si forma per un continuo processo di adattamento del pensiero ad un determinato campo di esperienze.
La scienza viene giustificata pragmaticamente con una dose di arbitrarietà e convenzionalismo. Bergson la fa corrispondere allo stadio deteriore dell'evoluzione creatrice. Poincaré sostiene un convenzionalismo moderato (utilità e comodità della geometria euclidea). Il concetto pragmatico della scienza si ritrova nel pensiero anglo-americano. Per Dewey i concetti scientifici non sono che "mezzi, strumenti applicabili agli eventi storici per regolarne il corso". Croce parla di concetti scientifici come pseudo-concetti anche se non è pragmatista. L'epistemologia così intesa si può considerare come ponte di passaggio da secolo XIX all'epistemologia novissima che, stimolata dalle nuove dottrine fisiche, relativistiche e quantistiche, si esprime in una ricchezza di indagini quale mai si era prima vista. La novissima scienza, presentandosi come una ricostruzione dell'intera enciclopedia fisica secondo nuovi criteri (relatività, discontinuità, ecc.), comporta una rivoluzione epistemologica che rompe con l'epistemologia classica. La ragione scientifica non è più la ragione cartesiana come struttura assoluta [Platone e Cartesio (idee innate); Kant (categorie)] che violentava l'esperienza che ne rimaneva estranea. Ora ragione ed esperienza sono assai più intimamente connesse e, senza prevalere l'una sull'altra, esse sono intrinseche al processo di costruzione della scienza. Si parla di nuovo razionalismo (Bachelard, Brunschvieg, Aliotta, Geymonat, ecc.) sotto il cui nome si possono riassumere tutte le epistemologie che interpretano la rottura tra scienza attuale e scienza classica piuttosto alla luce della fisica. Mentre il neo-positivismo o positivismo logico la interpreta alla luce della matematica (geometrie non euclidee e formalismo) e sotto l'influsso della logistica: "la scienza è, perciò, costruzione coerente su un gruppo di postulati concepiti come puri decreti della ragione"; essa tende così ad essere una costruzione di più segni (linguaggio) ossia di segni che a nulla si riferiscono né di nulla informano. Il linguaggio scientifico deve tendere a questa rigorosa purezza eliminando ogni riferimento all'intuizione, al dato, all'esperienza, a qualche cosa insomma che sia oltre e fuori del decreto arbitrario della ragione. Il neo-positivismo o positivismo logico ebbe il suo centro nell'università di Vienna (maestro Moritz Schlick) dove alcuni scienziati filosofi diedero vita al Circolo di Vienna. Il neo-positivismo è caratterizzato da un atteggiamento antimetafisico e da una serie di approfondite analisi di grande rilievo sul linguaggio, la struttura ed i metodi delle scienze naturali e sui fondamenti della matematica. Il nucleo di fondo della filosofia viennese è il principio di verificazione, stando al quale hanno senso soltanto le proposizione che si possono empiricamente verificare attraverso il ricorso ai fatti dell'esperienza. È in base a questo principio che i neo-positivisti decretarono l'insensatezza di ogni asserto metafisico e teologico affermando, inoltre, la riduzione delle norme etiche ad un insieme di emozioni. L'avvento al potere di Hitler porto con sé la fine del circolo di Vienna. Alcuni circolisti (come Carnap) emigrarono negli Stati Uniti e qui il loro pensiero entrò in simbiosi con le correnti empirico-pragmatistiche della filosofia americana e con Carnap il neo-positivismo fu avviato verso una maggiore liberalizzazione. In Inghilterra Wittgenstein imprimeva alla filosofia inglese una profonda svolta, rinnegando le pretese metafisiche e assolutistiche del principio di verificazione e indirizzando la filosofia verso l'analisi dei diversi "giochi di lingua" che intessono l'umano linguaggio più ricco ed articolato nelle sue manifestazioni non scientifiche di quanto pensassero i neo-positivisti. E nel frattempo Karl Popper reimpostava su altra base i problemi dei neo-positivisti offrendo per essi soluzioni diverse e maggiormente consistenti, senza affatto negare la sensatezza dei linguaggi non scientifici come è il caso delle proposizioni metafisiche. William Bridgman (fisico americano) con il suo operazionismo sosteneva la riduzione del significato dei concetti scientifici ad un insieme di operazioni. Gaston Bachelard, non positivista, parlava di rottura epistemologica o di ostacolo epistemologico e considerava la storia della scienza come strumento primario dell'analisi della razionalità.
Epistemologia nel XX secolo
L'induttivismo e i suoi critici. - Il fondatore del metodo induttivo è considerato Francis Bacon. Secondo il filosofo inglese, la potenza umana dipende dal grado di conoscenza della natura. Per dominare la natura è necessario conoscerne il funzionamento, interpretarne le ragioni. L'uomo, ministro ed interprete della natura, deve collezionare una ricca serie di osservazioni per poterne ricavare il succo della conoscenza (Bacone fa riferimento alla raccolta dell'uva matura da pressare poi con il torchio come immagine che allude al metodo scientifico). "L'idea di fondo dell'induttivismo è che la scienza parta da osservazioni, e da queste muova a generalizzazioni (leggi o teorie) e a predizioni" (p. 8). Secondo l'induttivismo "è un errore gravissimo costruire teorie quando mancano i dati" (ivi). Le anticipazioni della natura fanno invece parte integrante dell'esperienza scientifica, secondo Popper, e Russell nota che il principio dell'induzione sul quale si basa l'induttivismo (principio secondo il quale dati A e B che si presentano in un gran numero di casi sempre e solo assieme, e dato poi uno dei due, si può desumere che immancabilmente si presenterà anche l'altro), anche se spesso utilizzato nelle esperienze quotidiane, non può essere assolutamente dimostrato logicamente, e può fondare solo ragionamenti probabilistici. Infatti, un gran numero di casi non costituisce la totalità dei casi, come è dimostrato dalla falsità della proposizione 'tutti i cigni sono bianchi' una volta scoperti i cigni neri dell'Australia, o la sfortunata esperienza del tacchino induttivista, al quale, malgrado le sue innumerevoli osservazioni sull'orario nel quale il padrone gli dava da mangiare, osservazioni arricchite dalla rilevazione di un gran numero di variabili (meteorologiche, stagionali, etc.), inopinatamente, per la prima volta, un giorno venne tirato il collo. Evidentemente, malgrado le osservazioni compiute, quel giorno la previsione si dimostrò sbagliata (pp. 11-4).
Russell individua nella matematica una specie di conoscenza ottenibile senza ricorso all'esperienza, composta di truismi, ossia di verità necessarie del tipo "tutti gli scapoli sono uomini non sposati". Nel 1901, con la scoperta della contraddizione degli insiemi normali, Russell confuta il risultato degli studi di Frege, secondo il quale la logica si fonda sull'aritmetica. L'idea di Russell è invece che sia la logica a fondare la matematica (logicismo). Per dimostrare questo assunto, Russell pubblicò tra il 1910 e il 1913 i Principia mathematica insieme a Whitehead. Nella prima metà degli anni '30, però, questa teoria venne confutata dal teorema di incompletezza, frutto degli studi di Goedel (completati poi da Rosser). Questo teorema dimostra che è possibile formulare una proposizione matematica che non dipende dai principi di Russell e Whitehead, e che quindi nessun sistema logico è perfettamente adeguato alla matematica (pp. 15-8).
Negli stessi anni ferve l'attività del Circolo di Vienna e viene pubblicata la rivista Erkenntnis. La fisica supera la meccanica newtoniana con la teoria della relatività e la meccanica quantistica. L'attività di ricerca del Wiener Kreis, che si avvale della collaborazione tra scienziati e filosofi, è influenzata anche dalla posizione logicista di Russell e dal suo interesse per il principio di induzione, che però i membri del circolo accettano come fondamentale per la ricerca scientifica, oltre che dalla filosofia di Wittgenstein e dalla sua ricerca intorno al principio di demarcazione tra scienza e non scienza (pp. 22-33).
Popper è uno dei critici più severi ed autorevoli del Circolo di Vienna e del suo induttivismo. Secondo Popper, il principio dell'induttivismo non può essere fondato né logicamente né empiricamente sulla prassi scientifica effettiva (se ne otterrebbe un circolo vizioso). L'osservazione semplice non esiste: essa è sempre selettiva, e la sua interpretazione e descrizione è carica di teoria. Né può trovare legittimazione logica il principio dell'uniformità della natura, secondo il quale la natura agisce sempre secondo le stesse leggi. Il rifiuto del principio dell'induzione di Popper si oppone alla sostanziale accettazione di esso che in definitiva opera Russell. Tale principio non è accettabile sulla base della rilevazione della sua utilità nella prassi scientifica (petizione di principio), ciò nondimeno l'accettazione di tale principio è necessaria per essere scienziati: "i principi generali della scienza, come la fiducia nell'impero della legge, e la convinzione che ogni fatto debba avere una causa, dipendono completamente dal principio di induzione, non meno delle credenze della vita quotidiana" (Russell, p. 38). Per quanto riluttanti, quindi, secondo Russell dobbiamo credere nel principio di induzione "in virtù di una sorta di cieco atto di fede" (Gillies, p. 38), se vogliamo fare scienza. Popper invece è dell'idea che il principio di induzione non serva affatto, se si segue il suo metodo critico, ossia il metodo delle congetture e delle confutazioni.
Il falsificazionismo di Popper. - Secondo Popper la scienza non nasce da osservazioni ma da congetture che, finché non vengono falsificate empiricamente dai controlli, sono provvisoriamente accettate. Questo significa che non possiamo essere mai assolutamente certi della verità di una teoria, come è dimostrato dal caso della meccanica di Newton, ritenuta vera per oltre due secoli, e poi superata dalla teoria di Einstein. Una teoria che supera un numero finito di controlli non deve essere ritenuta vera, ma solo non falsificata. Compito dello scienziato è quello di congetturare teorie da sottoporre poi alla prova dei controlli più rigorosi che possano essere escogitati. Circa la produzione di congetture, non esiste un metodo unico: le teorie possono nascere da idee fisse, sogni notturni, fantasie, pregiudizi, etc. Ciò che importa è che poi queste teorie audaci e fantasiose vengano rigorosamente controllate, ed è proprio questo che caratterizza la scientificità del metodo della ricerca: la controllabilità delle previsioni teoriche sulla scorta delle indicazioni che la teoria stessa fornisce (i cosiddetti "falsificatori potenziali", ossia quelle previsioni rischiose che ogni teoria produce e che, se non verificate sperimentalmente, conducono alla falsificazione della teoria stessa) (pp. 38-47). Il caso della scoperta della penicillina da parte di Fleming (pp. 54 e sgg) e quello dell'influenza del pitagorismo sulla nascita dell'ipotesi eliocentrica di Copernico (p. 61) sono emblematici del fatto che le teorie scientifiche possano nascere dalle circostanze più casuali: l'irrazionalità delle condizioni di nascita di una teoria non limita la sua scientificità, che è garantita dal fatto che essa sia sottoponibile al rigore dei controlli, ossia ai tentativi di falsificazione. Si potrebbe avanzare però l'ipotesi che le teorie scientifiche possano nascere anche da sollecitazioni offerte dall'esperienza (vedi il caso della penicillina): Peter Mitchell propone in questo senso una ragionevole forma di induttivismo coniugato con il metodo popperiano delle confutazioni; tale metodo prende il nome di induzione congetturale (pp. 60-1).
Il convenzionalismo di Poincaré e la tesi Duhem-Quine. - Nel 1902 Poincaré sostenne che gli assiomi della geometria non fossero né giudizi sintetici a priori, ossia verità universali e necessarie della mente, né generalizzazioni a partire dall'esperienza, ma solo convenzioni. Nel secolo precedente si erano sviluppati studi avanzati sulle geometrie non euclidee, i cui modelli coerenti, anche se controintuitivi, dimostravano che quella euclidea era una geometria tra le infinite possibili, e non la geometria assoluta. Poincaré giunge alla conclusione che "una geometria non può essere più vera di un'altra; essa può essere soltanto più comoda" (Poincaré, p. 109). Ciò che vale per la geometria vale anche per la fisica: anche le leggi di Newton sono definizioni cammuffate, definizioni utili dal punto di vista calcolativo, ma non vere in senso forte. La loro unica condizione è la non contraddittorietà. Se non contraddittori, tutti gli assiomi e tutte le teorie sono sostenibili, se scegliamo alcuni e tralasciamo altri è perché l'esperienza ci convince della loro comodità, non della loro verità. In quanto definizioni/convenzioni, tali principi (per esempio il principio di inerzia) non potranno mai essere confutati sperimentalmente, dal momento che, se anche lo fossero, sarebbero comunque adattabili, modificabili in modo tale da essere corroborati piuttosto che falsificati da quella stessa esperienza. Poincaré pochi anni più tardi (1904-5) mutò idea relativamente all'infalsificabilità della teoria newtoniana, in conseguenza degli esperimenti di Kauffmann (p. 115), e pose un argine al convenzionalismo 'olistico' di Le Roy, limitando alla geometria e alla meccanica, e quindi non estendendo a tutto il novero delle scienze, il suo convenzionalismo, e sostenendo inoltre che, contrariamente ai principi, le leggi scientifiche sono ottenute mediante induzione: "i principi sono delle convenzioni o delle definizioni cammuffate. Tuttavia sono derivati da leggi sperimentali, e queste leggi sono, per così dire, assurte a principi cui la nostra mente attribuisce un valore assoluto: alcuni filosofi hanno generalizzato troppo; essi hanno creduto che i principi fossero tutta la scienza, e, di conseguenza, che tutta la scienza fosse convenzionale. Questa dottrina paradossale [...] non regge all'esame" (Poincaré, p. 117). Relativamente poi all'inconfutabilità delle teorie newtoniane, Gillies sottolinea che di lì a poco furono la teoria della relatività ristretta e della meccanica quantistica a confutare Poincaré (p. 114).
Secondo Duhem, in fisica un'ipotesi isolata non può essere falsificata da un'osservazione (o asserto osservativo): "riassumendo, il fisico non può mai sottoporre al controllo dell'esperienza un'ipotesi isolata, ma soltanto tutto un insieme di ipotesi. Quando l'esperienza è in disaccordo con le sue previsioni, essa gli insegna che almeno una delle ipotesi costituenti l'insieme è inaccettabile e deve essere modificata, ma non gli indica quale dovrà essere cambiata" (Duhem, p. 122). Per Duhem, quindi, un'ipotesi fisica, per essere sottoposta al controllo sperimentale, deve utilizzare tutta una serie di ipotesi ausiliari, formando con esse una specie di 'pacchetto' teorico che tutto intero verrà corroborato o falsificato. Se, previsto O, si osserverà che non-O, non saremo per questo in grado di desumere quale delle ipotesi è stata falsificata. Questa situazione mette in crisi il concetto baconiano di experimentum crucis, così definito dal filosofo francese: "elencate tutte le ipotesi che si possono fare per rendere conto del gruppo di fenomeni, poi, con la contraddizione sperimentale, eliminatele tutte eccetto una: quest'ultima cesserà di essere un'ipotesi per diventare una certezza". Tuttavia questo procedimento non è praticabile, poiché "il fisico non è mai sicuro di aver effettuato tutte le supposizioni immaginabili" (Duhem, pp. 124-125).
A questo punto si potrebbe proporre una versione più debole dell'esperimento cruciale, tale che una delle due teorie (T') possa venire scartata e l'altra (T'') invece mantenuta, almeno fino a che non sorga una teoria più soddisfacente. Duhem però obbietta che la falsificazione di T' è tutt'altro che pacifica: ad essere falsificata potrebbe benissimo essere una delle ipotesi ausiliari di T'. A questo proposito analizza e commenta il risultato dell'esperimento cruciale condotto da Foucault per decidere della natura corpuscolare o ondulatoria della luce (pp. 125-6). Ma lo scienziato, sostiene Duhem sulla scorta di reminiscenze pascaliane, non è pura logica. Di fronte allo scacco della falsificazione, è opportuno che il ricercatore riveda il suo insieme teorico alla ricerca dell'ipotesi errata confidando nel suo buon senso. Tale risorsa (umana più che scientifica) lo metterà in grado di modificare il complesso teorico e ripresentarlo al banco di prova dell'esperimento, sperando in maggior fortuna. Il bon sens è quindi la risorsa empirica in grado di salvare la scienza dall'impasse della tesi di Duhem, praticamente irrisolvibile con la sola logica.
Duhem sostiene quindi che l'esperimento controlla non un'ipotesi isolata ma un tutto insieme teorico. Tale insieme è però limitato. Quine sostiene invece che "l'insieme debba estendersi e ramificarsi fino ad includere la totalità dell'esperienza umana" (Gillies, p. 136). Quine asserisce che "l'unità di misura della significanza empirica è la scienza nella sua globalità" (Quine, p. 136). Secondo Quine "tutte le nostre cosiddette conoscenze o convinzioni, dalle più fortuite conoscenze di geografia e di storia alle più profonde della fisica atomica o financo della matematica pura o della logica, tutto è un edificio fatto dall'uomo che tocca l'esperienza solo lungo i suoi margini. [...] Un disaccordo con l'esperienza alla periferia provoca un riordinamento all'interno del campo.[...] Ma l'intero campo è limitato dai suoi punti limite, cioè l'esperienza, in modo così vago che rimane sempre una notevole libertà di scelta per decidere quali siano le asserzioni di cui si debba dare una nuova valutazione alla luce di una certa particolare esperienza contraria. Una esperienza particolare non è mai vincolata a nessuna asserzione particolare all'interno del campo tranne che indirettamente per delle esigenze di equilibrio che interessano il campo nella sua globalità. [...] Tutte le asserzioni si potrebbero far valere qualsiasi cosa accada se facessimo delle rettifiche sufficientemente drastiche in qualche altra parte del sistema" (Quine, pp. 136-7). Appare chiaro quindi che mentre la tesi di Duhem vale solo per una parte dell'edificio scientifico (segnatamente per la fisica), non valendo, per esempio, per le questioni di fisiologia (quali gli esperimenti di Bernard, o l'esperimento riportato da Galileo sull'origine dei nervi dal cuore o dal cervello, nel quale si dileggia il dogmatismo dell'aristotelico Simplicio), la tesi di Quine si estende all'intero sistema della conoscenza umana, sistema che può essere mantenuto, malgrado qualsiasi falsificazione empirica, mediante riaggiustamento interno. Quine inoltre manca di qualsiasi teoria del buon senso (pp. 135-7). Malgrado le differenze, le due tesi possono essere unite in un'unica tesi Duhem-Quine, secondo la quale la tesi dell'infalsificabilità delle ipotesi isolate si applica (1) alle teorie di alto livello della fisica, della matematica, della logica e di altre scienze; e (2) l'insieme teorico sotto controllo è, all'atto pratico, sempre limitato, e non si estende alla totalità dell'esperienza umana. In questa sua seconda parte, quindi, la tesi Duhem-Quine si avvale della teoria duhemiana del bon sens di contro all'asserzione di Quine che "tutte le asserzioni si potrebbero far valere qualunque cosa accada se facessimo delle rettifiche sufficientemente drastiche in qualche altra parte del sistema" (pp. 141-2).
La teoria dell'osservazione: i protocolli ed il carico teorico dell'osservazione. - Intendiamo per asserzione osservativa "un'asserzione che fornisce il risultato di un'osservazione o di un esperimento" (Gillies, p. 145). Secondo la teoria dello psicologismo, cui aderisce Mach, le asserzioni di questo tipo si riferiscono ai dati sensoriali del soggetto, ed hanno la forma di queste proposizioni: 'Marrone. Qui. Adesso.', oppure: 'Ho l'impressione visiva di un tavolo', oppure: 'C'è una sensazione di caldo'. Fu Neurath, con la teoria del fisicalismo, a sostenere che le asserzioni osservative non riportano dati sensoriali, ma descrivono oggetti fisici, come un caminetto acceso o un dado rosso (p. 145). Neurath, che chiama queste asserzioni 'enunciati protocollari', rileva che la scienza può basarsi solo su questo tipo di enunciati, dal momento che essi possono fornire un fondamento alla generalizzazione teorica ed al linguaggio scientifico, possedendo l'essenziale caratteristica della intersoggettività, ossia della controllabilità. Secondo Neurath, infatti, un enunciato P ha significato scientifico per un individuo A solo se A è in grado di controllare P. Gli enunciati protocollari dello psicologismo, invece, che si basano esclusivamente sull'esperienza percettiva immediata di un soggetto, non sono controllabili (pp. 148-50). Aggiungendo un ulteriore elemento, Neurath sostiene che un enunciato protocollare, che possa fondare assieme ad altri una generalizzazione teorica, deva essere del tipo: 'A osserva in un determinato spazio e tempo che B', ossia deve contenere il nome dell'osservatore. Il motivo è che in questo modo la possibilità del controllo è in qualche modo resa più esplicita: altro è dire che 'A è B', altro è dire che 'X dice che A è B'. In effetti nessun asserto protocollare si può sottrarre alla possibilità del controllo, né lo può fare un sistema teorico sorto sulla base di una serie di asserti protocollari: "la sorte di essere eliminata può toccare anche ad una asserzione protocollare. Per nessuna proposizione esiste un noli me tangere, come invece stabilisce Carnap per le proposizioni protocollari" (Neurath, p. 150). Ciò significa che la scienza può essere sempre soggetta a revisioni, senza che possano essere fissate delle asserzioni che godano di eterna indubitabilità: "non c'è alcun modo per formulare delle proposizioni protocollari pure e definitivamente assunte per vere, come base di partenza della scienza. Non è possibile alcuna tabula rasa. Siamo come marinai che devono riparare la loro nave in mare aperto senza poterla smantellare in un bacino per ricostruirla con materiali migliori" (Neurath, p. 151; questa posizione viene ripresentata da Gillies a p. 168 come "principio di Neurath"). Popper condivide quest'idea: a suo modo di vedere "la base empirica della scienza oggettiva non ha in sé nulla di 'assoluto'. La scienza non poggia su un solido strato di roccia. L'ardita struttura delle sue teorie si eleva, per così dire, sopra una palude. È come un edificio costruito su palafitte. Le palafitte vengono conficcate dall'alto, giù nella palude: ma non in una base naturale o 'data', e il fatto che desistiamo dai nostri tentativi di conficcare più a fondo le palafitte non significa che abbiamo trovato un terreno solido. Semplicemente, ci fermiamo quando siamo soddisfatti e riteniamo che almeno per il momento i sostegni siano abbastanza stabili per sorreggere la struttura" (Popper, p. 160).
Popper concorda anche sulla correggibilità dei protocolli. Ma i protocolli possono essere corretti, secondo Popper, solo a partire da altri protocolli e non dall'esperienza percettiva (p. 153). Gillies si discosta da questa posizione che, in realtà, appare fondata sulla convinzione popperiana della teoricità dell'osservazione, per cui ogni osservazione è accompagnata da un carico concettuale e teorico che deve essere esplicitato in un enunciato. Secondo Popper, infatti, "l'asserzione 'questo è un bicchiere d'acqua' non può essere verificata da nessun'esperienza basata sull'osservazione" (Popper, p. 170). La ragione è che ogni descrizione deve basarsi su termini universali, e tali universali "non possono essere messi in relazione con nessuna esperienza sensibile specifica" (Popper, ivi). In altre parole, l'osservazione deve essere descritta, e la descrizione, anche la più terminologicamente semplice, deve attingere i suoi termini universali da una teoria, per quanto condivisa e apparentemente 'naturale'. Molti esperimenti di psicologia dimostrano che le nostre percezioni sono in realtà interpretazioni immediate e persino inconsce. Il cubo di Necker (p. 171), l'immagine anatra-coniglio (p. 172), la stanza di Ames (p. 174) sono esempi del fatto che "l'abituale osservazione quotidiana è carica di teoria. Noi interpretiamo continuamente le nostre esperienze sensoriali in base a teorie del senso comune. Alcune di queste teorie possono essere innate, ma altre sono sicuramente apprese con l'esperienza" (Gillies, p. 175). Se questo vale per l'osservazione quotidiana, a fortiori vale per quella scientifica, che è appunto, come sottolinea Duhem, non neutra ma carica di teoria: "un esperimento in fisica non consiste soltanto nell'osservazione di un fenomeno, ma anche nella sua interpretazione teorica" (Duhem, p. 161). Infatti, anche il semplice utilizzo di determinati strumenti di osservazione e misurazione porta con sé implicitamente l'accettazione di determinate teorie (pp. 161-2).
La questione della demarcazione e della relazione tra scienza e metafisica. - Il problema della demarcazione tra scienza e metafisica è centrale nell'epistemologia del '900. Nel suo Tractatus (1921) Wittgenstein sostiene che la metafisica non è falsa, ma insensata. Esistono delle proposizioni elementari (atomiche) costituite da nomi che significano oggetti. Le proposizioni complesse sono costituite da più proposizioni elementari, come ad esempio la proposizione 'la mela sul tavolo è verde e fuori c'è il sole'. Il valore di verità delle proposizioni complesse deriva da quello delle proposizioni semplici, che è desumibile dall'osservazione empirica. Le proposizioni controllabili empiricamente mediante osservazione possono essere vere o false, mentre quelle non suscettibili di controllo non saranno né vere né false, ma insensate (pp. 200-8). Tali sono, ad esempio, secondo l'analisi che nel 1932 ne fece Carnap, le proposizioni che compongono il Che cos'è la metafisica di Heidegger: "l'angoscia rivela il nulla", "il nulla stesso come tale è presente", "il nulla nientifica" sono proposizioni né vere né false, ma insensate, dal momento che nessuna osservazione empirica potrà verificarle. Esse sono espressioni poetiche, musicali, che alludono a stati d'animo, ma che non possono favorire la ricerca scientifica: "i metafisici sono musicisti senza capacità musicale" (Carnap, p. 210). Assumendo le posizioni di Wittgenstein, il Circolo di Vienna pose il criterio di verificabilità come criterio di demarcazione tra proposizioni sensate ed insensate, quindi non solo come criterio di demarcazione tra scienza e non scienza, ma anche tra significanza e insignificanza. In realtà la posizione di Wittgenstein è più complessa, così come complessa era la sua personalità (descritta a più riprese in queste pagine): infatti, al di là di ciò che è dicibile (scientificamente), Wittgenstein allude a ciò che non può essere dimostrato ma che si mostra, a ciò che non può essere detto ma solo pensato, ossia "il mistico" (pp. 210-1); inoltre, nelle Ricerche filosofiche, egli modificò profondamente la sua teoria del linguaggio, fino a far coincidere il significato di un nome non nell'oggetto che esso indica, ma nell'uso secondo determinate regole che ne fa una comunità linguistica (p. 219).
Contrariamente al Circolo di Vienna, Popper propone il principio di falsificabilità al posto di quello di verificabilità. "La mia critica al principio di verificabilità è sempre stata questa: contro le intenzioni dei suoi fautori, esso non esclude gli asserti metafisici ovvi, e esclude invece i più importanti e interessanti asserti scientifici, vale a dire le teorie scientifiche, le leggi universali della natura" (Popper, p. 215). Infatti, il principio di verificabilità definisce scientifico (anzi, addirittura dotato di significato) solo ciò che è empiricamente verificabile. Ma le proposizioni esistenziali della metafisica, come 'esiste in noi un'anima immortale', oppure 'esiste una proposizione magica tale da far apparire il diavolo', sono in linea di principio verificabili: infatti, anche se centinaia di esperienze infruttuose possono indurmi a pensare il contrario, è sempre teoricamente possibile che Belzebù appaia o che vi sia esperienza inconfutabile di vita dopo la morte fisica. In questi casi, non escludibili dal punto di vista strettamente logico, tali proposizioni sarebbero verificate, e la metafisica diventerebbe scientifica. Al contrario, le leggi fisiche sono espresse nella forma universale del tipo 'tutti i corvi sono neri', e queste proposizioni possono essere falsificate da un solo esempio contrario (un corvo bianco), mentre, a rigore, non sono verificate neppure per migliaia di esempi corroboranti (nel senso che diecimila corvi neri non verificano che 'tutti i corvi sono neri'). Di conseguenza, il principio di verificabilità esclude le proposizioni scientifiche dal novero delle proposizioni significanti, mentre accetta le proposizioni esistenziali della metafisica (pp. 214-19). Proponendo il principio di falsificabilità, Popper da un lato lo indica come principio di demarcazione non tra proposizioni dotate di senso e proposizioni insensate, ma tra proposizioni scientifiche e non scientifiche (suggerendo quindi, come più tardi tematizzerà esplicitamente, che ciò che non è scientifico può comunque essere sensato), e dall'altro lato, richiama una peculiare asimmetria logica tra possibilità di falsificazione e di verificazione delle proposizioni universali della scienza: "la mia proposta si basa su una asimmetria tra verificabilità e falsificabilità, asimmetria che risulta dalla forma logica delle asserzioni universali. Queste, infatti, non possono mai venir derivate da asserzioni singolari, ma possono venir falsificate da asserzioni singolari" (Popper, pp. 215-6). Infatti, come espresso sopra, le proposizioni universali ('tutti i corvi sono neri') non sono verificate da un numero elevatissimo di casi particolari pro, ma possono essere falsificate da un solo caso particolare contro; all'opposto, le proposizioni esistenziali ('esistono cigni neri') non possono essere falsificate da una numerosa serie di esperienze osservative contro, ma sono verificate da un solo caso pro.
Si è già fatto cenno al fatto che, secondo Popper, la metafisica, contrariamente a quanto sostenuto dal Wiener Kreis, sia dotata di senso. Non solo: essa può anche svolgere una funzione euristica anticipando gli esiti della ricerca propriamente scientifica e indirizzando in questo modo la scienza stessa, come è accaduto con l'atomismo greco. Popper ritiene quindi che le teorie possano nascere come metafisiche e tradursi successivamente in teorie scientifiche: "l'atomismo greco è un eccellente esempio di teoria metafisica non controllabile la cui influenza sulla scienza è stata superiore a quella di molte altre teorie scientifiche controllabili.[...] Ognuna di queste teorie [metafisiche] servì, prima di diventare controllabile, come un programma di ricerca per la scienza. Indicò la direzione della ricerca, e il tipo di spiegazione che poteva soddisfarci; e rese possibile una sorta di valutazione della profondità di una teoria" (Popper, p. 229). Duhem invece ritiene che la metafisica sia sensata, ma che la ricerca fisica deva mantenersi del tutto indipendente da essa. Quine, diversamente da entrambi, sostiene che teorie metafisiche e teorie scientifiche, in quanto espressioni di quell'edificio teorico che tocca l'esperienza solo lungo i margini, siano assolutamente sullo stesso piano (pp. 231-3). Questa tesi di Quine sembra però confutata dal fatto che ci può essere una comunità scientifica (per esempio di fisici) che condivide molti asserti scientifici, ma che è al suo interno divisa circa le visioni ultime del mondo (marxismo, cristianesimo, buddhismo, etc). Gillies, in chiusura, nota che, come ha sottolineato Popper, alcune idee metafisiche possono svolgere un positivo ruolo euristico in relazione al cammino della scienza, ma storicamente vi sono state sia teorie metafisiche che hanno favorito la nascita di alcune teorie scientifiche penalizzando il sorgere di altre (è il caso della filosofia di Descartes e delle teorie dell'idrodinamica di Thomson, del magnetismo di Maxwell e della gravitazione di Newton), sia di metafisiche che sono risultate oggettivi impedimenti al proliferare della scienza. "La conclusione che ci sembra inevitabile è che le idee metafisiche sono non solo sensate, ma anche necessarie alla scienza: esse forniscono una struttura indispensabile entro la quale possono essere costruite e messe a confronto con l'esperienza le specifiche teorie scientifiche. La metafisica allora funge da guida, o da euristica, per la scienza. Ma si tratta di una guida che, seppur necessaria per cominciare a muoversi in qualche direzione, può facilmente condurci nella direzione giusta così come in quella sbagliata. Uno stesso sistema metafisico (sia il pitagorismo, il materialismo meccanico, il cartesianesimo o qualunque altro) può favorire il progresso scientifico in un dato contesto o in una data situazione problematica, e poi magari ostacolare la scienza in un altro ambito. Tutto ciò mostra che non esiste alcuna formula magica per fare della buona scienza. Nella ricerca scientifica è spesso necessario esplorare i sentieri sbagliati per trovare quelli giusti" (Gillies, p. 241).
La proposta di Gillies: confermabilità piuttosto che falsificazionismo. - Secondo Popper le teorie scientifiche devono essere falsificabili ed il falsificazionismo è il criterio di demarcazione tra scienza e non scienza. Al falsificazionismo possono però essere avanzate almeno tre obiezioni. La prima riguarda le proposizioni esistenziali, ad esempio 'esiste un corvo bianco'. Questa proposizione è verificabile (posso effettivamente incontrare un corvo bianco), ma non falsificabile (se non lo incontro posso sempre ritenere di essere stato sfortunato). Popper, considerando questa obiezione, ha buon gioco nell'asserire che le proposizioni esistenziali possono diventare falsificabili se si opera una restrizione di campo. Per esempio, le proposizioni 'in questa limitata regione dell'Australia esiste un mammifero che depone uova' oppure 'esiste un elemento con numero atomico 72' sono scientifiche perché controllabili e falsificabili (p. 249). Una seconda obiezione riguarda le proposizioni probabilistiche, importantissime nella pratica scientifica eppure apparentemente infalsificabili ("in linea di principio impervie alla falsificazione stretta" dice Popper, cit. a p. 250). Di fatto, però, tali asserti sono usati dagli scienziati come falsificabili, sulla base di calcoli di probabilità matematica e di statistica. Pur non essendo falsificabili in senso stretto, quindi, possono essere usati come tali, senza per questo viziare il progresso della conoscenza (questa conclusione non è però condivisa da alcuni scienziati statistici, in particolare quelli di scuola bayesiana, p. 252).
Ma il vero scoglio del falsificazionismo, secondo Gillies, è la tesi Duhem-Quine. Secondo Popper, il verificazionismo non esclude gli asserti metafisici ed esclude invece i più significativi asserti scientifici. Queste note critiche, a detta dell'autore del libro, si rivolgono però contro il falsificazionismo stesso. Il tacking paradox, ossia il paradosso dell'aggiunzione, argomenta che, posta la teoria falsificabile T (per esempio la legge di Keplero), e posta la teoria metafisica M ('l'assoluto è addormentato'), io posso sempre unire M a T, ottenendo così la teoria falsificabile T'=T+M. "In altre parole, una volta che disponiamo di una teoria falsificabile, possiamo sempre 'aggiungere' un asserto metafisico arbitrario ed avere ancora una teoria falsificabile" (pp. 253-4). La soluzione di questo problema sarebbe una specie di regola della semplicità, che ci imporrebbe di espungere dalla teoria tutti gli asserti metafisici, ossia inutili ai fini della spiegazione dei fatti empirici, anche se non è facile stabilire che cosa sia metafisico e che cosa non lo sia: i concetti di spazio e tempo assoluti sono scientifici per Newton mentre sono metafisici per Mach (p. 254). Ma il falsificazionismo è attaccabile, secondo Gillies, anche perché esclude dal campo della scienza anche teorie scientifiche di alto livello, come per esempio la prima legge di Newton: i corpi persistono nel loro stato di quiete o di moto rettilineo uniforme se non sono perturbati da una forza. Infatti, dato un corpo che non sembra attenersi a questa legge, è sempre possibile ipotizzare la presenza di una forza nascosta, come infatti fece Newton per dimostrare l'esistenza della forza di attrazione gravitazionale. Essendo la falsificazione di questa legge impossibile, essa non sarebbe scientifica, secondo i canoni di Popper, il che è manifestamente assurdo secondo Gillies (si potrebbe forse obiettare a Gillies che ogni teoria può essere difesa ad oltranza con argomenti molto specifici, al limite dell'ad hoc, il che non toglie la scientificità della teoria stessa, sempre che questi argomenti siano formulati in modo tale da essere falsificabili). Secondo Gillies, il problema in questione è quello sollevato dalla tesi Duhem-Quine: esso sta nel fatto che la legge di Newton (come ogni altra legge scientifica di alto livello) non sia direttamente falsificabile. Lo diventa, eventualmente, solo se da essa si diparte una serie di previsioni tali da poter essere controllate, il che però richiede una serie di ipotesi ausiliari. Ma se tali previsioni vengono sconfessate dalle osservazioni, noi non siamo in grado di stabilire dove sia l'errore, se nella teoria di alto livello o nel gruppo di teorie ausiliari necessarie per la deduzione predittiva. Insomma: per controllare T ho bisogno di una serie di ipotesi ausiliarie a', a'', a''' etc, con il concorso delle quali posso dedurre il fatto osservabile O. Se poi ottengo sperimentalmente non-O, però, non sono in grado di stabilire se ad essere falsa è T o qualcuna delle ipotesi ausiliari. T sarebbe quindi infalsificabile, nel senso che non posso mai essere certo che sia proprio T ad essere falsa (p. 255). Popper stesso riconosce che "noi possiamo, in realtà, falsificare solo insiemi di teorie e [...] qualsiasi attribuzione della falsità di un particolare asserto nell'ambito di un tale sistema è sempre estremamente incerta" (cit. p. 256). Il falsificazionismo come criterio di demarcazione appare quindi insoddisfacente.
Per superare questo scoglio Gillies propone il criterio di confermabilità (o corroborabilità) al posto di quello di falsificabilità, e l'inserimento di un nuovo livello di proposizioni scientifiche, confermabili ma non falsificabili, tra il livello delle proposizioni popperiane (confermabili e falsificabili) e quello delle proposizioni metafisiche (non confermabili). Gillies stila una tabella (p. 259), nella quale inserisce un livello 0 (al quale appartengono gli asserti osservativi, il cui valore di verità è determinabile per mezzo dell'osservazione), un livello 1 (asserti scientifici falsificabili e confermabili, come la prima legge di Keplero), un livello 2 (asserti scientifici confermabili ma non falsificabili, come la prima legge di Newton), ed un livello 3 (asserti metafisici, non confermabili, come quelli dell'atomismo greco). Secondo Gillies, "l'idea è che una teoria è scientifica se e solo se è confermabile: se, cioé, è capace di acquisire un certo grado di sostegno empirico da qualche eventuale asserto osservativo. Se una teoria T è falsificabile, allora essa è anche certamente confermabile. [...] D'altro canto, ci sono teorie o leggi come la prima legge di Newton che sono confermabili senza essere falsificabili. Proponiamo pertanto che si debba introdurre un nuovo livello (livello 2) fra gli asserti falsificabili (livello 1) e gli asserti metafisici (livello 3) [...] Le teorie scientifiche di ciascun livello, una volta confermate ed accettate come conoscenza di sfondo, possono essere usate per interpretare l'esperienza sensoriale necessaria alla produzione di asserti osservativi" (pp. 257-8).
Per evitare che nel novero delle teorie corroborate dai controlli sopravvivano anche delle teorie metafisiche, Gillies propone il principio del surplus esplicativo, secondo il quale una teoria non sarebbe corroborata da tutti i fatti logicamente deducibili da essa (beninteso, osservati sperimentalmente), ma solo da un sottoinsieme di essi. Popper ha spesso rimarcato che "a determinare il grado di corroborazione di un'ipotesi non è tanto il numero dei casi corroboranti, quanto piuttosto la severità dei vari controlli ai quali l'ipotesi può essere, ed è stata, sottoposta" (Popper, p. 259). Il principio del surplus esplicativo integra questo principio di severità dei controlli, e sostiene che i fatti spiegati (ossia le classi di fenomeni spiegati dalla teoria) devono essere di numero maggiore rispetto alle assunzioni teoriche. Gli elementi teorici non possono quindi vegetare parassitariamente ma devono essere utili a produrre conoscenza, ossia spiegazioni di fatti. La teoria di Adler contrasta questo principio perché assume molto per spiegare poco, mentre la teoria di Newton, pur operando un notevole numero di assunzioni ed introducendo concetti nuovi come quelli di forza e di massa, è in grado di spiegare non solo la caduta dei gravi secondo gli studi di Galileo e le leggi di Keplero, ma anche il movimento delle maree, il moto degli astri, le leggi dell'urto, le irregolarità dei moti lunari, alcune perturbazioni planetarie, le traiettorie delle comete, etc. Per questo suo potere, produce un surplus esplicativo, e può essere quindi detta "fortemente sostenuta dai fatti" (pp. 263-4). Altri esempi di teorie che rispettano il principio di surplus esplicativo sono la legge della radiazione elettromagnetica di Planck (o teoria quantistica) e l'equazione di Einstein dell'effetto fotoelettrico (pp. 269 e sgg).
Gillies sostiene che il suo principio di confermabilità integra e non dissolve quello di falsificabilità. In effetti, relativamente agli asserti di livello 1, il metodo delle congetture e delle confutazioni è pienamente mantenuto, così come viene salvata anche la portata euristica delle teorie metafisiche di livello 3. La novità consiste quindi nel considerare scientifici anche asserti e teorie confermabili ma non falsificabili. L'obiettivo è però quello di convertire tali teorie di livello 2 a teorie di livello 1 per poterle confermare dopo severi controlli. Aggiungendo ulteriori assunzioni ad un'ipotesi di livello 2 se ne può derivare una legge di livello 1, controllabile sperimentalmente, oppure la si potrà convertire in un sistema teorico di livello 1 aggiungendo nuove assunzioni. Metodologicamente questi passaggi sono corretti, sempre che nella conversione dal livello 2 al livello 1 venga rispettato il principio del surplus esplicativo (pp. 267-8). Le teorie di Planck e di Einstein sopra menzionate sono entrambe teorie di livello 1 che si basano sulla teoria della natura quantistica della luce, di livello 2. Il fatto che tali teorie siano corroborate sperimentalmente conferma la teoria quantistica, ma, secondo Gillies, l'eventualità contraria non l'avrebbe falsificata, anche se essa è senza dubbio una teoria scientifica. Una teoria, inoltre, può essere corroborata anche da alcune sue applicazioni pratiche, soprattutto nel campo della medicina (p. 275). Bisogna però sottolineare che non sempre le applicazioni pratiche di una teoria sono controllabili con lo stesso grado di rigore di un esperimento. Un ulteriore merito che il falsificazionismo modificato di Gillies rivendica è quello di permettere di considerare l'attività degli scienziati come finalizzata alla scoperta di teorie che funzionino piuttosto che del perché siano erronee (come sarebbe per il falsificazionismo di Popper, p. 268).
In conclusione di questa sezione, vorrei esprimere un parere personale. Stanti le premesse di Gillies relativamente alle difficoltà del falsificazionismo popperiano, dal quale Gillies stesso non vuole uscire del tutto ma che vuole solo correggere, tant'è vero che presenta la sua posizione come 'falsificazionismo modificato', sembra che l'utilizzo del principio di semplicità basti a superare il problema dell'aggiunzione. Quindi si può dire che il falsificazionismo integrato dal principio di semplicità resista.
Il vero problema sarebbe invece quello della tesi Duhem-Quine, problema riconosciuto da Popper stesso. La soluzione proposta da Gillies è il riconoscimento di un livello 2 di proposizioni scientifiche, cui appartengono le teorie di alto livello, confermabili ma non falsificabili. Se le proposizioni possono essere confermate dall'esperienza ma non falsificate, allora la tesi Duhem-Quine non costituisce problema, dal momento che l'applicazione di questa tesi è limitata ai casi in cui avviene una falsificazione. Se non è possibile la falsificazione, non si applica la tesi Duhem-Quine e tutto fila liscio, nel senso che questo falsificazionismo modificato non è posto sotto lo scacco della tesi Duhem-Quine, che minacciava il falsificazionismo originale di Popper. Quindi, sostanzialmente il falsificazionismo modificato di Gillies supererebbe quello di Popper nel senso che il primo non cadrebbe sotto lo scacco della tesi Duhem-Quine.
Il fatto è, però, che se da una teoria di alto livello noi possiamo, utilizzando delle teorie ausiliari, dedurre il fatto O sperimentalmente osservabile (nella terminologia popperiana O è un "falsificatore potenziale"), per quanto ne sappiamo noi O si può effettivamente verificare nella realtà oppure no. Non è necessario che si presenti per il fatto che lo si deduce da una serie di asserti teorici. Ora, secondo Gillies, se il fatto previsto O si verifica, allora la teoria di alto livello T è confermata, se O non si verifica, la teoria stessa comunque non è falsificata.
A mio avviso non è lecito considerare una proposizione confermabile ma non falsificabile, perché una previsione non verificata non si limita a non confermare la teoria dalla quale è dedotta, ma di fatto la confuta. Se ipotizziamo che il fatto previsto O non si sia verificato, la teoria di alto livello può ragionevolmente essere detta non confermata, almeno fino ad ora e nei riguardi di O. Si può dire che, se O, T è confermata, ma se non-O, T è non-confermata. Non confermata significa però falsificata. Gillies ha ragione quando sostiene che la falsificazione non deve necessariamente affossare una teoria. Il principio della tenacia offre la possibilità di insistere, di avvalersi ancora della teoria falsificata, cercando un'altra soluzione all'interno delle sue possibilità logiche ed esplicative, e considerando quindi tale teoria non falsificata una volta per tutte, ma non ancora confermata. L'utilizzo del principio della tenacia è però una decisione metodologica, che non può prescindere completamente dai risultati empirici della ricerca.
Applicando quindi il principio della tenacia, ossia, considerando T, mediante una decisione metodologica, non-non-confermata, è sempre legittimo cercare un'altra strada per confermarla, tenendo però presente che ogni strada tentata (ossia ogni previsione azzardata) può confermare come può non-confermare T. E se non conferma, smentisce, ossia falsifica.
, Gillies può considerare l'esistenza di proposizioni confermabili ma non falsificabili, ma esse non esistono nell'ambito dell'esperienza, nel senso che 'proposizione confermabile' significa 'proposizione che può essere confermata', non che lo deve necessariamente essere. E se può, allora è anche possibile che possa non essere confermata. E non confermata è come dire falsificata, anche se poi, con una legittima decisione metodologica, si applica il principio della tenacia e si riprova. Del resto, una proposizione che non può essere falsificata, ponendosi al di là della critica razionale, che cosa spiega autenticamente? Che cosa la differenzia davvero da una proposizione non scientifica adleriana? La credenza secondo la quale se io oggi danzo entro domani pioverà appare maggiormente suscettibile di autentico controllo.
Le rivoluzioni nella scienza. - Il problema fondamentale dell'epistemologia è quello della crescita della conoscenza scientifica, che comporta un criterio di demarcazione fra scienza e non scienza, e la definizione delle condizioni secondo le quali un mutamento delle conoscenze può essere considerato un progresso. Secondo Popper non esiste un metodo scientifico per la scoperta di nuove idee, ma solo per il loro controllo: è il metodo delle congetture e delle confutazioni. Esso prende il nome di metodo critico, sulla base del quale è possibile prendere razionalmente posizione operando una scelta tra due teorie rivali. Le idee nuove possono nascere anche da preconcetti o idee fisse del ricercatore, senza per questo abdicare alla loro scientificità, che deriva unicamente dal controllo rigoroso del loro grado di corroborazione empirica (pp. 281-5). Secondo Kuhn, invece, i margini per una scelta razionale tra due paradigmi (dove per paradigma si intende un insieme di convinzioni, metodi, concetti, procedure e teorie che permette di dare una struttura unitaria a quelle costellazioni di risultati che sono sufficientemente nuovi ed aperti ad ulteriori sviluppi da risultare attraenti per gli scienziati) sono molto più ristretti (p. 288). Kuhn definisce scienza normale quella che lavora alla soluzione dei rompicapo, ossia di problemi ritenuti risolvibili e significativi all'interno di una data cornice teorica (il paradigma, appunto). Ogni paradigma contiene però le sue anomalie, ossia problemi che la struttura concettuale di quella data scienza normale non riesce a risolvere, e per questo lascia sullo sfondo. Quando tali anomalie diventano centrali, e nasce un nuovo paradigma che le comprende e le spiega, si ha la fase rivoluzionaria della scienza. Una rivoluzione scientifica è costituita dal passaggio di una significativa sezione della comunità scientifica all'adozione di un nuovo paradigma. Tra due paradigmi non è possibile però una scelta razionale secondo i canoni della metodologia popperiana: essi possono anche osservare gli stessi fenomeni, ma li interpretano in modo completamente dissimile. È il caso dell'immagine dell'anatra-coniglio di p. 172: laddove un paradigma vede le orecchie del coniglio, l'altro vede il becco dell'anatra, né si può sostenere che l'uno sbaglia mentre l'altro coglie la verità (pp. 288-96). Kuhn afferma: "la competizione tra paradigmi diversi non è una battaglia il cui esito possa essere deciso sulla base delle dimostrazioni".
La scienza matura, come del resto ammette anche Popper, non può esistere senza una certa dose di dogmatismo, o di tenacia, che ci permette di riconsiderare la formulazione di una teoria, anziché abbandonarla, dopo che questa ha subito lo scacco della falsificazione (pp. 298-9). Feyerabend fu tra coloro che si dimostrarono più insoddisfatti del criterio di demarcazione e di scelta tra paradigmi antagonisti fornito da Kuhn, ritenendo che la definizione di scienza normale data dallo studioso statunitense fosse adattabile persino alla criminalità organizzata, sensibile alla soluzione di particolari tipi di rompicapo. Secondo Feyerabend, è stato Lakatos ad operare una fruttuosa sintesi tra il metodo della discussione critica di Popper e quello della tenacia della scienza normale di Kuhn: infatti, secondo il ricercatore ungherese, proliferazione e tenacia sono sempre compresenti nella storia della scienza (p. 299).
Tenacia e proliferazione: la logica del cambiamento scientifico secondo Lakatos. - Nel 1970 Lakatos asserì che "la storia della scienza suggerisce che (1) i controlli sono lotte almeno a tre fra teorie rivali e l'esperimento [contrariamente a quanto sostiene il modello bipolare teoria-esperimento di Popper] e (2) alcuni dei più interessanti esperimenti si risolvono, prima facie, in una conferma piuttosto che in una falsificazione" (Lakatos, p. 308). T risulta falsificata solo se T' ha un contenuto empirico addizionale rispetto a T, ossia se predice fatti nuovi ed inaspettati, e se tali fatti sono osservati sperimentalmente. Secondo Lakatos, è importante notare che una teoria T può essere confutata solo da un'altra teoria T', e non da semplici risultanze sperimentali. Tali risultanze non sono affatto inutili, ma, per risultare confutatorie a pieno diritto, devono essere comprese in una nuova teoria esplicativa, che comprenda anche i fatti già spiegati con successo dalla vecchia teoria T. Infatti, "nessun risultato sperimentale può abbattere una teoria: questa può essere sempre salvata da esempi contrari o per mezzo di qualche ipotesi ausiliare o per mezzo di opportune reinterpretazioni dei suoi termini" (Lakatos, p. 309). Nella terminologia di Lakatos, una serie di teorie è teoricamente progressiva (o costituisce uno slittamento di problema teoricamente progressivo) se ogni nuova teoria possiede un'aggiunta di contenuto empirico rispetto alla precedente; tale serie è anche empiricamente progressiva se almeno parte di tale contenuto addizionale è corroborata (p. 310).
I programmi di ricerca sono regole euristiche, positive o negative, che ci indicano il percorso di ricerca da seguire o da evitare. Tali programmi di ricerca (ad esempio il meccanicismo di Descartes, l'universo come sfero di Parmenide o come cosmo matematicamente definito dei pitagorici, il concetto di campo di Faraday e Maxwell, la teoria dei quanti di Planck e quella del campo unificato di Einstein e Schroedinger) sono sistemi teorici altamente speculativi e, almeno inizialmente, non controllabili. In quanto tali sono, secondo la metodologia di Popper, non falsificabili e non scientifici. Secondo Lakatos, al nucleo, ossia all'idea portante di questi programmi di ricerca, non può essere applicato il modus tollens, che invece può essere applicato alla "cintura protettiva" delle ipotesi ausiliari: "dobbiamo [...] usare la nostra ingegnosità per esprimere o anche inventare opportune 'ipotesi ausiliari' che formino una cintura protettiva attorno a questo nucleo" (Lakatos, p. 316). Quindi, al nucleo si applica la teoria di Kuhn, alla cintura protettiva quella di Popper. Il nucleo non viene abbandonato finché il programma di ricerca si domostra progressivo, ossia fonché "il contenuto empirico della cintura protettiva [...] aumenta" (Lakatos, p. 316). L'inconfutabilità del nucleo deriva da una decisione metodologica: "questo 'nucleo' è 'inconfutabile' in virtù di una decisione metodologica dei suoi sostenitori: le anomalie devono condurre a cambiamenti solo nella cintura 'protettiva' delle ipotesi ausiliari, delle ipotesi 'osservative' e delle condizioni iniziali" (Lakatos, p. 317). La teoria di Lakatos permette quindi di coniugare proliferazione delle teorie (mutabilità delle ipotesi della cintura protettiva) e tenacia (il nucleo del programma di ricerca è considerato infalsificabile). Tale nucleo, però, "non nasce interamente armato come Minerva dalla testa di Giove. Si sviluppa invece lentamente, attraverso un lungo processo preliminare di tentativi ed errori" (Lakatos, p. 332). Anche la matematica, antica passione di Lakatos, condivide la struttura concettuale dei programmi di ricerca, in una dialettica di congetture, dimostrazioni e confutazioni. Se secondo Popper una teoria riceve piena corroborazione solo da fatti nuovi, ossia quando le sue audaci previsioni vengono confermate da fatti che non costituiscono lo sfondo teorico di conoscenza dalla quale si staglia la teoria in questione, secondo Lakatos una teoria può essere corroborata anche da fatti già noti alla comunità scientifica, purché essi non abbiano svolto alcun ruolo euristico nella formazione della teoria, ossia purché la teoria non sia stata costituita allo scopo preciso di spiegare proprio quei fatti.
Incommensurabilità, traduzione, tolleranza. - Un nuovo paradigma presenta, secondo Kuhn, un riorientamento gestaltico (gestaltic switch). Quando la scienza rivoluzionaria si impone su di un 'vecchio' paradigma, e quindi diviene la nuova scienza normale, si verifica una "perdita" (loss), nel senso che i concetti e i principi base del paradigma superato non vengono conservati. È possibile, piuttosto, che permangano alcuni termini, ma dotati di un significato nuovo, e questa situazione può ingenerare equivoci nei contemporanei. Secondo Feyerabend persino gli stessi fenomeni vengono osservati all'interno di una cornice concettuale differente, così come differente è anche il linguaggio che li descrive. Infatti, osservazione del fenomeno ed espressione di esso mediante una formulazione adeguata non sono due atti distinti, ma sono la stessa e medesima operazione: espressione verbale e fenomeno appaiono saldati insieme (p. 344). Ogni enunciato è legato ad una particolare interpretazione, e non esistono osservazioni neutrali: gli asserti osservativi sono carichi di teoria, sono cavalli di Troia da sorvegliare attentamente, perché portano all'interno delle mura dell'empirismo una notevole carica di teoria (p. 348). Contrariamente a Popper, Lakatos e Feyerabend difendono la validità (in certe circostanze) delle ipotesi ad hoc: esse permettono ad una teoria 'giovane' di venir troppo presto falsificata, prima di aver espresso interamente il suo potenziale esplicativo.
Tornando al tema del rapporto tra paradigmi incommensurabili (secondo Kuhn incommensurabili sono le teorie tra le quali non è possibile trovare una misura comune per la loro valutazione imparziale, p. 351), Feyerabend sostiene che "svolgendo la loro attività in mondi differenti, i due gruppi di scienziati vedono cose differenti quando guardano dallo stesso punto nella stessa direzione [...]; quello che nel mondo dello scienziato prima della rivoluzione erano anatre, appaiono dopo come conigli". Ciò non significa che gli scienziati vedano solo quello che vogliono, ma che "la comunicazione attraverso lo spartiacque rivoluzionario è inevitabilmente parziale" (Feyerabend, p. 351). Kuhn e Feyerabend concordano nel ritenere impossibile il passaggio da un paradigma all'altro sulla base di una discussione critica di stile popperiano: esso avviene solo mediante "conversione". Un nuovo paradigma porta con sé concetti nuovi, che presentano uno slittamento di significato tale da rendere questo paradigma 'giovane' irriducibile a quello 'vecchio'. Secondo Feyerabend, inoltre, un mutamento radicale di prospettiva è sempre più auspicabile di una serie di piccoli aggiustamenti, dal momento che rendono più probabile che ci si schiudano orizzonti di ricerca interessanti ed inediti.
Il nuovo paradigma comporta anche un lavoro di traduzione dei concetti già noti in un nuovo linguaggio concettuale, dotato di nuove regole e di nuovi schemi esplicativi. Un illustre esempio in tal senso è la 'traduzione' della cinematica di Galileo e Newton all'interno della relatività ristretta del 1905 di Einstein: le regole di Newton valgono qui come casi particolari, adatte a corpi che viaggiano a velocità molto piccole rispetto a quella della luce. È bene segnalare che le regole di questa traduzione non intervengono a giochi fatti, quasi per completare formalmente un lavoro già concluso dal punto di vista concettuale, anzi, secondo Giorello, "è invece legittimo pensare che, lungi dall'arrivare dopo, la 'traduzione' accompagni la formazione dei concetti pertinenti al nuovo quadro concettuale" (Giorello, p. 362). Quindi, "la spiegazione dei fatti fisici va di pari passo con la reinterpretazione di quadri concettuali elaborati in precedenza (o rivali). La 'traduzione' è qui un elemento dell'euristica" (Giorello, p. 266). Chiaramente tali traduzioni non esulano dall'ambito della fallibilità: la fruttuosità dei risultati della traduzione ai fini del raggiungimento degli obiettivi della ricerca è tutt'altro che scontato. "Qui nessun esito è predeterminato: una scoperta 'sospenderà' certi principi di una data 'cosmologia' (sarà dunque incommensurabile con essa) a seconda di quale strategia si segua nelle reinterpretazioni dei termini. Alcune interpretazioni renderanno radicalmente differenti le ontologie di fondo; altre consentiranno di rintracciare (nel quadro di una data cosmologia, quella interpretante) 'oggetti' appartenenti a una data 'cosmologia' (quella interpretata), consentendo così una traduzione degli asserti pertinenti a un dato punto di vista in asserti pertinenti a un punto di vista rivale" (Giorello, p. 367).
Traduzione dei concetti non è però sinonimo di incomunicabilità, almeno secondo Giorello: "la traduzione permette di indicare una possibilità di confronto là dove, a prima vista, sembra che ci sia spazio solo per lo scontro tra due programmi o schemi concettuali rivali" (p. 368). Infatti, come nota Putnam. "non potremmo nemmeno dire che quelle concezioni differiscono o come differiscono se non fossimo in grado di tradurle" (Putnam, p. 367). In conclusione, secondo Giorello la libertà di ricerca ed il progresso scientifico si nutrono di reinterpretazioni libere da stringenti "equazioni di significato": "se vogliamo ancora parlare di progresso (scientifico), dobbiamo riconoscere che esistono più modi di 'costruire il progresso'”.
Si potrebbe notare, a questo punto, che se ci deve essere dialogo e non solo scontro tra paradigmi incommensurabili, questo dialogo non può non svilupparsi su di un terreno comune di conoscenze condivise, in termini di dati, concetti, procedure, tecniche e strumentazioni di rilevamento e misurazione. Su questi elementi, se ci deve essere un dialogo, e non due monologhi, non ci può essere irriducibilità, né interpretazione che muti l' "ontologia di fondo" dell'altro programma di ricerca.
Nell'ultimo capitolo del libro, Giorello propone una sintesi tra il principio di Jefferson (il padre della dichiarazione d'indipendenza americana del 1776), che proclama la libertà di culto e di pensiero, ed il principio di Feyerabend, che rivendica tolleranza per tutti i principi scientifici e non scientifici. Dato per assodato il principio di proliferazione delle teorie (è auspicabile che il numero delle teorie rivali sia il più alto possibile), Feyerabend sostiene che "le società [libere] dovrebbero dare a tutte le tradizioni [scientifiche e non] uguali diritti e non solo opportunità" (Feyerabend, p. 378). Secondo Giorello la società libera è il "corrispettivo esterno" dell'autonomia interna (metodologica) della scienza (p. 380). Tale autonomia prevede anche la possibilità di riscoprire programmi di ricerca caduti ormai da tempo in disuso, rendendoli progressivi e competitivi. Infatti, Lakatos sostiene che un programma di ricerca può diventare regressivo e 'sonnecchiare' anche per molto tempo (vedi l'esempio dell'eliocentrismo), per poi recuperare terreno e diventare nuovamente progressivo. Feyerabend recepisce in pieno questa teoria ed aggiunge che è irragionevole porre qualsiasi limite di tempo alla 'notte polare' di una teoria. Giorello apporta l'esempio della teoria della relatività generale di Einstein, la quale, dopo aver superato la teoria newtoniana, si vide attaccata e per un certo momento superata negli anni '60 dalla teoria di Brans-Dicke, corroborata poi dagli studi di Dicke e Goldenberg in merito all'influenza della non perfetta circolarità del sole sulla costante G dell'attrazione gravitazionale di Newton. Questi studi spiegavano meglio della teoria di Einstein la precessione dell'orbita di Mercurio. La relatività generale era diventata quindi regressiva. Nuovi e più arditi esperimenti apportarono però risultati più netti e precisi in favore della relatività generale, che quindi ridiventò progressiva. Giorello conclude che un programma di ricerca non può mai essere considerato in coma irreversibile, dal momento che può essere recuperato e garantire nuovi successi predittivi (pp. 383-6; fig. 14.1). Libertà di ricerca, fallibilismo e tolleranza sono quindi i pilastri del progresso della conoscenza. Del resto il piano della politica e quello della ricerca intellettuale non possono restare astrattamente separati: da un lato Popper sostiene che i principi della Open society sono sorti nel contesto della Logik der Forschung, dall'altro, secondo Giorello, il fallibilismo è un atteggiamento prima istituzionale che epistemologico, che consiste nel rinunciare alla presunzione di infallibilità e nell'essere disposti a sottoporre al controllo critico le nostre più radicate convinzioni.
Hume
Filosofo inglese (Edimburgo 1711-1776). Attratto fin da giovanissimo dagli studi di filosofia e di erudizione storica, si recò in Francia dove rimase dal 1734 al 1737. Risale a questo periodo la composizione della sua prima e fondamentale opera, il Trattato sulla natura umana (1738). Rientrato in Inghilterra, pubblicò nel 1742 i Saggi morali e politici. Nel 1748 pubblicò le Ricerche sull'intelletto umano, nel 1751 le Ricerche sui principi della morale, e la Storia naturale della religione nel 1757. I dialoghi sulla religione naturale, composti vari anni prima, apparvero postumi nel 1779 a causa del loro dichiarato ateismo. Da ricordare, infine, la pubblicazione della Storia d'Inghilterra (1763).
La filosofia di Hume rappresenta l'estremo sviluppo dell'empirismo inglese. La conoscenza non è innata ma sorge dall'esperienza. Hume nega sia la sostanza materiale sia quella spirituale, tutto riducendo a sensazione e stato di coscienza. Queste percezioni si dividono, secondo Hume, in due classi, che si differenziano soltanto per la maggiore o minore vivacità con cui si presentano al soggetto: le impressioni e le idee, che sono la copia delle impressioni. Quanto ai rapporti che legano tra loro le sensazioni da noi provate, cioè gli stati di coscienza, Hume li riduce, seguendo la linea tradizionale dell'empirismo, alle leggi dell'"associazionismo", cioè ai rapporti di somiglianza, di continguità nel tempo e nello spazio e, infine al rapporto di causa. Il più importante risultato conseguito da Hume è la critica del concetto di causa. Che cosa può significare - si domanda Hume - l'affermazione che A è causa di B? Non certo che B sia dedotto e ricavato da A: perché in tal caso B dovrebbe essere già contenuto implicitamente in A e, quindi, identico ad esso, mentre sappiamo che l'effetto è sempre qualcosa di originale e di nuovo rispetto alla causa. Hume conclude che la legge di causa non è una vera e propria legge oggettiva ma è solo un abito della nostra mente, un "costume" suscitato dall'"abitudine". Nel corso dell'esperienza si forma in noi uno stato d'animo d'attesa il quale ci fa presumere che, osservando in futuro A saremo costretti a ritrovare sempre anche B. Questa attesa è perciò del tutto soggettiva e nulla garantisce che essa debba venire soddisfatta. Né la logica né l'esperienza, quindi, possono dimostrare il principio.di causa. Se una legge si è costantemente verificata nel passato, nulla ci assicura che la stessa legge sarà valida anche in futuro.
Conoscenze assolutamente certe o, per meglio dire, veramente universali e necessarie sono soltanto quelle della geometria, dell'algebra e dell'aritmetica: perché esse non riguardano realtà di fatto ma semplici operazioni mentali costruite con simboli convenzionali (i simboli matematici). Anche se non esistesse in natura neppure un circolo o un triangolo, le verità dimostrate da Euclide conserverebbero sempre la loro perfetta evidenza, perché esse non hanno niente a che fare con l'esistenza reale alla quale si riferiscono invece le impressioni sensibili. Esse sono verità di ragione e non verità di fatto. Costruite sul principio di identità e di non-contraddizione, esse non tollerano il contrario. Il contrario di un fatto è, invece, sempre possibile. Se io dico: il sole domani non sorgerà, questa proposizione è perfettamente intelligibile e altrettanto coerente quanto l'altra che afferma che il sole domani si leverà. Dimostrarne la falsità a priori è impossibile.
La tesi fondamentale di Hume, quindi, è che le leggi su cui si fondano le scienze, come la fisica, la chimica, ecc., sono soltanto "probabili". Il loro grado di verità è dato dal loro grado di probabilità, cioè dall'indice di frequenza statistica; perfettamente razionali sono solo quelle scienze che, come le matematiche, vertono esclusivamente sulle idee e sui rapporti formali senza coinvolgere in alcun modo il mondo dell'esperienza.
La vecchia metafisica ha scambiato per nessi oggettivi dei rapporti istituiti da noi sulla base dell'abitudine. Essa ha popolato il mondo di false entità o "essenze" per se stanti e indipendenti.
Ciò che ci salva dall'incertezza radicale, dalla paralisi del dubbio e dallo scetticismo indiscriminato è, secondo Hume, il sentimento naturale della "credenza", cioè quel sentimento che sorge in noi per la maggiore vivacità e immediatezza che hanno le impressioni dirette rispetto ai pensieri e alle idee. Ciò che ci salva, insomma, è la "certezza sensibile": una certezza che non possiamo generalizzare né tradurre in legge universale ma che, sul momento, è tuttavia imperiosa e forte come tutto ciò che si sia sperimentato di persona.
In conformità con questo atteggiamento antimetafisico, per Hume la vita morale non consiste in un agire conforme a ragione, giacché quest'ultima non è né morale né immorale, bensì nel dare libero corso a quel sentimento o istinto di simpatia e di socievolezza nel quale Hume ripone il senso più genuino dell'esperienza etica e sociale. La società nasce dal sentimento di simpatia che gli uomini provano naturalmente gli uni per gli altri. Il suo scopo è quello di armonizzare gli interessi individuali con quelli collettivi. Dal punto di vista della religione, data l'impossibilità di trascendere l'esperienza, Hume deduce che è impossibile dimostrare razionalmente l'esistenza di Dio. La religione non è, per Hume, un fatto di scienza, tutt'al più un fatto di natura.
Le rivelazioni di Karl Popper
Cento anni fa, il 28 luglio 1902, nasceva a Himmehof, nei pressi di Vienna, Karl Popper, morto novantaduenne nel quartiere londinese di Kenley e noto, in particolare, per i suoi testi di epistemologia, a partire da La logica della scoperta scientifica (1934, ma con data 1935), in cui elabora il concetto di falsificabilità, e per i suoi scritti di filosofia sociale, primo fra tutti La società aperta e i suoi nemici , di dieci anni dopo. Erede del criticismo kantiano e... della sua "umiltà di fronte alla vastità dei cieli", il filosofo di Vienna sottolineava il persistente realismo di Kant, che non negava l'esistenza della realtà, almeno come legittima supposizione della nostra mente ( noumeno appunto) pur sostenendo che la conoscenza certa poteva riguardare solo i "fenomeni", cio che della realtà "appare". Le conoscenze per Popper sono scientifiche se possono essere "messe alla prova", se sono "falsificabili", nella "ricerca senza fine" di quelle che possono reggere alla prova ed offrire utili elementi di interpretazione della realtà. Esse sono tali se è possibile dedurne conseguenze conseguenze sottoponibili a controllo fattuale e a confutazione, anche se bisogna riconoscere che una ipotesi metafisica oggi può diventare scientifica domani, come, ad esempio, è stato per la teoria atomistica, metafisica ai tempi di Democrito o di Epicuro, ma scientifica nel XX secolo, con Fermi o con Oppenheimer.
Ciò che vale per le conoscenze scientifiche in generale, vale anche per le scienze sociali, pure ammesse alla prova della falsificabilità. Una delle prime decise affermazioni contenute nell'introduzione de La società aperta è che "le metafisiche della storia impediscono l'applicazione dei metodi graduali della scienza ai problemi della riforma sociale", per cui "possiamo diventare gli artefici del nostro destino solo quando abbiamo cessato di posare a suoi profeti". Quest'opera scritta in Nuova Zelanda, dove era emigrato nel 1937, prevedendo l'ingloriosa resa dell'Austria a Hitler dell'anno seguente, è un'evidente protesta contro tutti i totalitarismi, non solo quello della "furia tribale dell'ideologia nazista" - come scrive Vaclav Havel nella nuova edizione, che dovrebbe uscire, con Armando, nel prossimo settembre - ma anche contro il totalitarismo di ispirazione marxista, di cui fu uno dei più acuti e tenaci critici.
Pur non negando una scientificità originaria del marxismo, che aveva sì componenti metafisiche, ma anche previsioni precise e capaci di confutazione, Popper osservò come, per la non accettazione di oggettive confutazioni, tale dottrina si ridusse a una "non-scienza", a un "sogno metafisico, congiunto con una realtà crudele", con l'indebita e dogmatica trasformazione di un fatto (l'eventuale influsso economico sugli eventi umani) in entità metafisica ). "E' stato Platone - scrive Antiseri in quella premessa - ad inquinare l'intera teoria politica dell'Occidente", ponendo la domanda "Chi deve comandare?", a cui il filosofo rispose i filosofi, e dietro a lui, altri rispose: i religiosi, i militari, i mgliori, i tecnici... questo o quel ceto, o classe o razza. E' sviante la domanda, mentre razionale è chiedersi: "Come possiamo organizzare le istituzioni politiche in modo da impedire che i governanti cattivi o incompetenti facciano troppo danno?". "E' questa - conclude Antiseri - la domanda sottesa alla società aperta. Non chi deve comandare, ma come controllare chi comanda". E' chiaro che riflessioni come queste possono offrire significativi contributi anche per i problemi educativi, ben prima del suo famoso, ultimo scritto, pubblicato in Italia da Reset nel 1994 Cattiva maestra televisione , dove lui, paladino appassionato della libertà, giunse a chiedere la censura, osservando che "il prezzo della libertà è l'eterna vigilanza" e che "una democrazia non può esistere se non si mette sotto controllo la televisione". Non è un caso che Popper sia stato per vari anni educatore, che di bambini e ragazzi si sia a lungo occupato, anche come insegnante, prima di lasciare l'Austria e di andare in Nuova Zelanda ad insegnare al Canterbury University College di Christchurch, collaborando inoltre con Alfred Adler e la sua Società di psicologia individuale.
Le stesse problematiche epistemologiche, sociologiche e linguistiche, del resto, hanno coinvolto direttamente le scienze dell'educazione, sia per l'assetto delle varie discipline e dei reciproci rapporti fra di esse, sia per le relazioni interpersonali e sociali fra allievi e docenti, fra ambiente scolastico e comunità sociale più vasta e mondo dei valori. Anche il tema della falsificabilità e della confutazione interessa la ricerca pedagogica, per la quale, infine, sono fondamentali i valori della continua e libera ricerca, del dubbio critico e costruttivo, della capacità di armonizzare la gioia di apprendere e scoprire con la serietà e severità degli studi.
Karl Popper e la ragione incerta
Iniziative per il centenario della nascita del grande filosofo austriaco
"Il futuro è decisamente aperto. Esso dipende da noi; da tutti noi. Dipende da quello che noi e molte altre persone facciamo e faremo; oggi e domani e dopodomani. E quello che facciamo e faremo dipende a sua volta dai nostri pensieri; e dai nostri desideri, dalle nostre speranze, dalle nostre paure. Dipende da come vediamo il mondo; e da come valutiamo le possibilità largamente disponibili del futuro. Questo comporta per noi tutti una grande responsabilità. E la responsabilità diventa ancora maggiore se saremo consapevoli (...) che sappiamo così poco che siamo giustificati a definire questo poco come "nulla". Perchè non è niente in confronto a tutto quello che dovremmo sapere per prendere le giuste decisioni". Sembrerebbe quasi un paradosso che alla fine di un secolo in cui le "magnifiche sorti e progressive" della conoscenza hanno subito un inarrestabile avanzamento, nel corso del quale l'uomo ha sfidato come non mai l'ignoto, viaggiando nello spazio e penetrando nella materia, Karl Popper, in uno dei suoi ultimi scritti, ci inviti a ripartire da Socrate, dalla consapevolezza della nostra fallibilità e della nostra ignoranza. E ancor più paradossale potrebbe sembrare che un secolo il cui debutto era stato segnato da grandi sistemi filosofici razionalistici e ottimistici come marxismo, idealismo e neopositivismo, si sia congedato tributando un clamoroso successo ad un filosofo fallibilista e antifondazionalista, ormai letto e tradotto in tutto il mondo, con un successo impensabile solo vent'anni fa.
In realtà, questa contraddizione può apparire tale solo agli occhi di questi distratti critici popperiani che non di rado hanno scambiato per scetticismo il suo razionalismo critico e per nihilismo il suo rifiuto di ogni sorta di "fundamentum inconcussum" per la conoscenza umana. La ragione del successo di Popper si spiega, invece, proprio con il fatto che il '900 è stato un secolo largamente dominato da pretese razionalistiche che, nella scienza e soprattutto nella politica, hanno proposto una ragione certa se non infallibile, non di rado affetta da "hybris costruttivistica".
E nel secolo del marxismo, dell'idealismo e del neopositivismo, nel secolo soprattutto dello stalinismo e del nazifascismo, Karl Popper è stato un intellettuale "engagè", impegnato a fare i conti con il proprio tempo, combattendone le degenerazioni. E lo ha fatto utilizzando devastanti argomentazioni logiche e metodologiche contro quell'abuso della ragione di coloro che avevano avuto la pretesa di individuare un punto di appoggio archimedeo su cui fondare una conoscenza incontrovertibile.
La filosofia di Popper è dunque una critica della ragione incerta, che ci ha fatto capire che lo scientismo è nemico della scienza; che la certezza è incompatibile con la conoscenza; che l'idea di perfezione è la negazione dell'idea di democrazia; che le presunte conoscenze infallibili uccidono le libertà individuali; che la scienza non si può sostituire alle scelte di coscienza; che il tentativo di scoprire presunte leggi ineluttabili di sviluppo della società non è un contributo per alleviare l'angoscia del futuro ma una mortale minaccia per i liberi individui; che il nostro sapere non lenisce la nostra inestirpabile ignoranza, la quale è invece destinata a propagarsi proprio con l'avanzare delle conoscenze, poichè la soluzione di problemi solleva nuovi problemi insoluti, talchè quanto più impariamo dal mondo tanto più dobbiamo essere consapevoli della nostra ignoranza. In questo periglioso navigare tra i flutti di una conoscenza incerta, e quindi di vicende umane che gli individui non potranno mai interamente dominare, i suoi invalicabili limiti diventano per l'uomo la sua risorsa.
Se nessuno ha accesso a fonti privilegiate di verità, se ogni individuo è antropologicamente gettato in una condizione di fallibilità, allora quella del confronto critico tra interlocutori liberi, desiderosi di imparare l'uno dall'altro, è l'unica via per far avanzare quelle che John Stuart Mill definiva le nostre "mezze verità", nella scienza come nella vita quotidiana, ed anche in politica. L'uomo progredisce nella sue conoscenze proprio perché non fonda le sue teorie; costruisce e conferisce significati a una caledoscopica infinità priva di senso ed esplora l'ignoto imparando dai propri e dagli altrui errori, in un processo senza fine di soluzione di problemi.
Se è vero come ha scritto Konrad Lorenz, che "vivere è imparare" e se è vero, come ha scritto Popper, che "tutta la vita è risolvere problemi", allora si può sostenere che un atteggiamento critico che aiuti a risolvere problemi andando a caccia degli errori insegna in qualche modo a vivere. Come consigliava il vecchio Seneca al suo amico Lucilio: se vuoi bene a un amico fagli una critica. L'uomo autenticamente razionale, scrive Popper, si lascia guidare dal dialogo nella convinzione "che quel che conta non è tanto chi abbia ragione, quanto piuttosto che si giunga il più vicino possibile alla verità".
Criticando razionalismi fondazionalistici di qualsiasi tipo, Popper vuole ridare libertà e responsabilità al singolo, e demolendo, con la critica al neopositivismo, al marxismo e alle filosofie della storia, assoluti terrestri, questo filosofo di ispirazione kantiana finisce per salvare lo spazio della speranza, dimensione imprescindibile dell'umana condizione, perché "agire o vivere senza speranza è qualcosa che va al di là delle nostre forze".
Kuhn
Thomas Samuel Kuhn (1922-1996) storico e filosofo della scienza, è nato a Cincinnati (Ohio). Studiò fisica, conseguendo il dottorato all'Università di Harvard; si interessò poi alla storia della scienza pubblicando un'importante monografia sulla nascita dell'astronomia (La rivoluzione copernicana, 1957). Nel 1962 pubblica La struttura delle rivoluzioni scientifiche, opera che, in pochi anni, lo renderà famoso in tutto il mondo filosofico e scientifico. La sua carriera universitaria lo ha visto docente di storia della scienza e in seguito di filosofia della scienza a Harvard, Berkeley (dove conosce Feyerabend, con il quale inizia uno proficuo scambio di opinioni che durerà per tutta la vita), Princeton e presso il MIT.
In seguito ai suoi studi storici, Kuhn ha elaborato una concezione epistemologica che si trova in netto contrasto con molti principi del neopositivismo e del falsificazionismo di Popper. In particolare, riguardo a quest'ultimo, che da tanto peso alle falsificazioni e alle nuove congetture che sostituiscono le vecchie, abbandonate in seguito alle confutazioni sperimentali, Kuhn ha sottolineato come i momenti rivoluzionari rappresentino solo una minima parte della storia della scienza.
Le rivoluzioni scientifiche che segnano i diversi momenti della storia della scienza, non vanno considerate come confutazioni di singole ipotesi, fino a quel momento accettate, ma come mutamenti complessivi degli orientamenti teorici, delle assunzioni metafisiche e delle procedure sperimentali che caratterizzano una data comunità scientifica. L'insieme di tali orientamenti è chiamato paradigma: le rivoluzioni scientifiche sono il passaggio da un paradigma all'altro. La prevalenza di un dato paradigma segna una fase di scienza normale, in cui gli scienziati sono impegnati alla soluzione dei problemi che possono essere formulati e risolti con i concetti e gli strumenti propri del paradigma. Contrariamente a quanto afferma Popper, Gli scienziati non operano mai per mettere in crisi le teorie in cui credono, bensì nella convinzione che all'interno di esse si possa trovare la soluzione a tutti i problemi che emergono. La ricerca svolta all'interno di un paradigma può imbattersi in anomalie, ovvero con problemi che non appaiono risolvibili all'interno del paradigma e che, anzi, si presentano come una violazione delle aspettative alimentate dal paradigma.
Il riconoscimento di un'anomalia non è tuttavia sufficiente, di per sé, a provocare una rivoluzione scientifica. Esso da luogo a una situazione di crisi, nella quale la comunità cerca di negare o di ridimensionare l'anomalia stessa, sforzandosi di introdurre degli aggiustamenti nel paradigma in modo da renderne ragione. L'accumularsi di anomalie che non riescono a trovare soluzione all'interno del paradigma dominante, apre un periodo di crisi (scienza straordinaria o rivoluzionaria), caratterizzato dall'elaborazione di nuovi concetti e dalla ricerca di nuove ipotesi sperimentali, che sfocia infine in una rivoluzione scientifica, contraddistinta dall'adozione di un nuovo paradigma che si sostituisce al precendente. In ogni caso, un paradigma non viene mai abbandonato, per quanto inadeguato esso possa rivelarsi, per quanto compromesso da anomalie, finché non emerge un nuovo paradigma che possa sostituirsi ad esso. La decisione di abbandonare un paradigma è sempre al tempo stesso la decisione di accettarne un altro. (1) L'adozione di un nuovo paradigma istituisce, di fatto, una nuova comunità scientifica, che non è in grado di comunicare adeguatamente con la vecchia poiché i propri costrutti teorici sono incommensurabili con i precedenti, poiché usa un linguaggio diverso e i suoi concetti, anche se talvolta si servono degli stessi termini, attribuiscono a questi un significato differente, non riconducibile al precedente (incommensurabile).
Il passaggio di un paradigma all'altro è quindi un mutamento che non consente la compresenza di due paradigmi, poiché essi si negano l'un l'altro. Questo mutamento di prospettiva è paragonabile, secondo Kuhn, al processo di riorientamento della Gestalt visiva (vedi psicologia della Gestalt). Certe immagini possono essere viste in modo duplice e una caratteristica di questi passaggi è l'incommensurabilità delle due immagini alternative, nel senso che, quando si vede una, non si vede l'altra e viceversa: non esiste una fase intermedia in cui le due visioni sono compresenti.
NEOPITAGORISMO E RELATIVITÀ
ROCCO VITTORIO MACRÌ
«Da quando i matematici hanno invaso la teoria
della relatività, io stesso non la capisco più»
Albert Einstein
Ci troviamo in un’epoca che – per la prima volta nell’intero arco del pensiero scientifico-filosofico – vede la fisica padroneggiare, porre confini e dettare legge all’interno della sfera filosofica. Siamo a quasi un secolo di distanza dalla seconda rivoluzione scientifica, la quale ha scosso i pilastri della stessa gnoseologia: i concetti di spazio, tempo, simultaneità, cosmo, esistenza… vengono fatalmente rielaborati e trasformati, tallonando la cosiddetta crisi dei fondamenti della matematica. Gli stessi principi primi aristotelici subiscono “scacco matto”: «Mediante la meccanica quantistica viene stabilita definitivamente la non validità del principio di causalità» sentenzia Heisenberg1.
Nasce la logica quantistica. È la fisica che, per la prima volta, “ridisegna” la filosofia… Sulle macerie del pensiero classico aleggia la figura, diventata oramai leggenda, che incarna e personifica la rottura col passato, l’autorità che ha cambiato per sempre la nostra immagine del mondo, la scintilla divina con la quale il Fato innescò “la rivoluzione”, come egli stesso ebbe a dire: «Per punirmi del mio disprezzo nei confronti dell’autorità, il Fato fece un’autorità di me stesso»2.
Albert Einstein fu l’artefice della metamorfosi moderna, che avendo posto «la matematica al centro dell’esperienza», come documenta Gaston Bachelard, e introducendo una visione elastica dello spazio e del tempo, sarebbe diventato pietra angolare del più grande cataclisma intellettuale della storia del pensiero scientifico. Nel suo continuo “detonare e detronizzare”, la rivoluzione einsteiniana avrebbe attivato una serie di «choc epistemologici» nel cuore stesso della comunità scientifica, che – scrive Bachelard nel 1934 – obbligano lo scienziato a rimettere tutto in discussione: «Il fisico è stato costretto tre o quattro volte da vent’anni a questa parte a ricostruire la propria ragione, e, intellettualmente parlando, a rifarsi una vita»3, fino al punto di mettere all’indice le stesse categorie di pensiero che avevano resistito e brillato per più di due millenni. L’unica possibilità di accesso alle nuove conquiste relativistico-quantistiche – ammette Abraham Pais – è «quella data da Einstein, è che la stessa logica classica deve essere modificata»4.
Si tratta ora di analizzare l’influenza, il rapporto e perfino il legame parentale che la “gaussiana” concezione del pensiero matematico che spazia da Gauss a Cantor fino a Hilbert ha avuto nei riguardi della sconvolgente ideazione, progettazione ed elaborazione della fisica e metafisica contemporanee, e se Einstein può essere visto (suo malgrado) come l’anello di collegamento tra la cosiddetta Scuola di Göttingen e la Scuola di Copenhagen, tanto più che è ormai ben assodato che la seconda ha completato il lavoro di “svuotamento categoriale” iniziato dalla prima5. Allora il fisico moderno potrebbe essere considerato un «pitagorico» non solo perché – come abbozza quel «genio rivoluzionario tra i fisici»6 – «considera il criterio della semplicità logica come strumento indispensabile ed efficace per la sua ricerca»7, ma soprattutto perché «sostiene che il principio veramente creativo, nella fisica teorica, è quello della costruzione matematica»8. Anzi, si dovrà ammettere altresì, che si è andati oltre Pitagora – parliamo appunto di “neopitagorismo” – dal momento che «Einstein accetta il punto di partenza dell’assiomatica, secondo cui il contenuto logico-formale della matematica è nettamente separato dal suo contenuto effettivo o intuitivo»9.
1. Il “ritorno” a Pitagora - Fa parte ormai della mentalità scientifica comune che, «le grandi teorie raramente sono semplici»10 e per comprenderle «c’è bisogno di un livello davvero elevato nella conoscenza della matematica»11. «La scienza moderna si fonda quasi per intero sulla matematica»12. Raffinati modelli matematici hanno oggi assunto la guida non solo durante la creazione dei modelli fisici, ma addirittura durante il relativo processo ermeneutico, ridando splendore a Pitagora e all'affermazione del suo discepolo Filolao: «Senza il numero non sarebbe possibile pensare né conoscere alcunché». Sotto questa luce le parole di Dirac (1931) appaiono paradigmatiche: «Il più potente metodo di avanzamento che può essere suggerito oggi è quello di impiegare tutte le risorse della matematica pura, nel tentativo di perfezionare e generalizzare il formalismo matematico che costituisce la base esistente della fisica teorica, e, dopo ogni successo in questa direzione, di tentare di interpretare le nuove forme matematiche in termini di entità fisiche»13.
«La cultura occidentale è caratterizzata da una sorta di mito della matematica, dalla fede, forse dovuta a Pitagora, in una sua virtù esplicativa e quasi trascendente. A molte persone, descrivere in termini matematici una struttura sintattica o delle relazioni di parentela sembra già una “spiegazione” sufficiente»14. Nel passare dal «Nihil certi habemus in nostra scientia nisi nostram mathematicam» del Cusano al programma di Dirac («Scoprire prima le equazioni e poi, dopo averle esaminate, gradualmente imparare ad applicarle […] È più importante avere bellezza nelle equazioni che trovare accordo tra equazioni ed esperimenti»15) transitano 5 secoli, ma visti da una prospettiva epistemologica
hanno l’aspetto di un viaggio a ritroso di due millenni: è, in un certo senso, un ritorno a Pitagora. Contrariamente alle aspettative di Bertrand Russell che avrebbe desiderato per il Novecento «una ritirata da Pitagora»16 il sentiero intrapreso dalla fisica contemporanea porta ad una rivalutazione della Scuola di Kroton, il ritorno cioè «a una tradizione molto antica»17. «Sembra che i pitagorici siano stati i primi ad intendere la forza creativa inerente alle formulazioni matematiche», bisbiglia Heisenberg18. «Frammisti ai loro discorsi sui numeri amici e nemici, i pentagrammi mistici, i numeri perfetti, l'armonia delle sfere e così via, troviamo quelle proprietà dei numeri e delle figure spaziali, chiare da un punto di vista logico, che successivamente troveranno posto nel limpido giardino degli Elementi di Euclide»19.
È vero che Aristotele denuncia nella sua Metafisica che i Pitagorici abbiano attribuito al numero quella funzione di causa materiale che gli Ionici attribuivano all’elemento sostanziale della realtà corporea: «Costoro sembrano ritenere che il numero sia principio non solo come costitutivo materiale degli esseri, ma anche come costitutivo delle proprietà e degli stati dei medesimi»20, e che la fisica contemporanea incarna tale credo quasi come “mistero orfico” seguito dai nuovi adepti con nomi altisonanti quali quelli di Hilbert, Minkowski, Einstein, Heisenberg, Pauli, Dirac, ecc. Pur tuttavia, la “metrica pitagorica” originaria era ben lontana dal moderno nichilismo hilbertiano che svuota il pensiero matematico in una asettica e fredda intelaiatura logica priva di semantica e contenuti intuitivi. Al contrario, era fondata sull’evidenza e l’intuizione che l’”umano” si ritrovava già nella sua intima costituzione psichica: l’elevazione mistica e la poetica visione del kosmos come armonia ne danno diretta testimonianza. In fondo Copernico, Keplero, Galileo, Newton… depositano a favore di questa prospettiva21. Ma come direbbe ai nostri giorni un Russell: «La logica e la matematica… sono l’alfabeto del libro della natura, ma non il libro stesso»22.
Esisteva inoltre la visione iperuranica di un sapere matematico che intelaia la struttura del mondo in modo monolitico, irremovibile, unitario, anelastico, intrasferibile, non assoggettabile o soggiogabile: professione di fede che da Pitagora, rimbalzando su Platone, attraversa i secoli come un raggio luminoso riflesso ora da Cartesio, ora da Leibniz fino ad arrivare a Husserl: «Nessun Dio può minimamente modificare ciò, come non può modificare il fatto che 1 + 2 = 3 o che sussistano altre verità essenziali»23. Perfino Hume, dopo aver “dissacrato” e “soggettivizzato” ogni supremo principio sotto la guida dell’empirismo, si inginocchia reverente dinanzi all’«apoditticità» della matematica, a «quelle realtà che sono sicurissime e certissime»24, come testimonia lo stesso Kant nella sua Critica della ragion pratica: «Eppure lo stesso Hume non estese l’empirismo al punto da comprendervi anche la matematica. Egli pensava che le proposizioni matematiche siano analitiche, e, se questo fosse esatto, esse sarebbero effettivamente apodittiche»25.
Vedremo come questa certezza inizierà a incrinarsi all’inizio dell’Ottocento e come Gauss segnerà un’era nuova di stampo strumentalista e trans-intuizionista, che porterà prima alla nascita ed accettazione delle geometrie non-euclidee e successivamente alla matematica formalista e pragmatista del nostro secolo, attraversando i transfiniti di Cantor. «Dopo quel radicale mutamento del pensiero matematico – rileva Renato Nobili – anche nella fisica fu aperta la via alla determinazione di nuove costituzioni di significato e alla costruzione di modelli matematici astratti, totalmente irriducibili al genere delle rappresentazioni fenomenologiche del mondo visibile. Parallelamente a ciò, anche le istanze epistemiche generali del pensiero fisico subirono trasformazioni profonde; cosicché, ad esempio, quelle nozioni oggettivistiche e metafisiche forti che furono le Verità, le Leggi e i Principi della Natura nel volgere di pochi decenni furono abbandonate e rimpiazzate da nozioni deboli, soggettivistiche e pragmatistiche, quali sono le rappresentazioni, le leggi e i modelli matematici copiosamente fioriti sul diramato albero della fisica teorica contemporanea»26.
2. “Gaussbuster” ovvero all’origine della metafisica moderna – Esiste un curioso parallelismo tra Gauss e Einstein: entrambi hanno messo in moto un processo epistemologico rivoluzionario – che sbocciò sulle masse come inedite e sbalorditive immagini del mondo incrinanti l’”autorità”, il “senso comune”, le “evidenze”, le “certezze” del pensiero classico – più grande di quanto potessero sospettare, un passo più grande di loro stessi il cui controllo fatalmente sfuggirà di mano e a nulla varranno i tentativi di recupero. Similmente alla “canonizzazione” avuta da Einstein nel novembre del 1919 per la conferma delle previsione della sua Relatività generale in seguito alle misure sulla deflessione della luce durante l’eclissi del 29 maggio 1919 fatte dalla spedizione guidata da Eddington27, Johann Carl Friedrich Gauss (1777-1855) ebbe la sua nel dicembre 1802, quando l’astronomo Wilhelm Olbers, ad un anno di distanza dalla scoperta di Cerere e dalla successiva scomparsa28, posizionò il telescopio seguendo i dati forniti da Gauss, “riscoprendo” così l’asteroide dileguato. Il risultato fece di Gauss «una celebrità europea»29. La riscoperta di Cerere fu per «il principe dei matematici» un successo clamoroso, a commento del quale Laplace veniva a definire Gauss «uno spirito ultraterreno in un corpo umano»30.
Con l’avvento dell’era gaussiana la definitiva accettazione e sistemazione dei numeri complessi31 e la scoperta delle geometrie non euclidee fecero vacillare l’intera struttura epistemologica, che dovette rinunciare a ogni pretesa di assolutezza: potevano esistere altri numeri, altre algebre e altre geometrie di pari dignità epistemica. Come ebbe a osservare il matematico tedesco Felix Klein, «Gauss si erge alla testa del XIX secolo non solo cronologicamente»32. La nuova visione gaussiana che veniva a imporre i caratteri empirio-strumentaliste sul terreno della teoresi greca doveva però pagare un prezzo altissimo: la rinuncia all’autoevidenza33. Un tradimento al pitagorismo antico indicato dai Frammenti rimasti del discepolo più illustre, Filolao: «La natura del numero e dell’armonia non ammettono alcun inganno perché l’inganno non è loro proprio. La natura dell’indeterminato e dell’impensabile e dell’irrazionale porta l’inganno e l’invidia». Ciò veniva a manifestarsi sulle due colonne del fondamento del pensiero classico: l’aritmetica e la geometria, pietre angolari del pensiero umano dal tempo degli antichi Greci, «fortezze inespugnabili» fondate su verità autoevidenti che avrebbero trovato un inesauribile campo di applicazione nello studio della natura. «Coloro i quali credevano – spiega Russell - (come in generale si credeva sul continente) che fosse possibile una conoscenza del mondo reale certa e indipendente dall’esperienza non avevano che da additar[le]… : soltanto un pazzo avrebbe messo in dubbio la [loro] validità, e soltanto uno sciocco ne avrebbe negato il riferimento oggettivo»34.
Il carattere certo e unitario che rivestiva la nostra conoscenza del mondo veniva intaccato alla radice: l’incontrovertibilità delle verità autoevidenti era stata messa in questione da convenienze empirio-pragmatiste, e «insieme con essa vacillavano secoli di fiducia nell'esistenza e nella conoscibilità di verità inattaccabili relative all'universo»35. «Anche se non abbiamo elementi per stabilire se Gauss sia stato influenzato direttamente dagli scritti di Hume», appare evidente come Gauss all’inizio dell’Ottocento «pensasse che l’intera matematica è priva di verità»36. In una lettera a Bessel del 21 dicembre 1811 scrive: «Non dobbiamo mai dimenticare che le funzioni [di variabili complesse], come tutte le costruzioni matematiche, sono solamente nostre creazioni; quando la definizione da cui siamo partiti cessa di avere senso, non dovremo domandarci “che cos’è”, ma piuttosto “che cosa conviene assumere per mantenerla significativa”»37.
Uno sguardo indietro di qualche secolo ci consente di avere un quadro complessivo più esauriente riguardo le novità concettuali apportate dalla “gaussite” durante la crescita del pensiero scientifico. Furono la Germania e l’Italia a fornire il maggior numero di matematici all’inizio del rinascimento, ma l’opera più importante venne composta in Francia nel 1484 da Nicolas Chuquet: Triparty en la science des nombres. Qui veniva espresso per la prima volta un numero negativo isolato in un’equazione algebrica. Ciò nonostante, per le radici di equazioni che comportavano soluzioni immaginarie l’autore così si esprimeva: «Tel nombre est ineperible»38. Nella prima metà del XVI secolo i numeri negativi cominciavano ad essere più facilmente “manipolati” grazie all’introduzione della notazione tedesca con i nuovi simboli “+ e –” al posto della “più sana” notazione italiana “p e m”. Pur tuttavia, nonostante si avesse completa familiarità con le proprietà dei numeri negativi, questi venivano ancora chiamati “numeri absurdi”39, a testimonianza del forte grado di diffidenza e perplessità diffuso nei matematici dell’epoca40 (ancora ben lontani di quel morbus mathematicorum recens col quale Frege accuserà la struttura assiomatica moderna). Soltanto l’uso e l’abuso nella pratica delle tecniche e procedimenti operativi porterà all’“accettazione perché funziona” tramite la – oramai paradigmatica – logica del successo. Si arriva così alla oggettualizzazione delle procedure, ossia alla cristallizzazione di veri e propri oggetti matematici che acquisteranno una realtà indipendente dalle circostanze nelle quali sono stati introdotti. Per questa stessa ragione verranno accettati e accolti i numeri immaginari41.
Scrive Kline: «Senza aver completamente superato le difficoltà connesse con i numeri irrazionali e con i numeri negativi, i matematici europei accrebbero i loro problemi andando a inciampare in quelli che noi oggi chiamiamo numeri complessi»42. Dalla scoperta di Scipione del Ferro dell’esistenza di una soluzione algebrica dell’equazione di terzo grado, allo stimolo che questa dette a Nicolò Tartaglia nel sistematizzarla fino all’Ars magna di Gerolamo Cardano del 1545 che rese di dominio pubblico le procedure risolutrici delle equazioni di terzo e di quarto grado (grazie all’aiuto di Ferrari), si incominciava a intravedere un residuo protagoreo sull’opportunità di un utilizzo infido delle radici quadrate di numeri negativi, radici che tuttavia Cardano chiamava «sofistiche»43. Il passo successivo fu fatto dall’algebrista Raffaele Bombelli nella sua Algebra del 1560 (ma stampata nel 1572) che tramite «considerazioni sofistiche»44 – come egli stesso ebbe a dire – arrivò all’«idea assurda» del seme germinale del concetto di “numero complesso”. Fin qui i concetti di numero immaginario, numero complesso (o, come venivano chiamati allora, numeri “falsi” o “silvestri”), e quello stesso di numero negativo vengono “supposti” ma non “proposti”, ossia procedono sul filo metafisico della “plausibilità empirica” di stampo protagoreo: «Siccome funziona, usiamolo». Nel 1629 il matematico francese Albert Girard riconobbe definitivamente la natura delle soluzioni negative e complesse, e fu così in grado di perfezionare il lavoro sulla relazione che intercorre tra le radici e i coefficienti di un'equazione algebrica, già iniziato da François Viète45. Per una copertura epistemico-razionale dovremo però aspettare fino a Gauss che, grazie ancora una volta all’abuso del “miracolo cartesiano” di collegamento tra il mondo algebrico e quello geometrico riuscirà a proclamare il “diritto di cittadinanza” a ciò che Eulero nel 1770 definiva entità «immaginarie o impossibili»46. Come è stato giustamente inneggiato allo stesso Gauss in occasione del suo cinquantesimo di dottorato: «Lei ha reso possibile l’impossibile»47.
Grazie al parallelismo geometrico Gauss veniva a dare inizio a una nuova era dove delle entità metafisicamente contraddittorie48 venivano “addomesticate” perché sovrapponibili empiricamente acostruzioni geometriche recuperanti l’evidenza perduta dall’altro versante. Così, d’altra parte, eragià stato fatto secoli prima per l’uso dei numeri negativi che, a quell’epoca, «sollevavano maggioridifficoltà, poiché non potevano facilmente venire approssimati da numeri positivi, ma la nozione disenso (o di direzione su una linea) li rendeva plausibili»49. Il sodalizio algebra-geometria ha salvato“in corner” e reso ammissibili spesso operazioni definiti impossibili dalla prima (come il caso della«lussuria» dei numeri immaginari, con le parole di Thomas Jefferson del 179950), come questad’altra parte ha reso omaggio alla seconda rendendo possibile operazionisticamente quel “salto” chel’intuizione molte volte non dava licenza di fare, come nel caso della geometria non-euclidea. Gaussestenderà tale sodalizio anche alla fisica, quando metterà in dubbio – scrutando tra le tre vette51 – ilcarattere euclideo dello spazio fisico… e Einstein completerà l’opera.
3. L’eredità di Gauss: dalla “perdita dell’intuizione” alla “libertà cantoriana” – Il sigillo di Gauss recava il motto «pauca sed matura», ma in realtà quello che avvenne fu lo sviluppo di una serie continua di nuovi oggetti matematici privi di una adeguata fondazione filosoficamente ineccepibile e accettati in base alla suprema legge del più spregiudicato e “antieuclideo” pragmatismo: l’applicabilità. Nuove algebre e nuove geometrie venivano ad accumularsi nell’atanor sempre più “spazioso” dell’esistente matematico. Scrive mirabilmente Kline: «Dopo tutto, i consueti numeri reali e complessi venivano impiegati con scopi totalmente differenti e la loro applicabilità sembrava fuori discussione. Nonostante ciò, l’apparire di nuove algebre bastò per insinuare nella mente dei matematici il dubbio sulla verità dell’aritmetica e dell’algebra ordinaria proprio come accade a chi, entrato in contatto con le abitudini di una civiltà sconosciuta, comincia a mettere in discussione il proprio modo di vivere»52. La “creazione” continua di nuovi continenti matematici sui tracciati metodologici empiristi, fuori dalla sfera intuitiva, portò una specie di cataclisma concettuale preeinsteiniano nei teorici dell’epoca: «E così la triste conclusione che i matematici furono costretti a trarre è che nella matematica non esiste verità […] Il tentativo greco di garantire la verità della matematica partendo da verità autoevidenti e impiegando solo la dimostrazione deduttiva è stato inutile.
Per molti attenti matematici era troppo duro accettare il fatto che la matematica non fosse un corpo di verità; sembrava quasi che Dio avesse creato una molteplicità di algebre e di geometrie con il proposito di confonderli, proprio come aveva confuso le genti di Babele facendo loro parlare lingue differenti»53.
I grandi matematici che avevano affinità o intuito filosofico diedero voce alle obiezioni dei nuovi universi razionali. Basterebbe pensare a William R. Hamilton («Nessuna persona sincera e intelligente può dubitare delle proprietà principali delle rette parallele, così come le espose duemila anni fa Euclide negli Elementi»54), a Francis Masères («Le radici negative… non dovrebbero mai dovuto essere ammesse in algebra, e bisogna sperare che ne vengano escluse»55), a Eulero («È chiaro che non si può neppure includere la radice quadrata di un numero negativo fra i numeri possibili, e bisogna dunque dire che è una quantità impossibile»56), a William Frend («Gli algebristi […] possono trovare dei numeri impossibili i quali, una volta moltiplicati fra loro, generano l’unità. Questo è un linguaggio incomprensibile e ripugna al senso comune; tuttavia, una volta adottato, come tante altre finzioni esso trova i più strenui difensori fra coloro che amano accettare le cose senza un attento esame e disprezzano la voce del retto pensare»57), ad Augustus De Morgan («L’espressione immaginaria… e l’espressione negativa… hanno una caratteristica comune: quando si trova una di esse come soluzione di un problema, ciò indica la presenza di qualche incoerenza o assurdità»58), per non parlare di Cartesio, Newton, Leibniz, Carnot, ecc. Sembrava quasi materializzarsi l’anatema scagliato da George Berkeley nel 1734 quando provocava i matematici con: «È vero che [i matematici] non si sottomettono ad alcuna autorità, non accettano nulla per vero senza prove, e non credono ad argomentazioni inconcepibili? È vero che essi non hanno i propri misteri, e quel che è più importante, le loro avversioni e le loro contraddizioni?»59. Come scrisse Poincaré nel 1899: «La logica talvolta genera mostri»60.
Einstein aveva visto giusto quando osservò che «il sogno della conoscenza assoluta aveva agonizzato a lungo, ma era stato David Hume… a dare il colpo finale ai sogni di Platone»61. Fu Gauss che recuperò gli “algoritmi metafisici” di Hume all’interno del pensiero matematico tramite l’empirismo dell’applicabilità e la logica del successo: «Qui [nella rappresentazione geometrica] si mostra come il significato intuitivo di 1 - sia del tutto fondato, e per ammettere queste quantità nel dominio degli oggetti dell’aritmetica non è necessario nient’altro»62. La “spinta gaussiana” avrebbe portato successivamente al nuovo paradigma euristico accettato in matematica. Il motto di De Morgan – «Ricordatevi di 1 - »63 – ne rappresenta l’archetipo. «Ma fu ancora Gauss – scrive Kline – ad accorgersi della conseguenza più rivoluzionaria [della geometria non euclidea]. […] Gauss… essendosi reso conto che la geometria euclidea non è necessariamente la geometria dello spazio fisico, cioè non è necessariamente vera, mise la geometria nella stessa classe della meccanica e affermò che il carattere di verità deve essere attribuito soltanto all’aritmetica (e all’analisi che ne costituisce uno sviluppo). Questa fiducia nell’aritmetica è di per sé curiosa. L’aritmetica, infatti, non possedeva in quel periodo nessuna fondazione logica e la sicurezza che l’aritmetica, l’algebra e l’analisi fornissero delle verità sul mondo fisico derivava unicamente dall’esperienza. La storia della geometria non euclidea dimostra in maniera lampante quanto i matematici siano influenzati non dai ragionamenti che effettuano, ma dallo spirito dei tempi. Saccheri aveva respinto gli strani teoremi della geometria non euclidea e ne aveva concluso che Euclide era stato emendato da ogni neo. Un centinaio di anni dopo, invece, Gauss, Lobačevskij e Bolyai accettarono fiduciosamente la nuova geometria. Essi pensavano che la loro geometria fosse logicamente coerente e che perciò fosse altrettanto valida di quella di Euclide. Non avevano però nessuna dimostrazione di questa coerenza. Anche se dimostrarono molti teoremi senza imbattersi in evidenti contraddizioni, rimaneva aperta la possibilità che si potesse dedurre una qualche contraddizione»64.
La scoperta che la geometria euclidea non era una verità unica, necessaria e assoluta riguardo al mondo fu perciò sbalorditiva, ed ebbe effetti di vasta portata e irreversibili. Essa minò alla base le concezioni assolutistiche della conoscenza umana in ampie regioni del pensiero: «I matematici vi si opposero a lungo – scrive Barrow – ma coloro che cercavano di sovvertire le tradizionali certezze euclidee videro in essa un segnale dell'avvento del relativismo. Il termine “non euclideo” venne a indicare qualche cosa di più generale di quanto valeva per le linee nello spazio»65. Una volta spalancata la porta della “trans-intuizione” e della “trans-evidenza” allora si aprì alla «regina delle scienze» un intero mondo di potenzialità latenti, pronte alla cristallizzazione per coerenza. La matematica poteva finalmente essere libera e volare poeticamente attraverso la creatività dello scienziato. «La geometria greca classica – chiarisce Kline – non aveva soltanto imposto delle restrizioni sul dominio della matematica, ma le aveva anche impresso un livello di rigore che ostacolava la creatività. Gli studiosi del XVII secolo avevano spezzato entrambi questi vincoli. Il progresso in matematica richiede un disprezzo quasi completo per gli scrupoli logici»66.
“Disprezzo” che Cantor coltivò più di ogni altro. «La matematica – scriveva nel 1883 – nel suo sviluppo è completamente libera e vincolata soltanto all’evidente condizione che i suoi concetti siano in sé non contraddittori»67. Cantor era sopraffatto dal timore che i vincoli posti alla ricerca avrebbero potuto tagliare le ali alla creatività matematica, «giacché – egli affermava – l’essenza della matematica risiede proprio nella sua libertà»68. Senza di questa, sosteneva Cantor, non ci sarebbero stati i grandi sviluppi registrati nel corso del secolo; non avremmo avuto la moderna teoria delle funzioni se Gauss o Cauchy o Jacobi o Weierstrass e Riemann avessero dovuto «sottoporre le loro idee nuove a un controllo metafisico»69. D’altra parte è proprio la completa assenza del «controllo metafisico» che favorirà l’empirismo logico prima e la «novità relativistica» poi, nel campo della fisica, fomentando – in seno a quest’ultima – un recupero avventato della “libertà cantoriana” e realizzando così quella che poi Gaston Bachelard rileverà come «impronta di una induzione così audacemente estensiva da poter sviare una mente poco abituata alle libertà matematiche»70. La linea filosofico-progettuale di Cantor, largamente diffusa tra i matematici, la quale – con le parole e il disappunto di Gottlob Frege – considera sufficientemente giustificata una definizione che «si presta spontaneamente a costituire la base dei nostri ragionamenti, senza condurre mai ad alcuna contraddizione»71, si trasmetterà in seguito nel campo della fisica, tramite Einstein prima e Heisenberg poi, dove il contagio porterà a una vera e propria epidemia di FLOP72, sintomatica peste delle strutture portanti della scienza contemporanea. Già per il campo della matematica era necessario ricordare che il criterio di non contraddittorietà consente solo di raggiungere «una certezza empirica» – come aveva fin da allora avvisato Frege – giacché bisogna «in ogni caso essere pronti a incontrare da un momento all’altro qualche contraddizione che mandi in rovina l’intero edificio»73. Come esponeva H. Weyl nel 1917: «Una parte essenziale di quest'edificio è costruita sulla sabbia», ed una delle cause essenziali di questa circostanza «va ricercata unicamente nell'arbitrio (commesso sin dall'inizio in matematica) di considerare un campo di possibilità costruttive come un aggregato chiuso di oggetti esistente in sé»74. Ma oramai si era infiltrato anche nella fisica il nuovo credo dei matematici, quello che con enfasi scriveva Dedekind all’amico Weber in una lettera del 1888: «Noi siamo di razza divina e possediamo […] il potere di creare»75.
4. Dagli assiomi ai postulati: il programma di Hilbert tradotto in fisica – «La teoria generale della relatività contrastava con la mirabile struttura euclidea del “sacro volumetto di geometria” che aveva incantato Einstein in gioventù; ed essenziale, ai fini della teoria stessa, era la negazione dell’assoluta validità del teorema di Pitagora, per il quale, da ragazzo, aveva trovato una dimostrazione per proprio conto. […] A quasi tutti gli studiosi della geometria elementare, un’alternativa valida del sistema euclideo sembrerebbe impossibile. Invero, il filosofo Kant aveva dichiarato che il sistema euclideo era inevitabile, una necessità del pensiero umano. Ma, a cominciare dagli inizi del diciannovesimo secolo, dopo un periodo di incubazione che risaliva fino a Euclide, matematici audaci proposero effettivamente alternative non euclidee e, come si rese conto Gauss, una volta che Euclide avesse avuto dei concorrenti, la geometria sarebbe divenuta, per necessità di cose, una scienza sperimentale»76. Viene così tracciata da Hoffmann e Dukas la linea di collegamento tra Gauss e Einstein. Le “certezze euclidee” impostate dall’antichità e indicate come rocce inabissabili «in mezzo ai mari agitati della speculazione umana»77 venivano poste prima in uno stato ipotetico e incerto dall’empirismo gaussiano, poi rese costruzioni immaginarie della creatività umana dal libertinismo cantoriano, e infine ricapitolate nel popperiano mondo 3 delle congetture perché inadeguate per la neopitagorica struttura del mondo: eccessivamente semplicistiche e obsolete per l’universo einsteiniano. «E in virtù di queste… rivoluzioni – scrive William Clifford – l’idea dell’universo, il Macrocosmo, il Tutto, come soggetto della conoscenza umana, e perciò di interesse umano, è andato in frantumi»78. Scrive Russell: «La rivoluzione di Einstein ha spazzato via tutto...»79. «Dal punto di vista della dialettica hegeliana la teoria della relatività era una comoda fonte di antinomie: non era necessario… trovare una soluzione all’interno della fisica, ma bisognava riconoscere che la materia fosse un’astrazione irreale e che nessuna scienza della materia poteva essere logicamente soddisfacente»80. Così l’universo di Einstein – grazie alla gaussiana mentalità che si era venuta a creare – avrebbe travalicato i confini pitagorici dell’evidenza e dell’intuizione: «Il mondo di Einstein è un mondo di numeri; questi non suppongono prima di essi né una verità a priori come la condizione della loro espressione formale, né una immagine intuitiva come una condizione del loro significato fisico»81. La successiva meccanica quantistica ipostatizzerà questa sorta di metafisica e tramite l’«irrazionale» – per usare i termini di Meyerson –, quell’essenza aberrante di «aritmetizzazione del possibile», concederà quel “passo” contemplato da Bachelard: «Un passo ancora e il reale non è più che la causa occasionale del pensiero»82. Tanto che ai nostri giorni un Feynman può asserire: «Mi auguro quindi che riuscirete ad accettare la Natura per quello che è: assurda»83.
Innegabile è dunque il tallonamento della nuova fisica nei confronti dello “svuotamento semantico- categoriale” della nuova matematica. Lo strano mondo della fisica del Novecento è intimamente collegato a quello astratto e immaginifico della matematica post-gaussiana84. Dopo Einstein le geometrie non euclidee non esistevano più soltanto come sistemi logici su fogli di carta: l'architettura dell'universo era non-euclidea e ciò si poteva toccare con mano. Così come, dopo Heisenberg, le nuove e strane algebre “non commutative” sviluppate a partire dai quaternioni di Hamilton85 – riflesso diretto della rivoluzione gaussiana – potevano finalmente innalzarsi dai “mondi di carta” ed esigere altrettanta dignità “inter-fenomenologica” del mondo fisico così come lo era stato per le geometrie non euclidee86. Era la vittoria del freddo costrutto matematico – esterno e alieno alla sfera dell’evidenza, dell’intuizione, del senso comune – che trionfava sui detriti delle categorie kantiane, «completamente annichilite – postillerà Heisenberg – dalle scoperte del nostro secolo»87. Hermann von Helmholtz poteva finalmente cantare vittoria – «Essa [l’intuizione] è una conoscenza empirica ottenuta con l’accumulazione e il rafforzamento di impressioni simili ricorrenti nella nostra memoria, e non una forma di intuizione trascendentale data prima di ogni esperienza»88 – così come David Hilbert poteva finalmente vedere realizzato il suo sogno «di dare una formulazione puramente matematica agli assiomi della fisica»89, liberando «gli assiomi che stanno a fondamento delle discipline matematiche dall’obbligo di corrispondere ai loro significati intuitivi originari e naturali»90.
Siccome per Hilbert «la matematica… possiede coerenza ma nessun significato»91, era arrivato il momento di trasformare gli assiomi in postulati92 (portando così a compimento l’ideale del tracciato epistemologico che da Gauss arriva a Cantor). D’altra parte, sottolinea il matematico Meschkowski, «se sul pensiero di Hilbert non riluce più, come su quello di Platone, “lo splendore dell’essere”», ciò è direttamente collegato alla rivoluzione gaussiana: «l’“esistenza” della geometria non euclidea rende impossibile all’uomo moderno di restare fermo alla concezione spaziale di Platone e di Kant»93.
Il programma hilbertiano, pur lacerato dal celeberrimo teorema di Gödel, continuò a sopravvivere sotto le “vesti metafisiche” della fisica del Novecento, da Einstein in poi94. Lo sviluppo di un’algebra astratta manipolante enti matematici con procedimenti puramente formali, evitando ogni interpretazione sulla natura di essi, preparerà il terreno epistemico delle teorie scientifiche contemporanee, tanto da rendere possibile affermare che «per esempio, l’integrale di Feynman non corrisponde, per il momento, ad alcun oggetto matematico preciso. È tuttavia è il pane quotidiano dei fisici teorici»95. L’approccio astratto-assiomatico-formalista hilbertiano della fisica moderna è nettamente strumentalista, si nutre dell’efficacia empirica all’interno di un humus positivistico ancorato all’idea machiana di “scienza-formulario”96. È la filosofia dello 0!=1, del (–1)0=10=11=1!=0!
Eppure il matematico contemporaneo giudizioso avverte: «Malgrado lo stato insoddisfacente della matematica, la molteplicità delle scuole, il disaccordo sugli assiomi da accertare, e il pericolo che nuove contraddizioni, qualora scoperte, possano invalidare gran parte della matematica, alcuni matematici applicano tutt’ora questa scienza ai fenomeni fisici»97. Ma lo scienziato della nuova era, accecato dal potere predittivo della nuova scienza, ha barattato la verità con il successo: «Tutto quello che si può richiedere da una teoria fisica è che le sue predizioni siano in accordo con le osservazioni»98.
Come osserva Russell: «Il male è intellettuale… Per conto mio, non ho soluzioni da prospettare; la nostra è un’epoca che sostituisce sempre più il potere agli ideali primitivi, e ciò accade nelle scienze come in altre cose. Mentre la scienza come conseguimento di potere diviene sempre più trionfante, la scienza quale conseguimento di verità è uccisa da uno scetticismo generato dall’abilità degli scienziati».
5. Conclusioni: le basi metafisiche della teoria della relatività – L’avvento della Relatività, facendo saltare i quadri abituali di riferimento spazio-temporali insieme all’edificio concettuale della fisica newtoniana – che a Kant appariva come «quella conoscenza del sistema del mondo chiara e immutabile per tutto l’avvenire» – e rendendo inintuitivo lo spazio così come il tempo «una creazione del nostro pensiero»99, veniva a materializzare sullo sfondo della realtà fisica l’ideale “gaussiano-cantoriano-hilbertiano” concepito e architettato precedentemente nell’universo del costrutto matematico. La «rivoluzione copernicana della Relatività» avrebbe apportato un vero e proprio «terremoto dei concetti» – per usare dei termini che Bachelard dichiaratamente mutua da Nietzsche – sulle stesse fondamenta gnoseologiche, dove «tutto l’edificio della ragione è “scosso”»: «Con la scienza einsteiniana incomincia una rivoluzione sistematica dei concetti fondamentali»100.
Dunque il frutto epistemologicamente più profondo dell’impatto einsteiniano sulla fisica è il suo stesso sconfinamento dal mondo dei numeri e della materia a quello del pensiero, della logica e dei pilastri della conoscenza, come sottolinea Hans Reichenbach: «La teoria della relatività di Einstein ha dato una forte scossa ai fondamenti filosofici della conoscenza»101. La stessa Meccanica Quantistica può essere vista come una conseguenza estrema, una ipostasi del tracciato epistemico della teoria di Einstein: non abbiamo fatto altro – avrebbe rilevato lo stesso Born, uno degli artefici della meccanica matriciale – che «avere fedelmente proseguito sulla via che egli [Einstein] ci aveva indicato nei suoi giorni migliori»102. Confesserà Heisenberg: «Avevo soltanto… applicato il tipo di filosofia che egli stesso aveva posto alla base della sua teoria della relatività ristretta»103. È stato «Einstein – confermerà Gamow – ad abbandonare le vecchie idee di “senso comune” sul computo del tempo, la misura della distanza e la meccanica, … [arrivando] alla riformulazione della “insensata” Teoria della Relatività. […] Heisenberg ne dedusse che la stessa situazione esistesse nel campo della Teoria dei Quanti»104. Ecco in sintesi la storia di come si sia arrivato a relativizzare la stessa logica. Oramai si parla di una «pluralità» di logiche… Scrive B.L. Whorf in Le lingue e la logica: «Nuovi tipi di logica possono forse aiutarci a capire com’è che gli elettroni […] sembrano comportarsi illogicamente»105.
Rileva Bachelard che intere schiere di scienziati e filosofi che durante i secoli avevano cercato un continuo accumulo e perfezionamento nella decodifica del reale sotto l’ombra di un’unica e primordiale razionalità vengono adesso travolti e devastati dalla «novità relativistica»: una «scienza senza antenati», la Relatività, in quanto non sarebbe «potuta sbocciare che nell’atmosfera di una matematica perfezionata; ecco perché la dottrina manca veramente di antecedenti»106. La matematica assurge così a «vero e proprio metodo di invenzione»107; da “descrittore” a “creatore”, la sua “carica
deduttiva” diventa “induttiva”: «L’espressione matematica da sola consente di pensare il fenomeno»108. Il calcolo tensoriale è per Bachelard esempio perfetto di «strumento matematico che crea la scienza fisica contemporanea come il microscopio crea la microbiologia», «Langevin diceva che: “Il calcolo tensoriale conosce la fisica meglio dello stesso fisico”»109.
Il «pensiero relativistico» è, dunque, animato da un’«audacia induttiva», una proprietà “rivelata” dello strumento matematico che nella Teoria gioca un ruolo privilegiato. Ciò, però, non esime ma, anzi, estremizza «lo scandalo della ragione», per usare ancora una volta dei termini bachelardiani.
Come mette bene in evidenza Bouasse nella sua critica risoluta al potere esplicativo della teoria di Einstein, decisamente minore rispetto a quella classica: «Si sopprime l’etere e ci si esime dall’insegnarci con che cosa dobbiamo sostituirlo!»110. Non possiamo dunque accettare l’invito di
Hume («Allora buttatelo nel fuoco») di bruciare, tramite Einstein, l’unità del pensiero logico-intuitivo plurimillenario che soggiace nell’“incoscio collettivo” dell’umanità tutta intera. Noi non facciamo – osserva Bouasse – «i sillogismi diversamente da Aristotele: anzi, Aristotele ne conosceva la teoria molto meglio della maggior parte dei nostri filosofi moderni. Bacon, Descartes… si sbagliavano spesso nelle applicazioni; ciò non toglie che i loro attrezzi, dei quali talvolta essi si servivano male, erano esattamente i nostri. Se Bacon, Descartes… risuscitassero, si farebbe loro facilmente comprendere in che cosa essi si sbagliavano, perché i loro cervelli e i nostri sono costruiti allo stesso modo», né sono «suscettibili di perfezionamento». E dunque – si chiede Bouasse – come è possibile «simultaneamente rigettare i dati intuitivi del nostro cervello sullo spazio e sul tempo, e serbargli […] fiducia quando si tratta di ragionare? […] Voi dite che il nostro cervello è un falso testimone, poi conservate la metà della sua testimonianza! […] È assurdo. […] Io dico che i dati intuitivi del nostro cervello formano un blocco che non avete il diritto di dividere. Se ne rigettate una parte, siete fatalmente condotti a rigettare il tutto: cosa che sopprime ogni possibilità di conoscenza»111.
Bachelard ammette il “cartesicidio” caratteristico della fisica post-relativistica, simbolo di agonia e sprezzo per la “dea intuizione” e parenti stretti “evidenza”, “chiaro” e “distinto”: «Siamo di fronte – egli dice – a una vera dialettica. Si procede sistematicamente negando il postulato di analisi cartesiana, esattamente nello stesso modo in cui si sviluppa la geometria non-euclidea negando il postulato di Euclide»112. E se un Cassirer parla di «crisi dell’intuizione» avvenuta «dopo le geometrie non-euclidee e dopo la relatività speciale e generale»113, non può essere nascosto al proprio intelletto – “scolasticamente” inteso – che «come ipotesi metafisica, la teoria di Einstein risulta contraddittoria»114. Inefficace la certificazione data da Heisenberg che «“non contraddittorio” si riferisce… alla consistenza e completezza matematica del formalismo che viene costruito a partire dagli assiomi»115, quando è ormai ben noto invece che la formalizzazione matematica di una teoria è ben lungi dallo schermare la stessa dall’incoerenza latente che sfocia a livello di quello che Bridgman definisce come «sfondo descrittivo enorme». Dietro alle equazioni c’è una enorme struttura qualitativa fatta di risultati empirici, ipotesi, generalizzazioni, scelte filosofiche, gusti personali, convenienze: «Quando si prenda atto, finalmente, di questa ricca realtà confrontandola con il ritratto della teoria scientifica tramandato dall’empirismo logico, che vale meno di una caricatura, si comprenderà facilmente che la teoria, accanto ai suoi innegabili successi, non solo può presentare punti deboli, ma può anche sopravvivere ai suoi stessi fallimenti»116. Come conferma lo stesso Bridgman: «Ogni sistema di equazioni può comprendere solo una piccolissima parte della situazione fisica effettiva: dietro le equazioni vi è uno sfondo descrittivo enorme, tramite il quale esse stabiliscono legami conla natura»117.
È solo grazie all’«oscurità matematica»118 che regna sovrana sulle nuove teorie che il novello “apprendista stregone” può ritenersi degno di possedere l’arcana chiave meta-ermeneutica e il potere ad essa congiunto. Sentendosi appartenente alla pitagorica classe dei neo-mathematicoi non si abbassa ad una «umana, troppo umana» rappresentazione, figlia dell’intuizione. L’“ammassato” gruppo degli acousmaticoi – cioè coloro che, come denunciava Cartesio già ai suoi tempi, «si astengono dall'esaminar molte cose... poiché stimano che possano esser comprese da altri forniti di maggior intelligenza, abbracciando il parere di coloro sulla cui autorità maggiormente confidano»119 – si accascia ai bordi delle corsie preferenziali del pensiero scientifico, affidandosi ciecamente ai cosiddetti “esperti” («cieca schiavitù al dogma», direbbe Herbert Dingle120), nella convinzione che quanto non si sia riuscito a intendere sia dovuto ad un inadeguato e insufficiente numero di neuroni a loro disposizione; una sorta di “filosofia del rimando” «di cui sono preda non solo tanti studenti, ma anche tanti docenti»121. Ed ecco così il «mastery, instead of the servitude, of mathematics in relation to physics» denunciato da Dingle122. Non deve sorprendere allora che il matematismo entri a far parte della nuova ermeneutica contemporanea e a sostituire interi blocchi kantiani della psiche in altrettanti moduli “gaussiani”. Confessa senza malizia un docente universitario di ingegneria elettrica del calibro di Paul Nahin: «Later, in college, I would learn that the operation of radio is impossible to understand, at deep theoretical level, without an understanding of 1 - »123. È la matematica che prende il posto del sillogismo aristotelico. Come manifesta apertamente Dirac: «Le nuove teorie, considerate al di là della struttura matematica, sono costruite con concetti fisici che non possono essere spiegati in termini di cose precedentemente note allo studente, che neppure possono essere spiegati adeguatamente con le parole»124. Riesce facile concepire, a questo punto, come si stia approdando con sempre più facilità a riconoscere con Bridgman che «tutta la nostra conoscenza è relativa» e che in questo senso «la relatività in senso generale diventa un puro truismo»125. Si arriva così alla signoria della sintassi sulla semantica, all’indebolimento, detronizzazione e perdita del fondamento126, come anche di una umana comprensione127.
Il pericolo di un matematismo sofisticato e “trans-categoriale” alla guida delle teorie scientifiche è estremamente elevato, e, se lasciato a se stesso, rischia di diventare un alieno alla ragione stessa: dovremo allora abituarci a vedere sorpresi e sconcertati gli stessi creatori delle teorie scientifiche quando i razzi di questo “Math-Alieno” travalicano e sconfinano gli universi dell’intuizione, come accadde allo stesso Einstein quando si scontrò con la precessione di Thomas128. Bisogna recuperare lo status baconiano di una matematica al servizio della ragione e non viceversa: quella che l’Einstein non ancora condizionato dalla spinta minkowskiana129 era solito sottostare, come dimostra una frase dello stesso riportata da un suo amico nel 1920: «I’m afraid I’m wrong again. I can’t put my theory into words. I can only formulate it mathematically, and that’s suspicious»130. E nel 1927, in occasione del secondo centenario della morte di Newton, in una lettera al segretario della Royal Society e poi riportata su Nature (119) e su Science (65) scrive: «È solo nella teoria dei quanti che il metodo differenziale di Newton diviene inadeguato, e infatti viene meno la causalità in senso stretto. Ma non è detta l’ultima parola. Possa lo spirito del metodo di Newton consentirci di riportare l’armonia tra la realtà fisica e ciò che è alla base di tutto il suo insegnamento: la causalità in senso stretto». Auspichiamoci la stessa cosa, anzi recuperiamo con Newton l’essenza stessa della matematica, quando nel 1728 scrisse: «Ma è giusto che le radici delle equazioni debbano essere spesso impossibili [complesse], per timore che esse debbano esibire i casi di problemi che sono impossibili come se fossero possibili»131.
1 W. Heisenberg, Il contenuto intuitivo della cinematica e della meccanica nella teoria quantistica , in S. Boffi (ed.), De Broglie – Schrödinger – Heisenberg, Onde e particelle in armonia. Alle sorgenti della meccanica quantistica , Milano 1991, p 181.
2 Cit. in B. Hoffmann – H. Dukas, Albert Einstein, creatore e ribelle, Milano 2002, p. 30.
3 G. Bachelard, Il nuovo spirito scientifico, Roma-Bari 1978, p. 156.
4 A. Pais, Il danese tranquillo. Niels Bohr, un fisico e il suo tempo , 1885-1962, Torino 1993, p.75.
5 Per un approfondimento si veda U. Bartocci – R.V. Macrì, Il linguaggio della matematica, «Episteme», 5, 2002.
6 W. Heisenberg, Fisica e filosofia, Milano 1994, p. 44.
7 A. Einstein, Replica alle osservazioni dei vari autori, in P.A. Schilpp (ed.), Albert Einstein, scienziato e filosofo. Autobiografia di Einstein e saggi di vari autori, Torino 1958, p. 629.
8 V.F. Lenzen, La teoria della conoscenza di Einstein, in P.A. Schilpp (ed.), op. cit., p. 307. Articolo pubblicato sulla rivista Episteme, n.6 (II), anno 2002, p. 137-156, ISSN 1593-3482 (6)
9 Ibidem, p. 326. Dal rischio reale di una accecante reverenza da parte della fisica nei confronti della matematica contemporanea, tale da ammaliare e sottomettere l’eredità di Galileo nelle mani della Scuola di “prestigio matematico” del
momento ci mette in guardia Morris Kline nel suo capolavoro Matematica: la perdita della certezza, Milano 1985, p.
15: «Le teorie fisiche più sviluppate, nella maggior parte dei casi, sono interamente matematiche (pur ammettendo che i risultati di tali teorie sono interpretati in termini di dati sensibili e di oggetti fisici: si possono sentire i suoni emessi da una radio pur senza avere la più pallida idea di cosa sia un’onda radio da un punto di vista fisico). Perciò anche gli scienziati che non si occupano in prima persona del problema dei fondamenti devono nondimeno porsi il problema di quale matematica possono utilizzare con sicurezza se non vogliono sprecare anni di lavoro servendosi di una matematica priva di salde basi».
10 M. Polanyi, La conoscenza personale. Verso una filosofia post-critica , Milano 1990, p. 92.
11 P.A.M. Dirac, in D. Monti, Equazione di Dirac, Torino 1996, p. 120. Racconta Sommerfeld che a seguito del successo
che ebbe la teoria di Einstein dopo la spedizione dell’«apostolo ispirato della dottrina di Einstein, […] Il grande astronomo inglese Sir Arthur Eddington, […] nel 1920, un inviato della “Kölnische Zeitung” mi chiese qualche particolare su di essa, gli dissi che non era argomento per il grosso pubblico, sfornito com’è delle conoscenze matematiche necessarie per la comprensione di questa teoria» (A. Sommerfeld, “Per il compleanno di Albert Einstein”, in P.A. Schilpp (ed.), op. cit., Torino 1958, p. 53).
12 J.D. Barrow, Teorie del tutto. La ricerca della spiegazione ultima, Milano 1992, p. 316.
13 P.A.M. Dirac, op. cit., p. 116.
14 J.P. Changeux - A. Connes, Pensiero e materia, Torino 1991, p. 12.
15 P.A.M. Dirac, op. cit., p. 122. Esattamente di parere opposto la tradizione dei fisici italiani di inizio secolo che, intendendo le rappresentazioni fisico-matematiche come parametrizzazioni descrittive di ciò che non può avere altro fondamento che nel territorio dell’evidenza fenomenica, con le parole di Antonio Garbasso nel 1910 così si pronunciava: «A voler considerare le cose con pieno rigore, si direbbe anzi che di necessità il modello analitico [matematico] sia più lontano dalla natura che il modello, in apparenza più rozzo, della fisica sperimentale. Perché se la percezione fornisce una immagine della realtà, e l’analogia fisica è già una rappresentazione mediata, il calcolo che traduce quest’analogia nel linguaggio dell’algebra, costituisce in qualche modo un’icona dell’icona dell’icona» (A. Garbasso, Fisica d’oggi, filosofia di domani, Milano 1910, p. 118).
16 B. Russell, La mia filosofia, Roma 1995, p. 177.
17 W. Heisenberg, La tradizione nella scienza, Milano 1982, p. 32.
18 W. Heisenberg, Fisica e filosofia, op. cit., p. 84.
19 P.P. Wiener – A. Noland (edd.), Le radici del pensiero scientifico, Milano 1971, p. 1.
20 Aristotele, Metaph., I, 5, 985 b 23 - 986 a 16.
21 Cfr. T.M. Tonietti, Verso la matematica nelle scienze: armonia e matematica nei modelli del cosmo tra Seicento e Settecento, in M. Mamone Capria (ed.), La costruzione dell’immagine scientifica del mondo, Napoli 1999. Il mondo antico è completamente intessuto da tale concezione. Cfr., solo per fare qualche esempio, Proclo, In Platonis theologiam, IV, 34; Boezio, De institutione arithmetica, I, 1 e 2; Agostino, Ad Orosius contra Priscianum et Origenem, PL
42, 674, e De quantitate animae, 8-12, PL 32, 1042-1047; Alberto Magno, Metaphys., I, tr. 4, c. 2; Bonaventura, Itinerarium mentis in deum, 2, n. 10; Alano di Lilla, Sermo de trinitate, 255.
22 B. Russell, op. cit., p. 238.
23 E. Husserl, Idee per una fenomenologia, Torino 1981, I, p. 95.
24 Nicola Cusano, La dotta ignoranza, Roma 1991, p. 76.
25 E. Kant, Critica della ragion pratica, a cura di V. Mathieu, Milano 1996, p. 53.
26 R. Nobili, La cognizione dello spazio e il principio di dualità , Pavia, preprint 1990, p. 5.
27 Cfr. il paragrafo 16c di A. Pais, «Sottile è il Signore…»: la scienza e la vita di Albert Einstein, Torino 1991, per una rassegna dei titoli del “Times” e di altre riviste scientifiche e non durante il momento della “beatificazione” di quel memorabile novembre: «Rivoluzione nella scienza. Nuova teoria dell’universo. La concezione newtoniana demolita», «Euclide al tappeto», «Notizia sconvolgente, che farà sorgere i dubbi perfino sull’affidabilità della tavola pitagorica», «Tempi duri per persone colte», «All’assalto dell’assoluto», ecc.
28 Il 1° gennaio del 1801 l’Osservatorio di Palermo poté vantare una sensazionale scoperta fatta dall’astronomo Giuseppe Piazzi: il primo asteroide mai osservato, Cerere. Piazzi, tuttavia, aveva potuto osservare solo 9° dell’intera orbita del pianeta; una porzione fino allora considerata insufficiente per consentire il calcolo dell’orbita completa. Gauss accettò la sfida e arrivò a calcolare un’orbita ellittica innovativa rispetto ai tentativi utilizzati fino allora, che in seguito si rivelò esatta.
29 R. Tazzioli, Gauss, principe dei matematici e scienziato poliedrico, Milano 2002, p. 36.
30 Ibidem, p. 39.
31 Gauss completerà l’interpretazione geometrica dei numeri complessi solo a partire dal 1831, perfezionando il cammino intrapreso nella sua dissertazione discussa a Helmstedt nel 1799, dove è contenuta la dimostrazione del famoso teorema fondamentale dell'algebra, che afferma che ogni polinomio a coefficienti complessi ammette almeno una radice complessa. Lo studio delle funzioni complesse venne poi proseguito da Cauchy che nel 1825 propose una generalizzazione dell'integrale definito che includesse anche le variabili complesse.
32 Ib., p. 6.
33 È vero quanto asserisce Russell: «L’autoevidenza è uno degli argomenti più problematici di tutta l’epistemologia» (B. Russell, Teoria della conoscenza, Roma 1996, p. 248). D’altra parte la soluzione tentata da questi sembrerebbe ben lontana da una compiutezza filosofica soddisfacente. Si veda, per completezza, oltre che Autoevidenza, in B. Russell, op. cit., pp. 248 e sgg., anche La matematica e i metafisici, in B. Russel, Misticismo e logica, pp. 71 e sgg., dove viene sottolineato che «l’evidenza è spesso un fuoco fatuo» (p. 74).
34 Cit. in J.D. Barrow, La luna nel pozzo cosmico, Milano 1994, p. 31.
35 J.D. Barrow, op. cit., p. 40.
36 M. Kline, Matematica: la perdita della certezza, op. cit., p. 98.
37 Ibidem. La similitudine con Einstein arriva addirittura nella conversione in età matura e nel rigetto del proprio credo epistemologico avuto prima della pienezza. Come il “secondo” Einstein nella maturità rinnegherà il “primo” per aver accettato la metafisica operazionista, anche Gauss, nella fase matura della sua vita, rimediterà e rimetterà in discussione la matrice empirista e strumentalista che l’aveva guidato per tutto l’arco degli anni fruttuosi e memorabili. Così come anche tutte e due le “riconversioni” avverranno troppo tardi in rapporto all’avvio degli sviluppi successivi, che cristallizzeranno invece il cammino empirio-operazionista della scienza posteriore.
38 C.B. Boyer, Storia della matematica, Milano 1990, p. 322.
39 Ibidem, p. 326.
40 «Quanto ai numeri negativi, sebbene essi fossero diventati noti in Europa attraverso i testi arabi, la maggior parte dei matematici del XVI e del XVII secolo non li accettava come numeri o, se lo faceva, non li accettava tuttavia come radici delle equazioni» (M. Kline, Storia del pensiero matematico, vol. I, Torino 1996, p. 294). Racconta Kline che «Pascal considerava la sottrazione di 4 da 0 come una totale assurdità» e che Cartesio «chiamava false le radici negative delle equazioni sulla base del fatto che esse pretendono di rappresentare numeri minori di nulla» e soltanto per il fatto da lui dimostrato che «le radici false possono essere mutate in radici reali, Descartes era disposto ad accettare i numeri negativi» (Ibidem, pp. 294-295).
41 Termine coniato da Cartesio allorché approfondì l’impossibilità di “trasmutare” le radici complesse in radici reali, come invece era riuscito a fare per quelle negative: «Esse non sono perciò reali ma immaginarie, cioè non sono numeri. Descartes tracciò una distinzione più chiara dei suoi predecessori fra le radici reali e immaginarie delle equazioni»
42 Ibidem, p. 295.
43 C.B. Boyer, op. cit., p. 330.
44 Ibidem, pp.332-333.
45 Sottolinea però Kline che «le opinioni avanzate di Girard non ebbero tuttavia alcuna influenza» (M. Kline, Storia del pensiero matematico, op. cit., p. 296).
46 Paul J. Nahin, An Imaginary Tale. The Story of 1 - , Princeton 1998, p. 31.
47 Ibidem, p. 82.
48 Scriveva De Morgan nel 1831: «Abbiamo dimostrato che il simbolo 1 - è privo di significato, anzi addirittura autocontraddittorio e assurdo.» (P.J. Nahin, op. cit., p. 82). Aggiunge ai nostri giorni M. vos Savant: «Yet it is accepted, and imaginary numbers are used routinely. But how can we justify using them to prove a contradiction?» (Ibidem, p. 224).
49 C.B. Boyer, op. cit., p. 332. Il “sospetto di contraddizione” che nasce dalla manipolazione con i numeri negativi viene così candidamente spiegata da Paul J. Nahin: «This suspicion of negative numbers seems so odd to scientists and engineers today, however, simply because they are used to them and have forgotten the turmoil they went through in their grade-school years. In fact, intelligent, nontechnical adults continue to experience this turmoil, as illustrated in the following wonderful couplet, often attributed to the poet W. H. Auden: “Minus times minus is plus. The reason for this we need not discuss.”» (P.J. Nahin, op. cit., pp. 13-14).
50 P.J. Nahin, op. cit., pp. 224-6.
51 «Per verificare l’applicabilità della geometria euclidea e della sua geometria non euclidea Gauss misurò effettivamente la somma degli angoli del triangolo formato dalle cime delle tre montagne Brocken, Hohehagen e Inselberg» (M. Kline, Storia del pensiero matematico, vol. II, Torino 1996, p. 1017).
52 M. Kline, Matematica: la perdita della certezza, op. cit., p. 103.
53 Ibidem, pp. 106-7.
54 Ib., p. 107.
55 Ib., p. 132.
56 Ib., p. 134.
57 Ib., pp. 168-9.
58 Ib., p. 170.
59 Cit. in B. Russell, La mia filosofia, op. cit., p. 217.
60 M. Kline, Storia del pensiero matematico, vol. II, op. cit., p. 1136.
61 D. Overbye, Einstein innamorato. La vita di un genio tra scoperte scientifiche e passione romantica , Milano 2002, pp. 126-7.
62 M. Kline, Matematica: la perdita della certezza, op. cit., pp. 172-3.
63 M. Kline, Storia del pensiero matematico, vol. II, op. cit., p. 1139.
64 Ibidem, p. 1026.
65 J.D. Barrow, La luna nel pozzo cosmico, op. cit., p. 35. «All’origine della svolta c’era stata l’opera di Gauss sulla geometria delle superfici, che iniziava lo studio delle proprietà intrinseche delle superfici, indipendenti cioè dallo spazio in cui erano immerse» (E. Giusti, Ipotesi sulla natura degli oggetti matematici, Torino 1999, p. 84). Nell’opera di Gauss del 1828, Disquisitiones generales circa superficies curvas, l’idea chiave è quella di considerare «la superficie non come la frontiera di un solido» ma di per sé stessa, con le parole di Eugenio Beltrami «come un velo infinitamente sottile». L’approccio di Gauss sarà ripreso anni dopo da Riemann, il quale - nella sua lezione di abilitazione tenuta proprio di fronte a Gauss nel giugno del 1854 - esporrà la sua celebre teoria delle varietà pluriestese. I perfezionamenti successivi di Beltrami e Ricci Cubastro riveleranno la grande fecondità dell’idea gaussiana nella formulazione matematica della Relatività generale, come ebbe a sottolineare lo stesso Einstein: «L’importanza di Gauss per lo sviluppo della fisica moderna e specialmente per i fondamenti matematici della teoria della relatività è enorme» (Cit. in R. Tazzioli, op. cit., p. 64).
66 M. Kline, Storia del pensiero matematico, vol. I, op. cit., p. 465.
67 Cit. in U. Bottazzini, Insiemi di punti e numeri transfiniti, in Paolo Rossi (ed.), Storia della scienza moderna e contemporanea, vol. III, tomo I, Milano 2000, p. 62.
68 Ibidem, p. 63.
69 Ibidem. Per questo motivo Kant era odiato da Cantor: «Kant era la sua bestia nera» (B. Russell, Una filosofia per il nostro tempo, Milano 1995, p. 24). Per un motivo opposto a quello di Cantor, Kant stava sullo stomaco anche a Russell. Sulla copertina di un libro di Cantor spedito dall’autore medesimo a Russell c’era scritto: «Vedo che il vostro motto è Kant o Cantor» (Ibidem). Ricorda Alan Wood in una conversazione avuta con Bertrand Russell la teatrale manifestazione di contrarietà che questi aveva «circa l’affermazione di Kant riguardo all’esistenza di un elemento soggettivo nella matematica: il tono della voce può essere descritto solo come di disgusto, simile a quello di un fondamentalista posto di fronte all’ipotesi che Mosè abbia inventato di sana pianta i Dieci Comandamenti: “Kant mi ha stufato.”» (A. Wood, La filosofia di Russell. Uno studio sulla sua evoluzione, in B. Russell, La mia filosofia, op. cit., p. 223)”. Einstein invece parteggiava per la tesi cantoriana, la quale – oltre a «fare rivoltare Kant nella tomba» (D. Overbye, op. cit., p. 131) – propendeva per una vittoria della libera creatività sulla rigidità delle kantiane forme a priori: «Gli assiomi della matematica sono altrettanti esempi dell’opinione di Einstein per cui i concetti sono libere creazioni della mente umana. […] In Kant… l’attività creativa della mente era limitata dalle forme a priori dell’intuizione. Ma il pensiero matematico se ne liberò con la scoperta di geometrie non euclidee, e si capisce quindi come Einstein abbia dotato il pensiero di una maggiore libertà di creazione che con Kant» (V.F. Lenzen, La teoria della conoscenza di Einstein, op. cit., p. 327).
70 G. Bachelard, La valeur inductive de la Relativité, Paris 1929, p. 61.
71 Cit. in U. Bottazzini, Fondamenti dell’aritmetica e della geometria, in Paolo Rossi (ed.), op. cit., p. 257.
72 FLOP = Falsificatore Logico Potenziale, neologismo del presente autore. Si veda, per un approfondimento, I FLOP nella trattazione relativistica del tempo, in F. Selleri (ed.), La natura del tempo, Bari 2002.
73 Cit. in U. Bottazzini, Fondamenti dell’aritmetica e della geometria, in Paolo Rossi (ed.), op. cit., p. 257.
74 Cit. in U. Bartocci, Riflessioni sui fondamenti della matematica ed oltre, «Synthesis», n. 3, anno III, 1994, p. 26.
75 Inevitabile la ricaduta di tale mentalità sulla fisica contemporanea. Scrive Weizsäcker, ad esempio, che gli elettroni rimangono stabili sulle loro orbite perché le «leggi della meccanica quantistica… glielo impongono» (Cit. in P. Plichta, La formula segreta dell’universo, Casale Monferrato 1998, p. 177).
76 B. Hoffmann – H. Dukas, Albert Einstein, creatore e ribelle, op. cit., p. 144. Einstein sigillerà irreversibilmente, in tale visione gaussiana. Con le parole di Max Jammer: «Fu Einstein che chiarì come la geometria, allorché viene applicata in questo modo all'indagine dello spazio fisico, cessa di essere una scienza assiomatico-deduttiva e diviene una fra le scienze naturali» (M. Jammer, Storia del concetto di spazio, Milano 1981, p. 148).
77 J.D. Barrow, op. cit., p. 34.
78 W.K. Clifford, Philosophy of the Pure Sciences, in Lectures and Essays, London 1879, vol. I, p. 300, cit. in D. Overbye, op. cit., p. 131.
79 B. Russell, La mia filosofia, op. cit., p. 39.
80 Ibidem, p. 41.
81 L. Brunschvicg, L’expérience humaine et la causalité physique, Paris 1949, p. 410.
82 G. Bachelard, La valeur inductive de la Relativité, op. cit., p. 197.
83 R.P. Feynman, QED. La strana teoria della materia e della luce, Milano 1996, p. 25.
84 Scrive Heisenberg in Fisica e filosofia: «È vero che ci apparirà anche subito chiaro che questi concetti non sono ben definiti nel senso scientifico e che la loro applicazione può condurre a varie contraddizioni; ma noi sappiamo tuttavia che essi toccano la realtà. Può essere utile a questo proposito ricordare che perfino nella parte più precisa della scienza, nella matematica, noi non possiamo fare a meno di servirci di concetti che implicano delle contraddizioni. È ben noto, ad esempio, che il concetto d’infinito conduce a contraddizioni che sono state analizzate; eppure sarebbe praticamente impossibile costruire senza questo concetto le più importanti parti della matematica» (op. cit., p. 233).
85 «L'abbandono dell'antica ipotesi di Euclide ebbe un parallelo nella elaborazione di nuove algebre che rinunciavano a un altro assunto profondamente radicato, secondo il quale, quando l'operazione A era seguita dall'operazione B, il risultato doveva essere identico a quello prodotto compiendo prima B e poi A. […] La costruzione di Hamilton segnò l'inizio di un periodo in cui i matematici presero a creare liberamente sistemi di simboli servendosi di regole prestabilite e compatibili che ne governassero le combinazioni reciproche senza curarsi che tali sistemi descrivessero alcunché nel mondo reale» (J.D. Barrow, op. cit., pp. 38-9).
86 Così come «la teoria della relatività – scrive Heisenberg – sembra da principio una cosa astratta ed estranea», bisogna abituarsi («il nostro pensiero si può adattare solo lentamente all’ampliato dominio sperimentale e al nuovo mondo concettuale») con la teoria dei quanti «a una rinuncia ancor più profonda ai concetti finora abituali» (W. Heisenberg, I princìpi fisici della teoria dei quanti, Torino 1987, p. 74). Bisogna solo aspettare, cioè, pazientemente che i nuovi concetti rivoluzionari e astrusi sedimentino sufficientemente nella nostra mente, come il «Maestro della Scuola Copenhagen» suggerisce ad Alice, sconcertata dal mondo dei quanti: «Ci farai l'abitudine presto, non temere» (R. Gilmore, Alice nel paese dei quanti, Milano 1996, p. 78). Rileva a questo riguardo Jenner Barretto Bastos Filho: «Il paradigma di Copenhagen-Göttingen ha dominato lo scenario della fisica […] Il positivismo, la sopravvalutazione della misura, la fuga verso il formalismo matematico, e addirittura le “onde di coscienza”, hanno abitato stabilmente nei corsi di meccanica quantistica, operando un vero lavaggio del cervello» (J.B. Bastos Filho, La dissoluzione della realtà: irrealismo e indeterminismo nella fisica del microcosmo, in M. Mamone Capria (ed.), op. cit., pp. 448-9).
87 W. Heisenberg, Fisica e filosofia, op. cit., p. 107.
88 Hermann von Helmholtz, Sull’origine e il significato degli assiomi geometrici, in A. Einstein, Relatività: esposizione
divulgativa, Torino 1967, p. 249.
89 J.D. Barrow, op. cit., p. 197.
90 R. Nobili, op. cit., p. 3. «Il programma di Hilbert era più innovativo di quanto a prima vista potesse apparire. Fino ad allora, per accertare la coerenza di una struttura matematica era stato necessario fornire un’interpretazione particolare (ossia un “modello”, come veniva chiamato) degli assiomi in questione. Se questo modello nel mondo reale esisteva, il sistema matematico veniva considerato coerente, nella convinzione che la realtà fisica fosse esente da contraddizioni. […] Hilbert abbandonò questo infruttuoso procedimento per cercare prove di coerenza che non facessero uso di modelli (né fisici né matematici) del significato degli assiomi» (J.D. Barrow, op. cit., p. 198).
91 J.D. Barrow, op. cit., pp. 194-5. Scrive Bertrand Russell: «La matematica pura è interamente costituita da asserzioni per effetto delle quali, se un tale enunciato è vero per qualcosa, allora il tale altro enunciato è vero per quella cosa. È essenziale non discutere se il primo enunciato è realmente vero, e non indicare quale sia la cosa per la quale si suppone che sia vero. […] Così la matematica può essere definita come la materia nella quale non sappiamo mai di che cosa stiamo parlando, né se ciò che stiamo dicendo è vero» (B. Russell, Misticismo e logica, op. cit., pp. 71-2).
92 La differenza sta nell’autoevidenza: i primi sono di per sé «chiari e distinti» direbbe Cartesio, mentre i secondi dovranno sottostare alla “spada di Damocle” di una possibile ventura contraddizione, cantorianamente potenziale. Mentre gli assiomi sono, nelle parole di Benjamin Fedorovich Kagan (1869-1953), «verità ammesse da ogni uomo, alle quali l’uomo inevitabilmente ricorre tanto in ciascuna scienza, quanto in qualsiasi ragionamento quotidiano», i postulati costituiscono precise richieste che «il lettore deve accettare accingendosi allo studio di una disciplina, affinché i ragionamenti successivi non suscitino obiezioni da parte sua» (Cit. in R. Tazzioli, op. cit., p. 66).
93 H. Meschkowski, Mutamenti nel pensiero matematico, Torino 1973, p. 87. Come rileva giustamente Umberto Bartocci: «Logicismo, formalismo, crisi dei fondamenti, etc., sono tutti riconducibili nell’illustrato contesto ad esiti naturali del tentativo di espungere la geometria euclidea dai fondamenti della matematica» (U. Bartocci, op. cit., p. 24).
94 È paradigmatico «il detto di Einstein che “la base assiomatica della fisica teorica… deve essere liberamente inventata”» (F.S.C. Northrop, La concezione della scienza di Einstein, in P.A. Schilpp (ed.), op. cit., p. 341).
95 J.P. Changeux - A. Connes, op. cit., p. 16.
96 Scrive, ad esempio, Roger Penrose: «La teoria ha due argomenti molto efficaci a suo favore e solo uno, di scarso rilievo, a sfavore. Innanzitutto, la teoria è sorprendentemente esatta rispetto a tutti i risultati sperimentali fino ad oggi ottenuti. In secondo luogo [...] si tratta di una teoria di straordinaria e profonda bellezza dal punto di vista matematico. L’unica cosa, che può essere detta contro di essa, è che, presa in assoluto, non ha alcun senso!» (Cit. in A. Zeilinger, Problemi di interpretazione e ricerca di paradigmi in meccanica quantistica , in F. Selleri (ed.), Che cos’è la realtà. Dibattito nella fisica contemporanea, Milano 1990, p. 123).
97 M. Kline, Matematica: la perdita della certezza, op. cit., p. 15.
98 S.W. Hawking – R. Penrose, The Nature of Space and Time, Princeton 1996, p. 116.
99 E. Schrödinger, L’immagine del mondo, Torino 2001, p. 115.
100 G. Bachelard, La dialettica filosofica dei concetti della relatività, in P.A. Schilpp (ed.), op. cit., p. 511.
101 H. Reichenbach, Relatività e conoscenza a priori, Bari 1984, p. 59.
102 Cit. in F. Selleri, La fisica del novecento. Per un bilancio critico, Bari 1999, p. 94.
103 W. Heisenberg, La tradizione nella scienza, op. cit., p. 127.
104 G. Gamow, Trent’anni che sconvolsero la fisica, Bologna 1966, p. 107.
105 Scrive il logico americano Alonzo Church: «Noi non attribuiamo alcun carattere di unicità o di verità assoluta ad alcun sistema logico particolare… possiamo considerare l’analogia di una geometria tridimensionale utilizzata nella descrizione dello spazio fisico… può esservi, e in realtà vi è, più di una geometria il cui uso è lecito nella descrizione dello spazio fisico. Analogamente, esiste senza dubbio più di un sistema formale che può essere utilizzato come logica, e di questi sistemi uno può essere più proficuo o più comodo di un altro; non si può, però, dire che uno sia giusto e l’altro sbagliato» (Cit. in J.D. Barrow, op. cit., p. 43).
106 G. Bachelard, La valeur inductive de la Relativité, op. cit., p. 99.
107 G. Bachelard, Il nuovo spirito scientifico, op. cit., p. 39.
108 Ibidem, p. 50.
109 Ibidem.
110 H. Bouasse, La question préalable contre la théorie d’Einstein, Paris 1923, p. 18.
111 Ibidem, pp. 18-20. La trad. it. è a cura di M.R. Abramo in Gaston Bachelard e le fisiche del novecento, Napoli 2002,
pp. 21-2.
112 G. Bachelard, L’expérience de l’espace dans la physique contemporaine , Paris 1937, p. 42.
113 E. Cassirer, Determinismo e indeterminismo nella fisica moderna, Firenze 1970, p. 243.
114 H. Bouasse, op. cit., p. 17.
115 W. Heisenberg, La tradizione nella scienza, op. cit., p. 137.
116 F. Selleri, Introduzione, in F. Selleri (ed.), La natura del tempo, op. cit., p. 22. Dinanzi al voltafaccia dell’Einstein maturo che cambia rotta e fa una “inversione a U” sul tracciato epistemologico intrapreso negli anni memorabili, Max Born – sbigottito e dispiaciuto per la «tragedia» di aver perso «il nostro capo e portabandiera» – ammette: «Dobbiamo accettare il fatto che anche nella fisica, come in tutte le altre attività umane, le convinzioni fondamentali vengono prima del ragionamento» (M. Born, Le teorie statistiche di Einstein, in P.A. Schilpp (ed.), op. cit., p. 68).
117 P.W. Bridgman, La logica della fisica moderna, Torino 1965, pp. 83-84.
118 M. Mamone Capria, La crisi delle concezioni ordinarie di spazio e di tempo, in M. Mamone Capria (ed.), op. cit., p.347.
119 R. Descartes, Regulae ad directionem ingenii, in Opere filosofiche, vol. I, a cura di E. Garin, Roma-Bari 1991, p. 64.
120 H. Dingle, Science at the Crossroads, London 1972, p. 13.
121 U. Bartocci – R.V. Macrì, Il linguaggio della matematica, op. cit., p. 111.
122 H. Dingle, op. cit., p. 130.
123 P.J. Nahin, op. cit., p. XV.
124 F. Selleri, La causalità impossibile. L'interpretazione realistica della fisica dei quanti , Milano 1988, p. 45.
125 P.W. Bridgman, op. cit., p. 52. Ciò viene tradotto all’interno dell’immagine scientifica del mondo come un continuo susseguirsi di teorie rivoluzionarie senza arrivare mai alla verità: una «corsa che non avrà mai fine» (F.A. Levi, Esplorazione del tempo e dello spazio, Milano 1981, p. 126), quando invece lo stesso artefice della nuova visione del mondo si affannava per trovare la chiave “definitiva”. Ciò fu osservato distintamente da Wolfgang Pauli, il quale a proposito della tenacia e dell’inventiva di Einstein a garantire ogni anno una nuova teoria unitaria scrisse: «È interessante dal punto di vista psicologico che per qualche tempo la teoria corrente sia ritenuta dal suo autore “la soluzione definitiva”» (Cit. in R. Highfield – P. Carter, Le vite segrete di Albert Einstein, Padova 1994, p. 190).
126 Un approfondimento si ha in R.V. Macrì, Relativismo e pensiero debole: la perdita del fondamento , «Episteme», n.1, 2000.

Nessun commento:

Posta un commento

Elenco blog personale