venerdì 24 febbraio 2012

Heidegger. Il linguaggio è la casa dell’Essere.

Ciò che è veramente inquietante non è che il mondo si trasformi in un completo dominio della tecnica. Di gran lunga più inquietante è che l'uomo non è affatto preparato a questo radicale mutamento del mondo.
Di gran lunga più inquietante è che non siamo ancora capaci di raggiungere, attraverso un pensiero meditante, un confronto adeguato con ciò che sta realmente emergendo nella nostra epoca.
M. Heidegger, L'abbandono (1959), p. 36



Temo, (con Heidegger) che l'uomo non possa vivere senza la tecnica.
Noi siamo delle "scimmie nude" che non riescono ad adattarsi all'ambiente naturale, e cosi dobbiamo trasformare questo ambiente per poterlo assimilare. Ma non si può aggredire l'Ambiente in modo sconsiderato, le nuove tecnologie risolvono alcuni problemi, ma creano nuovi bisogni, fino al punto di rendere l'uomo dipendente da esse.!!!


Dove si poteva giungere, una volta, solo dopo settimane e mesi di viaggio, l'uomo arriva ora in una notte di volo. Notizie che una volta si ricevevano solo dopo anni, o che semplicemente restavano ignote, giungono ora all'uomo in un attimo, di ora in ora, attraverso la Radio......Ma questa fretta di sopprimere ogni distanza non realizza una vicinanza; la vicinanza non consiste infatti nella ridotta misura della distanza. Ciò che, in termini di misure, é il meno distante da noi grazie all'immagine del film o alla voce della radio, può rimanerci lontano. Ciò che in termini di distanza é per noi immensamente remoto, può esserci vicino. Una piccola distanza non é ancora vicinanza.
Heidegger, La cosa, in Saggi e discorsi



IL MOTORE DIESEL ESISTE GRAZIE AI FILOSOFI.
Che l'intelletto comune e l'opinare abituale non sappiano e non abbiano bisogno di sapere nulla delle categorie filosofiche testimonia soltanto quanto sia inevitabile la cosa essenziale qui in discussione, posto che la vicinanza all'essenza rimanga ogni volta solo il privilegio, ma anche il destino dei pochi. Che per esempio ci sia qualcosa come un motore diesel ha il suo fondamento decisivo, che tutto regge, nel fatto che un tempo i filosofi pensarono espressamente, e a fondo, le categorie della natura sfruttabile con la tecnica meccanica.
Non c'è niente di strano se l'"uomo della strada" crede che un "motore diesel" esista perché Diesel lo ha inventato. Non occorre che tutti sappiano che l'intero sistema delle scoperte non avrebbe potuto compiere un solo passo se la filosofia non avesse pensato le categorie di questa natura e non avesse, solo così, aperto l'ambito per il cercare e lo sperimentare degli inventori. Tuttavia, chi sa di questa autentica origine della moderna macchina a motore, non per questo, certo, è in grado di costruire motori migliori; ma forse è in grado, e forse solo lui, di domandare che cosa sia questa tecnica meccanica nella storia del rapporto dell'uomo con l'essere.
M. HEIDEGGER, "Il nichilismo europeo"



L'esserci, l'essere umano, compreso nella sua estrema possibilità d'essere, è il tempo stesso, e non è nel tempo
Martin Heidegger


Il presente viene sempre dopo l'avvenire. 
L'avvenire è l'origine della storia.
Storico è l'avvenire, quel che viene posto nella volontà, nell'attesa.
Martin Heidegger


L'Inizio è ancora. Non è alle nostre spalle, come un evento da lungo tempo passato, ma ci sta di fronte, davanti a noi.
Martin Heidegger


Colui che rispetta l'ambiente salva la terra e non la padroneggia né l'assoggetta. 
Martin Heidegger

Heidegger. Il linguaggio è la casa dell'essere.
Il linguaggio è la casa dell’essere e nella sua dimora abita l’uomo. Il filosofo compie un’analisi critica della téchne e della conoscenza di tipo epistemico, che si fonda sulla logica e perde l’essere.
M. Heidegger, Brief über den Humanismus, [Lettera sull’umanesimo] in Platons Lehre von der Wahrheit, [La dottrina di Platone sulla verità], Bern, 1947, trad. it. di F. Volpi, Segnavia, Adelphi, Milano, 1987, pagg. 267-269


Il linguaggio parla in quanto dice, cioè mostra. Il suo dire scaturisce dal Dire originario, sia per quanto si è fatto parola sia per quanto è rimasto ancora inespresso, da quel Dire originario che trapassa il profilo del linguaggio. Il linguaggio parla nell'atto che, come mostrare, raggiungendo tutte le contrade di ciò che può farsi presente, fa che da esse appaia o dispaia quel che di volta in volta si fa presente. Di conseguenza noi porgiamo ascolto al linguaggio in modo da lasciarsi dire il suo Dire. Quale che sia il modo con cui ascoltiamo, ogni qual volta che ascoltiamo qualcosa, sempre l'ascoltare è quel lasciarsi dire che già racchiude ogni percepire e rappresentare. In quanto il parlare è ascolto del linguaggio, parlando, noi ri-diciamo il Dire che abbiamo ascoltato.
M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio


La parola che ci parla dell’essenza di una cosa ci viene dal linguaggio, purché noi sappiamo fare attenzione all’essenza propria di questo. Intanto però un flusso, insieme caotico e abilmente costruito, di discorsi, scritti, messaggi si diffonde vertiginosamente per tutta la terra. L’uomo si comporta come se fosse lui il creatore e il padrone del linguaggio, mentre è questo, invece, che rimane signore dell’uomo. Forse è proprio anzitutto il rovesciamento, operato dall’uomo, di questo rapporto di sovranità quello che spinge l’essere dell’uomo verso una condizione di estraniazione. Che noi ci prendiamo cura scrupolosamente del nostro parlare è un bene, ma non serve a nulla finchè anche in questo il linguaggio viene fatto servire solo come un mezzo di espressione. Di tutti gli appelli che si rivolgono a noi, e che anche noi uomini possiamo contribuire a far parlare, il linguaggio è quello assolutamente primo e supremo.

Martin Heidegger, Costruire Abitare Pensare

Inizialmente memoria significa anima e il raccolto rimaner presso. Ma queste parole parlano qui nel modo più ampio e più essenziale. Anima non indica solo, per parlare in termini moderni, l'aspetto emotivo della coscienza umana, ma ciò che fa dell'essenza umana quell'essenza che è.
Martin Heidegger, Cosa significa pensare



Martin Heidegger.  È l’essenza del linguaggio che gioca con noi.
“Se ascoltiamo dunque la domanda «Che cosa significa pensare?» in modo tale che con essa chiediamo: «Che cos’è che si rivolge a noi, chiedendoci di pensare?», allora chiederemo di ciò che raccomanda alla nostra essenza il pensiero e in questo modo fa pervenire la nostra stessa essenza al pensiero, affinché in esso si conservi.
Ponendo la domanda in questo modo, usiamo comunemente la parola «heißen» in quel senso che ci è piuttosto inconsueto. Ma esso ci è poco abituale non perché il parlare della nostra lingua non si sia mai sentito a casa in esso, ma perché ‹noi› non ci sentiamo più a casa in questo dire della parola, perché non lo abitiamo più in modo autentico.
Quando domandiamo: «Che cosa ci chiama (‹heißt›) al pensiero?», ritorniamo al significato della parola ‹heißen› in origine abitualmente pensato.
È questo un ritorno arbitrario? È un facile gioco? Né l’una cosa, né l’altra. Se tuttavia qui è possibile parlare di gioco, il gioco non sarà un gioco di parole, perché è l’essenza del linguaggio che gioca con noi – e non soltanto in questo caso particolare, non soltanto da oggi, ma ormai da lungo tempo e senza interruzioni. Il linguaggio gioca infatti con il nostro parlare in modo che abbandona facilmente quest’ultimo ai significati più superficiali delle paroleÈ come se l’uomo facesse fatica ad abitare in maniera appropriata nel linguaggio. È come se proprio l’abitare fosse il più esposto al pericolo dell’abituale.
Al posto del linguaggio abitato in modo appropriato e delle parole che ad esso sono familiari subentrano parole abitualiQuesto parlare abituale diventa quello corrente. Lo si incontra dappertutto e lo si considera anche, in quanto comune a tutti e a tutto, come l’unico che dia una norma. Allora ciò che esce dall’abituale per abitare in quello che già una volta fu il parlare appropriato del linguaggio viene immediatamente preso per un’infrazione alla norma. Esso viene stigmatizzato come un arbitrio, come un facile gioco. E questo fa parte dell’ordine delle cose, dal momento che considera l’abituale come l’unica norma legittima e non si è assolutamente capaci di contenere l’abituale nel suo carattere di abitudine. Questa vertigine di fronte all’abituale, posta sotto l’egida del preteso sano intelletto umano, non è causale, né tale da poter essere sottovalutata. Questa vertigine di fronte all’abituale fa parte dell’alto e pericoloso gioco in cui l’essenza del linguaggio ci ha messi in gioco.
È forse un gioco di parole tentare di seguire il gioco del linguaggio e, così facendo, ascoltare ciò che propriamente il linguaggio dice quando parla? Se questo ascolto riesce, può accadere che noi, se non smettiamo di procedere con cautela, perveniamo in modo più appropriato a ciò che in ogni dire e domandare giunge ogni volta al linguaggio.”
MARTIN HEIDEGGER (1889 – 1976), “Che cosa significa pensare?” (1954), prefazione di Gianni Vattimo, trad. di Ugo Agazioe e Gianni Vattimo, Sugarco, Milano 1979, 2 voll. (I vol. 1978), vol. II (1979), ‘Qual è l’essenza nascosta della tecnica moderna’ (secondo corso tenuto presso l’Università di Friburgo nel semestre estivo del 1952), I, pp. 14 – 16.


Ma ciò che prima di tutto “è”, è l’essere. Il pensiero porta a compimento il riferimento (Bezug) dell'essere all’essenza dell'uomo. Non che esso produca o provochi questo riferimento. Il pensiero lo offre all'essere soltanto come ciò che gli è stato consegnato dall'essere. Questa offerta consiste nel fatto che nel pensiero l'essere viene al linguaggio.
Il linguaggio è la casa dell'essere. Nella sua dimora abita l'uomo. I pensatori e i poeti sono i custodi di questa dimora. Il loro vegliare è il portare a compimento la manifestatività dell'essere; essi, infatti, mediante il loro dire, la conducono al linguaggio e nel linguaggio la custodiscono. Il pensiero non si fa azione perché da esso scaturisca un effetto o una applicazione. Il pensiero agisce in quanto pensa. Questo agire è probabilmente il piú semplice e nello stesso tempo il piú alto, perché riguarda il riferimento dell'essere all'uomo. Ma ogni operare riposa nell'essere e mira all'ente. Il pensiero, invece, si lascia reclamare dall'essere per dire la verità dell'essere. Il pensiero porta a compimento questo lasciare. [...] Se vogliamo imparare a esperire nella sua purezza, e cioè nello stesso tempo a portare a compimento, la suddetta essenza del pensiero, dobbiamo liberarci dall'interpretazione tecnica del pensiero i cui inizi risalgono fino a Platone e ad Aristotele. In tale interpretazione, infatti, il pensiero è inteso come una téchne, come il procedimento del riflettere al servizio del fare e del produrre. Ma già qui il riflettere è visto in riferimento alla práxis e alla poíesis. Per questo il pensiero, se lo si prende per se stesso, non è “pratico”. La caratterizzazione del pensiero come theoría e la determinazione del conoscere come atteggiamento “teoretico” avvengono già all'interno dell'interpretazione “tecnica” del pensiero. Essa è un tentativo di reazione per salvare ancora un'autonomia del pensiero nei confronti dell'agire e del fare. Da allora la “filosofia” si trova nella costante necessità di giustificare la propria esistenza di fronte alle “scienze. Essa pensa che ciò possa avvenire nel modo piú sicuro elevandosi a sua volta al rango di una scienza. Ma questo sforzo è l'abbandono dell'essenza del pensiero. La filosofia è perseguitata dal timore di perdere in considerazione e in valore se non è una scienza. Questo fatto è considerato una deficienza ed è assimilato alla non scientificità. Nell'interpretazione tecnica del pensiero, l'essere come elemento del pensiero, è abbandonato. La “logica” è la sanzione di questa interpretazione che prende l'avvio dalla sofistica e da Platone. Si giudica il pensiero con una misura a esso inadeguata. Questo modo di giudicare equivale al processo che tenta di valutare l'essenza e le facoltà del pesce in base alle sue capacità di vivere all'asciutto. Già da molto, anzi da troppo tempo, il pensiero si trova all'asciutto. Ora, si può chiamare “irrazionalismo” lo sforzo di portare di nuovo il pensiero nel suo elemento?
Novecento filosofico e scientifico, a cura di A. Negri, Marzorati, Milano, 1991, vol. II, pagg. 285-286
http://www.filosofico.net/Antologia_file/AntologiaH/HEIDEGGER_%20IL%20LINGUAGGIO%20CASA%20DE.htm


Martin Heidegger. La superiore intangibilità della parola originaria.
Il linguaggio originario è il linguaggio della poesia.
Il poeta non è però chi compone versi sull’oggi di volta in volta attuale. 
La poesia non è consolazione per giovani fanciulle appassionate, non è stimolo per gli esteti che chiedono all’arte godimento e lusinga. Vera poesia è il linguaggio di quell’essere che è rivolto a noi da lungo tempo e che non abbiamo mai raccolto. Per questo motivo il linguaggio del poeta non è mai odierno, ma sempre già-stato e futuro. Il poeta non è mai contemporaneo. Per quanto organizzazioni di poeti contemporanei siano certamente possibili, tuttavia restano un controsenso. Poesia, dunque autentico linguaggio, accade solo là dove l’imporsi dell’essere è portato alla superiore intangibilità della parola originaria.


Soltanto un dio ci può salvare
Martin Heidegger

Francesco Roma:

Marx diceva che Dio è la proiezione nei cieli di ciò che l'uomo non è...


Martin Heidegger: La ragione è la piú accanita nemica del pensiero
“ All’inizio del passo preso in esame*, l’uomo pazzo grida a perdifiato: «Cerco Dio! Cerco Dio!» 
Che significa che quest’uomo è pazzo? Esso è fuori del normale. Esso è infatti fuori del piano dell’uomo di prima, fuori del piano sul quale gli ideali del mondo sovrasensibile, divenuti irreali, vengono spacciati per reali, mentre si realizza il loro opposto. Quest’uomo è fuori del comune perché é al di là dell’uomo di prima. Tuttavia esso non ha fatto altro che immedesimarsi compiutamente dentro la predeterminata essenza dell’uomo di prima: essere l’<animal rationale>. Perciò quest’uomo fuori del comune non ha niente a che fare con quel genere di fannulloni pubblici che lo circondano e che «non credono in Dio». Essi infatti non sono non-credenti perché Dio, in quanto Dio, è per loro divenuto non credibile, ma perché essi stessi hanno distrutto la possibilità di credere, in quanto non sono piú in grado di cercare Dio. Non sono piú in grado di cercare perché non pensano piú. I fannulloni pubblici che attorniano l’uomo pazzo, hanno smesso di pensare, sostituendo al pensiero la chiacchiera che fiuta nichilismo ovunque ritiene che siano in pericolo le proprie opinioni. Questo autoaccecamento crescente di fronte al nichilismo autentico cerca cosí di stornare la propria angoscia davanti al pensiero. Ma questa angoscia non è che l’angoscia dinanzi all’angoscia.
L’uomo pazzo, invece, – come risulta chiaramente dalla prima parte del passo, e, piú chiaramente ancora, per chi ha orecchie per intendere, dall’ultima parte – è colui che cerca Dio invocandolo ad alta voce. Un pensatore ha forse qui realmente invocato <de profundis>? E hanno udito le orecchie del nostro pensiero? O continuano ancora a non udire il grido? Il grido continuerà a non essere udito fin che non si incomincerà a pensare. Ma il pensiero incomincerà solo quando ci si renderà conto che la ragione glorificata da secoli è la piú accanita nemica del pensiero.”

*[“Il detto di Nietzsche «Dio è morto», è nel terzo volume dell’opera comparsa nel 1882 col titolo ‛La gaia scienza’.”, p. 195]

MARTIN HEIDEGGER (1889 - 1976), “Sentieri interrotti”, prefazione e trad. di Pietro Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1982 (4ᵃ ristampa, 1ᵃ ed. 1968), ‘La sentenza di Nietzsche «Dio è morto»’ (1943, pp. 191 – 246), pp. 245 – 246.



MARTIN HEIDEGGER (1889 – 1976), “Logica e linguaggio” 
(corso di lezioni del semestre estivo, Università di Friburgo 1934), trad., introd. e cura di Ugo Ugazio, Marinotti edizioni, Milano 2008, Parte seconda ‘Il tempo originario come terreno per le domande poste finora e come risalimento nella direzione inversa lungo la serie di tali domande’, Capitolo terzo ‘Esser-uomo e linguaggio’, § 31. ‘La poesia come linguaggio originario’, p. 237.

Martin Heidegger, Il concetto di tempo

Che cos’è il tempo?
Se il tempo trova il suo senso nell’eternità, allora esso va compreso muovendo da quest’ultima.
Con ciò sono prefigurati il punto di partenza e la via da seguire nella presente indagine: dall’eternità al tempo.”
di Martin Heidegger

Tra i grandi della filosofia del Novecento Heidegger è stato probabilmente colui che con maggiore insistenza ci ha invitato a riflettere sul tempo, questa entità ovvia ed enigmatica insieme. Nel breve, denso testo qui presentato, che risale al 1924 ma che apparve postumo nel 1989, egli analizza il fenomeno del tempo riconducendolo all’esistenza umana, nella sua finitudine e nel carattere transeunte che per essenza la costituisce. Ha qui origine la problematica di Essere e tempo, il libro del 1927 che rese celebre il suo giovane autore. E noi abbiamo la possibilità di osservare il formarsi dell’originale terminologia heideggeriana e lo svilupparsi dell’intuizione che condurrà all’«ermeneutica della fatticità» o «analitica dell’esistenza», la cui tesi fondamentale è questa: la temporalità è l’essenza stessa della vita umana. Meglio che attraverso prolissi svolgimenti concettuali, tale intuizione può essere illustrata con una nota immagine di Borges: «Il tempo è la sostanza di cui sono fatto. Il tempo è un fiume che mi trascina, ma io sono il fiume; è una tigre che mi sbrana, ma io sono la tigre; è un fuoco che mi divora, ma io sono il fuoco».
Il concetto di tempo, di Martin Heidegger, a cura di Franco Volpi, Piccola Biblioteca Adelphi, € 9,00
Altre scritture a cura di Luigia Sorrentino.  20 / 6 / 2011
La recensione: Federico Ballanti, “Le maschere dell’Essere. Uno studio su Martin Heidegger”
Se la filosofia è, classicamente, una via, significa che per essere filosofi bisogna vivere da filosofoMartin Heidegger lo ha certamente fatto. Al compimento della filosofia e alla sua rifondazione Heidegger ha dedicato la sua vita. Alla distruzione della Metafisica per tornare ad un pensiero pre-metafisico, un pensiero dell’ascolto dell’Essere, ha dedicato la sua prima opera, il suo capolavoro, «Essere e Tempo».
Il filosofo tedesco non ha risparmiato le sue energie, non ha esitato a scegliere la via del potere, con la nefasta adesione al nazismo, non ha mai cercato mediazioni e non ha mai abiurato una sua idea. Sicuramente non a livello politico. Ma forse neanche a livello filosofico. Almeno in apparenza. Heidegger ha più volte cambiato strada, ha spesso lasciato cadere delle idee per ripresentarle sotto forme diverse o da punti di vista diversi, ha cercato, in altre parole, percorsi spesso tra loro distanti per ottenere i risultati voluti, nonostante i punti di crisi e/o di svolta che il pensiero stesso gli imponeva.
Identificare questi percorsi sotterranei nella sua opera, disegnare la mappa dei molti sentieri interrotti che il filosofo ha percorso ed abbandonato, rintracciare i luoghi nei quali è giunto senza trovare la risposta che cercava, questo lo scopo del libro di Ballanti. Il cui obiettivo è certamente ambizioso: mostrare che fin dall’inizio il pensiero di Heidegger è un pensiero emotivo, estetico, che ha cercato nella radice inconscia la sua propria fondazione/giustificazione, anche quando, formalmente, come in «Essere e Tempo», esso si presenta tecnicamente strutturato come pensiero logico-sistematico. Il libro è dunque a sua volta un percorso alla ricerca dei molti volti che l’Essere assume nel percorso heideggeriano.
Trovare l’ontologia dove si dà l’estetica, categorizzare il poetico, analizzare metafisicamente il linguaggio dell’arte. In questo difficile compito appare il problema estetico come problema epistemologico: esso nasce in Heidegger con lo stesso nascere del problema dell’Essere che deve essere indagato a partire dall’uomo, perché è questo (l’uomo, il Dasein) il luogo nel quale sorge il problema. La problematica dell’apertura fondante è già avviata con questo primo passo del pensiero.
Esserci ed essere-per-la-morte. Opera ed essere-per-la-verità. Linguaggio ed essere-per-il-silenzio. Sono i tre schemi concettuali usati da Ballanti per analizzare il cammino di Heidegger nello sforzo di esprimere la tensione verso l’autentico ed il primo che il concetto di Befindlichkeit (situazione emotiva, introdotto in «Essere e Tempo») mostra nella sua apertura. Dopo aver intravisto, in quel primo disvelarsi del proprio essere, la luce di quell’è, inizia l’oblio dell’essere, il rimpianto, la rammemorazione, la ricerca del senso dell’essere (della sua verità). Inizia il problema della conoscenza, il problema del perché si deve conoscere, e come si possa conoscere. Inizia, in altre parole, il problema della filosofia in quanto tale. Il problema della risoluzione di un enigma.
Federico Ballanti
Le Maschere dell’Essere. Uno studio su Martin Heidegger

Edizioni Lampi di Stampa Gruppo Messaggerie
ottobre 2010
http://www.biblio-map.com/2010/11/08/la-recensione-federico-ballanti-le-maschere-dellessere-uno-studio-su-martin-heidegger/

Martin Heidegger. Divenire liberi significa comprendere l’essere.
“Qual è la connessione fra libertà ed ‘essere’?
Divenire liberi significa vincolarsi a ciò che propriamente dirada e rischiara e che rendendo libero, lascia penetrare, cioè <la luce>; ma la luce è l’immagine simbolica dell’idea. L’idea contiene e dà l’essere. Scorgere le idee significa: comprendere il <che cos’è> e il <come è>, l’ ‘essere’ dell’ente. Diventare liberi per la luce vuol dire cominciare a veder chiaro, comprendere l’essere e l’essenza e, quindi, esperire soltanto ora l’ente in quanto tale.
La comprensione dell’essere libera l’ente come tale. Soltanto in questa comprensione l’ente può essere un ente. In ogni ambito possibile l’ente può farsi incontro a noi, avvicinarsi e allontanarsi, solo in base alla libertà che libera. L’essenza della libertà è, in breve, lo ‘spiraglio di luce’: vederci preventivamente chiaro e vincolarsi alla luce. Solo a partire dalla libertà e nella libertà (intendendo la sua essenza nel modo sopra svolto) l’ente diventa più ente, perché è in questo o in quel modo. Divenire-liberi significa comprendere l’essere in quanto tale e soltanto questa comprensione fa ‘essere’ l’ente ‘in quanto’ ente.
Che l’ente diventi più ente o meno ente dipende dunque dalla libertà dell’uomo, e la libertà misura la sua grandezza secondo l’originarietà, l’ampiezza e la fermezza del vincolo, concependosi ciò ‘singolarmente’ come ‘esser-ci’: riposto nella singolarità e gettatezza della propria provenienza e del proprio avvenire storici
. Quanto più originario è il vincolo, tanto più grande è la vicinanza all’ente.”
MARTIN HEIDEGGER (1889 - 1976), “L’essenza della verità. Sul mito della caverna e sul <Teeteto> di Platone”, a cura di Hermann Mörchen, edizione italiana a cura di Franco Volpi, Parte prima ‘I quattro stadi dell’accadere della verità’, 8. ‘La libertà e l’ente. Lo spiraglio di luce come progetto d’essere (sull’esempio della natura, della storiografia, dell’arte e della poesia)’, pp. 85 – 86.


Martin Heidegger. POSSIBILITÀ CHE I SOGNI SIANO UNA MISURA PER IL REALE. “I SOGNI SONO SPESSO PER NOI SOLO SOGNI E QUINDI «FUMO». FUGACI E INCONSISTENTI E QUASI ARBITRARI, INTERROMPONO IN MODO INCONGRUENTE E INDEFINITO IL MONDO SALDO E CONSISTENTE CHE CHIAMIAMO REALE: quello di cui facciamo esperienza nello stato di veglia. NOI CONSIDERIAMO I SOGNI COME L’IRREALE CHE VIENE SOLO SOGNATO. CIÒ CHE HA CARATTERE DI SOGNO VIEN MISURATO IN BASE AL REALE, COME SE SI SAPESSE PER UNA CERTEZZA INDUBITABILE CHE COS’È IL REALE. Certo, NOI SPIEGHIAMO IL REALE DICENDO CHE È CIÒ CHE È STATO REALIZZATO e che è esso stesso un principio di nuove realizzazioni. MA CHE COS’È IL REALIZZARE E CHE COS’È LA REALIZZAZIONE? SI DANNO REALIZZAZIONI SOLO LÀ DOVE SI POSSONO REGISTRARE RISULTATI E SUCCESSI? O si danno anche realizzazioni che non hanno bisogno del successo? Forse che il solo reale è essente, mentre l’irreale è non-essente e quindi nullo? DOVE PASSA IL CONFINE FRA IL REALE E L’IRREALE? E innanzi tutto: REALE E IRREALE SONO DISTRIBUITI IN REGIONI DIFFERENTI DA UN CONFINE CHE LI SEPARA? OPPURE L’IRREALE DIMORA GIÀ NEL REALE? Che ne è della realtà del reale? Che sarebbe tutto ciò che è reale se, in quanto reale, non dispiegasse la sua essenza di realtà? Ma se la realtà stessa non è già più qualcosa di reale, essa si è allora dissolta nella presunta nullità del temuto «astratto»? Oppure questo «ASTRATTO», il cui disprezzo innanzi tutto non fa che confermare il carattere irreale «della realtà», NON È PIUTTOSTO L’IMPOTENTE FRAINTENDIMENTO DELL’IRREALE DA PARTE DI CHI SI È CIECAMENTE PERDUTO NEL REALE? Ma se ogni reale è solamente in quanto dispiega la sua essenza nella realtà, allora non sta in sospeso nell’irreale, il quale però non è mai nullo? ALLORA L’IRREALE PUÒ ADDIRITTURA AVERE UN PRIMATO NEI CONFRONTI DEL REALE. Allora dobbiamo ALMENO PRENDERE IN CONSIDERAZIONE LA POSSIBILITÀ CHE I SOGNI, CIOÈ L’IRREALE, SIANO UNA MISURA PER IL REALE. Allora non dovremmo più pretendere di commisurarne la portata in base al «reale» o a ciò che senz’altro si considera tale. Ma forse non ogni irreale di ogni sogno è una misura del reale.”

MARTIN HEIDEGGER (1889 – 1976), ‟La poesia di Hölderlin”, a cura di Friedrich von Herrmann, ed. it. a cura e trad. di Leonardo Amoroso, Adelphi, Milano 1988, «Rammemorazione», pp. 134 – 135.



Io credo che i sogni non siano soltanto la misura del reale ma siano la parte del reale che si vive di notteNon ci spegniamo quando dormiamo...accendiamo le luci della nostra vita interiore e spegniamo quelle della vita esteriore.. È bello pensare che non si tratti di vita reale e vita irreale nel sogno.. Ma piuttosto di un unica vita reale distinta in realtà esteriore vissuta in veglia..ed una realtà interiore vissuta nel sonno.  Amo i sogni ... 


La misura del reale e irreale è commisurata alla nostra immaginazione. Persino il tempo è frutto della nostra immaginazione, cosi come la matematica... E i sogni... Sono tutte materie discutibilmente indiscusse sul piano pratico/reale...

 stupenda filosofia dell' essere. Il presente è l' inizio di questo viaggio dell'avvenire..


Heidegger un genio del XX secolo. Dà alla mia persona più risposte lui che tutte le religioni messe assieme!




 l'evoluzione continua dell'essere



 io la interpreto nel senso che l'inizio non è mai terminato, ma può essere un modo per guardare qualunque evento ci si prospetti.



Filosofia del delitto: Kant arrestato per reticenza
Omicidio della Sapienza: è stato Heidegger
ROMA - Scagionato Giovanni Scattone, tante scuse a Salvatore Ferraro: colpevole della morte di Marta Russo sarebbe un discusso filosofo tedesco, Martin Heidegger. Continua a mancare il movente, ma il Rettore fa sapere che a causa dei tagli ai fondi statali all'Università manca la carta igienica, figuriamoci i moventi. A mettere gli investigatori sulle sue tracce, una soffiata di Lucio Colletti, e la scoperta che l'unico a non avere un solido alibi per l'ora del delitto era proprio l'autore di Essere e tempo. «Si è giustificato dicendo di essere defunto da diversi anni - spiega uno degli inquirenti -, una scusa poco convincente che però ci ha dato il tassello finale del mosaico. Anche Marta Russo, infatti, è morta, e, com'è noto a chiunque frequenti i romanzi polizieschi, la vittima e l'assassino hanno sempre un punto in comune». Messo alle strette, Heidegger ha confessato, ammettendo fra l'altro di aver comprato la sua nota teoria sull'uomo come «essere-per-la-morte» da un trafficante d'armi albanese. Si aggrava intanto la posizione di un altro tedesco frequentatore dell'Istituto di Filosofia, Immanuel Kant, che non avrebbe detto tutto quello che sapeva. «Scusate, stavo a guardare il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me - si è giustificato -, l'omicida accanto a me proprio non l'ho visto.» L'incriminazione dei due anziani pensatori è stata accolta dagli studenti di Filosofia con sorpresa e indignazione: «Heideché? Cioè vabbè ma chi cazzo sono ahò?» Scattone e Ferraro, appena scarcerati, hanno festeggiato la fine dell'incubo con festosi colpi di mortaio.
*********************************************************************************************

"Con questo sito intendo offrire gratuitamente a tutti materiali di studio e approfondimento nei campi della storia, della filosofia, dell'economia e, più in generale, delle scienze umane.
Buona lettura
G.S.

 


domenica 1 maggio 2011


Heidegger

"Martin Heidegger (1889-1976) è nato a Messkirch, nel Baden, ed è stato allievo di Rickert e di Husserl. La sua opera più nota, Essere e tempo, è incentrata sull’analisi dell’esistenza individuale umana: l’uomo, infatti, è detentore di un primato, di una superiorità ontologica sugli altri enti, perché è l’unico capace di porre e di porsi delle domande. La specificità della condizione umana è indicata da Heidegger con il termine Dasein (Esserci): “Questo ente, che noi stessi sempre siamo, e che, fra l’altro, ha quella possibilità di essere che consiste nel porre il problema, lo designiamo col termine Esserci”. Nello studio dell’esistenza umana le varie discipline scientifiche hanno un valore limitato e circoscritto: “La psicologia filosofica, l’antropologia, l’etica, la politica, la poesia, la biografia, la narrativa storica hanno indagato, per vie diverse e con ampiezza mutevole, i comportamenti, le facoltà, le forze, le possibilità e i destini dell’Esserci”. Più originaria e fondamentale rispetto alle ricerche delle scienze positive è la ricerca ontologica, che prende in esame il senso dell’essere in generale. Attraverso un lavoro interpretativo, o ermeneutico, questa ricerca ontologica coglierà l’intima relazione fra essere e tempo, mostrando che la temporalità è “l’orizzonte di ogni comprensione e di ogni interpretazione dell’essere”, è il senso profondo del nostro Esserci.
Con un linguaggio spesso oscuro, Heidegger riprende in Essere e tempo il millenario dibattito della metafisica occidentale sul concetto di essere. A suo avviso la storia della metafisica, da Platone a Nietzsche, non è altro che la storia di un fraintendimento, di un oblio dell’essere: quest’ultimo, infatti, è stato inteso come “semplice presenza”, ossia come essere presente in un dato spazio e in un dato tempo, dimenticando così la specificità del modo d’essere caratteristico dell’uomo. La struttura dell’esistenza umana è data invece, per Heidegger, dall’intenzionalitàdal tendere verso l’altrol’essere dell’uomo non è quindi “semplice presenza”, ma è innanzitutto un progetto temporalmente rivolto verso il futuro. La condizione umana è caratterizzata inoltre dalla finitezza, sia perché la morte è l’unica possibilità ineludibile, sia soprattutto perché il singolo si trova “gettato” nel mondo, in una determinata condizione storica, con la quale si trova a dover fare i conti senza averla potuta scegliere.
Il compito fondamentale della filosofia, per l’Heidegger di Essere e tempo, consiste quindi nel riportare alla luce, nello svelare il senso autentico dell’essere, celato dalle incrostazioni della metafisica: “Di regola accade che un fenomeno, un tempo scoperto, risulta ancora visibile, benché solo come parvenza. [...] Questo ricoprimento nel senso di ‘travestimento’ è il più diffuso e il più nocivo, perché vi si radicano in modo particolare le possibilità dell’inganno e dello sviamento”.
Secondo l’iniziale progetto di Heidegger, Essere e tempo doveva proseguire con una parte specificamente dedicata alla temporalità come senso dell’essere in generale: questa parte non sarà però mai scritta, anche a causa dell’impossibilità di trattare l’argomento con il linguaggio della metafisica tradizionale. Da qui l’esigenza di una svolta, cominciata con lo scritto Sull’essenza della verità (pubblicato nel 1943, ma composto già nel 1930), che porterà Heidegger a individuare nel rapporto fra essere e linguaggio il problema fondamentale della filosofia. Intanto, però, Hitler era giunto al potere e nel 1933 Heidegger, nominato rettore dell’Università di Friburgo, pronunciò una prolusione dal titolo L’autoaffermazione dell’Università tedesca, nella quale alcuni interpreti hanno ravvisato i segni tangibili di una sua piena adesione al regime nazista. Abbandonato l’incarico di rettore l’anno successivo e allontanatosi da ogni impegno politico, Heidegger continuò la sua intensa attività di studioso; non avendo però mai preso posizione contro il nazismo, al termine della seconda guerra mondiale fu messo sotto accusa e sospeso dall’insegnamento per alcuni anni.
Nella famosa Lettera sull’umanismo, scritta nel 1946, Heidegger afferma che “il linguaggio è la casa dell’essereNella sua dimora abita l’uomo. I pensatori e i poeti sono i custodi di questa dimora. [...] La liberazione del linguaggio dalla grammatica per inserirlo in una struttura essenziale più originaria tocca al pensare e al poetare”. La ricerca di un nuovo linguaggio che possa esprimere il superamento della metafisica tradizionale conduce a un rovesciamento di prospettiva: non è più un presunto ‘soggetto umano’ che svela l’essere, ma è l’essere che si manifesta attraverso il linguaggiol’uomo non è più un soggetto parlante, ma è egli stesso ‘parlato’ dal linguaggio e il suo compito è “di custodire la verità dell’essere. L’uomo è il pastore dell’essere”. Ma l’essere non è riducibile agli enti, alle cose del mondo: esso è l’orizzonte temporale, la radura (Lichtung) al cui interno gli enti possono manifestarsi, cosicché fra l’essere – dinamicamente inteso come ‘evento’ – e gli enti nella loro staticità sussiste una radicale differenza ontologica. Nella Lettera sull’umanismo Heidegger prende inoltre le distanze dall’esistenzialismo di Sartre e, in nome della centralità dell’essere, qualifica gli sviluppi della propria filosofia come antiumanistici.
Notevole interesse e svariate interpretazioni ha suscitato infine una lunga intervista da lui concessa al settimanale Der Spiegel, in cui afferma tra l’altro che “la filosofia non potrà produrre nessuna immediata modifica dello stato attuale del mondo. E questo non vale soltanto per la filosofia, ma anche per tutto ciò che è mera intrapresa umana. Ormai solo un Dio ci può salvare”.
© Giovanni Scattone 2011




MARTIN HEIDEGGER E HANNAH ARENDT
Sbilanciato e a tutto vantaggio di Martin Heidegger è il rapporto del grande filosofo, autore di Essere e Tempo con la sua allieva, Hannah Arendt, studiosa dei regimi totalitari e autrice di Vita Activa e la Banalità del male. Tanto che l’intellettuale ebrea un giorno dirà “perderei il mio diritto alla vita se perdessi il mio amore per te”, nonostante per anni venga costretta a nascondersi dal suo amante, diventato simpatizzante del nazismo.
“Quando si incontrarono- scrive Laura Laurenzi nel suo libro Amori e Furori (Bur), nell’autunno del ’74 Martin Heidegger ha 35 anni e due figli. Le sue lezioni di filosofia all’Università di Marburgo, sempre e solo di mattina presto, sono gremite di discepoli adoranti”. Tra questi c’è muta, soggiogata, timidissima la studentessa, che diventerà la sua amante. Una ragazza prodigio che a 14 anni ha già letto la Critica della ragion pura, conosce Kierkegaard e a 16 anni ha fondato un circolo per lo studio della letteratura antica.
Dopo alcune lezioni si innamorano, e la fragile ragazza precipita in una storia che la vedrà sempre dipendente, remissiva. Si incontreranno sempre e solo quando lo deciderà il professore, per evitare scandali e soprattutto per non rovinare il rapporto con sua moglie, la terribile Elfride, nazista, gelosa di qualunque intrusione minacciasse la tranquillità e la carriera del filosofo.
Lei è pura e semplice, dagli occhi profondi, dal fiuto per la qualità, molto profonda. Aveva perso il padre presto, colpito dalla sifilide. La mamma si era risposata, aveva avuto due figlie che Hannah non amava. Una di queste si suiciderà nel ’30.
Lui sempre imponente, dal carisma folgorante, molto colto. Era figlio del bottaio e sagrestano del paesino Messkirch, nell’alta Svezia. Prima seminarista, lascia il noviziato per darsi alla filosofia. A colpire erano i suoi occhi, splendenti e acuti.
Comincia un amore clandestino, in cui Hannah sarà sempre docile. E anzi timorosa di mostrare il suo talento, per timore reverenziale nei confronti di quello che rimarrà il suo maestro.
Tutto comincia il 10 febbraio del ’25 quando Heidegger manderà alla sua allieva una lettera, ben studiata. Con la quale le chiederà “una sola cosa”, che gli permetta di “aiutarla a rimanere fedele a se stessa”. E nei suoi incontri d’amore lui “parla – scrive Laurenzi- discetta, pontifica di filosofia, letteratura, poesia, musica. Vola da Parmenide, a Bach, da Platone a Beethoven, da Eraclito a Rilke e a Thomas Mann. Lei ascolta , assorbe in silenzio. Spiccherà il volo quando lui la lascerà.
Le prime avvisaglie della crisi arrivano ad un anno dalla loro storia d’amore. Forse la moglie ha capito qualcosa, o Hannah è diventata troppo invadente. Heidegger decide di allontanare l’amante e di affidarla a Karl Jaspers, all’Università di Heidelberg, suo amico, con cui Hannah terminerà il dottorato di ricerca su Sant’Agostino.
Si scriveranno, si manderanno, doni, foto. Intanto lei, lacerata dall’abbandono, sposerà un ebreo Gunther Stern. Siamo nel settembre del ’29.
Andranno a vivere prima a Berlino, poi a Francoforte, poi di nuovo a Berlino. Nel ’33, l’anno del plebiscito ad Hitler, si lasceranno. Hannah capirà di non avere altra via di salvezza se non la fuga.
Il filosofo sotto il nazismo fa tanta strada all’Università. Pensa che solo Hitler avrebbe fatto risplendere e risollevato la Germania.
A Jaspers- ricorda Laurenzi- che gli aveva chiesto come un uomo come Hitler, privo di cultura, potesse governare la Germania, Heidegger aveva risposto che la cultura non c’entrava. Piuttosto, l’ascesa al potere era dovuta a come il Fuherer muoveva le mani.”
Hannah è sempre più confusa e comincia a vedere nel suo ex amante una persona sempre più falsa. La filosofa troncherà ogni rapporto con il maestro, quando questi non le saprà dare spiegazioni sui suoi atteggiamenti antisemiti.
Oramai separata dal marito e braccata dalle leggi razziali, Hannah va ad abitare a Parigi. Sposerà Hienrich Blucher, anche lui profugo tedesco che le dedicherà un amore paziente e incondizionato.
Alla caduta di Hitler i due ex amanti torneranno a vedersi. Ma il legame sarà ambiguo. Opportunista. Per il professore che, con l’aiuto della moglie, una donna fredda e intransigente, chiederà l’aiuto della filosofa ebrea per uscire dall’isolamento. Heidegger, era stato processato per collaborazionismo. I due figli erano prigionieri in Unione Sovietica. Per questo, colpita nel profondo l’autrice di Vita Activa aiuterà il suo professore. Si incontreranno nell’albergo di lei il 7 febbraio del ’50. Allora, lui ammetterà la colpa del proprio silenzio, non verso gli ebrei, ma nei confronti della sua amata.
Da allora comincia una relazione a tre. Gli incontri vengono fissati da marito e moglie e serviranno al filosofo per togliesi di dosso l’alone di nazista. Ormai l’ex allieva è diventata una filosofa ricercata dalle migliori università americane del mondo. E nonostante questo, sempre con l’atteggiamento supino e soggiogato, timido di fronte al suo ex amante, a cui nasconderà il successo delle sue pubblicazioni.
Nel marzo del ’49 Heidegger viene “denazificato”. Il processo lo definirà solo “simpatizzante”. Dunque nessuna misura punitiva. Riprenderà a fare lezione nel ’51 grazie alla Arendt, che da ebrea, non avrebbe potuto avere rapporti col professore se fosse stato un attivista del nazionalsocialismo.
Heidegger le sarà riconoscente, ma la allontanerà da sé di nuovo, quando non le sarà più utile. Intanto Hannah si farà in mille per divulgare il pensiero del suo maestro, si farà sua ambasciatrice nel mondo, soprattutto negli Stati Uniti, gli farà da consulente globale, agente letterario, sempre a titolo gratuito.
Rimarranno lontani dal ’52 al ’67 e ancora una volta per scelta di lui. Gli ultimi incontri diventeranno sempre più freddi alla presenza dei coniugi di entrambi. Si vedranno ogni anno e si scambieranno lettere sempre più “spirituali”.
“Nel dicembre del ’75 vedova da cinque anni, Hannah ripresasi- si legge nel libro - da una caduta, muore nella sua casa di Manhattan mentre prende un caffè. Un infarto. Lui, sempre più dipendente dalla moglie, le sopravviverà di cinque mesi”.




Nessun commento:

Posta un commento

Elenco blog personale