giovedì 16 febbraio 2012

Alessandro Klein. La lotta tra le Passioni e la Ragione.


LA LOTTA TRA LE PASSIONI E LA RAGIONE


ANTICHITA’

I problemi di filosofia morale, dall’antichità ad oggi, sono andati incontro a notevoli sviluppi ed evoluzioni: morale deriva dal latino mos, che significa "costume", sicchè la filosofia morale avrà a che fare con la domanda "come devo comportarmi?", a sua volta connessa ad un’altra questione: "che cosa è il bene? Per me? E per gli altri? E la relazione tra il bene per me e quello per gli altri?" Risulta fin da ora evidente come, per poter capire che cosa sia il bene per me, io debba preliminarmente capire chi sono io e, di conseguenza, che cosa sono gli uomini. Ne consegue che non possiamo interrogarci sulla morale se non partendo dalla filosofia in generale, soprattutto quella greca, che ha lucidamente formulato tutte le domande possibili. Ci imbattiamo subito in una radicale differenza tra la storia come magistra vitae (maestra di vita) e la filosofia come meditatio mortis, secondo l’interpretazione che dà Platone nel Fedone (60 d, e seguenti): prendendo alla lettera queste due massime, sembrerebbe che alla storia spetti il compito indubbiamente più gratificante di guida nella vita, di narrazione di ciò che è avvenuto, mentre alla filosofia toccherebbe l’ufficio più opprimente di riflettere sulla morte. Tutto ciò può essere facilmente smentito se teniamo presente la scarsa attenzione e la poca importanza riservata dagli antichi alla storia: già Aristotele - nella "Poetica" – opera una distinzione tra storici e poeti, mettendo in luce come i primi si limitino alla cronaca degli accadimenti, registrati nel loro singolare e contingente succedersi, mentre i secondi (alla pari dei filosofi) si occupano dell’universale, non di cosa accadde ad Alcibiade, ma di cosa potrebbe accadere ad uno come Alcibiade, cogliendo in tal modo i tratti eterni dell’universale umanità dell’uomo : narrano cioè le cose oia an genoito, "quali potrebbero avvenire". Anche il filosofo si occupa dell’universale, in quanto si sforza di conoscere ciò che accomuna determinate cose, costituendone – al di là delle loro accidentali differenze individuali – il vero essere che le identifica per quelle che sono. In questa prospettiva, l’arte e la filosofia si pongono al di sopra del sapere proprio dello storico, confinato al particolare e alla banale catalogazione degli aventi. Un’analoga svalutazione della storia – forse anche più accentuata che in Aristotele – troviamo in Schopenhauer, il quale dice che gli oggetti della storia sono gli uomini e le loro imprese nel loro contesto storico, ricostruito dalla storia su un piano illustrativo; secondo il filosofo tedesco – in sintonia con Aristotele – se poesia e filosofia conoscono l’uomo in quanto tale, il filosofo coglie l’in sé di quelle cose che lo storico si limita ad elencare. Tutte queste considerazioni ci inducono a rivedere le due massime da cui siamo partiti: la storia è maestra di vita nel senso che, esibendoci il comportamento degli uomini, ci introduce alle innumerevoli difficoltà del vivere nel tempo, ma non è in grado di fornirci spiegazioni di più vasta portata. E’, in altri termini, maestra di vita nella misura in cui illustra il disagio esistenziale: dal canto suo, la filosofia è meditazione sulla morte nel senso che ha a che fare con questioni ultime e di ordine generale, tanto più che il filosofo stesso implica una morte. Infatti, questa superiorità della filosofia sulla storia e, più in generale, sul punto di vista comune è segnalata dalle grandi difficoltà che l’accesso al punto di vista filosofico implica. Questo passaggio – dal punto di vista comune a quello filosofico – comporta un autentico trauma, paragonabile a quello della conversione religiosa o del passaggio dall’adolescenza all’età adulta, sicchè non è sbagliato dire che si tratta di una morte e di una rinascita: muore il vecchio (il punto di vista comune, o – per restare alla metafora della religione – il profano) e nasce il nuovo (il punto di vista filosofico, o il religioso). Il processo è pertanto accompagnato sia dai dolori della morte del vecchio sia da quelli del parto con cui viene al mondo il nuovo: questo passaggio lo troviamo per la prima volta esposto nei dialoghi platonici, il cui protagonista – Socrate – è l’ostetrico del filosofare, colui che ha assistito e coadiuvato la nascita del punto di vista filosofico, e ciò implica che egli inevitabilmente sia il becchino del punto di vista comune. Seguendo Platone, assistiamo al nascere e al crescere del filosofare, all’individuarsi e al distinguersi dei diversi punti di vista in virtù di una curiosità radicale e insoddisfatta di ciò che via via si trova a sapere. Viene in tal modo a delinearsi una netta separazione tra le opinioni (doxai) – proprie del punto di vista comune - e la scienza (episthmh) – propria del sapere filosofico: le prime sono suscettibili di essere vere o false, mentre la seconda è solidamente radicata nel vero. Nel Teeteto (180 e) Socrate si domanda: "chiami tu pensare quel che chiamo io? Un discorso che fra sé e sé l’anima tiene su ciò che esamina […]. Altro non è l’anima se non un discorrere". Ciascuno di noi, secondo Platone, quando pensa è come se dialogasse tra sé e sé: ed è per questa ragione che il filosofo ateniese ravvisa nel dialogo la forma più adatta per fare filosofia, preferendola di gran lunga alla trattatistica. Le opinioni, ad avviso di Platone, sono acritiche, infondate e passivamente subite, mentre la scienza è costantemente critica e frutto della ragione, giudica e mette in krisiV un’opinione, mette in crisi ogni sapere dubbio, ogni pregiudizio ("si dice", "si crede", ecc): così si spiega come, se la filosofia è dialogo, l’opinione è invece monologo, assolutamente priva di confronti e aperture. In questo senso, l’Oriente non greco monologa, e infatti non scrive dialoghi ma libri sapienziali, mentre sono i Greci a scoprire la filosofia, intesa come messa in discussione di tutto, smascherando le opinioni, qualunque sia l’autorità di cui esse si ammantano. Si tratta, naturalmente, di un passaggio doloroso, giacchè si abbandona il certo per l’incerto, il noto per l’ignoto: e non è un caso che la filosofia nasca con l’assassinio del suo ostetrico Socrate; mentre l’innocenza è immediata e, perciò, più fragile, la virtù non è immediata e dunque è meno fragile, poiché è stata messa alla prova. Il sapere filosofico, dai Greci ad oggi, è andato sviluppandosi lungo due direttrici: da un lato, dopo aver attraversato il fondamentale momento della critica delle opinioni, si articola in una visione onnicomprensiva e metafisica del mondo (Leibniz, Kant, Hegel, Marx); dall’altro, si è sviluppato un sapere in cui la riflessione critica della ragione non costituisce solo un momento imprescindibile, bensì costituisce essa stessa l’aspetto fondamentale di un filosofare in cui permangono dubbi e difficoltà di conoscenza: si tratta di un sapere lontano dalle pretese onnicomprensive e metafisiche, un sapere che procede con circospezione, che formula congetture più che teoremi. Tra i suoi esponenti - antichi, moderni e contemporanei (giacchè questa forma di pensiero è tipica dell’età moderna e contemporanea) - possiamo ricordare i Sofisti, gli Scettici, i Cinici, i Cirenaici, i Megarici, Machiavelli, Hobbes, Montaigne, Erasmo, Vattimo. Assodata la diversità tra punto di vista comune e punto di vista filosofico, si può anche vivere senza filosofare, cosicchè la filosofia sarebbe qualcosa di accessorio e di cui si potrebbe benissimo fare a meno (anche se contro questa tesi si schiera apertamente Aristotele nel Protreptico). Del resto, che la filosofia sia un lusso pare tramandato dalla massima primum vivere, deinde philosophari, con la quale si mette in luce come la vita venga prima della filosofia e come quest’ultima sia ad essa subordinata: ma – chiediamoci – se è vero che si può vivere senza fare filosofia, è anche vero che si può vivere bene senza fare filosofia? In particolare, sia Aristotele sia Bergosn distinguono tra "vivere" e "vivere bene", domandandosi entrambi se il vivere non-bene possa dirsi vivere. Anche il filosofo deve soddisfare i suoi bisogni primari (la sete, la fame, ecc), altrimenti non sarebbe un essere umano ma un Dio: ciò non toglie, però, che nella misura in cui filosofa, egli si dedica ad un’attività divina, ingrediente della vita felice. Tuttavia, se considerati separatamente, sia il sapere critico sia quello metafisico sono insufficienti: anche se, a prima vista, sembrerebbe che i risultati del primo siano evidenti (quelli del secondo appaiono infinitamente meno soddisfacenti). In quanto conoscenza del vero bene, la ragione è confutazione delle passioni, sicchè queste nulla più possono contro di essa: la ragione sa anche che cosa ogni cosa deve essere, che cosa è giusto che ogni cosa sia. Attribuendo a ciascuno il suo, la ragione fa il giusto. Ma nel corso della storia è anche andato spostandosi il punto di vista verso Dio: se Tommaso è convinto che il teologo possa anticipare la scienza di Dio, la filosofia è per Hegel "la domenica della vita", nel senso che è il compimento più alto e l’ornamento più squisito della vita umana. Tutt’altra concezione della ragione (e di Dio) è quella propria dei filosofi "critici", per i quali – date le interminabili dispute che contrappongono tra loro i vari pensatori – è impossibile raggiungere una verità ultima; addirittura, agli occhi di costoro la metafisica , oltrechè inutile, appare nociva, poiché distrae dal sapere coerente dei propri limiti intrinseci di essere umano che procede per congetture e ipotesi, non per verità assolute. Questi pensatori tendono a concepire il bene come l’utile collettivo che la ragione di volta in volta individua e calcola: già Montaigne nota come basti spostarsi sull’altra sponda del fiume per accorgersi che tutte le leggi e le usanze cambiano, cosicchè ciò che di qua era lecito, di là non lo è. Emerge chiaramente, allora, come la giustizia altro non sia se non il frutto di un accordo mirante al bene della collettività, senza voler per questo arrivare alle note conclusioni di Trasimaco (nella Repubblica di Platone) secondo cui "il giusto altro non è che l'utile del più forte". E’ una ragione rinunciataria, che rinuncia alla verità assoluta e si accontenta di piccole certezze acquisite un po’ alla volta. Una prospettiva rinunciataria, sì, ma con funzione strumentale, non ornamentale: mira infatti a promuovere un miglioramento della vita umana sulla terra anche attraverso lo sviluppo di quella scienza sempre troppo poco considerata dalla metafisica. Ecco perché la filosofia trasforma la vita vegetale in esercizio critico e mosso da sincera curiosità, contraddistinguendoci da tutti gli altri animali: per i metafisici, però, si tratta sempre della contemplazione della verità assoluta, ma, sotto questo profilo, è la prospettiva critica (sofistica e scettica) - tendente ad organizzare il nostro sapere terreno - a poter effettivamente migliorare le nostre condizioni di vita terrene, ed è per questo che oggigiorno tende a prevalere tale posizione. Ma dove va a finire la metafisica? Possono gli uomini eticamente fare a meno dell’ornamento? Non è un caso che nel Novecento l’architettura sia stata caratterizzata dall’abolizione di ogni abbellimento, promuovendo esclusivamente il funzionalismo e la completa oggettività. C’è anche stato chi ha detto che "l’ornamento è un delitto", una sorta di reazione al culto del bello nella architettura liberty di inizio ‘900. Ma possiamo abbandonare il superfluo? Può il sapere rimanere chiuso e fare a meno di ogni forma di trascendenza? Forse la questione può essere, se non risolta, almeno chiarita in analogia con il ruolo che Kant assegna alla metafisica, da lui smascherata come un errore della mente umana, incline a spingersi erroneamente al di là del sensibile e del finito: secondo Kant, la metafisica è sì un errore, ma non per questo può essere debellata; così come quando in riva al mare vediamo l’orizzonte più in alto e, pur sapendo che si tratta di un’illusione, non per questo riusciamo a vederlo allo stesso livello del mare. Così come la metafisica viene da Kant, in qualche maniera, relegata all’ambito dell’ornamentale, impossibilitata ad una completa assolutizzazione, similmente possiamo capire come, da una parte, il superfluo non vada mai abbandonato e, dall’altra, come la metafisica rientri in tale superfluo/ornamentale. Dicevamo che è con Platone e con i suoi dialoghi che vede la luce la filosofia: ma il vero ostetrico del sapere filosofico è la figura di Socrate, colui che distingue la scienza dalle opinioni, cerca spiegazioni razionali, cerca di darsi ragione delle norme della propria condotta e del proprio sapere vagliando criticamente le opinioni e distruggendole quando – come spesso accade – si rivelano fasulle. Egli è armato dell’ironia e della maieutica: la prima è la figura retorica con la quale si farebbe intendere il contrario di ciò che si dice (cfr. Encyclopedie di Diderot; De oratore, III, di Cicerone; Quintiliano). Ma il tono della voce segnala una discrepanza tra il detto e il significato: se prendiamo il verbo greco eironeuomai notiamo come esso significhi "dissimulare", "nascondersi parlando", ma anche "canzonare", "prendere in giro"; o eirwn , poi, vuol dire "colui che si spaccia per". L’ironia può essere dunque definita come un espediente tecnico impiegato da avvocati e da oratori: Quintiliano la tratteggia come un modo di relazionarsi con gli altri improntato sulla comunicazione, un modo non soltanto indiretto, ma addirittura complicato e articolato. Non sorprende, pertanto, che l’ "ironista" sia più preparato rispetto al suo uditorio: il che si verifica soprattutto in due casi, quando cioè l’interlocutore è ignorante (ma si crede colto), o anche quando è intellettualmente debole, cosicchè gli si può dar ragione fino a che non vengano alla luce tutte le contraddizioni derivanti dall’ammissione delle sue tesi. Chi si avvale dell’ironia ne fa, in certo senso, un uso narcisistico, quasi umiliante nei riguardi del proprio interlocutore, cosicchè non è sbagliato dire che l’ironista esercita una forma di crudeltà verso gli altri, una sorta di sadismo, un irresistibile gusto che si prova ad essere superiori. Così il commediografo Aristofane fa del termine "ironista" un vero e proprio insulto con cui zittire chi asseconda falsamente i propri interlocutori, fingendo furbescamente di approvare le loro tesi; lo stesso Platone (Repubblica, I) mette in bocca agli interlocutori di Socrate parole piuttosto aspre verso la sua ironia canagliesca. Così, con Trasimaco finge di ignorare che cosa sia la giustizia, sfugge alle domande che gli vengon poste appellandosi alla propria ignoranza e spazientendo i propri interlocutori: si può allora dire che la difficoltà della ricerca sia ironia? Platone libera il maestro Socrate dal luogo comune mettendo in evidenza come l’ironia, propriamente, sia una relazione – indiretta – con la verità e per questo motivo dotata di valenze pedagogiche, poiché innalza l’interlocutore ad un sapere certo; così si ha l’impressione che Socrate si faccia beffe di Trasimaco e degli altri protagonisti della Repubblica, ma in realtà li incalza, li sprona come fa la mosca coi cavalli e li fa uscire dal vicolo cieco dell’opinione verso la retta via della scienza. In questo caso, la dissimulazione si configura quasi come una benevola conquista, non come un gesto di mera superiorità dettata da uno sprezzante orgoglio, poiché è finalizzata a portar fuori dal circolo della limitatezza: l’interlocutore non è più schernito e deriso, ma soccorso, l’ironia sacrifica il proprio sapere per redimere gli altri dall’ignoranza, è un abbassamento (khnosiV), un farsi piccoli per salvare gli altri. Ma – attenzione – ad abbassarsi è Socrate, non il sapere in quanto tale, altrimenti l’ironia si trasformerebbe in divulgazione. Il concetto greco di khnosiV come "svuotamento" (in greco kenon significa "vuoto") lo ritroviamo nella teologia cristiana quando si parla dell’incarnazione di Dio e della sua liberazione dal peccato: e, in parallelo, c’è stato chi ha guardato in analogia alla figura di Socrate e di Cristo (Hegel stesso lo fa), poiché sia con l’uno sia con l’altro si ha un’autentica liberazione, ci si maschera per smascherare, si mistifica per demistificare ciò che pare certo ma che, in realtà, non lo è affatto. In questo senso, l’ironistica porta la guerra laddove c’è una pace illusoria, getta scompiglio, spiazza, è – in altri termini – pars destruens ma, in certo senso, anche pars costruens. Infatti, distrugge, sì, le opinioni, ma per partire da zero e fondare un sapere certo, che oltrepassi il limite e lo riconosca come ormai sorpassato, per rendere partecipi di ciò anche gli altri uomini: per far riferimento al celebre "mito della caverna" di Platone, è l’uomo che, liberatosi dalle catene che lo tenevano prigioniero sul fondo della caverna, sale in superficie, scopre la verità e ritorna dai suoi compagni per trasmetterla anche a loro. L’ironia socratica può allora essere definita come impegno totale per il Bene, uno slancio verso l'esistenza autentica e contro il lasciarsi vivere passivamente in cui molti incappano. Un tale sapere dovrà necessariamente essere di tipo concettuale, e del concetto Socrate stesso può dirsi inventore: esso è una definizione della cosa in questione (il bene, il bello, il giusto, ecc), una definizione che prende le mosse dalla domanda "che cosa è (ti esti) quella cosa?" e a cui si dà una risposta scientifica, esulante dall’opinione. In questo modo, tale aspirazione a spingersi al di là del dato si traduce in scienza dell’essere, come la metafisica (che è scienza dell’essere in quanto tale): e così la figura di Socrate va incontro ad un enigmatico sdoppiamento, per cui ci troviamo di fronte ad un Socrate platonico/metafisico e ad un Socrate empirico/cirenaico, uno speculativo, l’altro esistenziale (basato sull’ammissione della propria ignoranza e nella massima delfica del "conosci te stesso"). Ma il gnwqi sauton può dare adito a due diverse interpretazioni, una metafisica, l’altra esistenziale: al "conosci che cosa sei in quanto essere umano", ossia "conosci che cosa è l’uomo" (scienza di sé), si contrappone il "conosci te stesso come singolo" (coscienza di sé), cercando di vivere la tensione al bene come tua propria esclusiva. Così Platone interpreta l’ignoranza come iniziale critica dell’opinione, mentre le scuole socratiche la concepiscono diversamente, come direttiva di vita più che di sapere, con la conseguenza che il vivere da filosofo vorrà dire comportarsi contro convenzioni e vivendo in pura naturalezza. Non si tratta pertanto – secondo le scuole socratiche – di cercare che cosa sia l’uomo, ma, piuttosto, di cercare degli autentici uomini, ossia coscienze adatte a ricercare il vero bene, coscienze che siano realmente se stesse senza cadere in convenzioni culturali, sistematiche e, in definitiva, conformistiche. Da questo atteggiamento (congiunto ad una valenza fortemente critica della ragione) deriva una forte autarchia (autarkeia), un esistere autonomamente senza farsi toccare dagli accadimenti esterni. Il problema dell’ignoranza era posto sul tappeto da Platone a proposito dell’immortalità dell’anima: nell’Apologia, invece, era lasciato aperto uno spiraglio di scetticismo, anche se poi – con la voce della metafisica – il filosofo ateniese avrebbe debellato del tutto l’ignoranza, arrivando ad ammettere la certezza di una vita ultraterrena e dell’immortalità dell’anima. L’ignoranza viene dunque bandita? Con Platone, Socrate arriva a verità iperuraniche e assolute, mentre con le scuole socratiche egli resta avvolto da un alone di ignoranza, di una "dotta ignoranza" (per usare le parole di Cusano), consapevole dei propri limiti intrinseci ma, non per questo, disposta a rinunciare al sapere. Se in Socrate sussiste un perfetto equilibrio tra i due atteggiamenti, in Aristotele e in Platone prevale decisamente l’indirizzo metafisico, mentre nella successiva età ellenistica trionfa quello scettico/critico: dal VI al XII secolo c’è poi una parentesi non filosofica ma teologica, dove l’attenzione per Dio e i problemi di fede prendono il posto in precedenza occupato dall’indagine filosofica, ora detronizzata. Dal XIII al XVI secolo torna invece a dominare l’indirizzo metafisico, ma da Machiavelli fino all’età illuministica (e così sarà anche nel Novecento post-marxista) trionfa l’atteggiamento critico/scettico. All’atteggiamento metafisico corrisponde un’etica saldamente basata sulla virtù, mentre a quello critico/scettico un’etica che fa dell’utile il suo parametro: ad esse sono sottese due differenti concezioni della ragione e del suo rapporto con l’etica. I pensatori dell’uno e dell’altro indirizzo si trovano d’accordo nell’individuare nell’uomo un’entità dotata di ragione e di passioni, ma quando si tratta di dire che cosa sia la ragione già nascono le prime divergenze di prospettiva. Per individuare i due tipi di etica, dovremo pertanto capire che cosa effettivamente siano le passioni e poi la ragione metafisicamente e critico/scetticamente concepita. Il termine greco che traduce "passioni" è paqoV, che letteralmente significa "quel che si prova", dal verbo pascw; significa anche subire la presenza di qualcuno o di qualcosa, sicchè passione è il contrario di azione e il termine coincide con "affezione", che vuol dire subire un’azione essendone influenzato e modificato: passione è dunque, in primo luogo, qualsiasi modificazione dell’anima. Tali sono anzitutto le sensazioni che ci giungono dal mondo esterno e dalle quali l’anima è affetta, ma tali sono anche le passioni in senso stretto, ossia le modificazioni di natura affettiva, dalle quali l’anima è mossa. L’anima (sia che sia sconvolta da passioni interne sia che lo sia da esterne) è mossa, è paziente, subisce un’azione, patisce sia le sensazioni provenienti dall’esterno sia le passioni producentesi all’interno (stati d’animo, emozioni, pulsioni: l’ira, l’odio, la paura, ecc), proprio come il paziente patisce la malattia e la cura somministratagli dal medico. L’anima è passione perché si ritrova ad essere preda di tali passioni, stati e pulsioni di volta in volta occasionate da certe circostanze, inerenti all’anima in quanto tale, latenti in essa e risvegliate dalle circostanze: le passioni sono – secondo Platone e Aristotele – una sfera dell’anima, l’anima sensitiva, che sta a monte della ragione. Esse invadono e tendono a dominare l’anima determinando il comportamento dell’individuo che ne è preda; un tale individuo è tutt’uno con la passione, è mero patire: esse sono necessarie, nel senso che si trovano naturalmente ad essere quel che sono, sicchè l’operare delle passioni è, a ben vedere, un operare subìto e patito, il passionale non sa perché opera a quel modo né ha deliberato di operare così, ma subisce passivamente quell’operare delle passioni in lui (come si dice: la passione è cieca). Sorprendono e catturano l’individuo che ne è vittima ignara: se l’uomo fosse solo passioni, ignorerebbe di esserlo. Ma finchè sono passioni, il mio agire resta un patire, un essere necessitato. Il linguaggio comune dice giustamente che si è spinti dalla passione, dall’odio, dalla paura, ecc; si è cioè spinti ad operare alla cieca, non discernendo e perciò non deliberando. Ma l’anima non è solo passioni: c’è anche, al suo interno, la ragione, la facoltà del pensiero discorsivo che guida l’uomo. Il problema della morale resta, in questo senso, il rapporto tra ragione e passioni: quale è il rapporto? Quale concetto di ragione fanno valere i diversi orientamenti filosofici? La ragione è dialogo (nell’accezione greca di dia + logoV), ossia un trascorrere da un concetto all’altro organizzandoli ed articolandoli in un sapere che risulti organico. Il concetto è così il risultato della definizione, dice che cosa una cosa è, ne coglie cioè l’essenza, costituendone l’essere che la identifica per quella che è, individuando ciò in forza di cui essa è se stessa, ciò che essa deve essere per essere se stessa. In altri termini, il concetto individua e coglie ciò che ritroviamo permanente e accomunante in tutte le cose che in virtù di quel qualcosa di permanente e accomunante formano una specie. Ma tale essere permanente e accomunante è per i metafisici l’essenza universale e comune, colta dalla definizione e fissata nel concetto. La domanda "che cosa sono Tizio, Caio e Sempronio?" rimanda a quella "quale è l’essenza universale che li costituisce?" Essi sono corpo e discorso, ovvero sono animali razionali: questo è il concetto che li identifica nella loro essenza, cogliendo il genere prossimo (sono animali, come molti altri esseri) e la differenza specifica (sono uomini); alla base di ciò stanno il principio di identità (A è A e deve essere A) e quello di non contraddizione (A è non uguale a non-A). Il termine "essere", che abbiamo più volte trovato dispiegato nelle definizione, è però fortemente ambiguo: servendoci del linguaggio degli Scolastici, possiamo dire che si tratta di un termine non univoco, ma equivoco, ossia dotato di più significati. Soprattutto due: ha un significato essenzialistico e un significato esistenzialistico. Di un soggetto, infatti, possiamo predicare il verbo "essere" in due modi diversi, a seconda che si risponda a due diverse domande: "quid est?" e "an est?". Nel primo caso, mi chiedo che cosa una cosa è, mentre nel secondo mi interrogo se essa c’è, ossia se esiste: così domandarsi "che cosa è " Socrate è differente da chiedersi "c’è Socrate?". Nel primo caso, voglio sapere in che cosa consista il suo essere, nel secondo caso, invece, mi interrogo intorno alla sua anitas, mi domando cioè se esiste oppure no. A questa seconda domanda, rispondo di volta in volta con una constatazione: se Socrate c’è, risponderò con "c’è"; se invece non c’è dirò "non c’è". Alla prima, invece, rispondo allorchè vengo alla definizione della cosa, "Socrate è animale razionale"; posso rispondere solo se conosco la definizione. Se poi esperisco anche l’esistenza, potrò dire che effettivamente esiste un uomo di nome Socrate. Definendolo, siamo venuti a determinare il suo essere, ne abbiamo definito l’essenza, ossia ciò che ne costituisce la permanente ed irrinunciabile peculiarità del suo essere, tolta la quale cesserebbe di essere quel che è. Quando i metafisici parlano di essere, usano sempre l’accezione essenzialistica: l’ultimo grande metafisico – Plotino – dice che l’essere deve essere un questo (todh ti) e quindi alcunchè di delimitato, tant’è che l’ ousia stessa è un todh ti. All’essere non compete, secondo Plotino, il librarsi qua e là nell’indeterminatezza, bensì di essere consolidato da determinazioni e da forma, da delimitazioni, da stabilità e la stabilità è delimitazione e forma: l’essere è, anzi, sempre forma, un qualcosa di determinato, un essere conformato, il determinato esser qualcosa proprio di un certo ente, coglibile dal pensiero che lo coglie definendolo. Si scopre un’intenzionalità tra pensiero ed essere: il pensiero è fatto per l’essere che è forma, e l’essere in quanto è forma è definibile dall’esser ridotto al pensiero intelligibile, fatto per il pensiero stesso. E’ questo l’ottimismo razionalistico greco, che vede nella ragione l’arma appositamente data per conoscere il mondo. Sempre Plotino dice che occorre che il pensante afferri qualcosa di in sé distinto e il pensato, colto dal pensiero, deve essere alcunchè di indifferenziato, altrimenti non se ne dà pensiero, ma solo uno sfiorare - senza toccarlo – il concetto. In questo senso, Plotino sta introducendo la teologia: tutto ciò che è informe non può essere conosciuto, al massimo può essere alluso: tale è l’Uno, che è situato al di là dell’essere, è ineffabile, è nome al di sopra di ogni altro nome. Per il greco, l’informe è perciò stesso impensabile. La domanda "che cosa è?" prende di mira un esser qualcosa che ritorna in molti enti diversi, ma nei molti in cui lo riconosciamo appare sì diverso, ma è sempre lo stesso. Socrate è, in questo modo, identico e diverso dagli altri uomini: sono tutti ugualmente uomini, ma ciascuno lo è in maniera diversa. I tanti uomini si trovano accomunati da una stessa quidditas (l’esser uomo) che tutti sono, ma ciascuno a suo modo. L’esser qualcosa che li identifica e li accomuna è l’universale che li mostra come membri di una stessa specie. Oggetto del sapere filosofico è la quidditas delle cose esistenti nello spazio e nel tempo e che in quanto permanente e comune è coglibile dal pensiero e fissabile nel concetto: la scienza del sapere filosofico per oggetto ha l’universale e il necessario, mentre il mutevole e l’accidentale può essere raccontato ma non saputo nel senso più forte del termine. Così il sapere storico – ritornando al punto di partenza – è inferiore rispetto a quello filosofico. Non c’è infatti sapere stabile di Tizio o di Caio, ma dell’uomo che Tizio e Caio sempre e comunque sono: alla ragione filosofica compete pertanto un punto di vista peculiare, che non solo ha per oggetto l’universale, ma che proprio perché ha un tale oggetto deve esso stesso essere universale, vale a dire un punto di vista che trascende quello dei singoli individui empirici, variamente determinato dalle diverse impressioni sensibili, dalla mutevolezza della facoltà immaginativa, dall’influsso delle passioni. E’ il punto di vista della ragione stessa presente in tutti gli uomini. E il filosofo è colui che, riflettendo e ragionando, si converte dal punto di vista empirico (dove la ragione latita o dorme, e l’anima è ridotta a sensitiva) in cui trionfano le opinioni a quello superiore, in cui si è solo ragione, l’identica e oggettiva ragione presente in ogni uomo a prescindere da pulsioni, impulsi, fantasie: si tratta di un punto di vista super partes, in cui vige la pura e disinteressata conoscenza contemplativa del che cosa le cose sono, al di là degli accidenti, una pura e disinteressata contemplazione dell’essere, di cui la metafisica è scienza (secondo la definizione di Aristotele). Sia Platone sia Aristotele sono concordi nel concepire la filosofia come conoscenza degli universali, ma differiscono nell’intendere gli universali stessi, da Platone chiamati "idee" e intesi come ante rem, in re e post rem; da Aristotele (che li chiama "forme") intesi solo in re e post rem. Dal diverso modo di intenderli, il differente tipo di conoscenza prospettato dai due filosofi: per Platone si tratta di anamnesi, per Aristotele di astrazione. Ma che cosa è l’idea (eidoV) per Platone? A partire da Cartesio, "idea" designa cumulativamente ogni genere di nostra percezione, è una rappresentazione mentale (l’immagine mentale che ho del rosso, del cane o di Dio). Ma per Platone non è così: essa coincide con la morfh, ossia con la forma, e allude ad un contorno racchiudente qualcosa, altro non è se non un essere qualcosa. L’esser uomo è una modificazione nel tempo e nello spazio dello stesso essere uomo che sussiste nell’eternità, immutabile, come pienezza di quel certo essere qualcosa, sussiste come complicazione di tutti i possibili modi di essere quella certa cosa. L’eterna, infinita pienezza dell’essere un certo qualcosa altro non è se non il mondo delle idee presupposto e principio di questo temporale mondo di singoli enti empirici, ciascuno dei quali è una modificazione delle idee a cui fa capo. E’ un particolar modo di essere quella o quelle infinite idee. Tizio e Caio sono diversi modi di essere dell’idea uomo e animale. A produrre queste modificazioni che sono le cose empiriche sono le idee stesse, che non cessano di essere quelle che sono (eterna pienezza d’essere) ma si modificano divenendo nel tempo e nello spazio i singoli enti che ad esse fanno capo, ai quali partecipano. Conoscere il vero essere delle cose sarà conoscere le idee. La ragione ridestata dalle sensazioni risale dal mondo sensibile (che sulle prime le appare come l’unica realtà) a quello iperuranico, di cui il nostro è copia sbiadita: la ragione si è destata e ad essa sola il filosofo si è ridotto, avendo trasceso i sensi da cui aveva preso le mosse. Che cosa sono gli enti? Esistono in virtù di se stessi o di un’altra realtà? Secondo Platone, essi esistono in virtù dell’esistenza di un’altra realtà, le idee, che ne sono il presupposto e il principio; le idee sono siffatte che esistono necessariamente come tali, la loro perfezione ontologica non può mancare di esistenza (prova ontologica). Universali sono per Platone le idee, perfette perché costituenti l’infinita pienezza d’essere: l’idea di cavallo, cioè, è la perfetta attuazione di tutti i possibili cavalli. Il che significa che l’idea di cavallo non è un enorme cavallo in cui stanno tutti i cavalli sensibili: l’idea è secondo Platone qualcosa di immateriale, fuori dal tempo e dallo spazio (altrimenti sarebbe finita e non infinita). La conoscenze delle idee sarà razionale, mera intuizione intellettiva, il che segnala che la ragione è tutt’altra dalla sensazione e dalle passioni, è completamente autonoma. Il motivo per cui Platone ipotizza il mondo delle idee può almeno in parte essere compreso se facciamo riferimento al nostro mondo: come può esso spiegarsi se non facendo riferimento ad un altro mondo di cui il nostro sarebbe copia? Che cosa può spiegarmi l’essere identico e diverso che accomuna le differenti famiglie di enti empirici, per cui vedo gli uomini uguali e diversi fra loro? Si tratta, naturalmente, di fare riferimento al mondo delle idee, per capire come l’esser cavallo (o, se preferiamo, l’idea di cavallo) sia presente nei diversi cavalli sensibili, che di essa partecipano. Gli enti sono appunto classificabili in forza di un’identità che li accomuna, ma un tale principio in grado di render conto del mondo quale a noi appare non è rintracciabile nel mondo sensibile, poiché tutti gli enti che in esso ci appaiono di volta in volta sono se stessi, determinati, e perciò non possono fungere da princìpi dell’esser uomo di Caio e di Tizio. Ciascun ente empirico, cioè, non può render conto della sterminata molteplicità di enti finiti, cosicchè essi si spiegano a partire da altro: proprio qui sta la differenza riconosciuta dagli Scolastici tra l’ "ens a se" (l’ente che sussiste di per sé) e l’ "ens ab alio" (l’ente che esiste nella misura in cui dipende da qualcos’altro). Il nostro mondo empirico non è "a se", secondo Platone, ma "ab alio", dipende cioè da qualcos’altro, e quel qualcos’altro è appunto il mondo eterno delle idee: l’essere quel che sono gli enti lo devono per l’appunto alle idee di tale mondo intelligibile, che, diventandoli, li fanno essere quel che effettivamente sono. E così il mondo esiste in virtù del parteciparsi delle idee, le quali continuano ad essere quel che sono e diventano la molteplicità degli enti finiti che ad esse fanno capo. Tuttavia né Platone né nessun altro neoplatonico ha mai azzardato a spiegare come ciò possa avvenire, come le idee si modifichino, poiché tale processo si sottrae al nostro sapere, il quale abbraccia solo la conoscenza del fatto che tale partecipazione è la sola cosa in grado di render conto dell’esistenza del mondo empirico (e che la ragione può conoscere le idee). Un’altra questione non irrilevante lasciata in sospeso da Platone è perché il mondo delle idee "crei" questo mondo: ricorrendo ad un’immagine che sarà propria dei Neoplatonici, potremmo dire che è come se Dio, nella sua esuberanza di essere, traboccasse perché "diffuisivus sui", dandosi in maniera discendente, per cui il mondo è assolutamente inferiore rispetto alle idee. Nel mondo, dunque, non c’è nulla di veramente nuovo, l’unica relativa novità è che si tratta di un mondo deficiente rispetto a quello delle idee, che ne è modello. La conseguenza che ne deriva per quel che concerne la concezione della ragione è che conoscere empiricamente l’idea di cavallo significherebbe conoscere concretamente tutti i singoli cavalli esistiti nel presente, nel passato e nel futuro, senza trascurare alcun esemplare; e, del resto, noi possiamo predicare la cavallinità di questo o di quel cavallo empirico perché abbiamo già insita nella nostra testa, in qualche modo, l’idea di cavallo, alla quale raffrontiamo i cavalli sensibili quando diciamo che sono cavalli (riconoscendo in essi la cavallinità in noi presente a livello concettuale). Ciò significa che abbiamo già dentro la nostra mente, fin dalla nascita, l’idea di cavallo ed è in virtù di essa che possiamo riconoscere i singoli cavalli empirici dinanzi a cui ci troviamo: sono anzi tali cavalli sensibili a risvegliare in noi l’idea latente di cavallo. Si deve pertanto trattare, è evidente, di un’intuizione sovrasensibile, non ottenibile a posteriori, ma a priori, ossia è già sempre presente in noi, fin dalla nascita: come potremo allora dire che Tizio è più perfettamente uomo rispetto a Caio? Ciò avviene – risponde Platone – perché conosciamo il criterio, il modello, l’idea di uomo, con la quale confrontiamo Tizio e Caio, analizzando quale dei due meglio la imiti: in tale confronto si ha l’anamnesi, ovvero il ricordo di quell’idea di uomo già conosciuta (perché da sempre insita in noi) che ora, stimolata dall’esperienza sensibile (vedo Tizio e Caio) riaffiora alla memoria. Sicchè possiamo dire che la conoscenza sensibile è occasione perché nella ragione si sviluppi un’anamnesi che permetta di contemplare le idee: conoscere l’essere non sarà, quindi, un apprendere ex novo. Aristotele, dal canto suo, rifiuta la dottrina platonica delle idee, giudicandola una superflua complicazione il cui risultato è, tra l’altro, una ingenua svalutazione di questo mondo, che è secondo lo Stagirita l’unico e che per Platone era invece una pallida copia di quello iperuranico. Platone si avvaleva della dottrina delle idee, da lui elaborata, per una congerie di motivi, tra i quali merita di essere ricordato quello di sapore religioso: la dottrina delle idee permetteva al pensatore ateniese quell’anelito infinito verso l’assoluto che tanto gli stava a cuore, e l’intero suo sistema era pervaso da una profonda nostalgia per l’assoluto stesso, una nostalgia sconosciuta ad Aristotele; proprio tale nostalgia l’aveva indotto ad immaginare quello che Nietzsche definisce come il "retromondo" platonico, ossia quel mondo dietro il mondo che è l’Iperuranio. Questo mondo – dice Aristotele – si spiega benissimo da se stesso, senza far ricorso alle idee: le "forme", infatti, sono atti d’essere un certo qualcosa, è un certo esser qualcosa in atto che ha in se stesso, nel suo esser atto, il proprio principio e la propria ragion d’essere. Naturalmente, nessuno di questi atti sussiste, in questo mondo, perfettamente attuato: mentre Platone parla di perfezione come infinita pienezza d’essere qualcosa (le idee), Aristotele la intende invece come piena attuazione d’un finito atto d’esser qualcosa. Nessuno degli atti d’esser qualcosa è perfettamente attuato, però, e ciò avviene perché ciascuno è legato a una parziale porzione di materia; così ogni anima razionale e sensitiva è sempre congiunta ad un corpo che limita quell’anima facendone l’umanità relativamente attuata di Tizio, di Caio e di Sempronio; similmente, l’anima vegetativa è sempre unita ad una porzione di materia che ne fa quella certa pianta. La visione del mondo che ha Aristotele è quella di un mondo eterno che sussiste in forza dei suoi princìpi costitutivi - le forme e la materia (sempre unite): l’essenza di una cosa, allora, è l’atto di quel certo esser quella cosa che la fa essere quella che è, ma è più o meno attuata a seconda del corpo che la natura le ha assegnato. In Aristotele, dunque, le forme sono causa e fine di se stesse: causa in quanto sono ciò in virtù di cui gli enti esistono; fine nel senso che sono ciò a cui essi tendono, sono la tensione verso la propria attuazione, una tensione ostacolata dalla materia e che riesce nella misura in cui la resistenza da essa opposta viene superata. Così l’uomo è tanto più uomo quanto più è filosofo, ovvero quanto maggiormente esercita lo strumento di cui egli solo è equipaggiato: la ragione. Come è facile capire, nella prospettiva aristotelica non c’è alcun bisogno di rimandare ad un mondo ulteriore ed ultraterreno: basta e avanza il mondo terreno, un mondo increato, eterno, in cui Dio – pensiero che pensa se stesso – è una sorta di magnete che mette in moto ogni singolo ente che tenta di emularlo nella sua immobile perfezione. In quest’accezione, il senso della vita risiederà in questo, nella realizzazione – meglio o peggio riuscita – del proprio essere. Anche Aristotele ritiene di poter spiegare l’identità/differenza aggirata da Platone grazie al ricorso al fantomatico mondo delle idee: gli enti empirici sono le sostanze, unioni di forma e di materia, e a spiegare l’identità/differenza sarà il fatto che in ciascuna sostanza di una specie è presente virtualmente lo stesso identico atto d’esser uomo, virtualmente identico ma variamente attuato nella materia. Così tutti gli uomini sono identici perché dotati dell’anima razionale, ma sono diversi per via della materia, che li distingue gli uni dagli altri. L’universale sarà allora conoscibile per astrazione, ovvero astraendo dall’oggetto sensibile la forma, pervenendo, attraverso il particolare, all’universale (per induzione): così da una miriade di singoli uomini, operando un’astrazione, ricaverò la forma uomo, come forma presente "in re" in tutti gli uomini singoli. Ma l’induzione non è il solo ragionamento, altrimenti avrebbe ragione Platone ad ammettere il mondo delle idee quale modello da cui il nostro enigmaticamente deriva: secondo Aristotele, l’induzione comincia, sì, come ragionamento, che paragona e raffronta, ma poi cessa di essere tale e culmina in un’intuizione dell’essenza, un’intuizione che giunge alla definizione dell’essenza stessa attraverso un salto in qualche misura extra-razionale. La ragione, in questo senso, approda intuitivamente a due diversi ordini di verità: le definizioni (ossia la conoscenza degli universali) a cui si giunge per induzione, e i princìpi primi (principio di non contraddizione e derivati) a cui si perviene invece per intuizione, poiché essi appaiono immediatamente evidenti alla ragione in quanto tali. A questo punto, il sapere è puramente razionale e da induttivo diventa deduttivo, cioè trae le conseguenze dalle definizioni e dai princìpi deducendo sillogisticamente. Sicchè definire l’uomo come animale razionale comporterà conseguenze morali e politiche che la ragione coglie per deduzione: il punto di vista della ragione è altro rispetto a quello delle passioni, questo è il nucleo centrale cui pervengono – per vie diverse – Platone e Aristotele (nonché tutti gli altri pensatori); l’etica della metafisica classica greca può essere condensata, a tal proposito, in tre punti fondamentali: 1) l’alterità della ragione rispetto alle passioni; 2) la superiorità della ragione sulle passioni; 3) l’immancabile vittoria della ragione sulle passioni. La superiorità della ragione risiede nel fatto che, conoscendo essa l’essere e quindi il bene e, di conseguenza, il vero e il giusto, è in grado di confutare le passioni e gli pseudo-beni che esse propongono all’uomo. Conoscere l’essere di una cosa significa conoscerne la verità, ma anche conoscerne il bene, giacchè esso è l’affezione del suo essere, e il bene è anche la giustezza della cosa (infatti una cosa è giusta quando effettivamente è se stessa): giusto, per un ente, sarà tutto ciò che inerisce al suo essere, anzitutto il diritto di essere se stesso. E’ giusto che l’uomo, dotato di ragione (la quale è attitudine al comando), sia libero, ed è giusto che chi della ragione è privo non sia libero: è un buon esempio (anche se rischioso, per le conseguenze a cui può portare) di deduzione. La ragione ci indirizza al bene confutando le passioni e in ciò possiamo già leggere la sua immancabile vittoria su di esse; dove si attua la vittoria, là primeggia ciò che è superiore, al quale l’inferiore non può in alcun modo resistere. La ragione è il superiore e si sa come tale e, in virtù di ciò, sconfigge le passioni, che non possono distoglierla dalla sua strada allettandola coi loro pseudo-beni effimeri; essa è inattaccabile dalle passioni, poiché rivela come quelli da esse proposti non sono veri beni; in questo senso, la ragione è eterna confutazione delle passioni: chi ne è preda lo è o perché in lui la ragione dorme o perché del tutto privo di essa. Le passioni magari non saranno cieche, ma senz’altro sono assai miopi, soprattutto se confrontate con l’occhiuta ragione: esse non si accompagnano, in realtà, ad un’assenza assoluta di pensiero; pullulano quando però manca la retta ragione e dominano la fantasia e l’immaginazione, producenti immagini mentali (i fantasmata di Aristotele), ossia immagini a metà strada tra il pensiero e il sensibile. Infatti, una cosa è il concetto di uomo, altra cosa è l’immagine di uomo: nel secondo caso, ce lo si rappresenta in quel determinato modo perché lo si è effettivamente visto in carne ed ossa: le conclusioni che poggiano su tali immagini, nate dal sensibile, non possono che essere (al pari del sensibile) fluttuanti, ondeggianti, instabili: così dirò, padroneggiato dalle passioni, che "mi piace, lo voglio" o "non mi piace, lo fuggo". Si tratta, evidentemente, di un pensiero frutto delle inclinazioni sensibili, un pensiero configurantesi come elementare calcolo (cosa è che mi diletta di più?), dominato dalle passioni, strumento dell’appetito sensibile, gratificazioni empiriche mal fondate. Si tratta di pseudo-beni proposti come fini dell’ambizione, della volontà, del piacere: insomma, è un pensiero che finisce per opinare che il benessere fisico sia il bene supremo. Come possono, tuttavia, le passioni controbattere alle argomentazioni dispiegate dalla ragione scatenatasi contro di esse? Questa è appunto la loro insopperibile impotenza: non sanno argomentare. In secondo luogo, poi, l’intellettualismo greco (che abbiamo già visto in atto nella concezione dell’essere e del pensiero come fatti l’uno per l’altro) dà una clamorosa smentita delle passioni: la volontà è, per i Greci, una funzione della ragione, cosicchè è la stessa ragione che, conosciuto il vero e il bene, lo vuole a tutti i costi, senza soluzione di continuità. L’anima sensibile è, sotto questo profilo, conoscenza (perché sensazione e fantasia) e volontà (in quanto appetente), mentre l’anima razionale è conoscenza razionale e volizione razionale (cioè deliberativa): la ragione è sempre le due cose – pensiero e volontà – giacchè conosce il bene e, dopo di che, lo vuole adempiere a tutti i costi; si può a ragion veduta affermare che dove c’è la ragione c’è anche la volontà di raggiungere il bene conosciuto. Marsilio Ficino, in età umanistica, ha perfettamente colto quest’aspetto dell’intellettualismo greco: "come l’appetito irrazionale segue i sensi, così la volontà, che è avidità della ragione, segue ciò che l’intelletto conosce", altro non essendo la volontà se non "un’inclinazione della mente al bene". Del resto, la ragione è da sempre anche desiderio, desiderio di conoscere e di conseguire il bene che conosce, il che vuol dire che la volontà non è una dimensione ulteriore rispetto alla ragione: così Kierkegaard dirà che una cosa è sapere cosa sia il bene, un’altra volerlo. La ragione è, in questo senso, un Giano bifronte: nell’atto in cui conosce il bene, lo vuole; ed è per questo motivo che trionfa sulle passioni. Per il mondo greco, dunque, la volontà è, in certo senso, la ragione stessa in un’altra sua veste: ma, in età moderna, si opporranno a tale prospettiva Kant e molti altri, ad avviso dei quali la volontà è cosa diversa, e anzi opposta, alla ragione. Dove la ragione vige, essa è già sempre essa stessa oltre gli appetiti sensibili, risulta l’imprendibile per essi, il che è stato formulato brillantemente dal detto scolastico "voluntati naturale est quae bona iudicata sunt velle" ("per la volontà è naturale volere ciò ch’è stato giudicato buono"): ciò vuol dire che la volizione è il frutto necessario di una conclusione logica (con cui si individuano il bene e il giusto), sicchè nell’atto con cui conosce delibera coerentemente. La vittoria della ragione sulle passioni si configura in modi diversi in Platone e in Aristotele: in Platone, la ragione si separa dai sensi e dal sensibile diventando pura contemplatrice del mondo delle idee, a tal punto che l’anamnesi platonica è appunto quest’ascesa dell’io empirico spazio/temporale del filosofo al vero io che è la ragione eterna contemplatrice delle idee, di una dimensione divina (tema, questo, che verrà approfondito da Plotino e dai suoi seguaci, per i quali la ragione ridestata corre dall’empirico all’intelligibile). L’anima si fa secondo Platone mera anima razionale, e se la reminiscenza è recupero dell’io autentico, è allora evidente che l’anamnesi platonica ha una dimensione specificamente ontologica, cioè implica una trasmutazione ontologica del soggetto e non ha nulla a che fare con una presunta reminiscenza psicologica (come è invece quella ammessa da Proust). Tale ascesa platonica comporta, sul versante etico, una fuga (fugh dice Plotino) dai vizi dell’individualità empirica e sensibile, giacchè è un’evasione dal sensibile (pensiamo al mito platonico della caverna), è un andare oltre le deficienze dell’io empirico, che invece tenderebbe ad assolutizzare il livello sensibile. La virtù platonica per eccellenza sarà, in quest’ottica, la sapienza, poiché è conseguendo questa che l’io raggiunge la propria autenticità, rirecupera la "plenitudo essendi" della ragione contemplante e tale sapienza implica la giustizia e la capacità di esercitarla. Per Platone, dunque, la dimensione etica si configura nei termini di una vera conversione radicale (di metabolh si parla nella Repubblica) che presenta le caratteristiche di una fuga da questo mondo. Diversa è, invece, la posizione sostenuta da Aristotele, il quale – come sappiamo – tiene ben saldi i piedi per terra: anche quando è filosofo, l’uomo resta, secondo lo Stagirita, indissolubilmente legato al corpo e il conoscere stesso muove pur sempre dalla conoscenza sensibile (la quale non è pertanto un mero trampolino di lancio, come in Platone); ma anche per Aristotele la ragione, in ultima analisi, si colloca su un punto extra-razionale, puro e disinteressato, un livello di mera contemplazione delle forme che costituiscono l’in sé delle cose e, di conseguenza, l’ordine del cosmo, astraendo del tutto dal sensibile, ma non per questo distaccandosi dal corpo e dalle sue esigenze. Non potersi completamente distaccare dal corpo equivale a dire che si può filosofare solo ad intermittenza, ossia solo dopo aver soddisfatto i propri bisogni fisici, di fronte al cui ritornare bisognerà nuovamente sospendere l’attività filosofica per poterli soddisfare. E’ nell’ Etica nicomachea di Aristotele che troviamo, in nuce, l’etica del mondo classico: al cuore di questo scritto sta la distinzione tra "virtù etiche" (cioè pratiche) e "virtù dianoetiche" (cioè proprie della speculazione). Le virtù etiche sono degli atti della ragione, delle volizioni secondo ragione e questi atti - a furia di ripetersi - si consolidano, ma non in abitudini (ovvero in azioni di natura meccanica), bensì in abiti, che sono il frutto di successive e sempre rinnovantesi deliberazioni: il ripetersi di una deliberazione consolida la tendenza della ragione a comportarsi in un dato modo. La virtù, quindi, è quell’atto della ragione consolidatosi in abito, cioè nella disposizione ad agire secondo ragione: così la ragione subordina e limita le inclinazioni passionali che le si parano dinanzi. Temerità e viltà – dice Aristotele – sono due passioni contro ragione, mentre il coraggio è una forma di virtù razionale: ma chi è coraggioso? Colui che è permanentemente disposto ad osare o a temere secondo ragione, e questo può essere acquisito solo con la ripetizione dei singoli atti di coraggio che instaurano l’abito stesso del coraggio, atti che sono sempre consapevoli e razionalmente deliberati. La ragione, allora, modifica le passioni subordinandole a sé: gli impulsi a osare o a temere, se abbandonati a sé, si trasformano nelle mostruose passioni della temerità e della viltà, ma è la ragione a trasformarle in coraggio: non le elimina, ma le modifica, deliberando di avvalersene come essa stabilisce. In questa maniera, compio un atto coraggioso quando, di volta in volta, temo e oso secondo ragione: in presenza delle inclinazioni a osare o a temere, la ragione delibera di osare e di temere quando e quanto sente che è giusto e, così facendo, si esercita nel coraggio, trasformando le disposizioni passionali nel coraggio (che è appunto una virtù etica). In questo senso, da passioni subite diventano azioni deliberate, novità prodotte dalla ragione che doma e soggioga le aberranti passioni, impedendo che nasca la viltà e la temerità. Ben si capisce come per Aristotele (e in ciò concorda l’etica greca tutta) non sia la ragione ad essere al servizio delle passioni, ma viceversa: è essa a deliberare autonomamente il comportamento virtuoso a cui uniformarsi. Aristotele dice apertamente che la superiorità della ragione si manifesta nella suprema virtù etica: la giustizia. Essa è la virtù suprema perché ad essa sono subordinate le altre, che essa comprende ed organizza; è infatti solamente grazie alla giustizia che le altre virtù sono quello che sono. Esse, infatti, sono il giusto mezzo tra due inclinazioni opposte: così il coraggio è il giusto mezzo tra la viltà e la temerità, la liberalità è il giusto mezzo tra la prodigalità e l’avarizia. Ma Aristotele intende qui la giustizia sensu lato: ha infatti in mente la "giustizia politica" (o "universale"), quella cioè che ha per oggetto ciò che è giusto per natura e che costituisce il bene comune. La giustizia politica concerne l’universalmente e il naturalmente giusto, che altro non è se non l’universale ordine dell’essere, ovvero l’ordine del mondo e umano. E la giustizia è, appunto, quella virtù che è disposizione permanente a riconoscere, conservare, promuovere ed eventualmente restaurare tale ordine; ciò significa che un uomo è giusto nella misura in cui riconosce l’ordine, nel duplice senso che lo conosce (ragione speculativa) e lo promuove (ragione pratica), affinchè esso si preservi e prosperi e nel tutto sopravviva la parte, intesa come parte contestualizzata nel posto che le compete nell’economia del tutto. E l’uomo giusto si deve adoperare anche attraverso giuste limitazioni e rinunce, anche attraverso la rinuncia a volere tutto e immediatamente. Allora potremo dire che giustizia è favorire e promuovere il tutto, il giusto ordine delle cose: ma tale ordine va anzitutto conosciuto ed è conoscibile solo da una ragione che prescinda dai punti di vista particolari e che sia collocata da un punto di vista universale, come disinteressata contemplatrice della verità delle cose, verità che coincide con la giustezza stessa delle cose (esse sono giuste nella misura in cui sono se stesse). Ma questo è il sapere metafisico, possibile solamente in quanto sviluppantesi da un punto di vista universale e disinteressato: tale giustizia coincide col bene comune, dove ciascuna cosa attua coerentemente il proprio essere. E questo bene comune è naturale, tutt’uno con la natura delle cose, altro non essendo questa se non la loro essenzialità. Si tratta, dunque, di un bene colto da una ragione attenta, giacchè in grado di trascendere quello che Machiavelli chiama "il particulare". Soltanto chi ha una simile visione del giusto ordine potrà sempre sapere come agire giustamente, sarà ad esempio in grado di agire quando è giusto e con il giusto coraggio, evitando oculatamente sia la viltà sia la temerarietà. Solo chi ha una simile visione e agisce sempre di nuovo deliberando acquista l’abito della giustizia, virtù delle virtù. Egli sarà giusto in tutto ciò che fa, e sarà colui che realizza pienamente se stesso, attuando in pieno la propria razionalità di uomo, ossia la propria struttura metafisico-etico-politica; sa, conosce e agisce di conseguenza all’interno della poliV, in cui si trova a posto con se stesso perché è al suo giusto posto. Vive interamente secondo ragione, conosce la giustizia ed è ad essa che mira (nella duplice accezione che la contempla e ad essa aspira), esercita la "giustizia distributiva", consistente nel dare a ciascuno il suo ("dare cuique suum"), ossia recapitandogli ciò che naturalmente gli spetta. Ma il vero filosofo – oltrechè col dare a ciascuno il suo - esercita la giustizia anche correggendo le disuguaglianze, ripristinando la giustizia venuta meno: in questo modo, egli esercita la "giustizia correttiva" (o "commutativa"). E’ facile capire come, nella prospettiva aristotelica, sapienza e giustizia siano le due facce della stessa medaglia, poiché il sapiente è il giusto e il giusto è il sapiente, in cui la retta ragione non incontra ostacoli nel suo dispiegarsi. In questo senso, si può dire che le virtù sono attitudini prodotte dalla ragione e, perciò, inesistenti prima di essa: se le passioni sono subite, le virtù sono attivamente agite (in quanto deliberate). Questo vale per quel che riguarda le virtù: ma Aristotele si riferisce spesso anche alla virtù in senso lato, come atto della mente umana; egli dice che la ragione conoscente e agente, se funziona correttamente, realizza le sue possibilità ed è in ciò che consiste l’areth, il perfetto compimento della natura umana, compimento che corrisponde del resto alla felicità. Sicchè l’uomo potrà dirsi felice quando e nella misura in cui si sente realizzato, e per realizzarsi dovrà attuare metafisicamente la propria natura, esercitando quell’elemento che più di ogni altro lo rende uomo: la ragione. Non è, dunque, il lavoro a realizzare l’uomo, come credeva Anassagora e come crederà Marx, bensì il pensiero. Tale areth è realizzabile entro i confini della poliV (perciò è politica), è la condizione del sussistere del soggetto umano, il quale – se vivesse al di fuori della città e, quindi, isolato – non sarebbe altro che una bestia. Anche l’esercizio della ragione si realizza al meglio nella vita di relazione, solo in tale contesto è dato praticare le virtù etiche: è solo nella poliV, infatti, che si realizza la vera filosofia platonicamente intesa in forma dialogica, come scambio reciproco di idee che si attua nella relazione interpersonale. Ed è solo nella poliV che può svilupparsi l’amicizia, da Aristotele distinta in amicizia fondata sui bisogni (un’amicizia di mutuo soccorso, che nasce dalla necessità di soddisfare reciproche esigenze) ed amicizia disinteressata (solo questa autentica e duratura, poggiante sulla reciproca attuazione della propria razionalità). L’animale razionale è, secondo lo Stagirita, tale in quanto è animale politico, cosicchè la poliV può essere etichettata come naturale approdo della ragione umana. Questo significa che il consenso politico è quello naturale e implicito di tutti gli uomini, dei veri uomini liberi, ossia di tutte le rette ragioni, è – in altri termini – il consenso a cui naturalmente la ragione perviene. Allora alla base dello Stato non vi è il patto sociale, cioè l’opzione soggettiva di una molteplicità di individui che si accordano a tavolino e convengono su cosa è il bene comune, ma, al contrario, c’è l’esigenza oggettiva dell’universale natura umana, ossia dell’uomo concepito come animale razionale/politico. Dove c’è una molteplicità di individui dotati di retta ragione, lì si produce lo Stato, come insieme spontaneo di individui governati dalla loro ragione. Naturalmente, in una concezione del genere pare serpeggiare un esasperato ottimismo antropologico, che sarà deriso dagli uomini rinascimentali. Tuttavia, onde evitare di scivolare in facili fraintendimenti, è bene domandarsi cosa dobbiamo intendere per "uomo" quando sentiamo Platone e Aristotele parlarne: chi è uomo? Chi ha la ragione e la esercita rettamente, cosicchè uomini in senso pieno sono i soli filosofi, ossia una esigua minoranza. L’ottimismo di partenza già scricchiola. La posizione stoica, poi, pare sotto questo profilo significativa: gli Stoici, infatti, dicono che il vero saggio (l’unico essere degno di essere detto "uomo") non è mai esistito né mai esisterà, sicchè di uomo non ce n’è mai stato (né mai ce ne sarà) neanche uno. Senza arrivare agli estremismi stoici, ma restando a Platone e ad Aristotele, all’ambito dell’umano vengono da loro sottratti molti individui che noi, abitualmente, riteniamo uomini in senso pieno: così già Platone – nella Repubblica – nota come gli esseri umani siano stati plasmati con tre diversi metalli, con la conseguenza che ci sono uomini superiori e uomini inferiori dalla nascita, senza possibilità di cambiare status; l’educazione stessa, più che trasformare l’essenza di ciascuno, porta a svilupparsi ciò che ciascuno è potenzialmente fin dalla nascita. La posizione di Aristotele è più drastica: a suo avviso, non sono propriamente esseri umani tutti coloro che non possono esercitare rettamente la ragione: restano così esclusi dalla cittadinanza umana schiavi, ragazzi e donne. Solo i Sofisti - gli illuministi del mondo greco – avevano affermato a gran voce che la schiavitù esiste solo convenzionalmente e che, alla nascita, gli uomini sono tutti uguali: tesi, questa, abbracciata, seppur con sfumature diverse e piuttosto variegate, da Ippia, Antifonte e Alcidamante. Già Platone, invece, sosteneva che solo i Barbari potevano essere fatti schiavi, mentre ciò era impossibile con individui di origine greca. Ma è legittimo domandarsi quale sia la differenza (ammesso che ci sia) tra uomini liberi e schiavi: Platone la individua nel fatto che gli schiavi sono sprovvisti di logoV e dotati esclusivamente della doxa, possono cioè opinare senza però formulare ragionamenti, con la conseguenza che lo schiavo è un mero esecutore incapace di autodeterminarsi e in tutto e per tutto dipendente dal padrone. Questa distinzione la troviamo in Aristotele (Politica, I 13), il quale opera una diversificazione tra individui dotati di ragione (e perciò capaci di pensare e di prevedere) ed individui sprovvisti di essa e tenuti solo a faticare col proprio corpo; questi ultimi sono puri e semplici strumenti nelle mani del padrone, alla pari del bue e dell’aratro. "Differiscono quanto alle capacità di deliberare derivata dalla riflessione razionale: tutti hanno le parti dell’anima, ma in maniera diversa. Lo schiavo non possiede in tutta la sua pienezza la parte deliberativa; la donna la possiede ma senza autorità; il ragazzo la possiede ma non ancora sviluppata". E – aggiunge Aristotele – si è degni di stare dentro o fuori le mura della poliV a seconda che si possegga o meno il boulhtikon, la capacità di deliberare. Lo schiavo può apprendere la ragione dal padrone, poiché la sua è una razionalità riflessa, che imita ed emula quella del padrone appunto. La donna, invece, la possiede ma senza autorità: ella ragiona poco, non al punto da persuadere, cosicchè, quando si trova a discutere col filosofo, ella si trova costantemente in uno stato di minoranza. Solo il maschio adulto (e per questo il ragazzo risulta escluso) ha piene facoltà razionali: esso solo è uomo nel vero senso della parola (animale razionale e politico). E non è un caso che lo Stagirita distingua l’adrapodon (l’essere dai piedi umani) dal tetrapodon (l’essere a quattro zampe, ovvero la fiera), identificando il primo con l’uomo, il secondo con lo schiavo. Secondo Aristotele, la schiavitù è giusnaturalisticamente costituita, giacchè esistono esseri dotati di ragione e per questo destinati al comando, ed esseri che sembrano essere uomini ma che in realtà non lo sono e, in virtù di ciò, mancano degli stessi diritti del cittadino, il quale è secondo lo Stagirita un greco, maschio, adulto, ozioso, urbano e libero, cosicchè – contrariamente alle tesi sofistiche – la schiavitù è naturale e legittima. Altra cosa, invece, sono gli schiavi per legge, ossia quegli uomini che perdono in guerra, poiché vinti, la loro libertà: una schiavitù di questo tipo è giusta solamente se i vinti fatti schiavi sono tali già per natura, altrimenti, se ci troviamo dinanzi a uomini un tempo liberi e ora privati della loro libertà e ridotti in catene, trattasi di una schiavitù illegittima. A corollario di quanto detto, ricordiamo la dottrina aristotelica del dispotismo e la distinzione ch’egli opera con la tirannia: il despota è per natura il padrone della casa (oikoV), e il dispotismo da lui esercitato è il potere arbitrario del padrone sugli schiavi e su quanti (donne e bambini) non sono propriamente uomini, sebbene Aristotele si renda perfettamente conto che la relazione intrattenuta dal "pater familias"/despota con la moglie non si configuri come un dispotismo, ed è per questo che lo Stagirita tende a parlare di un’aristocrazia all’interno della casa, dove a governare sono il marito e la moglie congiuntamente; in questo modo, viene reintrodotto il potere femminile, precedente negato. In sostanza, il dispotismo è il legittimo rapporto di potere che si instaura tra chi possiede il bouleutikon e chi ne è sprovvisto, un rapporto che è esercitato non nei confronti di cittadini, ma verso strumenti quali sono per Aristotele lo schiavo e il bambino. Al contrario, la tirannia è un sopruso esercitato nei confronti dei cittadini e per questo motivo è del tutto illegittimo, e reso ulteriormente illegittimo dal fatto che se il despota è il cittadino razionale e virtuoso per eccellenza, il tiranno invece è colui che meno possiede la ragione, e che anzi è preda delle proprie passioni, sicchè l’illegittimità del suo potere è fondata dal suo padroneggiare sui cittadini e sulla tipica incapacità di comandare propria di chi è in balia delle nocive passioni. In questi termini, il dispiegato ottimismo del popolo greco trova una sua clamorosa smentita: l’uomo, che così spesso troviamo tratteggiato nelle pagine dei filosofi, è in realtà un personaggio meno frequente del previsto, anche se non è mai possibile fugare completamente l’ambiguità di fondo, quell’ambiguità che ci assale puntualmente ogni qual volta ci imbattiamo nel termine "uomo", così ricorrente negli scritti di Platone e di Aristotele. Alla diffusione di tale ambiguità ha contribuito il massimo divulgatore del pensiero greco, Marco Tullio Cicerone, troppo spesso presentato semplicemente come un avvocato capzioso e verboso, e non come una delle più lucide menti filosofiche dell’antichità, quale effettivamente fu. Il suo De officiis è la quint’essenza dell’etica antica: vi troviamo un costante elogio reiterato dell’uomo raziocinante, virtuoso, instancabile cultore del bene, interamente dedito all’esercizio della ragione, e, presi dal magnifico periodare ciceroniano, finiamo per dimenticare che quello da lui descritto è un animale rarissimo, quasi inesistente.

IL MEDIOEVO

Tentata un’ardita sintesi, proveremo ora a delineare succintamente il mutamento intervenuto in ambito filosofico grazie al cristianesimo, tra il VI e il XII secolo d.C. La grande e fondamentale novità che l’avvento del cristianesimo ha introdotto è il ridimensionamento netto della ragione antica, la cui celebrazione greca deve fare ora i conti con l’instaurarsi del principio di autorità e con il dogma della destinazione divina dell’uomo, nonché della beatitudine eterna e, ad essa correlato, il peccato originale. Nel mondo antico, la ragione era la sola, suprema autorità, a tal punto che si potrebbe parlare di sovranità della ragione: nessuna autorità le contendeva il primato di autorevolezza teorica ed etica, il saper dire "che cosa fare" e "come agire". Un tale agonismo tra la ragione e un’autorità da essa distinta interviene con il cristianesimo, che ha caratteristiche diversissime dalla religione degli antichi Greci e che lo conducono inevitabilmente ad un conflitto con la ragione, una belligeranza lunghissima e dapprima risolta (in età medioevale) con la subordinazione totale della ragione alla Rivelazione; tale subordinazione si attua in due momenti distinti: in un primo momento, nella fase patristica; in un secondo, in quella scolastica. Il momento patristico (che si protrae fino al XII secolo) ha la sua sistemazione in Agostino di Ippona e informa di sé la cultura teologica e monastica che domina fino al XII secolo a.C, quando subentreranno novità che porteranno ad una riformulazione – la "scolastica" – del rapporto intercorrente tra rivelazione e ragione, soprattutto grazie all’opera di Tommaso d’Aquino. Grazie all’Aquinate, verrà restituito, almeno parzialmente, alla ragione qualcuno dei diritti di cui era stata spogliata dalla patristica. Ma – chiediamoci – perché la religione antica non si era opposta alla ragione (come invece accade in età cristiana)? Le fonti su cui poggiava la religione antica, in special modo quella greca, erano due: la mitologia e gli oracoli, e, per di più, la mitologia di marca greco/romana non si configura come una rivelazione divina, ma come un’affabulazione umana, come interpretazione del mondo, e ne sono portavoce i poeti (Omero ed Esiodo), i quali scoprono, immaginano e inventano gli dei, le loro reciproche relazioni e quelle con gli uomini; si tratta, dunque, di un’affabulazione anteriore e parallela rispetto alla riflessione razionale, ma – al pari di questa – è pur sempre umana e, perciò, risolvibile nella speculazione filosofica, secondo un passaggio dal muqoV al logoV, passaggio che si concretizza nella cultura antica, quando cioè i filosofi hanno fatto propri i miti e ne hanno dato formulazioni razionali. Così hanno agito Platone, gli Stoici e i Neoplatonici, rielaborando in chiave razionale i miti; anche Epicurei e Scettici si sono mossi in un contesto non del tutto differente, demistificando la mitologia come cumulo immane di fandonie liquidate dalla ragione: da tutto ciò si evince come, nel mondo antico, ragione e mitologia non siano mai, propriamente, entrati in conflitto. Sull’altro versante, l’oracolo è parola divina comunicata agli uomini in luoghi precisi (i templi) attraverso una persona consacrata alla divinità venerata in quel determinato luogo: un tale verbo divino ha, tendenzialmente, contenuto di pronostici, di oroscopi, di divinazioni, ed è rivolto ai singoli che di volta in volta interrogano l’oracolo. Ciò segnala che alla religione antica ineriva una funzione eminentemente profetica, e il profetismo era risolto in una precisa casistica, il Dio si esprimeva attraverso il medium umano (la Pizia, la Sibilla, ecc), che rispondeva di volta in volta a puntuali e circoscritte domande, quali "che cosa fare nei momenti di ansia e di paura?" Le risposte, quindi, erano altrettanto puntuali rispetto alle domande, cosicchè la parola oracolare del Dio non si organizza mai in un configurarsi di rivelazioni, ossia in una visione complessiva, totalizzante e veritiera del reale; al contrario, il verbo divino non concerne la verità, e d’altro canto quando tende ad articolarsi in verità si presenta sempre come affabulazione poetica, che può essere rielaborata dai filosofi. Non è un caso che, in tale prospettiva, agli antichi greci fosse sconosciuta una Bibbia rivelante la verità, una Chiesa intorno alla quale raccogliersi, poiché questa si costituisce solamente in seguito ad una rivelazione, di cui è l’unica autentica interprete. Non sussiste nel mondo antico alcun problema di fede e ragione come due possibili e diversi accessi alla verità: il problema, invece, si pone con le "religioni del libro", con il cristianesimo, l’ebraismo e l’islamismo, dove ci si imbatte in una rivelazione divina che si scontra con la ragione, ai cui occhi tale rivelazione appare come una folle stranezza, in quanto non solo predica cose nuove e non pronunciate dalla ragione, ma addirittura incomprensibili e opposte alla ragione stessa e ai suoi dettami (tale è il caso della Trinità, che si oppone al principio di identità). E per di più tali stranezza vengono dalla Rivelazione sentenziate con una veste di autorità sovrannaturale, come verbo divino. Con il mondo cristiano, ci si trova dinanzi a due distinti fonti della Verità immediatamente contrastanti e guerreggianti, cosicchè diventa inevitabile interrogarsi sul loro rapporto: per i non cristiani, la Rivelazione è mera invenzione umana e, come tale, viene prontamente liquidata. Ma, con l’erezione del cristianesimo a religione dell’impero avvenuta sotto Costantino, si ha l’insediamento del principio di autorità, e questo perché la natura divina della Rivelazione del libro è imposta e riconosciuta dal potere politico, spesso – se necessario – con la forza. In quanto parola divina, essa è l’assoluta verità cui la ragione umana è chiamata a sottomettersi, con la conseguenza che la "pagina sacra" e la dottrina che i suoi legittimati interpreti ne traggono è la Verità stessa, cui deve piegarsi ogni pretesa verità puramente umana. Ne sorge una società in cui la cultura non potrà essere se non cultura del "Libro sacro", cultura cioè di un solo libro, e configurantesi precipuamente come sua lettura e, rispetto a ciò che il testo detta, l’atteggiamento della ragione non potrà che essere ricettivo e strumentale, un passivo ascolto e una mera fornitura dei mezzi volti alla comprensione quel dettato dell'auctoritas: ed è appunto questo che si compie nei monasteri fino al secolo XI (lectio divina). Ma, accanto alla novità dell’autorità, è introdotta l’innovazione della mutata immagine dell’uomo: creato da Dio e destinato a godere di beatitudine eterna, anche se parzialmente compromessa dal peccato originale, ma recuperabile col soccorso della grazia divina, l’uomo non può contare soltanto sulla propria ragione. L’obiettivo centrale e imprescindibile della vita umana diviene lo sforzo di meritarsi la beatitudine eterna e, dunque, il tentativo di conseguire con le buone opere la giustizia divina occorrente per acquisire tale beatitudine, una giustizia che è però radicalmente diversa da ogni altra. Si tratta tuttavia di un obiettivo irraggiungibile in questa vita, stante quel peccato originale che ha corrotto la ragione e ha tarpato le ali alla volontà di ottenere la beatitudine; è però in virtù della Grazia che tale impegno viene finalmente premiato, e la vita acquista senso in riferimento al suo tendere alla santità. L’uomo che si sforzi di vivere rettamente (secondo la legge divina, non quella umana) è destinato allo scacco qualora pretenda di raggiungere tale fine esclusivamente con le sue forze, poiché – come nota Agostino – si trova ineluttabilmente vinto dal peccato se non fa riferimento alla Grazia divina liberatrice. In quest’ottica, le morali elaborate dagli antichi sbagliano nel proporre fini puramente umani e terreni, che alla luce della Grazia si rivelano come illusori ed effimeri, lungi dall’autentico Bene. E il raggiungimento di quel bene terreno e umano – vuoi l’areth aristotelica, vuoi l’ascesa razionale platonica – richiede l’esercizio di virtù che sono tali solo per chi ignora la natura di Dio e dell’Amore (agaph) che Egli pretende dalle sue creature, quell’amore disinteressato per il prossimo che è sconosciuto all’etica antica; il falso eudaimonismo dei Greci poggia, secondo i cristiani, sull’ignoranza di quale sia la natura divina, giacchè tutto ciò che concerne la relazione intercorrente tra uomo e Dio (e dunque la Grazia, il peccato originale, la perfezione dell’Amore, ecc) esula dalle capacità conoscitive della ragione resa incapace dal peccato originale. Allora la relazione con questo Dio rivelatosi diventa l’essenziale, e così l’uomo in quanto ragione mira a conoscerLo e in quanto volontà tesa a compiere quella divina è rimandato continuamente a tale Rivelazione, alla quale deve in tutto e per tutto sottomettersi, piegandosi anche alla Grazia che si sviluppa in un nuovo agire reso possibile dal concorrere della Rivelazione e dalla Grazia: è, questo, l’unico vero sapere e l’unico vero agire, l’unico a contare davvero per la salvezza, frutto della Grazia agente sulla ragione e sulla volontà, secondo quanto stabilito da Dio. Con la "patristica" assistiamo ad una radicale delegittimazione di ogni punto di vista che non sia quello imposto dalla fede, e pertanto il sapere viene concepito e praticato unicamente come teologia, ovvero come LogoV intorno a QeoV, come scienza di Dio: si tratta di un genitivo sia soggettivo sia oggettivo, in quanto Dio è l’oggetto di tale scienza, ma è al contempo Dio stesso il soggetto che sa, è la Grazia divina che con la Rivelazione informa il fedele circa Dio. La delegittimazione di ogni altro sapere finisce per investire anche la filosofia e viene scandita secondo due modalità: in primo luogo, il filosofare umano è congedato come errore frutto dell’ignoranza di che cosa sia la natura divina; in secondo luogo, qualora non venga così brutalmente messo alla porta, viene etichettato come una vana curiosità intorno a cose di poco conto se raffrontate all’unica cosa che davvero conta: la salvezza umana; tutto ciò che non ha ad essa attinenza è vana curiositas e, come tale, va rigettato, si abbandona il sapere umano e si abbraccia la fede, viatico alla beatitudine eterna, una fede che è un assenso e una fiducia in ciò che viene rivelato, ma è altresì notizia di ciò che è rivelato, ossia è nozione di ciò in cui si ripone la fiducia. La fede, pertanto, incrementando questa sua spinta conoscitiva, si sviluppa in intelligenza di sé e dà così vita ad un sapere in cui è al contempo oggetto e soggetto; tale sapere è intellectus fidei, l’intellezione della fede, l’intellezione che ha ciò in cui crede. Agostino dice che vi è un primo momento di "fede semplice", e un secondo in cui si è fatta intellectus fidei. Nello stato di fede semplice, la ragione aderisce strettamente alla parola scritturale, la tiene per vera e si riduce ad essa, si ha cioè una ragione come mera ricezione del Verbo. In un secondo momento, in forza dell’illuminazione proveniente da quella parola, l’intelletto muove dalla parola mirando ad una più ampia comprensione della parola stessa e, quindi, dirigendosi ad essa: la parola è principio della fede, e la fede illuminata tende ad una più profonda comprensione della parola. Sempre muovendosi entro l’orizzonte della parola, la fede da semplice diventa teologia, anche se tale passaggio non si verifica in tutti i fedeli (nella stragrande maggioranza resta fede semplice), ma solo in pochi eletti. Agostino nota come nello sforzo di articolazione della fede da semplice a complessa, accada al teologo di ricorrere alle dottrine di alcuni filosofi che lo hanno preceduto e che lo sorprendono per la loro straordinaria somiglianza con quel che la Rivelazione dice: tali sono, secondo Agostino, i Platonici e i Neoplatonici. Ma non per questo il teologo abbandona i suoi panni per indossare il mantello del filosofo: non si rinuncia al proprio punto di vista, poiché le dottrine filosofiche accostabili a quelle dettate dalla Rivelazione altro non sono se non un plagio o il frutto di una Rivelazione parallela; Platone stesso non è altro che un "Mosè atticizzato". Come Mosè ha ricondotto il popolo dall’Egitto alla terra promessa, così Platone ha fatto il suo viaggio in Egitto e ha trovato le tracce della Rivelazione ebraica e se ne è impadronito per riformularle come propria filosofia. Ne deriva che il platonismo è un plagio. La seconda teoria (formulata da Clemente Alessandrino) è quella della "Rivelazione parallela": stando ad essa, bisogna riconoscere che se ci sono (e, di fatto, ci sono) analogie tra alcune ragioni cristiane e alcune filosofiche, ciò dipende dal fatto che, accanto alla Rivelazione vera e propria, Dio ne ha prodotta un’altra - in senso lato -, ed essa corrisponde ad un certo filone della filosofia greca; e del resto la ragione di cui si son serviti nel loro incedere i filosofi antichi non è forse anch’essa il frutto della creazione divina? Sicchè il teologo che si impadronisce di certe dottrine filosofiche non fa altro che recuperare ciò che per natura è suo, formula cioè la stessa verità nello stesso modo in cui l’avrebbe prima o poi formulata, anche senza incontrare quelle dottrine filosofiche, poiché si tratta della medesima fonte di Verità. Fino a Bonaventura (XIII secolo d.C.), passando per Bernardo di Chiaravalle, domina questa prospettiva teologica che vuole la ragione interamente guidata dalla fede, e ciò non solo in sede teoretica, ma anche in campo etico, dove le improbabili virtù della sola ragione vengono surclassate dallo sforzo verso la santità supportato dalla Grazia, con la conseguenza che il vero comportamento è quello del monaco asceta e della sua assidua lotta contro il peccato, ch’egli conduce vivendo fino in fondo, nel suo cuore, la distinzione – soprattutto agostiniana - tra città divina e città terrena. Quando alla sovranità della ragione socraticamente intesa come curiosa di tutto si sostituisce l’autorità di un solo punto di vista imposto dalla fede, sovrarazionale e perciò inattaccabile dalla ragione, il dialogo cede il passo al monologo, la cultura da vivace che era diventa statica e stagnante, con un unico orizzonte entro il quale la ragione è mero strumento passivo, illuminato dalla Grazia: non vi è altro da sapere se non la vita eterna che si vivrà, e il nostro mondo perde in tal modo di rilevanza, quasi diventa favola, il monaco il monastero assurgono a simboli di una fuga dal mondo e dalla vita terrena, con l’apparentemente irrisolvibile paradosso che in quei monasteri in cui ci si vuole sottrarre dal mondo e dall’esercizio della ragione abbondano i copisti, che – attraverso il loro strenuo lavoro di copiaggio – trasmettono ai posteri un sapere puramente umano. In realtà, è un paradosso solo apparente, giacchè tali copisti, che ricopiavano per intero le opere dei grandi filosofi dell’antichità, facevano ciò solo per penitenza, per guadagnarsi il paradiso, senza nemmeno leggere quel che copiavano (sarà poi il mondo umanista che tornerà a leggere con rinnovato interesse i testi tramandatici dall’antichità). In tutte queste componenti del mondo medievale troviamo conferma della tremenda depressione culturale in cui è immersa quest’epoca: ma, a partire dalla metà del XII secolo d.C., si assiste al ritorno di Aristotele e del suo bagaglio di scritti, che irrompono portati dagli Arabi (soprattutto Avicenna e Averroè), e l’ingresso dello Stagirita in Occidente è uno shock culturale, in quanto ci si ritrova dinanzi ad una sistematica visione del mondo (precisamente: di questo mondo) che è così articolata, complessa e diffusamente argomentata – e perciò istruttiva – che non sembra più possibile sbarazzarsene come di un blocco fatto passare per menzogna o vana curiosità. E’ un sapere così autonomo che non sembra neppure possibile farlo rientrare in qualche modo nell’alveo della Rivelazione, poiché si tratta di un sapere improntato sull’esercizio non della fede, ma della ragione: con Aristotele, torna in Occidente – con rinnovato vigore - il sapere filosofico, dopo un esilio durato qualche secolo, con un effetto assolutamente dirompente, dal momento che costringe i teologi ad ammettere una forma di sapere altrettanto legittima rispetto alla loro, e li induce ad elaborare una nuova teologia che tenga conto di questa realtà poggiante su di un positivo sapere umano impostosi inconfutabilmente. Così, Bonaventura avrebbe preferito che Aristotele non fosse mai "risorto", ma, di fronte al monumentale corpus aristotelico, non può non riconoscergli lo statuto di un sapere razionale valido, diverso sì da quello del teologo, ma non per questo da rigettarsi. Per questa via, la filosofia (opus rationis) e la teologia (intellectus fidei) si configurano come due ordini distinti, caratterizzati ciascuno da un proprio statuto, cosicchè alla teologia si impone di trasformarsi per poter intrattenere con la risorta filosofia un rapporto che le consenta di esserle superiore: prima che Aristotele facesse irruzione nell’Occidente medievale, la superiorità della teologia era scontata e aproblematica; ora, invece, la si deve riformare per far sì ch’essa sia in contatto con la ragione filosofica, ma restando ad essa superiore. Ed è in questa prospettiva che si orienta Tommaso, il quale fa nascere la teologia scolastica, ribadendo l’egemonia della teologia, pur non respingendo la ragione. Compie questo in due mosse congiunte: fa all’interno dell’economia della salvezza maggior spazio al puramente umano di quanto non venisse ad esso riservato dalla tradizione agostiniana. Prima del ritorno in Occidente di Aristotele, la ragione era del tutto appiattita sulla fede ("intellectus fidei") e il sapere era meramente teologico: la ragione poteva sì conoscere qualcosa, ma unicamente in forza dell’illuminazione della Rivelazione. Con l’irruzione di Aristotele, anche i teologi più renitenti (quale fu Bonaventura) sono ora costretti a riconoscere, accanto a quello teologico, un sapere filosofico non scevro di una sua dignità, e il teologo deve quindi riaffermare la supremazia della teologia sulla filosofia, senza potersi sbarazzare tout court di quest’ultima: Tommaso non si esime da questo compito strategico con – come abbiamo già detto – una duplice mossa. Viene dall’Aquinate aperto maggior spazio di quanto non ne venisse lasciato da Agostino alla capacità razionale e alla volontà dell’uomo, poiché, se per Agostino il peccato originale ha fatto tabula rasa demandando l’uomo all’intervento salvifico della Grazia, secondo Tommaso tale peccato ha solo tangenzialmente ferito la natura umana, l’ha vulnerata di ferite non tali da impedire all’uomo l’esercizio delle sue naturali facoltà, ed è così (equipaggiato di efficaci doti conoscitive) che lo descrive Aristotele e, sulle sue orme, Tommaso. La ragione crea proficui processi argomentativi, ma risulta altresì in grado di innalzarsi, elaborando una teologia naturale (meramente razionale), ossia una vera – seppur parziale – conoscenza di Dio, razionalmente inteso come principio del mondo. Ed è a questo punto che subentra la seconda mossa di Tommaso: non solo il retto uso della ragione è possibile e dà buoni risultati, ma è il solo che, producendo una veritiera conoscenza del mondo e di Dio, non solo non è contrario alla fede, ma anzi prelude e introduce ad essa. Sicchè il percorso razionale è meritorio e degno d’esser praticato, e questo perché i due ordini (della ragione e della fede) provengono dallo stesso ed unico Dio, cosicchè la retta ragione non può contraddire la fede: la verità della fede e quella della ragione non si elidono vicendevolmente. Ciò vuol dire che una filosofia contraria alla fede è un errore della ragione che la ragione stessa è in grado di individuare e di correggere: la filosofia corretta è l’aristotelismo che culmina nella teologia razionale tomistica, quel tale aristotelismo sviluppato appunto da Tommaso nei suoi scritti; devono invece essere rigettate come errate tutte quelle interpretazioni dell’aristotelismo che hanno esiti diversi, prima fra tutte quella espressa da Averroè (contro i cui seguaci l’Aquinate si schiera soprattutto nel De unitate intellectus contra Averroistas), la cui rielaborazione dell’aristotelismo finiva per predicare l’eternità del mondo. La sola ragione può qualcosa da sé, se correttamente esercitata, e configura il filosofare come introduzione alla fede, giacchè un tal corretto filosofeggiare culmina naturalmente nella conoscenza di Dio. Ma la filosofia non si riduce a questo: il suo esercizio prosegue dopo l’incontro della ragione con la Rivelazione, la quale non fa altro che potenziarla; illuminata, la ragione è ora in grado di dare alla fede l’intelligenza di sé e la propria comprensione, cui è la fede stessa ad aspirare. Ne nasce il sapere teologico propriamente detto, sicchè il teologo è colui che anticipa la beatitudine conoscitiva propria degli eletti. In questo modo Tommaso, nell’atto stesso in cui riconosce la bontà e la legittimità del filosofare (se direzionato dalla fede), pone la filosofia sotto la tutela della teologia, ribadendo così l’incontrastata preminenza di quest’ultima. E’ sì legittimo filosofeggiare, ma tale attività – se corretta – è preludio alla fede: la filosofia è in tal modo ridotta al rango di ancilla theologiae. Non vi è contraddizione e neanche soluzione di continuità, giacchè il sapere filosofico si prolunga nella teologia positiva, cosicchè si tratta di un unico sapere frutto dapprima della sola ragione, poi anche della fede, il tutto sotto l’egida della Rivelazione e della fede stessa, il cui primato è costantemente messo in evidenza. Da una parte c’è la ragione senza fede ed è preambolo alla fede, ossia le cammina davanti; e, successivamente, abbiamo il sapere ottenuto dalla ragione congiunta alla fede, ci troviamo cioè di fronte all’inveramento di quel preambolo costituito dal solo procedere della ragione. Tra le due – ragione e fede – vige una nuova relazione anche sul versante etico/pratico: la stessa continuità che sussiste sul piano teoretico (culminante in teologia rivelata) regna anche sul piano pratico tra etica filosofica ed etica rivelata. A tal proposito, Tommaso parla di lex divina, di lex naturalis e di lex humana: quella divina è rivelata da Dio nella Scrittura, quella naturale è scoperta dall’investigare della ragione ed è anch’essa di natura divina, poiché insita nelle cose prodotte dal Creatore; infine, quella umana è deliberata e messa in atto dall’uomo, legittima solo in quanto derivata da quella naturale. In quanto dotato di ragione, l’uomo conosce la legge naturale, il cui nocciolo – apparentemente tautologico - è così esprimibile: fai il bene ed evita il male. Ora, il bene a cui fa qui riferimento Tommaso è il bene a noi noto nel significato aristotelico e colto, appunto, dalla ragione: si tratta, cioè, del bene come piena attuazione dell’essere proprio di ogni ente; tale processo si scandisce in fasi diverse: la conservazione di sé, la procreazione, la crescita della prole, la vita in società, la conoscenza della verità, l’agire secondo ragione. Ed è in ciò che consiste anche il raggiungimento della perfezione umana e della felicità terrena: ma questa, che per Aristotele era la massima felicità, per il cristiano Tommaso risulta invece una felicità imperfetta e depotenziata, terrena e perciò mutila. Occorre notare, a tal proposito, che in questo discorso di etica filosofica ritroviamo invariate tutte le caratteristiche del filosofare etico/aristotelico, ivi compreso l’intellettualismo, in particolare là dove esso asserisce che la volontà è funzione della ragione: non a caso Tommaso dice che "si ratio recta, et voluntas recta", ad indicare che dove la ragione procede bene, lì anche la volontà – che ad essa è indisgiungibilmente connessa – funziona bene. Ma tutto ciò vale esclusivamente nell’ambito dell’etica naturale, cioè nell’adempimento della legge di natura: c’è però – come sappiamo – anche una legge divina, che la ragione non può conoscere né la volontà può adempiere, bensì necessita della Rivelazione per essere conosciuta e della Grazia per essere osservata. Essa prescrive all’uomo la iustitia divina, ossia il puro e disinteressato Amore divino, conosciuto con la Rivelazione e praticato con la Grazia: è solo tale morale a fornire la vera felicità, mentre l’etica naturale funge da preambolo ad essa proprio come la filosofia è preambolo al sapere teologico, nel senso che predispone l’uomo – distogliendolo dagli istinti passionali – ad ascoltare la volontà divina. Ugualmente, l’etica filosofica prepara l’uomo all’etica cristiana, è una prima tappa di raccoglimento in vista del conseguimento dell’eterna beatitudine. Siamo tuttavia in presenza di un evidente duplice ottimismo: da un lato, la ragione conosce le virtù (il che le era dalla patristica precluso) e, dall’altro, pur non soddisfando l’esigenza divina di giustizia, prepara ad essa, ottenibile solo in virtù del soccorso della Grazia; così la ragione, rinforzata dalla Grazia stessa, riesce per un po’ a perseguire la santità. Infine, la legge umana è quella stabilita dal potere politico amministrato dagli uomini: essa è legittima nella misura in cui è trasposizione fedele della legge naturale, e se la contraddice non è legge, così come quando la filosofia contravviene alla fede non è filosofia, ma erramento. Sicchè è lecito affermare che la legge è tale solo e nella misura in cui è giusta, altrimenti va respinta: ed è per questo che Tommaso riconosce la liceità politica della ribellione e della lotta contro il tiranno (con il conseguente abbattimento del medesimo). E tuttavia, nella legge umana, traduzione di quella naturale e divina, tale legge esprime parallelamente all’etica la medesima funzione propedeutica, poiché, costringendo a non fare il male e a non delinquere – anche solo per il timore di essere puniti – indirizza verso il bene, cosicchè c’è da aspettarsi che quanti costretti dalla legge non fanno il male solo per paura delle pene derivanti (ed è questa la tesi proposta nella Repubblica platonica attraverso il mito di Gige) si abituino a non farlo e a fare volontariamente ciò che prima facevano sotto costrizione. Da tutto questo discorso si evince come le novità apportate da Tommaso non siano poche e di scarso valore: prima fra tutte, la legittimazione del filosofare in quanto tale, seppur subordinato alla teologia e nonostante il persistere della subordinazione del terreno al divino; similmente, beatitudine eterna e santità restano lo scopo ultimo a cui tendere e per cui impegnare le proprie energie. Il tomismo restituisce alla sfera umana un respiro che per secoli era stato abolito: legittimare il sapere filosofico significa rilegittimare la conoscenza di questo mondo, e nelle università urbane fiorite ai tempi di Tommaso nel loro massimo splendore si insegna e si studia la filosofia come una conoscenza squisitamente razionale, soffermandosi sull’aristotelismo presentato in tutte le sue molteplici forme, anche le più radicali (l’averroismo). Anche se nella metà del 1200 si terrà a Parigi il processo intentato a Sigieri di Brabante e agli altri pensatori che, sulla sua scorta, ponevano la filosofia in antitesi con la fede, ciononostante la filosofia continuerà ad essere costantemente insegnata, godendo di grande fortuna. Ciò non toglie, però, che nella cultura dell’età medievale la relativizzazione della vita terrena e mondana resti dominante e sancita, e l’esigenza della santità rimanga discriminante; l’uomo deve sì raggiungere le virtù, ma non fermarsi ad esse, giacchè al di là vi è la santità. In questo panorama, la figura del monaco, ovvero di colui che impegna tutto se stesso nel raggiungimento di suddetta santità, resta un modello imprescindibile per tutti, di contro a cui la vita civile e mondana si rivela periferica e imperfetta. Del resto, non è un caso che ancora il Concilio di Trento minaccerà l’anatema a chi azzardi sostenere la superiorità del matrimonio sulla castità monacale: ciò testimonia come la vita nel mondo terreno resti per lungo tempo soggetta al sospetto e alla diffidenza, e come, nonostante le innovazioni e le aperture apportate da Tommaso e da altri pensatori illuminati, la modernità resti ancora all’orizzonte. La riscoperta di Aristotele impressiona fortemente l’Aquinate, ma viene spontaneo domandarsi perché non sortisca effetti altrettanto profondi su Agostino e sulla cultura del suo tempo, che aveva liquiditato lo Stagirita (inserito nel tutto della cultura antica) come errore e vana curiositas. Come è possibile che Tommaso resti affascinato dal pensiero greco espresso da Aristotele, mentre Agostino lo congeda come se fosse una bagatella? Una possibile risposta a tale interrogativo potrebbe essere quella che invoca la categoria hegeliana di "Spirito del tempo", ossia la tendenza peculiare e irresistibile di una certa epoca storica e della sua cultura: la tendenza trionfante in una determinata epoca è, in definitiva, una manifestazione dello "Spirito del tempo", e in effetti la categoria hegeliana è più complessa di quanto si possa pensare sulle prime, giacchè lo "Spirito del tempo" risulta composto da innumerevoli e imperscrutabili fattori che, variamente combinandosi, determinano i mutamenti epocali (ad esempio la fine del mondo antico e l’avvio di quello medievale). Tali fattori sono così numerosi (pressochè infiniti) da richiedere un’analisi quasi interminabile: ci troviamo pertanto di fronte ad una categoria vaga, perché in ultima istanza lo "Spirito del tempo" hegeliano sfugge alla presa della ragione discorsiva, è un certo nonsochè di sfumato, che non può essere colto dal pascaliano "esprit de geometrie", ma dall’opposto "esprit de finesse". Ed è in quest’ottica che dinanzi ad Aristotele si reagisce in maniere diverse, per svariati e non precisi motivi legati allo "Spirito del tempo", forse perché ai tempi di Agostino la ragione era in declino e la fede rappresentava una novità sollecitante, mentre ai tempi di Tommaso, viceversa, si cominciava a nutrire un rinato interesse per le facoltà razionali così a lungo sepolte. In maniera del tutto analoga alla reazione di fronte ad Aristotele, capita che una stessa città, se vista nel cuore della notte, quando vi si giunge stanchi, appaia orribile; ma, al contrario, se osservata alla luce del sole, da riposati, risulti meravigliosa, pur essendo sempre la stessa.

LA MODERNITA’

A partire dal XIII secolo d.C. si instaura un processo di progressiva rivendicazione di affermazione di sé da parte della ragione umana, e questo ridestarsi della ragione dopo il lungo letargo medievale sfocia nell’Umanesimo, da alcuni concepito come l’alba della modernità. Cronologicamente, per modernità si è propensi ad intendere il periodo che va dalla seconda metà del XV secolo fino ai giorni nostri; in termini generalissimi, stando alla definizione che ne dà Hegel, tale modernità è la "conversione dal cielo alla terra": non più l’al di là, bensì l’al di qua, non la beatitudine eterna, ma la felicità mondana, non la vita futura ma la presente, costituiscono il centro dell’interesse dell’uomo umanistico, per il quale tanto il cielo religioso quanto quello metafisico delle immutabili idee platoniche e delle forme aristoteliche si scostano per cedere il posto alla finita vita terrena. In realtà, questo processo prende le mosse in pieno XIII secolo e dura per parecchio tempo, raggiungendo l’apice nel XVIII secolo con l’illuminismo, e passando per due grandi momenti emancipativi: emancipazione dal principio di autorità e la rinascita della curiosità. Sgombrare il campo dal principio di autorità significa far rinascere l’autonomia della ragione, incensurata e non sottoposta al comando di alcuna entità; la modernità risiede anzi soprattutto nel libero esercizio della ragione, il che vuol dire che essa ridiventa socraticamente curiosa, e – per dirla con Kant – cessa di essere impigrita dal dominio del Libro. I "moderni" hanno legittimato la rinata curiosità in tre fondamentali momenti: il primo di essi è segnato dall’Ulisse nell’Inferno di Dante, che col suo ardore "a divenir del mondo esperto" si spinge fin oltre le Colonne d’Ercole, imbattendosi infine nella morte; il secondo trova invece espressione in un passo di Giordano Bruno (De gli eroici furori, dialogo 5), in cui il Nolano scrive: "O curiosi ingegni, / […] Per largo e per profondo / Peregrinate il mondo, / Cercate tutti i numerosi regni", con una chiara allusione alle grandi scoperte geografiche di quei tempi. Infine, il terzo e ultimo momento è scandito da una lettera di Cartesio inviata il 9 febbraio 1639 a padre Mercenne: "io studio per la mia utilità e per la mia curiosità"; particolarmente interessante è il riferimento cartesiano alla categoria dell’utile, che da quel momento in poi assumerà un ruolo fondamentale in sede filosofica. Da queste tre tappe appare evidente come siamo incommensurabilmente distanti dalla dannazione monastica della curiosità (quale era stata sancita da Pier Damiani e da Bernardo), la quale è conditio sine qua non per sbarazzarsi del principio di autorità: è sì una condizione necessaria, ma ciononostante non sufficiente, poiché – affinchè il principio di autorità venga scalzato – è altresì necessario che la ragione diventi anche critica, quale era presso gli antichi. Essa torna appunto tale nell’Umanesimo, un termine, questo, che troviamo solo a fine Settecento e inizio Ottocento: l’Umanista è chi ha accesso a una cultura superiore, è chi si umanizza studiando i testi tramandati dagli antichi, presi a modello di umanità in quanto paradigmi del libero esercizio della ragione, non più ancella della teologia, ma libera e disincantata padrona del mondo. Questo era già, sostanzialmente, il significato della humanitas presso gli antichi, e tale viene compendiato da Aulo Gellio nelle sue Notti attiche (libro XIII, cap. 17): "chi parlava una volta bene latino, designava col termine humanitas quello che i Greci denominavano paideia […]. Sono dotati di humanitas quanti mostrano per le arti una passione sincera e perciò meritano di esser detti i più umani tra gli uomini". Nell’età umanistica, in sintonia con la nozione antica di humanitas, si diffondono con incredibile rapidità espressioni del tipo humanae litterae, humanitas o studia humanitatis, che ben rispecchiano il clima di profonda attenzione per la produzione degli antichi (che in età medioevale era stata letta in maniera strumentale alla fede) che si respirava in quel periodo. Scriverà Giambattista Vico: "gli uomini prima sentono senza avvertire, dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura"; con questa celebre riflessione, egli mette in luce come gli uomini in un primo momento siano ancora dei bruti, mera sensazione inconsapevole; poi accedono ad una consapevolezza perturbata dall’emozione e, infine, pervengono alla pura ragione discorrente e ragionante (il che corrisponde appunto all’età antica di Aristotele e Platone e al ritorno di quell’epoca nel mondo umanistico), impadronendosi della "bilancia dello spirito critico", che – aristotelicamente – non può essere posseduta né dai primitivi né dai fanciulli e che nasce con l’Umanesimo. Non è casuale che in età umanistica torni in auge il dialogo, che soppianta il monologare del principio di autorità dell’età medievale: si attua in tal maniera una straordinaria moltiplicazione dei punti di vista e delle prospettive, perché le più disparate concezioni vengono riscoperte e riproposte. Non domina più quel tutt’uno onnisciente che è la dottrina cristiana, ma pullulano tantissime filosofie nella loro individualità, anche scuole di pensiero espunte o tralasciate dai Medievali (l’epicureismo, lo scetticismo e lo stoicismo). Sicchè la tradizione, a partire dall’età umanistica, è messa in krisiV, cioè sottoposta a giudizio e ricomposta nelle sue differenti componenti – spesso inconciliabili – e questa è la condizione imprescindibile affinchè possa farsi strada la tolleranza, ovvero la pacifica convivenza di punti di vista diversi e, spesso, contrari. Il primo importante manifestarsi della rinascente coscienza critica è la filologia umanista, che non può essere ridotta ad un arido grammaticalismo, ma va piuttosto intesa come tensione a reinterpretare nella sua complessità la cultura antica quale ci è pervenuta. Insomma, non si tratta di una mera restaurazione linguistica (non è, cioè, un banale ritorno al latino di Cicerone, come lo intenderà certo umanismo, quale quello di Ermolao Barbaro), ma è piuttosto l’esercizio critico della ragione; tale è, per l’appunto, la critica filologica condotta da Lorenzo Valla contro la "Donazione di Costantino", da lui smascherata – col solo utilizzo di mezzi filologici – come un falso posteriore, redatto da un monaco ignorante. Siamo in altri termini di fronte ad una riappropriazione critica della tradizione antica, considerata in sé come un valore smarrito nella buia età medievale. Risulta a questo punto opportuno indagare – seppur sinteticamente – su che cosa sia accaduto alla ragione nei cosiddetti "secoli bui" dell’età medievale: dal prevalere egemonico della consuetudine sulla ragione, nasce una cultura nella quale si assiste al sopravvento di un unico punto di vista (quello cristiano), spesso imposto con la violenza, un punto di vista che non è il frutto del libero investigare del raziocinio, ma, piuttosto, è un qualcosa che viene tramandato consuetudinariamente di padre in figlio, ed è in tale condizione che si palesano gli effetti deleteri giocati dal cristianesimo sulla ragione umana. Quanto più la consuetudine prende il sopravvento, tanto più viene stimolata la pigrizia del filosofare, imponendo la comoda facilità del risaputo, con l’inevitabile conseguenza che la capacità di giudizio propria della ragione si ottunde ed essa subisce un precoce ed artificioso invecchiamento che ne atrofizza le funzioni riducendola a mero portavoce e a pura cassa di risonanza della prospettiva cristiana. Un simile esempio di sclerotizzazione di un’intera civiltà – quale si è avuto nel Medioevo – ci è fornito anche dalla Cina, così come essa si è sviluppata fino al XIX secolo d.C., in un incredibile immobilismo che Hegel ha rintracciato nella produzione artistica, tristemente rimasta invariata nelle sue forme, a tal punto da essere nel XVIII secolo ancora ridotta a riprodurre prototipi del tutto uguali a quelli dei secoli precedenti, in una repititività assoluta, peraltro presente anche nelle istituzioni politiche di quell’immenso Paese. Ora, qualcosa di affine al caso cinese avviene in Occidente nell’età medievale: prova ne è che se ci chiediamo in che cosa si differenzi l’Ottocento dal Novecento o dal Mille, ci troviamo alquanto in imbarazzo nel fornire risposte soddisfacenti, proprio come non riusciamo a rispondere se interrogati su quali siano le distinzioni tra la Cina del XIX secolo e quella del XII. Lo shock culturale prodotto dal rientro in Europa di Aristotele ha, in tal prospettiva, l’effetto di una vera e propria scarica di adrenalina; e, del resto, l’intellettualismo greco, così profondamente venato di ottimismo, da cos’altro trae origine se non dallo stupore continuo che sorprende la ragione che scopre se stessa? I dialoghi platonici non sono forse un incessante stupore della ragione che disvela le sue virtù? Ora, la modernità non esita a condannare il Medioevo e il suo rifiuto della ragione come faro della vita umana: e, bandito il principio di autorità e ripristinata la curiosità di marca socratica, i moderni procedono con una terza importantissima via emancipativa con la quale convertirsi dal cielo alla terra, e quella via è una diretta conseguenza del ripudio del principio d’autorità. Scrive Hegel in merito all’età medievale, epoca della "coscienza infelice" che vede in Dio tutto e nell’uomo nulla – e al suo trapasso in modernità: "gli uomini avevano un cielo ornato con ricca abbondanza di pensieri e di immagini […]. Anziché sostare in questo pensiero, che invece sorvolava, lo sguardo si innalzava al cielo, ad un essere divino, ad un presente – se così si può dire – al di là. Si rese così necessario, in età moderna, costringere l’occhio dello Spirito sulle cose di questa terra e trattenerlo". Il cielo della religione cristiana, delle idee platoniche e delle essenze aristoteliche viene dai moderni abbandonato: anche le essenze aristoteliche – è bene notarlo – fanno parte del cielo e non della terra, poiché esse sono contemplabili da parte della ragione solo attraverso un’astrazione che le svincoli dall’empirico e, di conseguenza, dalla vita. In età moderna, è la ragione, ridestatasi dal lungo letargo medievale, che – critica e polemica ad un tempo – costringe l’occhio alla terra, svuotando i cieli allestiti dalla religione e dalla metafisica, le quali appaiono alla ragione stessa come vane fantasticherie o fumose congetture, ossia come mondi fantasmagorici o, quanto meno, incerti, privi cioè di salde prove e perciò immeritevoli di convogliare su di sé tutta l’attenzione e la sollecitudine dell’uomo. La pretesa di fare di questi cieli il fine ultimo dell’uomo appare agli occhi vigili della ragione critica non solo infondata, ma anche nociva, giacchè distoglie l’uomo stesso dall’occuparsi di quegli obiettivi in larga misura certi e tangibili: le cose ch’egli potrebbe compiere quaggiù, finirà per trascurarle completamente se si ostina a perder tempo in questi fantomatici e sedicenti cieli; la ragione nella sua veste critica, dunque, distoglie da essi, mentre quella nella sua veste critica e operatrice trattiene a terra lo sguardo, mettendo mano ad una ben calcolata (cioè scientifica) trasformazione della terra, volta a trarre la massima utilità e il massimo profitto possibili per l’uomo. Ecco allora che l’emancipazione dal cielo si articola in una prima riappropriazione della terra grazie alla ragione calcolatrice che sfocia in una prospettiva eudemonistica e utilitaristica tipica della modernità, sfocia in un filantropismo che culminerà nell’illuminismo. E allora ciò che la risvegliata ragione sortisce è un allontanamento dal miraggio d’una lontana e dubbia beatitudine celeste (distacco anche dalle forme aristoteliche e dalle idee platoniche), avviandosi all’indubbia e prossima felicità terrena, frutto di un corretto impiego della ragione, il quale è sì un impiego critico e polemico, ma non più metafisico (come quello antico), la ragione non si interessa cioè più di speculare, ma concentra la sua attenzione sul calcolare e sull’operare. In piena età illuministica, Voltaire e Diderot affermano concordi che "la felicità è l’unico dovere dell’uomo", ma non si tratta della felicità platonicamente ed aristotelicamente intesa, culminante nella sapienza speculativa; al contrario, è la felicità di chi riesce a rendere questo mondo più comodo e agevole, in un significato piuttosto vicino a quello che odiernamente attribuiamo al "benessere". Ne segue che l’emancipazione dal cielo comporta la riappropriazione della terra, ma anche una seconda riacquisizione: affinchè l’uomo si riappropri della terra trasformandola a proprio vantaggio, è necessario che egli sia presente hic et nunc a se stesso, edotto e consapevole delle proprie caratteristiche e qualità, fiducioso nei propri mezzi e padrone di far di essi l’uso più consono. Occorre cioè la riappropriazione di sé da parte dell’uomo, il che significa che i moderni elaborano una nuova e diversa immagine dell’uomo stesso, rispetto a quella affiorata in età medievale. Una lunga tradizione storiografica che parte da La civiltà del Rinascimento in Italia (1860) di Jacob Burckhardt e arriva fino a Giovanni Gentile scorge i prodromi di questa rinnovata immagine dell’uomo nei trattati umanistici sulla dignità e sull’eccellenza dell’uomo, nei quali si tesse un elogio del genere umano e se ne segnalano la superiorità e l’egemonia su tutti gli altri esseri. Ma sono veramente questi i testi in cui emerge l’immagine dell’uomo nuovo? Sono per davvero gli incunaboli di un genere umano dal volto rinnovato? O non sono piuttosto altri? Scendendo nello specifico, notiamo come i trattati umanistici a cui fan riferimento Burckhardt e Gentile siano suddivisibili in due diversi filoni – uno platonico e l’altro aristotelico - , nessuno dei quali tuttavia delinea veramente la nuova immagine dell’uomo moderno. Il più noto esponente del filone platonico è indubbiamente Pico della Mirandola e la sua Oratio de hominis dignitate, nella quale sostiene che l’uomo è stato creato ad immagine di Dio e, perciò, come un microcosmo, in maniera tale da riprodurre entro di sé l’infinita pienezza di Dio (la pienezza delle idee platoniche si configura per Pico come pienezza dell’essere divino, infinito perché racchiude in sé l’infinita totalità delle idee). Il mondo stesso è, del resto, un’immagine (deficiente) di Dio e l’uomo rappresenta un mondo in miniatura, in quanto egli è virtualmente ogni forma possibile di vita: vegetale (poiché possiede l’anima vegetativa), animale (perché dotato di anima sensitiva e, quindi, di istinti e passioni), umana (in quanto equipaggiato di ragione e pensiero), angelica (nel caso raggiunga la pura intuizione intellettuale). Ben si capisce come l’uomo compendi entro di sé l’intero cosmo, perfino la vita divina. E tale microcosmicità fonda la libertà dell’uomo, chiamato a scegliere quali seguire tra queste vite virtualmente presenti in lui: con un libero slancio di volontà, può decidere se restare pianta, animale, uomo, o se innalzarsi alla natura angelica e magari anche a quella divina. Tale libertà è la prima ragione della particolare eccellenza e dignità da Pico riconosciuta al nostro genere, strettamente imparentato con Dio stesso: è solo l’uomo, infatti, a poter scegliere liberamente se rimanere pianta o innalzarsi a Dio, mentre tutti gli altri enti (le piante, gli animali, e gli angeli stessi) sono destinati a rimanere quali sono, fissati nella loro determinatezza. Certo, non si tratta di una libertà assoluta, ma relativa, in quanto non costituisce i valori tra i quali scegliere, ma li trova già costituiti: ma è comunque tale da consentirci una nostra dignità eccellente. E Pico – qui in sintonia con Ficino e con il suo De immortalitate animorum – sviluppa un’attenta riflessione sul "desiderio naturale", che è un desiderio congenito alla natura di un certo ente; ora, esso è presente in tutti gli enti e in tutti ha per oggetto un bene che è – aristotelicamente – il proprio bene, ossia la perfezione dell’essere di quel dato ente, sicchè ogni cosa appare come in cammino verso la propria piena realizzazione. Anche nell’uomo trova spazio tale desiderio naturale, ma con la prerogativa di non potersi appagare di un simile perfezione: al contrario, mira alla perfezione dell’essere in quanto tale, e perciò a quella dell’essere divino. Sotto le spoglie del desiderio naturale divino di cui parla Pico non è difficile riconoscere l’eros socratico/platonico, quell’anelito all’infinito che tornerà ancora nella cultura romantica: tale sforzo verso l’infinito alimenta la nostra anima per tutta la sua esistenza, poiché nessuno dei beni che conquista è in grado di estinguere la sua sete; da ciò deriva che l’esistenza dell’anima, tendente all’infinito e per questo motivo mai appagata pienamente, dovrà essere infinita, cosicchè essa sarà immortale. E’ una contraddizione solo apparente quella in cui ci imbattiamo quando Pico parla dell’uomo come ente finito e del suo desiderio naturale come mirante all’infinito: l’uomo, infatti, è atto al fine soprannaturale ed è in ciò soccorso dalla Grazia, secondo quel celebre motto medievale "Gratia perfecit naturam"; è pertanto concesso all’uomo di raggiungere l’infinito, grazie all’intervento della Grazia: ciò avviene nell’estasi mistica, il che vuol dire che in questa suprema possibilità di unirsi a Dio Pico ravvisa la superiorità umana su tutto il creato, giacchè solo l’uomo (e non l’angelo) può indiarsi. Gli è permesso di innalzarsi fino alle sfere celesti o di abbassarsi fino ai bruti: che l’uomo si trovi in qualche misura in una posizione privilegiata rispetto agli angeli è anche provato dalla tradizione biblica, che vuole che, caduti sia gli uomini sia gli angeli (Lucifero), Dio si prenda cura esclusivamente dei primi, concedendo loro la possibilità di redimersi. Questo discorso di Pico rileva la centralità dell’uomo nell’economia del cosmo, di cui l’uomo appunto è il massimo prodotto: "o somma liberalità di Dio Padre, somma e mirabile felicità dell'uomo! Al quale è dato avere ciò che desidera, essere ciò che vuole. […] I quali [uomini] cresceranno in colui che li avrà coltivati e in lui daranno i loro frutti. Se saranno vegetali, diventerà pianta; se sensibili abbrutirà. Se razionali, riuscirà animale celeste. Se intellettuali, sarà angelo e figlio di Dio. E se, non contento della sorte di nessuna creatura, si raccoglierà nel centro della sua unità, fattosi uno spirito solo con Dio, nella solitaria caligine del Padre, colui che è collocato sopra tutte le cose su tutte primeggerà" (Oratio de hominis dignitate). L’uomo così inteso è faber fortunae suae: eppure la prospettiva di Pico (condivisa in gran parte da Ficino e da Landino) può davvero dirsi moderna in senso pieno? Getta davvero le basi del nuovo uomo? Sia Pico sia Ficino mantengono il cielo come mèta ultima (platonica e cristiana), restando lontanissimi dall’affermazione hegeliana secondo cui il moderno sarebbe un passaggio dal cielo alla terra. Se ci spostiamo sul filone aristotelico, ci imbattiamo in tre grandi pensatori: Manetti (autore del De dignitate et excellentia hominis), Alberti (di indirizzo stoico) e Bracciolini. Essi si occupano della nobiltà dell’uomo, rinvenuta nell’esercizio delle virtù etiche e politiche (per questo motivo questi tre autori si collocano sul filone "aristotelico"); domandandosi quale sia la vera nobiltà, negano radicalmente che sia quella di sangue (già Eckhart in età medievale aveva intrapreso una strada analoga) e sostengono che proviene dalla propria virtù; l’eredità non è a loro avviso un’autentica forma di possesso, poiché si può dire di possedere solamente ciò che ci si è procacciato. Naturalmente, la virtù non è qualcosa di ereditabile, e ne è una fulgida prova il fatto che da padri ottimi nascano figli pessimi e viceversa, non vi è cioè un progresso etico dell’umanità. La vera nobiltà sarà allora – stando a Poggio Bracciolini – uno splendore procedente dalla virtù che illustra i suoi possessori, qualunque ne sia la condizione sociale: è la nascente borghesia che comincia a rivendicare i suoi diritti di fronte alla nobiltà, inaugurando un atteggiamento che culminerà, qualche secolo dopo, con la Rivoluzione francese. E’ coi nostri meriti e con le nostre libere azioni che ci meritiamo lode e nobiltà, sostengono questi pensatori, riferendosi soprattutto alle virtù pubbliche: è il cittadino virtuoso ad esser degno della nobiltà, cosicchè ciascuno di noi sarà stimolato a guadagnarsi tale patente fuggendo l’ozio e l’ignavia. Ma siamo autorizzati a dire che questo secondo filone della trattatistica umanistica prospetti l’immagine dell’uomo nuovo e moderno? Dobbiamo forse riconoscere, in sintonia con tali autori, che l’uomo moderno è virtuoso? Sicuramente questa variante è più "moderna" rispetto a quella di Pico e di Ficino, ancora così legati al "cielo" e distanti dalla "terra", ma non è ancora corretto dire che in questi autori si trovi la modernità, altrimenti ci troveremmo costretti ad ammettere ch’essa consista in una ripresa anacronistica dell’etica aristotelica della virtù e dell’ottimismo che da essa trasuda. Tanto più che l’uomo moderno non torna affatto ad Aristotele, ma anzi, oltre a congedarsi dal cielo in favore della terra, prende le distanze da Aristotele, pur restando fedele alla felicità mondanamente intesa. I moderni combattono tanto l’aristotelismo quanto il cristianesimo, in quanto retaggio del Medioevo e autorità alle quali appellarsi per tacitare gli interlocutori: con Aristotele, viene anche ripudiato il suo impianto etico (rimpiazzato da uno spiccato utilitarismo) e il suo modello del sapiente virtuoso (sostituito dal cittadino felice). La modernità si configura allora come fortemente anticristiana – nelle sue linee essenziali – con un secco rifiuto del cielo in favore della terra, poiché è solo in questa vita che ci si può salvare, in vista di un continuo seppur lento miglioramento, badando non già alla quantità della vita (ritenuta eterna dalla tradizione cristiana), bensì alla sua qualità, che deve essere quanto più elevata: la beatitudine eterna viene addirittura intesa come ostacolo per il conseguimento della felicità terrena, giacchè l’etica religiosa dell’ascesi e del dominio di una prospettiva escatologica distrae dai problemi mondani, facendoli passare in secondo piano. Ne consegue un deciso rigetto della santità medievale, rifiuto che nel Settecento diventa il cavallo di battaglia della borghesia, oramai pienamente cosciente di sé e pronta a realizzare le sue rivoluzioni. Anche l’etica aristotelica è combattuta, insieme con il suo ideale del sapiente virtuoso e della razionalità disinteressata, che si colloca al di là delle parti e, perciò, riesce a signoreggiare le passioni detronizzandole: perfino l’idea di una società naturalmente sviluppantesi col solo retto esercizio della ragione è abbandonata, sebbene il riferimento alla santità e alla virtù disinteressata permanga per lungo tempo nella civiltà moderna, per morire di una morte lentissima, e anzi restando dominante almeno attraverso l’arte che la società sviluppa. Dietro a questa facciata apparentemente non distinta dall’età medievale, però, prende piede una tendenza sempre più marcata a negare la santità e la virtù disinteressata, e le convinzioni proprie della modernità, prima di diventare appannaggio di un’intera classe sociale (la borghesia nascente) o, addirittura, modi comuni di pensare (come sono oggi), vengono portate avanti da una ristretta cerchia elitaria, così come avviene con il trapasso dalla scienza antica aristotelica a quella moderna: come si ricorderà, mentre a livello universitario e di cultura generale si continuava a pensare aristotelicamente che la Terra fosse al centro di un universo finito e che il Sole le ruotasse intorno, alcuni pensatori andavano scardinando queste errate convinzioni, introducendone di radicalmente nuove che sarebbero a poco a poco prevalse. E così come nuovi vessilliferi di una cultura moderna sbocciata in profondità meritano di essere ricordati Erasmo, Pomponazzi, Machiavelli, Guicciardini, Montaigne, i libertini francese, i moralisti francesi e, infine, a conclusione del processo, gli illuministi. L’ideale della santità è respinto, lo sguardo torna sulla terra: ma si può ancora parlare, nell’età moderna, di una razionalità vincitrice sulle passioni? Secondo i moderni, ciò è impossibile, perché si tratta di vano utopismo, di una chimera da lungo tempo inseguita: bisogna fare affidamento non sulla capacità di praticare la pura virtù dominando le passioni (chè questa è una sciocca illusione), ma sulla capacità (da loro promossa) di servirsi delle passioni e degli impulsi a vantaggio sia dei singoli individui sia della collettività presa nel suo insieme. L’uomo non può vincere sulle passioni, ma, ciononostante, può manipolarle e farne un mezzo che serva per trasformare la vita in vista di un incrementato benessere, cosicchè l’immagine di uomo ora proposta è del tutto nuova, e se quella tradizionale è giudicata chimerica e fantastica, quella che essi propongono è ritenuta veritiera perché realistica, cioè fondata sull’esperienza e non su nebbiose congetture sganciate dal reale. Ed è questa istanza critica e realistica a caratterizzare la nascita della modernità, il cui vero e grande primo esponente è Machiavelli: essa si sviluppa anche – e vi abbiamo accennato in precedenza – secondo una terza direttrice emancipativa, dall’immagine dell’uomo tramandata dalla tradizione.

MACHIAVELLI

I moderni si avviano ad un’aspra critica dell’astrattezza e del dogmatismo in cui erano immerse l’età classica e la sua metafisica, quell’astrattezza che portava automaticamente all’immagine dell’uomo razionale, animale politico e campione di virtù. Con Machiavelli fa la sua comparsa sullo scenario filosofico un’istanza realistica e critica che esordisce con una critica della tradizionale (e chimerica) immagine dell’uomo, frutto del dogmatismo e dell’astrattezza del pensiero metafisico: come si produce un tale esito del pensiero? Avviene che un particolare aspetto - inteso in certo modo – di una complessa e concreta realtà venga identificato col vero essere di quell’intera realtà, cosicchè essa finisce con l’essere identificata in tutta la sua complessità con un singolo aspetto dei molteplici che la caratterizzano. E, una volta operata questa astrazione, si identifica dogmaticamente tale singolo aspetto con l’indiscussa verità di quella realtà: tale è appunto la definizione metafisica di uomo come "animale razionale", quasi come se la ragione esaurisse l’esser uomo proprio dell’uomo e come se gli uomini fossero tutti tali poiché possessori di siffatta razionalità: una tale astrazione finisce col cristallizzarsi dogmaticamente in verità indiscutibile, da accettarsi passivamente. I metafisici classici hanno, in questo senso, assolutizzato una loro interpretazione della realtà e non è un caso che Platone e Aristotele, pur divergendo in moltissimi punti, si trovino d’accordo nel ritenere che il filosofare scaturisca dalla meraviglia (to qaumazein) di fronte a ciò che non si conosce; ma è lecito affermare che questa loro dogmatica astrazione della ragione così concepita corrisponda tout court al reale? Si può dire che essa qualifichi l’uomo? O non è forse più corretto affermare che ne costituisce un’idealizzazione, non dissimile da quella attuata dalla scultura greca, che ci presenta una bella umanità evidentemente idealizzata? E’ forse lecito ammettere che gli uomini siano essenzialmente ragione? E – soprattutto – la ragione in questione è quella come la intendevano gli antichi? Porsi queste domande equivale a mettere in dubbio che i metafisici siano nel giusto e far valere un’istanza realistica, come appunto fa Machiavelli: egli opera nella stessa Firenze e negli stessi anni in cui Pico e Ficino andavano sostenendo la centralità del divino, gli stessi anni in cui Savonarola si scagliava contro il lusso dilagante, sicchè assistiamo contemporaneamente al canto del cigno della metafisica (simboleggiata dal neoplatonismo fiorentino) e all’esordio del punto archimedeo su cui poggia la modernità. Nel capitolo XV del Principe troviamo brillantemente esposta, in maniera sintetica e icastica, la prospettiva machiavelliana: "sendo l'intento mio scrivere cosa utile a chi la intende, mi è parso più conveniente andare drieto alla verità effettuale della cosa, che alla immaginazione di essa. E molti si sono immaginati repubbliche e principati che non si sono mai visti né conosciuti essere in vero; perché elli è tanto discosto da come si vive a come si doverrebbe vivere, che colui che lascia quello che si fa per quello che si doverrebbe fare, impara più tosto la ruina che la perservazione sua: perché uno uomo che voglia fare in tutte le parte professione di buono, conviene rovini infra tanti che non sono buoni. Onde è necessario a uno principe, volendosi mantenere, imparare a potere essere non buono, et usarlo e non usare secondo la necessità. Lasciando adunque indrieto le cose circa uno principe immaginate, e discorrendo quelle che sono vere, dico che tutti li uomini, quando se ne parla, e massime e principi, per essere posti più alti, sono notati di alcune di queste qualità che arrecano loro o biasimo o laude". Centrali sono alcune espressioni e alcune concezioni che affiorano nel passo, quali l’utilità, la verità effettuale, il rifiuto dell’immaginazione, tutti parametri propri di Machiavelli e dell’età moderna e preannuncianti l’imminente dissoluzione della metafisica trascinatasi fino a quei tempi. Machiavelli, quando accenna a chi ha voluto tratteggiare gli uomini non quali sono ma quali dovrebbero essere, mette alla berlina la Repubblica di Platone e la Politica di Aristotele, massime espressioni della tramontante età metafisica; chi si ostina a guardare non al come si vive ma al come si dovrebbe vivere, va inevitabilmente incontro alla propria rovina, poiché la propria preservazione – concetto squisitamente moderno – è impossibile per chi vuol essere buono in mezzo a tanti che buoni non sono; ne consegue allora che chi cerca fantasticamente di essere quel che dovrebbe essere cade in miseria, sicchè il principe che aspira a restar tale deve apprendere a poter non essere buono. Questo passo machiavellico segnala, tra l’altro, come il "principe" concerna l’uomo in quanto tale e valga per il "principe" proprio perché vale per l’uomo. Il "principe", dunque, altro non è se non una metafora dell’uomo e il trattato di Machiavelli mira innanzitutto ad insegnare come mantenere la propria preservazione, cosicchè, prima di essere un manuale di politica, esso è un manuale di sopravvivenza rivolto a tutti gli uomini, affinchè essi imparino a sopravvivere nella giungla della vita senza esser travolti dai soverchiamenti altrui; e la politica sarà allora in primo luogo la ricerca della propria preservazione, senza domandarsi se sia giusta o ingiusta o, tanto meno, che cosa siano il giusto e l’ingiusto in sé. Si può allora leggere in filigrana un’antropologia di fondo in questo discorso politico condotto tecnicamente: ben si evince come i suoi principali ingredienti siano il realismo, il pragmatismo e il pessimismo. Vi troviamo un secco rifiuto dell’immaginazione (propria della metafisica) e un invito alla ricerca della verità effettuale della cosa, rivendicata nel momento stesso in cui Machiavelli dichiara – nella dedica del Principe - esser frutto del suo sapere una lunga esperienza delle cose moderne e una continua lettura di quelle antiche (attraverso le storie narrate da Livio, Tacito, ecc). L’esperienza viene da lui sapientemente coniugata al sapere storico, mettendo l’accento sulla loro concretezza; è concreta l’esperienza che si ha stando a contatto con la realtà, ma anche quella che si fa leggendo i libri di storia, configurantisi come una sorta di esperienza narrata, giacchè essi ci raccontano ciò che effettivamente e singolarmente è accaduto, senza vane pretese di cogliere fantomatici universali, di contro all’astrattezza che avviluppa la metafisica. Dobbiamo però prestare molta attenzione alla terminologia impiegata da Machiavelli, spesso fuorviante: per "buono" egli intende qualcosa di radicalmente diverso a ciò a cui noi tutti siamo abituati, e in particolare egli si riferisce all’ "efficace", cosicchè per Machiavelli può dirsi "buono" ciò che risulta "efficace". Discorso analogo vale per il termine "virtù", di cui il pensatore toscano si serve in un’accezione diversissima rispetto a quella tradizionale: nell’accezione medica di "potestas quaedam faciendi", come quando si parla delle virtù terapeutiche di una medicina, alludendo al suo saper sortire un determinato effetto. Si può dunque legittimamente affermare che i termini "bontà" e "virtù" si colorino in Machiavelli di significati nuovi, indorandosi di un’impostazione utilitaristica e pragmatistica, quasi come se egli ribattezzasse la terminologia tradizionale. Egli, dunque, pone al centro dei suoi interessi l’uomo o, meglio, i singoli uomini , ma, proprio perché non parla dell’uomo universalmente inteso (come invece facevano Platone e Aristotele), ma della infinita molteplicità degli individui concreti, si tratta di un’autentica esperienza reale e concretizzata, mentre invece la "favola" dell’uomo universale, raccontata per secoli e secoli, non ci riguarda minimamente sul piano empirico, anche se può dilettare la nostra immaginazione e compiacere il nostro narcisismo. Occorre piuttosto indagare l’essere e non il dover essere, sicchè verso la fine del secolo un altro grande inauguratore dell’età moderna, Francesco Bacone, scriverà nel suo De augmentis scientiarum (cap. VIII, par. 2) che si deve esser grati a Machiavelli per l’aver mostrato quello che gli uomini sono e non ciò che dovrebbero fare; viene esaltata da Bacone (e da molti altri) la franchezza, l’avversione all’ipocrisia, e la concretezza nella sua efficaceità, giacchè meno ipocriti siamo verso noi stessi e tanto meglio riusciamo ad organizzare la nostra esistenza in questo mondo, muovendoci in direzione del nostro personale interesse, che è in primo luogo la nostra preservazione. Machiavelli viene dunque osannato come demistificatore, sebbene egli a più riprese mostri la necessità di ricorrere all’ipocrisia e alla simulazione. Prima ancora che per il principe, vi sono per tutti gli uomini virtù (pretese o ritenute tali) che, se seguite, portano alla rovina, e ci sono vizi (pretesi o ritenuti tali) che, se eseguiti, ci preservano: allora – si domanda Machiavelli – perché mai dobbiamo chiamare virtù quelle e vizi quegli altri? Stiamo in queste riflessioni ammirando l’ "aurora" (così si esprime Giovanni Gentile) di una concezione dell’uomo e del mondo circostante tratteggiata dai moderni, ad avviso dei quali spesso i vizi privati si rivelano come pubbliche virtù. Quella che prende a svilupparsi è, in altri termini, una vera rivoluzione copernicana dell’etica: non si è forse sempre sostenuto che la virtù è essa stessa il primo premio dell’uomo virtuoso? E, di conseguenza, non si è sempre ritenuto che dall’agire virtuosamente derivi sempre il successo? Tale veduta è – per dirla con Manzoni – "una di quelle sottigliezze metafisiche, che una moltitudine non ci arriva", ossia si tratta di immaginazioni filosofiche prive di riscontro nella realtà, ed è qui che subentrano le considerazioni di Machiavelli sulla questione religiosa e, in particolare, la distinzione da lui operata tra la religione dei moderni (il cristianesimo) e quella degli antichi (il paganesimo), con particolare attenzione ai diversi effetti che esse producono: quella dei moderni ha effetto indebolente, poiché fa perdere la stima di questo mondo, concepito alla stregua di un’anticamera rispetto al presunto vero mondo, cosicchè non è importante se in tale anticamera ci si trova sdraiati o seduti, liberi o in catene, padroni o servi, giacchè semplicemente di un’anticamera si tratta; viceversa, la religione degli antichi sortisce effetti rafforzanti, rivaluta pienamente il mondo che ci sta dinanzi e esorta a dedicarsi interamente ad esso, compiendo azioni determinate e "bellicose". In altri termini, il cristiano vive il mondo passivamente, giacchè quello che ha davanti non è il vero mondo, mentre il pagano – per il quale il mondo che gli sta dinanzi è il solo – vive attivamente, cavalcando l’onda degli accadimenti. Scrive a tal proposito Machiavelli, nei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio (II, 2) : "la religione antica, oltre a di questo, non beatificava se non uomini pieni di mondana gloria, come erano capitani di eserciti e principi di repubbliche. La nostra religione ha glorificato piú gli uomini umili e contemplativi che gli attivi. Ha dipoi posto il sommo bene nella umiltà, abiezione, e nel dispregio delle cose umane; quell’altra lo poneva nella grandezza dello animo, nella fortezza del corpo ed in tutte le altre cose atte a fare gli uomini fortissimi". Qui Machiavelli inaugura quell’accesa polemica contro il cristianesimo che si trascinerà per tutta l’era moderna, facendo leva sul fatto che quello cristiano è un modo di vivere che ha reso debole la vita stessa e l’ha consegnata nelle mani degli "scellerati" che possono adeguatamente maneggiare il mondo, vedendo come i più, per andare in paradiso, pensano più a sopportare le proprie ingiustizie anziché vendicarle, rendendosi in tal maniera passivi e sottomessi a chi non ha di questi scrupoli. Ne consegue allora che gli antichi avevano una religione falsa ma buona (cioè utile), mentre i moderni ne hanno una vera ma non buona ai fini mondani, giacchè, per ottenere la propria preservazione, occorre essere astuti come volpi in modo tale da scovare le trappole disseminate sul percorso della vita (e in modo da disseminarle sui percorsi altrui) e forti come leoni, in maniera tale da spaventare i lupi che ci circondano (è l’homo homini lupus di Hobbes che qui trova un antecedente). Certo, se gli uomini fossero tutti buoni (nel significato tradizionale di "buono"), allora questo precetto andrebbe respinto, ma poiché essi sono "tristi", ovvero malvagi, e non ci risparmierebbero, a nostra volta non dobbiamo risparmiare loro. Il mondo che Machiavelli esibisce – lontanissimo da quello armonico della metafisica, in cui ogni cosa occupa il posto che le compete – è assolutamente umano e appare retto da una logica economica di concorrenza spietata, in cui non vi è posto per altra regola e tutti gareggiano contro tutti (è un’anticipazione del bellum omnium contra omnes di Hobbes) in vista della propria individuale sopravvivenza. Al di là dei giudizi favorevoli espressi da Bacone e da altri illustri filosofi, non sono mancati i demonizzatori di Machiavelli, vistosamente infastiditi dallo smascheramento da lui attuato, uno smascheramento che non ha risparmiato nemmeno la politica e la religione e che ha portato ad una graduale laicizzazione procedente in senso opposto al platonismo, all’aristotelismo e al cristianesimo. Nel capitolo XII del Principe il pensatore toscano si sofferma sulle leggi: "principali fondamenti che abbino tutti li stati, cosí nuovi come vecchi o misti, sono le buone legge e le buone arme. E perché non può essere buone legge dove non sono buone arme, e dove sono buone arme conviene sieno buone legge, io lascerò indrieto el ragionare delle legge e parlerò delle arme". Leggendo questo brano, si nota facilmente come la legge sia basata sulla forza, cosicchè Machiavelli parla delle leggi proprio perché parla delle armi, che ne sono il fondamento; è infatti la forza a porre le leggi, e pertanto lo Stato non è il naturale frutto di una presunta socievolezza umana (come invece si illudeva Aristotele), per cui la ragione andrebbe evolvendosi verso sempre più complesse forme di convivenza (la famiglia, il villaggio, la poliV), bensì è imposto manu militari, in maniera coercitiva e attraverso la sottomissione dei più deboli da parte dei più forti, dove la forza in questione è sia quella leonina (cioè fisica) sia quella volpina (cioè intellettuale); ne segue che lo Stato altro non è se non il frutto di un conflitto d’interesse e, quindi, di una lotta per il potere, e non già della cooperazione di sapienti virtuosi in vista dell’esercizio della giustizia; esso è dunque intessuto da rapporti di forza variamente mediati e sia la presa sia il mantenimento del potere richiede la consapevolezza delle forze in gioco. In Machiavelli, tuttavia, non troviamo una dottrina dello Stato esplicitamente esposta, che ne spieghi la forma e la struttura: sarà invece Hobbes, nel secolo seguente, a sviluppare adeguatamente le basi gettate dal filosofo toscano; aleggia però negli scritti machiavellici la consapevolezza che la vita politica è teatro di scontri fra interessi contrastanti e, pertanto, il problema centrale è come districarsi in questo caotico groviglio di situazioni in cui padrona è la forza. Quale sarà, allora, l’origine delle leggi? E quella dello Stato? Le prime e uniche leggi sono poste dalla volontà di qualcuno, anche se essa si gabella per volontà divina: "e veramente, mai fu alcuno ordinatore di leggi straordinarie in uno popolo che non ricorresse a Dio; perché altrimente non sarebbero accettate: perché sono molti i beni conosciuti da uno prudente, i quali non hanno in sé ragioni evidenti da poterli persuadere a altrui. Però gli uomini savi, che vogliono tôrre questa difficultà, ricorrono a Dio". Qui Machiavelli inaugura quell’accesa polemica contro il cristianesimo che caratterizza l’età moderna: quello cristiano è un modo di vivere che ha reso debole la vita stessa e l’ha affidata nelle mani di "scellerati" che possono adeguatamente maneggiare il mondo a loro vantaggio, vedendo come i più, per avere accesso in paradiso, pensino maggiormente a sopportare le ingiustizie subìte anziché vendicarle, rendendosi in tal maniera passivi nei confronti di chi invece non ha di questi scrupoli. E pertanto gli antichi disponevano di una religione falsa, ma buona, mentre invece i moderni ne hanno nel cristianesimo una vera ma non buona ai fini mondani, giacchè per ottenere la propria conservazione occorre essere astuti come le volpi, in maniera tale da scovare le trappole disseminate lungo il percorso della vita (e in modo tale da disseminarle sui percorsi altrui) e forti come leoni, in modo tale da poter spaventare i lupi famelici che ci circondano e non aspettano altro che di sbranarci (è questo, in nuce, l’ homo homini lupus di Hobbes, che trova in Machiavelli un suo illustre antecedente). Certo, se gli uomini fossero tutti buoni (nel significato tradizionale di "buono"), allora questo precetto sarebbe da respingersi, ma poiché essi sono "tristi" (ossia malvagi) e non ci risparmierebbero, dobbiamo essere noi i primi ad agire, non risparmiandoli. Il mondo che Machiavelli esibisce nei suoi scritti – infinitamente lontano da quello armonico della metafisica, in cui ogni cosa occupava magicamente il posto che le competeva – è assolutamente umano e appare retto da una logica economica di concorrenza spietata, in cui non pare vi sia posto per altra regola e in cui tutti gareggiano contro tutti in vista della propria individuale sopravvivenza. Oltre a chi, come Bacone, l’ha esaltato, vi è anche stato chi ha demonizzato il pensiero di Machiavelli, perché infastidito da quello smascheramento da lui attuato che non risparmia nemmeno la politica e la religione, portando ad una graduale laicizzazione procedente in senso opposto rispetto al platonismo, all’aristotelismo e al cristianesimo. Nel capitolo XII del Principe Machiavelli si sofferma diffusamente sulle leggi: "principali fondamenti che abbino tutti li stati, cosí nuovi come vecchi o misti, sono le buone legge e le buone arme. E perché non può essere buone legge dove non sono buone arme, e dove sono buone arme conviene sieno buone legge, io lascerò indrieto el ragionare delle legge e parlerò delle arme". Nella prospettiva machiavellica, la legge si basa sulla forza, cosicchè il pensatore toscano parla delle leggi proprio perché parla delle armi, che ne sono il fondamento. In altri termini, è la forza a porre le leggi, sicchè lo Stato non è il frutto della naturale socievolezza umana (come invece si illudeva Aristotele), per cui la ragione andrebbe evolvendo verso sempre più complesse forme di convivenza (dalla famiglia alla città passando per il villaggio), bensì è imposto manu militari, con la forza e con la sottomissione dei più deboli da parte dei più forti, dove la forza in questione sono è solo quella leonina (cioè fisica), ma pure quella volpina (ovvero intellettuale) tipica di chi sa ingannare il prossimo. Lo Stato risulta allora essere il frutto di un conflitto d’interesse e, quindi, di una lotta volta alla conquista del potere, e non già il risultato della cooperazione dei sapienti virtuosi in vista dell’esercizio della giustizia: esso è, allora, intessuto da rapporti di forza variamente mediati e sia la presa sia il mantenimento del potere richiede la consapevolezza di quali siano le forze in gioco. Ciononostante, leggendo gli scritti machiavelliani, non rintracciamo una dottrina dello Stato esplicitamente esposta, che ne spieghi la struttura e la nascita: sarà invece – un secolo dopo – Hobbes a sviluppare pienamente questi presupposti di Machiavelli. Pur mancando di un’esplicita formulazione di teorie che chiariscano la nascita e lo sviluppo dell’apparato statale, Machiavelli è però perfettamente consapevole di come la vita politica sia un teatro di scontro fra interessi contrastanti e, dunque, il problema sarà capire come districarsi in questo caotico groviglio di situazioni delle quali è padrona la forza bruta. Quale è l’origine delle leggi? E quella dello Stato? La risposta fornita da Machiavelli è che le prime e uniche leggi sono state poste dalla volontà di qualcuno, anche se essa si gabella per volontà divina: "veramente, mai fu alcuno ordinatore di leggi straordinarie in uno popolo che non ricorresse a Dio; perché altrimente non sarebbero accettate: perché sono molti i beni conosciuti da uno prudente, i quali non hanno in sé ragioni evidenti da poterli persuadere a altrui. Però gli uomini savi, che vogliono tôrre questa difficultà, ricorrono a Dio". Chi è saggiamente prudente scorge una miriade di beni che però, in se stessi, non hanno ragioni così fondate da persuadere tutti gli uomini della loro bontà, e perciò tali uomini lungimiranti si appellano artificiosamente all’autorevole volontà di Dio: facendo passare per beni posti da Dio quelli che essi hanno individuato, riescono a far sì che anche la gente comune li riconosca effettivamente come beni. Ne segue che il bene comune non ha in sé ragioni evidenti, non è cioè immediatamente lampante alla ragione, la quale scorge in un primo momento soltanto il bene dei singoli individui. In sostanza, non tutti gli uomini son dotati di una ragione così lungimirante da vedere come il bene del singolo trovi migliori possibilità di realizzazione se inserito nel bene comune (l’ordine, la pace, ecc) e subordinato ad esso, e il buon legislatore è quello che sa distinguere il bene comune da quello individuale e sa cogliere l’opportunità di subordinare il secondo al primo, e per far ciò ricorre a Dio. I più non sono lungimiranti in quanto accecati dalla legge incontrastata delle divoranti passioni: e come dimostra ogni storia, è necessario presupporre che tutti gli uomini siano malvagi (cioè succubi delle passioni) e che usino la malvagità del loro animo ogni qual volta ne abbiano l’occasione; viene in questo modo affermata la funzione coercitiva delle leggi e smascherata la fantasticheria metafisica secondo cui l’uomo sarebbe per natura incline al bene. Il mondo così inteso si configura allora come uno scacchiere in cui tutti guerreggiano contro tutti in una battaglia regolata dalla forza, animata dalla ricerca della propria individuale conservazione e, quindi, del potenziamento di sé. L’attacco sferrato da Machiavelli all’ottimismo metafisico è frontale: la visione celebrativa ed encomiastica elaborata da secoli e secoli di elucubrazioni metafisiche è vigorosamente ripudiata. In quegli stessi anni Erasmo da Rotterdam pubblicava il suo Elogio della follia, nel quale ritroviamo un analogo capovolgimento dell’immagine tradizionale dell’uomo: "perché la vita umana non fosse del tutto improntata a malinconica severità, Giove infuse nell'uomo molta più passione che ragione: press'a poco nella proporzione di mezz'oncia ad un asse. Relegò inoltre la ragione in un angolino della testa lasciando il resto del corpo ai turbamenti delle passioni. Quindi, alla sola ragione contrappose due specie di violentissimi tiranni: l'ira, che occupa la rocca del petto e il cuore stesso che è la fonte della vita, e la concupiscenza che estende il suo dominio fino al basso ventre. Quanto valga la ragione contro queste due agguerrite avversarie ce lo dice a sufficienza la condotta abituale degli uomini: la ragione può solo protestare, e lo fa fino a perderci la voce, enunciando i princìpi morali; ma quelle, rivoltandosi alla loro regina, la subissano di grida odiose, finché lei, prostrata, cede spontaneamente dichiarandosi vinta" (cap. 16). La facciata è quella di uno scherzo erudito, ma in realtà Erasmo sta contrabbandando una diversa immagine dell’uomo, contribuendo a quella crisi dell’immagine del mondo che si stava propagando in quegli anni con incredibile rapidità. La ragione – secondo Erasmo – funziona solo come ragione critica che denuncia le aporie irrisolte del reale e, accanto a tale ufficio, come ragione calcolatrice: la sua relazione con le passioni non è quella ottimisticamente fantasticata dalla metafisica; in opposizione a quella prospettiva ormai superata, si può dire con piena liceità che la ragione non è padrona delle passioni, ma ne è lo zimbello, e la figura del santo cristiano e del virtuoso filosofo sono solamente pii desideri frutto della dogmatica astrazione della ragione che perde di vista il concreto e il reale perché abbagliata dall’ideale, dimentica dell’enorme complessità in cui la realtà si articola. A tal proposito, così scrive Machiavelli nell’Introduzione ai Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio: "e veggiendo, da l'altro canto, le virtuosissime operazioni che le storie ci mostrono, che sono state operate da regni e republiche antique, dai re, capitani, cittadini, latori di leggi, ed altri che si sono per la loro patria affaticati, essere più presto ammirate che imitate; anzi, in tanto da ciascuno in ogni minima cosa fuggite, che di quella antiqua virtù non ci è rimasto alcun segno; non posso fare che insieme non me ne maravigli e dolga". E’ come se qui il pensatore toscano ci stesse segnalando un cortocircuito in virtù del quale l’ammirazione per i grandi personaggi si sostituisse all’imitazione dei medesimi, quasi come se ammirandoli li si imitasse. E Machiavelli rileva quanto sia discosto il come si dovrebbe vivere dal come realmente si vive: il principe deve perciò saper usare la "bestia" che è in lui (cioè la volpe e il leone), precetto questo che non sarebbe valido se gli uomini fossero tutti buoni. Sorge spontaneo domandarsi fino a che punto, tuttavia, Machiavelli quando tratteggia il principe non ricada egli stesso nei meandri dell’aborrita metafisica: in realtà, egli non ci dice mai che cosa l’uomo sia, proprio per evitare di inciampare in una nuova metafisica – ancorchè di segno opposto -, ma resta sul piano delle considerazioni empiriche, tenendosi lungi da generalizzazioni metafisiche, osserva più di quanto non spieghi, cosicchè il suo si qualifica come un prudente e limitato empirismo che generalizza ipoteticamente e provvisoriamente, sempre in attesa di smentite empiriche. Dove risiede, dunque, il pessimismo di cui il pensiero di Machiavelli è intriso? E cosa dobbiamo intendere quand’egli afferma che gli uomini sono malvagi? All’origine della loro malvagità vi è l’istinto di conservazione che ciascuno di noi ha, in quanto animato dalla ricerca della propria sopravvivenza, che deve perennemente confrontarsi con la fortuna, essendo esposta al rischio di trovarsi in situazioni non prevedibili e, quindi, tali da mettere sempre e di nuovo in pericolo la conservazione, il cui istinto si sviluppa in una congenita insicurezza che lo frantuma, moltiplicandolo in una miriade di passioni (l’avarizia, la brama di dominio, ecc) e induce a proteggersi dai colpi della capricciosa fortuna accumulando ciò di cui essa può in qualsiasi istante privarci. La malvagità umana è quindi prodotta dal timore che naturalmente accompagna l’istinto di conservazione. Il piacere di godere dei beni, così come il timore di perderli, spiega come la sete di ricchezza sia universale quanto l’avarizia e l’ingratitudine; ma, parallelo al desiderio di ricchezza, è anche quello di reputazione e di gloria, giacchè onore e fama danno potere e, quindi, come le ricchezze, procurano la conservazione, diventando in questa maniera il fine a cui ciascuno tende. Da ciò si evince come per Machiavelli l’uomo sia precipuamente "bisogno", come affiora dai suoi stessi scritti: "essendo gli effetti umani insaziabili perchè avendo dalla natura di potere e volere desiderare ogni cosa e dalla fortuna di potere conseguitarne poche, ne risulta continuamente una mala contentezza nelle menti umane, il che fa biasimare i presenti tempi, laudare i passati e desiderare i futuri". Altrove (nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio), egli scrive: "la natura ha creato gli uomini in modo che possono desiderare ogni cosa e non possono conseguire ogni cosa: talchè essendo sempre maggiore il desiderio che la potenza dello acquistare, ne risulta la magra contentezza di quello che si possiede, e la poca soddisfazione d'esso". Machiavelli, però, non si lascia andare a fantasticheria metafisiche, bensì si limita a constatare empiricamente che gli uomini sono per natura desiderio e i due brani riportati introducono le nozioni chiave di "natura" e di "fortuna", che approfondiremo meglio più avanti: il pensatore toscano non esplicita le ragioni in virtù delle quali l’uomo è desiderio, ma si può facilmente comprendere come sia tale per via della sua consustanziale finitezza, che fa sì ch’egli sia un desiderio permanente e perennemente inappagato, giacchè la finitezza implica inevitabilmente che ciascuno di noi sia ogni volta quello che è ora, nel modo limitato in cui effettivamente lo è, e non sia più quel che era né ancora quel che sarà. La finitudine umana, allora, comporta una precarietà congenita dell’essere finito che, perché tale, manca costantemente di ciò che era e di ciò che sarà: in altri termini, nessuno di noi è mai tutto e sempre l’uomo che è, cosicchè possiamo dire che ci manca sempre qualcosa, siamo animati dal bisogno d’essere tutto e sempre ciò che siamo. Ciò significa che "essere finito" non è essere, quanto piuttosto desiderio d’essere che si palesa in uno sforzo continuo. L’istinto di conservazione, dunque, altro non è se non preservare se stessi, ma tale "se stessi" è desiderio di sé che l’essere finito permanentemente è, un desiderio sempre rinnovantesi e mai estinguibile, perpetuamente proliferante in una molteplicità di desideri, in quanto di volta in volta diventa desiderio di tutto ciò che lo alimenta, lo conserva e lo fortifica, configurandosi di conseguenza come repulsione di ciò che invece lo restringe e lo mette in pericolo. Esso necessariamente diventa da ultimo volontà di onnipotenza, poiché solo quest’ultima appare come garanzia di futuro, ossia certezza di poter continuare a potenziare il desiderio che si è. Tale desiderio può a ragion veduta essere definito come "amore di sé", che brama la perpetuazione e la propria persistenza nell’avvenire, rivelando in tal maniera che non è un desiderio limitato a determinati oggetti che, se ottenuti, lo placano, bensì è intacitabile nel tempo, perché guardando al futuro non potrà mai venir meno e, appunto in forza di ciò, pullula incessantemente in sempre nuovi desideri di ciò che gli pare possa garantirgli la sopravvivenza nel tempo a venire. Se non è confinato dall’esterno, allora si sviluppa come volontà di onnipotenza: siamo qui dinanzi alla moderna riduzione dell’uomo ad istinto di conservazione, ad animale desiderante, e una tal riduzione configura certamente un’animalizzazione dell’uomo stesso, giacchè l’amore di sé ora riconosciuto alla base dell’umanità è un tratto comune con gli altri viventi, un tratto che li accomuna più di quanto non facesse il corpo o l’istintualità, pur con l’insormontabile differenza che gli uomini dispongono della ragione, intesa però unicamente come critica e calcolatrice (gli animali detengono solo, in qualche misura, la ragione calcolatrice). Affiora cioè l’immagine di un uomo che non è più tutt’altra cosa rispetto alle passioni (tra le quali rientra l’amor di sé), ma come loro stessa espressione e funzione nella misura in cui cerca incessantemente la propria conservazione, mosso da quell’istinto che lo accomuna agli altri animali. Tale istinto, per l’appunto, nell’uomo si dota di quella particolare facoltà che è la ragione, della quale si avvale per meglio raggiungere il proprio fine. In altri termini, la natura ha attrezzato i viventi dell’istinto di conservazione, e in più agli uomini ha dato quel sofisticato strumento che è la ragione. Di qui nasce un processo di accumulazione costante di beni e ricchezze, spinto dal timore di perderle: sorgono l’odio, l’invidia e tutte le altre manifestazioni del desiderio di dominare, desiderio dal quale tutti siamo animati; e l’insicurezza in cui siamo immersi è determinata, più che dalla fortuna (ossia ciò che sfugge al controllo della ragione), dalla finitezza della nostra esistenza, finitezza che si concretizza nei rischi che ci derivano dall’incontrollabilità della fortuna e dall’essere in compagnia (spesso pessima) dei nostri simili. E allora, ancor prima che di timore della fortuna, si tratta di timore del prossimo, "desiderando gli uomini in parte di avere di più, parte di perdere l’acquistato, si viene alle inimicizie e alla guerra, dalla quale nasce la rovina di quella provincia e l’esaltazione di quell’altra". In queste righe, Machiavelli sta inconsapevolmente delineando quello che sarà lo stato di natura di cui parlerà Hobbes qualche tempo dopo. Gli uomini sono ad avviso del filosofo fiorentino spinti essenzialmente da due cose: l’amore di sé e il timore, "né per altra cagione si cerca la vittoria né gli acquisti per altro si desiderano che per fare sé potente e debole l’avversario" (Historie fiorentine, VI, 1).Ben si vede come il discorso di Machiavelli tenda a procedere su due piani diversi, quello politico e quello antropologico, sicchè la vittoria di cui egli parla può essere tanto quella ottenuta sul campo di battaglia, quanto quella riportata invece in una faida familiare, ed è interessante come venga posto l’accento sugli acquisti che gli uomini fanno per sembrar ricchi, per accrescere la loro reputazione e, conseguentemente, per aumentare il proprio potere sugli altri: in un certo senso, così parlando, Machiavelli sta fotografando una realtà giunta fino ai giorni nostri. Il suo è un pessimismo assolutamente laico, dove non vi è alcun peccato originale che spieghi tale condizione: un pessimismo, dunque, che è frutto dell’esperienza che si ha e che gli storici ci tramandano, e che dunque si configura come un pessimismo da sempre esistente. Ciò avviene perché, secondo Machiavelli, il mondo sembra essere sempre stato così come pare a chi lo osservi non già con gli occhiali rosa della metafisica, ma con l’occhio vigile e scientifico di chi resta ancorato all’esperienza; ciò vuol dire che, pur nel suo continuo mutare, il mondo è sostanzialmente immobile: "e pensando io come queste cose procedino, giudico il mondo sempre essere stato ad uno medesimo modo, ed in quello essere stato tanto di buono quanto di cattivo; ma variare questo cattivo e questo buono di provincia in provincia, come si vede per quello si ha notizia di quegli regni antichi, che variano dall’uno all’altro per la variazione de’ costumi, ma il mondo restava quel medesimo: solo vi era questa differenza, che dove quello aveva prima allogata la sua virtú in Assiria, la collocò in Media, dipoi in Persia, tanto che la ne venne in Italia e a Roma" (Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, II, Proemio). Il mondo, allora, si presenta come l’immobile variare del "tristo": non solo non vi è progresso nella e della storia verso un qualche fine (quale poteva essere in passato la realizzazione della poliV o della città celeste), ma neppure vi è un qualche senso che rischiari il ripetersi ciclico del tempo, per Aristotele motivato dalla necessità di un eterno riprodursi della ragione umana. Sembra anzi che l’unico senso della storia sia la coazione a ripetere della forza e dell’arbitrio, e ce ne accorgiamo non appena gettiamo uno sguardo a come procedono le cose oggi e a come procedevano ieri – ai tempi degli antichi -, sicchè siamo di fronte – per usare un’espressione del Gattopardo – ad un tentativo di cambiare tutto per non cambiare nulla. Una grande agitazione che non porta alcun mutamento, poiché le cose sono operate dagli uomini ed essi sempre hanno ed ebbero le stesse passioni: la storia umana è allora – flirtando con Shakespeare - "tanto rumore per nulla" e questa prospettiva ben può essere compendiata nelle parole bibliche: nihil sub sole novi. A chi giova, allora, questo mondo, definito da Hegel come un "mattatoio"? E’ una domanda seria ed inquietante, a cui Machiavelli non dà risposta. Nasce subito un’altra domanda: i teorici dell’imprescindibilità dell’amor proprio e, quindi, dell’etica dell’utile (da cui esulano le virtù disinteressate) non distinguono forse tra barbarie e civiltà? Non ammettono forse un avvenuto passaggio dall’una all’altra? Il discrimine tra la barbarie e la civiltà risulta presso i moderni meno marcato rispetto a quanto non fosse presso i metafisici, ad avviso dei quali la civiltà è sotto l’egida di una ragione tutt’altra dalle passioni, in balia delle quali si sviluppa invece la barbarie, con l’inevitabile conseguenza che per un Platone, un Aristotele o un Tommaso tra le due – barbarie e civiltà – vi è un baratro. In Machiavelli e in buona parte dei moderni, invece, tra le due – è incontestabile – sussiste una relativa continuità, data da quell’interesse che è motore primo sia nella barbarie sia nella civiltà; ma, se è vero che l’utile è il fine a cui sempre siamo ordinati (è, in un certo senso, corrispondente aristotelicamente sia alla causa formale sia a quella finale), allora sarà l’utile comune a segnare la differenza tra la civiltà e la barbarie, e sarà la ragione – che è espressione dell’amor di sé – calcolatrice ad elaborare la distinzione tra utile privato e utile comune: la barbarie è tale perché non vede null’altro che non sia l’utile individuale, ed è perciò caratterizzata dallo stato di natura; al contrario, la civiltà si ha quando entra in gioco l’utile comune e l’istinto di conservazione viene controllato dalla ragione. Sebbene Machiavelli si interroghi sul quo modo sit et fit, senza chiedersi il quid metafisico, non di meno egli giunge indirettamente e congetturalmente a qualcosa di sempre smentibile dall’empiria, ad una visione del mondo che ci mette di fronte ad una cieca natura retta dal caso e dalla forza, una visione che può essere definita come naturalismo pessimistico e fatalistico. Ma che cosa dobbiamo intendere per "natura" quando Machiavelli ne parla? Essa è un plesso di fatti o di forze deterministicamente regolato dalla struttura delle cose, la quale è l’impulso alla conservazione, la vitalità che si rinnova in continuazione, sicchè per Machiavelli la legge di natura è – darwinianamente - quella del più forte e nell’uomo la forza diventa virtù, leonina e volpina insieme. E tale forza/virtù si incarna storicamente di volta in volta nei Greci, nei Romani, nei Turchi e nei Germani, ossia nei popoli più virtuosi, ossia più efficaci a garantirsi la sopravvivenza in una prospettiva deterministica di guerra di tutti contro tutti. "Noi non ci possiamo opporre a quello che ci inclina la natura" (Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, libro III) : ciò vuol dire che quando vaneggiamo di essere liberi, stiamo in realtà confondendo – come noterà Schopenhauer – la libertà di fare con quella di volere, che ci manca, giacchè nessuno può non volere la propria conservazione; in altri termini, siamo dotati di una libertà assimilabile a quella del cane legato alla catena, che non può correre dove vuole, ma può ciononostante spostarsi e sedersi in più punti, cercare riparo dal sole spostandosi all’ombra, a patto che la catena sia sufficientemente lunga. Tale visione del mondo è una sorta di fenomenologia empirico/storica, ma è anche una visione biologica della vita umana, una concezione fisicistica del reale, per cui la natura è vita multiforme mirante a conservarsi; e in tale natura prevale chi è meglio attrezzato – cioè il più forte -, tenendo sempre presente che nell’uomo la forza è la virtù, e non può essere in alcun caso ridotta a mera forza bruta, giacchè spesso sono i più deboli ma astuti a dominare i più forti ma stolti. Ne consegue, allora, che la ragione di cui l’uomo è dotato configura la sua forza anche e soprattutto come astuzia, come calcolo che permette di elaborare una strategia e una tattica nel condurre la propria esistenza, ed è nella scelta della tattica che si rinviene quel margine di libertà da Machiavelli riconosciuto all’uomo: la ragione calcolatrice, infatti, è strategica nella misura in cui sa guidare alla vittoria finale passando per obiettivi intermedi (quali l’indebolimento del nemico, il costringerlo a battaglie campali, e così via), ed è tattica nella misura in cui sa disporsi efficacemente sul campo, cosicchè mentre la strategia è la pianificazione di fini a medio e a lungo termine (con obiettivi ultimi – la nostra preservazione – e con obiettivi intermedi – l’arricchirsi, il diventar potente), la tattica è escogitazione delle tecniche attraverso le quali raggiungere i fini intermedi che la strategia si è assegnata (così la tattica mi suggerisce di raggiungere la ricchezza rubando con la forza o truffando con l’astuzia). Questa complicità tra la strategia e la tattica emerge benissimo in Guerra e Pace di Tolstoj, quando il generale, per far fronte all’avanzata dell’esercito napoleonico in Russia, segue la strategia della ritirata, illudendo in tal maniera l’esercito avversario, e a ciò aggiunge la tattica della terra bruciata, rendendo impossibile all’esercito francese l’approvvigionamento. Nel caso dell’uomo, tuttavia, secondo Machiavelli non vi è libertà nella scelta della strategia: l’obiettivo ultimo e determinato è la conservazione di se stessi, che però possiamo raggiungere dispiegando liberamente una tattica a scelta. Essa può esser dettata dalle sole passioni o dalla lungimiranza della ragione calcolatrice, e così c’è chi mira alla conservazione ascoltando soltanto la primitiva voce delle passioni e chi invece tende l’orecchio a quella più sofisticata della ragione calcolatrice, subordinando l’interesse proprio a quello comune e ottenendo in tal modo la propria conservazione. Da ciò si evince come siamo irrimediabilmente legati alla catena dell’istinto di conservazione, ma possiamo comunque liberamente scegliere quale tattica schierare: ed è in questo ritaglio di libertà che si inserisce Machiavelli con i suoi consigli, ed è in lui la ragione lungimirante a prendere la parola, riconoscendo la realtà per quella che è e se stessa per quella che è, mero strumento in mano alle passioni. In natura, dunque, trionfa il più forte ed è qui che si pone il problema del rapporto tra fortuna e virtù, senza una profonda libertà di scelta, poiché la nostra volontà è già sempre motivata dall’amor di sé. E’ a dir poco strano come Machiavelli vada elaborando il proprio pensiero negli stessi anni in cui Pico faceva le sue elucubrazioni sull’infinita libertà dell’uomo, capace di innalzarsi a Dio o di abbassarsi ai bruti: quanto invece la nostra libertà sia per Machiavelli relativa, lo si evince facilmente nel rapporto che egli individua tra la fortuna e la virtù. Da una parte abbiamo la fortuna, ovvero quell’insieme di cose che sfuggono alla presa della ragione, e possiamo identificarla con la stessa necessità cosmico-naturale, ossia con quanto trascende l’uomo: è, in altri termini, la natura stessa in tutto ciò che sfugge alla nostra ragione, è quell’intreccio di forze vitali di cui l’uomo è parte integrante ma che non può del tutto padroneggiare. A più riprese Machiavelli si esprime circa la fortuna, e in prima analisi le sue appaiono spesso affermazioni contrastanti e autoelidentisi, ma che in realtà – se lette in trasparenza – sono coerentemente legate al necessitarismo di cui Machiavelli fa il proprio cavallo di battaglia. A tal proposito, uno dei passi più celebri è il seguente (Il principe, cap. 25): "perché el nostro libero arbitrio non sia spento, iudico potere essere vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che etiam lei ne lasci governare l'altra metà, o presso, a noi. Et assomiglio quella a uno di questi fiumi rovinosi, che, quando s'adirano, allagano e' piani, ruinano li arberi e li edifizii, lievono da questa parte terreno, pongono da quell'altra: ciascuno fugge loro dinanzi, ognuno cede allo impeto loro, sanza potervi in alcuna parte obstare. E, benché sieno cosí fatti, non resta però che li uomini, quando sono tempi quieti, non vi potessino fare provvedimenti, e con ripari et argini, in modo che, crescendo poi, o andrebbono per uno canale, o l'impeto loro non sarebbe né si licenzioso né si dannoso. Similmente interviene della fortuna: la quale dimonstra la sua potenzia dove non è ordinata virtù a resisterle, e quivi volta li sua impeti, dove la sa che non sono fatti li argini e li ripari a tenerla". Stante questo passo, si può dire che virtù e fortuna si spartiscano – secondo Machiavelli – il 50 % del potere, come se sussistesse il libero arbitrio: e il pensatore toscano supporta la propria tesi con l’esempio – più volte iterato – della piena del fiume, che è sì inevitabile, ma ciononostante può essere incanalata: similmente, non possiamo abolire la fortuna che ci sovrasta, ma possiamo accomodarci ad essa e con essa, e nell’atto stesso in cui pare rivendicare il libero arbitrio Machiavelli già lo nega, perché l’uomo è sempre e comunque incatenato alla necessità naturale e all’istinto di conservazione (il che taglia le gambe ad ogni dottrina della libertà d’arbitrio): restiamo però liberi di trarne il miglior partito, ossia di far valere all’interno di questa condizione ineliminabile la forza della nostra virtù, siamo cioè spinti dall’istinto di conservazione ma possiamo in parte modificare – grazie alla tattica - questo spazio limitato, ed è appunto proprio dei virtuosi l’adattarsi ai tempi e alle circostanze (che coincidono con la fortuna che ci è toccata), traendone partito. E questa mezzadria tra virtù e fortuna, volta a far sì che il "nostro libero arbitrio non sia spento" (ossia che, pur limitato, non venga del tutto meno), è da Machiavelli asserita più in forma ottativa (di speranza) che non enunciativa, cosicchè viene lasciato in qualche modo aperto uno spiraglio per il dubbio. La virtù si configura allora come l’efficienza realizzatrice che è nell’uomo la punta di diamante del naturale istinto di conservazione (leonino e volpino). Mai come in Machiavelli può valere l’antico adagio virgiliano secondo cui audaces fortuna iuvat, dove gli "audaci" in questione sono i virtuosi, che proprio perché tali sono destinati a vincere. La fortuna, infatti, è avversa laddove la virtù latita, giacchè "gli uomini possono secondare la fortuna e non opporsegli" (Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio), possono tessere gli orditi suoi e non romperli, ma in realtà è sempre la fortuna a creare le condizioni affinchè un uomo si imponga sugli altri, e tale uomo deve solamente afferrarla e accoglierla facendola propria. Il quadro che così viene delineandosi è un quadro in cui domina la prepotenza della fortuna, giacchè è sempre lei ad imperare, non solo perché è essa a propiziare la virtù, ma anche perché è la fortuna stessa a suscitare e a donare la virtù: è la natura, infatti, a creare i più forti e, poi, perché tali, li incoraggia e li stimola offrendo loro le occasioni più favorevoli. I disegni della fortuna, però, trascendono in ultima analisi ogni virtù, risultandole imprendibili: è la fortuna a donare la virtù e, successivamente, a decidere a favore o contro di essa. E la fortuna primaria che ci è toccata in sorte non consiste soltanto nell’esser nati ricchi anziché poveri, in pace anziché in guerra, e così via, ma anche nell’esser nati virtuosi anziché non virtuosi, di essere cioè venuti al mondo dotati di quello strumento indispensabile per accordarsi con la fortuna che è la virtù. Il raggio d’azione di quest’ultima non solo è limitato dalla fortuna, ma è altresì allestito da essa, poiché è lei a menare il gioco, lasciando alla virtù solo lo spazio per cogliere l’occasione, che è poi lo spazio dell’astuta riflessione del calcolo razionale. Non è un caso che nei trattati in cui si impersonificavano pittoricamente le qualità, l’occasione fosse solitamente rappresentata come nota a pochi, coi piedi alati e col volto coperto da una chioma che impedisce di scorgerne i lineamenti facciali, in modo tale che sia difficile notarne il suo volante passaggio. E poiché i suoi capelli sono rivolti in avanti, risulta impossibile afferrarla una volta che è passata, poiché dietro non ha capelli che sporgano e ai quali potersi attaccare; occorre dunque coglierla al momento opportuno (il kairoV di cui parlava Gorgia) in cui, riconosciutala un attimo prima del suo passaggio, la si vede transitare, agguantandola con decisione, cosa di cui son capaci solo in pochi ed è a quei pochi che sorride il successo. "Coloro che, per cattiva elezione o per naturale inclinazione, si discordono dai tempi, vivono, il più delle volte, infelici, ed hanno cattivo esito le azioni loro" (Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, libro III): la fortuna fornisce la virtù e la stimola donandole le occasioni, sicchè i virtuosi seguono i disegni della fortuna, che sono quelli di far vincere i virtuosi stessi secondo la legge del più forte. E’ nella logica della natura che il virtuoso colga l’occasione creata ad hoc per lui, e se non la coglie, ciò per la natura non ha alcuna importanza, perché essa – come dirà Schopenhauer - "non fa economia", è dissipatrice, si sbarazza di chi non è all’altezza. Così, sarà lecito affermare che a consentire l’impero dei Romani sia stata la loro privilegiata relazione con la fortuna, che ha fornito loro le giuste occasioni: e in questa prospettiva ben si inquadra il discorso di Machiavelli sulle religioni "buone" e su quelle "cattive". La fortuna è donna e, in quanto tale, deve essere picchiata: ma la forza bruta, da sola, non è sufficiente, come Machiavelli rileva ne La vita di Castruccio Castracani da Lucca, dove descrive le vicende di questo capitano di ventura forte e irruente mandato in rovina dalla fortuna per via della sua stessa irruenza. Non si deve dunque far leva sulla forza bruta, ma piuttosto sulla virtù che afferra l’occasione proposta dalla fortuna, senza però sottomettere e battere quest’ultima. Allora l’espressione "battere" qui impiegata da Machiavelli va presa nel significato di saper cogliere l’occasione, e se vogliamo seguire il pensatore toscano nella sua metafora erotica del rapporto fra marito e moglie, possiamo dire che con la fortuna avviene lo stesso che accade agli uomini con le donne, delle quali essi si credono conquistatori senza accorgersi che si tratta di una conquista che avviene non per loro volontà, bensì è la fortuna che ci dota della virtù per cogliere le occasioni che essa stessa fortuna propone e lascia credere all’idiota di turno di essere stato lui stesso il protagonista piuttosto che l’oggetto passivo del reticolo della vita. Dunque la virtù è sola, assediata dalla necessità naturale e dalla fortuna dominante il mondo e la virtù stessa, la quale porta al successo solamente se asseconda la fortuna. Si tratta, evidentemente, di un quadro desolante ma che pretende di essere veritiero, una realtà crudele e sanguinaria, in cui necessariamente trionfa la simulazione (ed è questo un elemento caratteristico della modernità), voluta dalla ragione astuta e calcolatrice: "ma è necessario […] essere gran simulatore e dissimulatore: e sono tanto semplici li uomini, e tanto obediscano alle necessità presenti, che colui che inganna troverrà sempre chi si lascerà ingannare" (Il principe, cap. XVIII). Viviamo pertanto in un mondo soggetto al caso, scosso dalle vicende della fortuna e abitato da lupi, e in un tal mondo la morale tradizionale e l’utilità sono necessariamente in contraddizione e in conflitto tra loro, e la simulazione è lo strumento indispensabile alla sopravvivenza. Possiamo allora considerare non Pico, Ficino o Alberti e Bracciolini, ma Machiavelli come il vero inauguratore dell’età moderna, colui che ha laicizzato la politica, scrivendo quello che può esser detto innanzitutto un manuale di sopravvivenza rivolto a tutti gli uomini (e non solo al principe): egli è in senso pieno un tecnico della riuscita e del successo, che non bada ai grandi fini universali e trascendenti (la giustizia, la verità, ecc), ma alla riuscita entro un orizzonte finito; e, sotto questo profilo, il suo scritto Dell’arte della guerra è, prima di tutto, un manuale per sopravvivere in quella guerra di tutti contro tutti che è il mondo. A far di Machiavelli lo scopritore della modernità è poi la sua consapevolezza della complessità e della tortuosità del reale, concepito come trama fittissima di forze concrete (storiche, psicologiche, culturali, ecc) che è in gioco nelle vicende umane, una complessità che lo sguardo stralunato della metafisica aveva tralasciato, quasi come se, discorrendo di universali, si fosse scordata degli individui o, peggio ancora, avesse finto che la nostra realtà non fosse autentica. Tale realtà mondana (che è l’unica vera realtà) è complessa, quasi come una matassa di interessi e di motivazioni, sicchè l’esercizio della politica è opera di intelligenza, di stratagemmi e della ragione al servizio delle passioni e dell’amor di sé: occorre essere esperti di tattica e di strategia per poter trionfare. Emerge così il carattere tipicamente moderno del "manager", strategico e tattico, ricco di ingegnosità e campione nell’esercizio della maschera, con la scoperta rilevanza della simulazione: quella partita a scacchi che è la vita è allora una mascherata, e la logica della simulazione percorre sotterraneamente l’ingarbugliata matassa inframondana, segnata dal fondamentale ruolo giocato dalla reputazione, intesa come la mia verità presso l’opinione altrui; tale reputazione diviene tutta la verità del mondo di quaggiù, e, con essa, è la modernità che balza fuori all’improvviso, come Minerva sbucò dalla testa di Giove: ne nascono l’importanza centrale della simulazione, dell’autocontrollo, della manipolazione, dell’inganno, dell’arte di dirigere e di persuadere. Il principe non sopporta di essere adulato, ma ama adulare - a seconda delle convenienze – il popolo, i prelati, l’esercito, usando quelle che Machiavelli definisce "parole di seta": affiora in tal modo la concezione squisitamente moderna del piacere per soggiogare, nella logica del mors tua vita mea, siamo cioè agli albori della pubblicità e della civiltà dell’immagine, nella quale conta più l’apparire che l’essere, nelle cui corti e nelle cui industrie si intessono gli orditi dei giochi delle apparenze. L’idea del politico moderno – il principe di Machiavelli – nasce in questo modo, ma si tratta, più che di un’invenzione, della scoperta di un qualcosa che da sempre è esistito, seppur sempre occultato da mille fattori: il potere risulta dunque essere il portatore di un coacervo di interessi di parti, di classi, di corporazioni; e che si tratti non di un’invenzione, ma di una mera scoperta lo attestano gli storici, che ci tramandano figure di grandi simulatori: così Sallustio scrive che Catilina era "quoius rei lubet simulator ac dissimulator", Livio narra l’arte del simulare di Annibale, e Machiavelli stesso racconta che "Alessandro VI non fece mai altro, non pensò mai ad altro che ad ingannare uomini" ("Il principe", cap. XVIII). Un altro basilare elemento di modernità che emerge con Machiavelli è il procedere per tentativi, come un cieco che saggia il terreno col bastone prima di allungare il passo, giacchè siamo immersi in una routine complessa, dove nulla è sicuro, fuorchè la generale insicurezza, e tutto è rimesso sempre e di nuovo in gioco, sicchè si deve procedere coi piedi di piombo e il bene altro non è che il male minore. La politica stessa assume i tratti del luogo del compromesso, in cui regna incontrastato non già il bene, bensì il minor male: il leone di cui parla Machiavelli presenta in tal senso notevoli affinità con la nozione greca di megaloyucia, la "grandezza di vedute", corrispondente appunto alla fredda e volitiva leonina energia dei capi di ventura: e non è un caso che nel Cinquecento prenda forma il mito di don Giovanni – che troverà poi la sua prima definizione del secolo seguente -, questo irresistibile seduttore di donne che è tale nella misura in cui sa di essere – nel suo rapporto con la fortuna - più sedotto che seduttore. Ma dobbiamo anche chiederci come la fortuna venisse intesa nel precedente mondo cristiano, di cui Machiavelli segna la fine: emblematica è, in questo senso, la prospettiva di Petrarca, che per molti versi rappresenta la cerniera tra il medievale e il moderno; a suo avviso, la fortuna è la complessità e imprevedibilità degli eventi, è una capricciosa e potente (mendax, varia, levis, volubilis) dea bendata che humanarum rerum omnium excepta virtus domina est, signoreggia su tutte le cose umane fuorchè sulla virtù, sicchè la fortuna è tutto ciò che si sottrae alla virtuosità umana. Ma l’ammissione di questa prospettiva di imprevedibilità implica in sede cristiana il problema del rapporto tra fortuna e provvidenza divina, la cui soluzione è prospettata da Agostino, da Petrarca stesso e da Dante, il quale tratteggia la fortuna come "ministra" (Inferno, VII, 78) del volere di Dio, ossia come strumento della provvidenza divina, uno strumento per esercitare una funzione pedagogica, evitando in tal modo l’eccessiva mondanizzazione dei singoli individui; nel suo duello con l’uomo, la fortuna guerreggia con due armi – la prosperità e l’avversità – entrambe costituenti due pericoli, poiché la prosperità suscita in noi superbia e l’avversità produce la disperazione, ma ecco che contro la superbia interviene la virtù cristiana della modestia e contro la disperazione la virtù della pazienza; in questo modo, dunque, alla fortuna viene opposta la virtù, in grado (e qui cogliamo una divergenza netta con Machiavelli) di padroneggiarla, cosicchè la fortuna viene a configurarsi come un duro banco di prova dell’umana virtù e della sua volontà, e la lotta dell’uomo contro di essa si prospetta come lotta dell’uomo contro le proprie passioni, ed è appunto a questa lotta che la fortuna invita, il che ci dà conferma della natura ottimistica del cristianesimo e della sua santità. Ne fiorisce un’etica che – non a caso – trova formulazione nelle metafore del "miles christianus" (Paolo, "Lettera agli Efesini", VI, 13, 17), o nell’opuscolo di Erasmo intitolato Manuale del soldato cristiano, dove i nemici che il guerriero è chiamato a fronteggiare sono le passioni occasionate provvidenzialmente dalla buona o dalla cattiva sorte; la stessa tematica del "combattimento spirituale" ritorna con un’incredibile frequenza nella letteratura del Cinquecento, del Seicento e anche del Settecento. Tratto saliente del pensiero moderno (che è e rimane antimetafisico) è poi, in campo pratico, l’assunzione di una riflessione mirante a calcolare gli interessi terreni e mondani della collettività, e non stupisce dunque che all’origine del moderno vi siano non già trattati, bensì manuali, quale è Il principe di Machiavelli o Il cortegiano di Baldesar Castiglione: ci troviamo cioè di fronte a guide pratiche, che segnano il mutato indirizzo di pensiero.

BALDESAR CASTIGLIONE

Se per Machiavelli il fine a cui è orientata ogni nostra azione è la preservazione di se stessi, in Castiglione la preservazione diventa "cortegiania", ossia il soggiornare a corte piacendo al principe, ed anch’egli esorta il lettore ad una riflessione di calcolo: Machiavelli ci invita a fare come gli arcieri prudenti (Il principe, cap. VI), che calcolano con precisione la traiettoria delle frecce, scagliandole tanto più in alto quanto più è distante il bersaglio; Castiglione, invece, esorta il suo apprendista cortigiano ad un calcolo analitico e sistematico, a cui non sfugga nulla di ciò che deve essere fatto e detto: "consideri ben che cosa è quella che egli fa o dice e 'l loco dove la fa, in presenzia di cui, a che tempo, la causa perché la fa, la età sua, la professione, il fine dove tende e i mezzi che a quello condur lo possono; e cosí con queste avvertenzie s'accommodi discretamente a tutto quello che fare o dir vole" (Il cortegiano, II, 7). Castiglione, dunque, teorizza quale debba esser l’arte di chi sta a corte descrivendola anzitutto come arte della conversazione: il compito del "cortegiano" è infatti primariamente quello di piacere al principe e la conversazione è appunto uno degli strumenti per generare tale piacevolezza, il torneare con motti ingegnosi, il dispiegare facezie, arguzie e giochi di parole, inscenando un "gioco ingegnoso" che permetta di conversare amabilmente. E tale conversazione è distinta dall’oratoria del filosofo platonico/metafisico: "né io voglio che egli parli sempre in gravità, ma di cose piacevoli, di giochi, di motti e di burle, secondo il tempo"; non è un caso che uno dei protagonisti de "Il Cortegiano" sia Pietro Bembo, il più grande petrarchista rinascimentale, depositario della concezione platonica dell’amore: egli – nell’opera di Castiglione – rappresenta il tipico metafisico e si avventura in un discorso platonizzante, finchè non è interrotto da Cesare Gonzaga, che lo mette in guardia facendogli cortesemente notare che a parlare in maniera così elevata si rischia di far la fine di Icaro, al quale - volando troppo vicino al sole – si sciolse la cera delle ali e di conseguenza precipitò in mare. Bembo, nel suo argomentare metafisico, pare quasi "astratto e fuor di sé" ed incarna l’universal ragione metafisica in contemplazione del mondo intelligibile, e – non a caso – di lui si dice stava con lo sguardo fisso verso l’alto – quasi rimirasse i cieli iperuranici -, "come stupido", fino a che la signora Emilia non lo afferra per il vestito e, scossolo, lo fa tornare in sé dicendo scherzosamente: "guardate, signor Pietro, che con questi pensieri rischiate che l’anima si separi dal corpo". Al di là dell’inevitabile effetto comico della scena, vi è un evidente richiamo del filosofo, perso dietro ai sogni di un visionario in preda di un attacco di delirante metafisica, a ritornare coi piedi per terra, saldamente fissi sul vero mondo. Nelle parole di Emilia (che simboleggiano quelle di Castiglione) si scorge quell’invito a rivolgersi dal cielo alla terra che è tipico dell’età moderna, un volgersi dal sublime al mediocre, pienamente consapevoli dei propri limiti intrinseci: dalle speculazioni metafisiche tendenti ad avvitarsi su se stesse senza giungere a nulla di concreto si sostituisce un pacato conversare mirante ad un piacevole stare insieme, ed è appunto in questo che consiste il vivere in società quale Castiglione lo intende. La conversazione così concepita diventa forma di mediazione di conflitti, un discorrere accademico vagliando i diversi punti di vista per poter in tal maniera risolvere i conflitti tra individui e aspirare ad una pacifica conciliazione. Emerge vivamente il carattere tentativo/ipotetico/congetturale che ha assunto il conversare in età moderna, un discorrere formulando ipotesi, discutendole e, in ultima battuta, trovando la mediazione che le concili: proprio in ciò risiede il tratto distintivo della convivenza sociale, affidata al tatto, così come nel buio si tasta ciò che ci circonda per trovare la strada. Lo stesso Montaigne, in età rinascimentale, quando intitola la sua opera Saggi fa riferimento all’etimologia del termine, legato al "saggiare" ciò che ci circonda, così come si saggia un terreno per appurare che non ceda sotto il nostro peso. Per questa via, il male e il bene metafisicamente intesi come assoluti cedono il passo a ipotesi e a punti di vista che, senza arrogarsi la pretesa di sapere con certezza, vengono a confronto pacificamente. In un contesto di questo genere è allora fondamentale, secondo Castiglione, la "sprezzatura": "e, per dir forse una nova parola, usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda l'arte e dimostri ciò che si fa e dice venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi". In pochi (forse anzi nessuno) posseggono la "cortegianeria" naturalmente, giacchè in pochi son dotati dell’arte di inanellare piacevolmente motti di spirito e giochi di parole, ed è per questo ch’essa dev’essere acquisita con arte; ma se è frutto di uno sforzo e deve presentarsi come graziosa, ne segue che lo sforzo che la produce deve essere celato, perché esso non è piacevole a vedersi: la sprezzatura è appunto l’arte di celare l’arte, l’artifizio di dissimulare la simulazione, il far comparire la grazia ma non lo sforzo che l’ha prodotta. In altri termini, la grazia deve diventare come una seconda natura e in chi non la possiede per natura (cioè nella maggioranza dei casi) essa è frutto di calcolo e di simulazione, ma ciononostante deve apparire come se fosse dote naturale. Come esempio tipico di sprezzatura possiamo addurre il caso dell’attore; a tutti noi pare un pessimo attore quello in cui è palese lo sforzo che compie di recitare, ossia quello in cui ci accorgiamo che sta recitando; ci sembra invece un ottimo attore quello che impersona la parte come se fosse la sua vera natura. Per raggiungere la sprezzatura, però, sono possibili due diverse vie, teorizzate – in epoche diverse e posteriori a Castiglione: da un lato, Diderot – nel suo Il paradosso dell’attore – sostiene l’assoluta freddezza dell’attore, asserendo che questi è tale nella misura in cui è freddamente distaccato dai personaggi che impersona; è tale freddezza, infatti, la risorsa che gli permette di celare lo sforzo che egli compie per impersonificare quella data parte. La seconda via è quella percorsa in Russia da Stanislawsky, il quale sosteneva che si diventa ottimi attori solamente se ci si cala nei personaggi impersonificati, identificandosi con essi e in essi scomparendo, a tal punto confondendosi da nascondere lo sforzo che si compie per imitarli. Il contrario della sprezzatura è l’ "affettazione", che altro non è se non il fallimento della sprezzatura stessa, lo sforzo di essere graziosi che non riesce a celarsi. L’esempio che Castiglione adduce in merito è quello del ballerino che danza "con tanta attenzione che di certo pare vada enumerando i passi", senza riuscire ad introiettare lo sforzo di esser piacevole. L’affettato è, in altri termini, colui che vuole piacere ma non vi riesce ed è perciò tenuto lontano dalla corte nello stato di natura, impacciato nella sua assenza di grazia; egli, manifestando un evidente ed esasperato sforzo di autocontrollo, rivela un non ancora avvenuto autocontrollo, dimostra di volersi controllare ma di non essere ancora capace a farlo senza darlo a vedere. Letteralmente, "stare a corte" significa "corteggiare", "fare la corte", ovvero seguire il principe intrattenendolo ovunque egli si rechi, facendo cerchia intorno al potere: sicchè la corte, per un verso, è il luogo segreto in cui si esercita il potere e, per un altro verso, è il luogo aperto, festivo e solare in cui si pratica la rappresentazione dello stare a corte: è, per dirla diversamente, il potere che da un lato viene esercitato e dall’altro inscena se stesso, cercando in tal maniera la propria legittimazione; ma esso è anche tale da modificare sempre più sensibilmente la convivenza, poiché da una parte la corte legittima – mascherandolo – il proprio potere, ma dall’altra – indossando tale maschera – tempera e modifica il proprio potere stesso. E così la corte rinascimentale segnala un accentramento del potere (il che è centrale per il futuro passaggio all’assolutismo), ma si configura anche come accentramento di consuetudini: "la vita del principe è legge e maestra dei cittadini e forza è che dei costumi di quello dipendano quelli di tutti gli altri", scrive Castiglione, e tale vita di corte – così concepita – si presenta con tutte le caratteristiche della cortesia. Qualche decennio dopo, Torquato Tasso comporrà dei trattati di divulgazione filosofica che costituiscono un autentico compendio umanistico/rinascimentale: in uno di questi, significativamente intitolato Il malpiglio ovvero della corte – egli riprende temi di Castiglione, arrivando a scrivere quanto segue: "le virtù non tutte ugualmente né sempre si manifestano, ma la magnificenza, la liberalità e quella che si chiama cortesia è dipinta coi più fini colori che abbia l’artificio della corte e del cortegiano; parimenti la virtù del conversare, l’affabilità e la piacevolezza". La cortesia compendia tutte le virtù ed è l’arte del conversare piacevolmente (in netta antitesi con lo scontro verbale dei singoli); essa si forma a corte e si diffonde gradualmente nella società civilizzandola. Il conciliare il principe si sposta così al conciliare i cittadini fuori dalla corte: si deve dunque in ogni caso esser piacevoli e schivare la noia, ma la corte si intrattiene perché si trattiene; emerge cioè sempre più l’arte del padroneggiarsi, giacchè nella misura in cui ci si domina ci si risulta scambievolmente piacevoli e ci si trattiene. Nel Seicento, La Bruyére dirà che "un uomo che sa la corte è padrone dei propri gesti, dei propri occhi, del proprio volto", ossia sa perfettamente come condursi su quel palcoscenico che è la vita; ma è a corte che si sviluppa la capacità di smussare le differenze e di incorporare le conflittualità, presentandole sotto l’egida dell’etichetta e del protocollo capaci di armonizzare ogni cosa; ed è lì che la forza bruta viene sostituita da quella trattenuta e dissimulata, ed è appunto in ciò che possiamo scorgere la funzione civilizzatrice della cortesia. Ancora La Bruyére sintetizza: "la corte è come un palazzo di marmo: voglio intendere che essa è composta di uomini ben duri ma politi"; come si evince dal testo, la spigolosità degli individui a corte non è eliminata, ma solamente polita, ovvero trattenuta per convenzione; e un poco alla volta le buone maniere diffusesi a corte si divulgheranno nella società e fra i cittadini, producendo quel fenomeno che è l’urbanità, cui è opposta la villania, ovvero l’atteggiamento del villano che sta lontano dalla città e dalle buone maniere. La civiltà, insomma, prende a svilupparsi sul modello della corte, ingerendone le usanze e i costumi: ne è prova lampante il fatto che la civiltà moderna è la civiltà delle cosiddette buone maniere, trasferitesi dalla corte alla città. E come il discorso di Machiavelli non valeva solo per il principe, ma per ogni cittadino, ugualmente quello di Castiglione non è rivolto solo al cortigiano, ma anzi ci invita tutti a diventare cortigiani, ad esser piacevoli con gli altri, intrattenendo la malagrazia e la spiacevolezza dell’egoistica individualità di ciascuno di noi, individualità che la cortesia reprime e dissimula: ma si tratta di qualcosa che si spinge oltre all’ipocrita dissimulare, giacchè si realizza una reale smussatura dell’aggressività, e ciò si attua grazie all’operare dell’arte della cortesia. La funzione civilizzatrice della corte è ribadita da Monsignor Giovanni della Casa nel suo Galateo. Overo de costumi, in cui scrive (XVI): "e queste parole di signoria e di servitù e le altre a queste somiglianti, come io di sopra ti dissi, hanno perduta gran parte della loro amarezza; e, sì come alcune erbe nell'acqua, si sono quasi macerate e rammorbidite dimorando nelle bocche degli uomini". Anche per Giovanni della casa la cortesia non elimina, ma ammorbidisce la servitù e la signoria, rendendole più vivibili, proprio come l’acqua ammorbidisce certe erbe in essa immerse.
IL SEICENTO
Nel Seicento ci imbattiamo in una nutrita schiera di pensatori che traghettano le idee di Machiavelli e di Castiglione (le quali aprono la modernità) fino all’illuminismo. Il primo filosofo a riprendere in maniera sistematica la convinzione che l’agire umano sia sempre e comunque interessato, essendo insopprimibile l’amor proprio, è Thomas Hobbes, il quale concepisce la ragione come puro strumento di calcolo delle conseguenze e la scienza come conoscenza delle conseguenze stesse, ossia della concatenazione causale di fatti offertici dall’esperienza. Da siffatte premesse non può discendere se non un’etica dell’interesse, utilitaristica e fondata sui calcoli della ragione, calcoli che, se evolveranno come avviene in certi casi, mostreranno che la miglior salvaguardia degli interessi personali sta in una relativa subordinazione ad un concordato interesse comune – che è la pace -, condizione indispensabile di ogni prosperità individuale. Sul piano etico, di tale patto sociale si dà una variante reazionaria, che mette il potere in mano ad un sovrano assoluto, e una variante ‘democratica’, che invece lo mette nelle mani di un’assemblea, anche se Hobbes ritiene che solo quella autoritaria possa realmente funzionare; il patto sociale così inteso obbliga chi vi aderisce a comportamenti aderenti a ciò che il patto sociale stesso esige, comportamenti cioè che siano i mezzi di una vita comoda, sociale e gradevole. Questi comportamenti aderenti al calcolo fondamentale del patto, benchè Hobbes li chiami "virtù", nulla hanno a che fare con le virtù tradizionali, giacchè mancano di disinteresse e anche perché al patto sociale importa solo il comportamento esteriore, non quello interiore: "il potere della legge è regola solamente delle azioni e non è estendibile al pensiero e alla coscienza degli uomini", scrive Hobbes. In altri termini, importa solo la legalità, cioè l’aderenza alle leggi pattuite, e non esiste una disposizione interiore disinteressata, ma – quand’anche esistesse – resterebbe comunque fuori gioco, poiché l’importante è sempre e solo come si agisce esteriormente. Hobbes va elaborando queste sue idee anche in seguito al suo soggiorno in Francia (dove aveva composto il De cive) e non fa specie che egli incida in maniera straordinaria sulla formazione dei cosiddetti "moralisti francesi" del Seicento (La Rochefoucault, La Bruyére, Pierre Nicole) – teorici dell’amor proprio -, i quali, attraverso Hobbes e attraverso i Libertini, vengono a contatto con il pensiero di Machiavelli. Pierre Nicole vede a fondamento della società un "amor proprio illuminato", frutto di quella stessa ragione lungimirante che per Hobbes statuisce il patto sociale e che persegue i suoi propri interessi producendo le condizioni migliori (prima fra tutte la pace) perché ciò avvenga. Nei moralisti ritorna con insistenza il machiavelliano tema della simulazione come pratica imprescindibile per la vita civile; il problema di una prospettiva di questo genere, tuttavia, è sintetizzabile nella questione se una tale etica dell’utile sia realizzabile o non sia piuttosto un sogno utopistico, se cioè gli interessi individuali si esprimano in realtà in una sregolata guerra di tutti contro tutti. Tutti questi pensatori sono profondamente convinti che tale etica sia realizzabile e non chimerica, e fanno a tal proposito notare come l’amor proprio sia invincibile e come le passioni siano valide e incrementabili mediante un sagace intervento della ragione calcolatrice. Anzi, a rigore, l’amor proprio appare come strumento indispensabile per lo sviluppo dei singoli e della specie. A tal proposito, Mandeville dirà che i vizi e le imperfezioni dell’uomo, sommate alla intemperie ambientali, spingono l’uomo stesso all’evoluzione biologica: proprio perché pungolato dall’amor proprio, egli organizza al meglio la sopravvivenza terrena, e le passioni in cui essa si ordina (orgoglio, avarizia, ecc) producono finalità (desiderio di arricchirsi e di primeggiare) e comportamenti (emulazione, concorrenza, ecc) la cui utilità pubblica è innegabile: quelli che sono vizi sul piano privato (l’emulazione, l’arricchirsi, ecc) diventano virtù sul piano pubblico, come recita il titolo della favola di Mandeville La favola delle api. Vizi private e pubbliche virtù. In questo breve scritto, l’autore racconta di un favo di api in cui la produzione del miele procede magnificamente poiché tutti lavorano instancabilmente, finchè esse non decidono di chiedere a Giove di far sì che si comportino non più per interesse ma per virtù: accontentate dal padre degli dèi, il loro favo va presto in rovina. La morale che se ne ricava è fin troppo evidente: "il vizio è tanto necessario in uno stato fiorente quanto la fame è necessaria per obbligarci a mangiare. È impossibile che la virtú da sola renda mai una nazione celebre e gloriosa". Del resto Bayle – calvinista rifugiatosi in Olanda dopo la revoca dell’editto di Nantes – scrive significativamente: "lasciate le massime del cristianesimo ai predicatori; conservatele per la teoria e riconducete la pratica sotto le leggi della natura, la quale consente di ribattere colpo su colpo e che ci spinge ad innalzarci al di sopra del nostro stato, a divenire più ricchi e di miglior condizione dei nostri padri". La funzione proficua delle passioni è dunque anche da Bayle lumeggiata: esse giovano al singolo inserito nella società, ed è in ciò che i vizi privati si palesano come pubbliche virtù. Questa funzione calcolatrice della ragione non solo è al servizio dell’amor proprio, ma ne è la più fine produzione, è in essa che trova lo strumento che, promuovendo la nascita e lo sviluppo della società civile, mette l’amor proprio nelle condizioni migliori: Schopenhauer parlerà curiosamente di "egoismo illuminato". La ragione, infatti, dota l’uomo della capacità di prevedere e di calcolare, ma resta una peculiarità che distingue solo relativamente gli uomini dagli animali (e non assolutamente, come era in Aristotele o in Cartesio), poiché tale ragione non è che l’espressione più perfezionata di quell’istinto di conservazione che hanno tutti i viventi. Si capisce facilmente come l’etica dei moderni – se accostata a quella degli antichi – sia assai modesta, e l’uomo moderno stesso è piuttosto modesto se raffrontato con il santo cristiano o con l’antico campione di virtù; tuttavia l’uomo moderno dimostra il possesso di una perizia mai vista prima nell’impadronirsi della felicità terrena, e tale perizia è il frutto del pensiero di Machiavelli, che ci dice non come l’uomo debba fantasticamente essere, ma come effettivamente è, palesando ciò che di positivo e di utile è presente nella sua pur limitata natura. Questo punto di vista – anfibio tra il primo Cinquecento e la fine del Seicento – troverà numerosi e (spesso) spregiudicati attacchi e formulazioni, con la fondamentale novità, però, rispetto all’età antica che tale punto di vista fa i conti con l’uomo reale e non con quello immaginato, è cioè la prima etica che tenga conto delle difficoltà della messa in pratica, difficoltà che non significano una rinuncia a questo obiettivo, ma una consapevolezza dei limiti; ed è anche per questa ragione che tale etica si è rivelata più efficace di quella classica, sapendo civilizzare la società e non restando staccata da essa. Se ne ricava che il solco che separa la barbarie dalla civiltà è meno profondo di quanto credessero i metafisici antichi, e sempre e di nuovo avviene che chi si illude di esser più forte smarrisca la lungimiranza della ragione e pretenda di revocare il patto sociale per poter così far valere la legge del più forte (retrocedendo al barbarico stato di natura). Ciò significa, naturalmente, che il patto sociale non è mai qualcosa di definitivamente dato e di irreversibile: può essere revocato in qualsiasi momento. L’unica ciambella di salvataggio a cui possiamo aggrapparci è data dalla ragionevolezza, che inizia con le buone maniere: la corte, in questo senso, costituisce un modello comportamentale che si diffonde a poco a poco presso l’intera cittadinanza; tali buone maniere, se attentamente analizzate, rappresentano una sorta di patto sociale non scritto, sono cioè un qualcosa a cui tutti siamo tenuti ad obbedire sebbene non vi sia alcuna legge scritta che ce lo prescriva. Dunque la diffusione delle buone maniere sfocia in un repertorio artificiale di comportamenti convenzionali, frasi di convenienza e atteggiamenti sottintesamente pattuiti: su ciò si sofferma La Bruyère, il quale scrive che "c’è un pontuario di frasi belle e fatte che si tiran fuori come dagli scaffali di un magazzino" per piacere agli altri; e, per quanto artificiose e simulate, non di meno non è consentito ometterle. Lutero ci provocava dicendo: provate a toglier Cristo dai Vangeli e vi accorgerete che non rimane più nulla, giacchè essi altro non sono se non l’annuncio di Cristo come salvezza; similmente, proviamo ad eliminare le frasi fatte e le buone maniere: cosa rimane? Nulla, all’infuori di un imbarbarimento delle relazioni interpersonali. Se infatti ci dicessimo l’un con l’altro solamente la verità, saremmo ciò che effettivamente siamo ma che attualmente cerchiamo di dissimulare con il ricorso alle buone maniere: saremmo cioè gli uni in concorrenza contro tutti gli altri, nell’hobbesiano bellum omnium contra omnes. In altri termini, resterebbe la spigolosa aggressività connaturata dell’io, dettata dall’istinto di conservazione. Emergerebbe quella barbara relazione fra individui che è l’opposto della conversazione cortese, affabile e mediatrice. In piena età illuministica, uno dei più grandi commediografi italiani – Carlo Goldoni – prenderà in esame la nozione di cortesia in due sue importanti opere, La donna di garbo e Momolo cortesan, nella cui avvertenza al lettore egli scrive: "intendesi da noi per cortesan un uomo di mondo franco in ogni occasione, che non si lascia gabbare facilmente, che sa conoscere i suoi vantaggi, onorato e civile ma soggetto però alle passioni; amante, anziché non, del divertimento". Il cortigiano, pertanto, è da Goldoni inteso come colui che pratica la cortesia, come il cittadino che si trova a proprio agio in questo mondo, ovunque egli sia: la sua guida preminente è l’egoismo illuminato, l’amor proprio razionalizzato. L’invenzione più tipica dell’amor proprio sarà allora l’onore, ossia quel sistema di virtù che l’amor proprio stesso comporta: l’uomo onorato mantiene la parola data, sta ai patti, ma l’onore per un verso sollecita il narcisisimo dell’amor proprio e, per un altro, fa meglio dispiegar l’amor proprio stesso. Sempre nel Settecento, in un lessico universale pubblicato a Lipsia nel 1736, tra le tante voci campeggia anche quella di "cortesia", termine che "deriva da corte, vita di corte; le corti dei grandi signori sono un teatro in cui ciascuno vuol fare fortuna, ma ciò può avvenire solamente se si acquista la benevolenza dei principi; perciò bisogna sforzarsi di rendersi amabili. Nulla giova maggiormente del far vedere agli altri che siamo pronti a sacrificarci per gli altri"; con l’atteggiamento esteriore dobbiamo cioè dare a vedere che siamo pronti a servire il prossimo, in modo tale che questi ci dia la sua fiducia e sia desideroso di fare per noi qualcosa di buono. La cortesia si configura in tal modo come ammortizzatore sociale che instaura un diverso modo di relazionarsi fra gli uomini. Nello scritto del 1824 Discorsi sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani, Giacomo Leopardi constata come il fondamento della vita civile sia la cortesia, da lui chiamata "buon tuono" (dal francese "bon ton"); anzitutto, egli parla del conformismo che caratterizza la modernità mettendo in luce la dilagante tendenza a "ridurre tutto il mondo a una nazione, e tutte le nazioni ad una persona" e osservando amaramente come le buone maniere sostituiscano le virtù tradizionali: "effettivamente lo stato delle opinioni e delle nazioni quanto alla morale è ridotto in questa precisa miseria che il buon tuono è non solo il più forte ma l’unico fondamento che resti ai buoni costumi e che i buoni costumi non sono esercitati per altro, generalmente parlando e dalle classi civili, che per le ragioni per cui si esercita il buon tuono e che dove il buon tuono della società non v’è o non si cura, qui la morale manca d’ogni fondamento e la società d’ogni principio fuor della forza; così nelle dette nazioni la società stessa producendo il buon tuono produce la maggiore e anzi unica garanzia dei costumi sia pubblici che privati e quindi è causa immediata della conservazione di se medesima. Gli uomini politi delle dette nazioni si astengono dal fare il male e fanno il bene non mossi dal dovere ma dall’onore". Questo brano leopardiano segnala una lucidità realistico/pragmatica degna di Machiavelli, si nota un lamento levato contro quella "miseria" in cui ci si trova ad agire non per virtù, ma per onore; ma, ciononostante, Leopardi riconosce il merito alla modernità di essere funzionale alla convivenza civile, funzionalità tanto maggiore là dove il dovere appaia chimerico e mistificatorio. E così l’affermazione leopardiana circa l’ordinarietà del "buon tuono" presuppone che il termine "ordinario" significhi tanto "diffuso" quanto (e soprattutto) "fondante un ordine" codificato in cui si può vivere e per di più vivere meglio che non nella barbarie e anche – forse – che non in una società predicante ma non praticante la virtù tradizionale. La spiccata attenzione per le buone maniera era già in realtà affiorata in età medioevale, quando ad esempio Bonvesin della Riva – con il suo Delle cinquanta cortesie da praticare a tavola – aveva composto uno dei primi trattati di buone maniere, in cui forte era la distinzione tra classi civili e popolo incivile. Ma – nonostante questi sviluppi embrionali in età medioevale – è soprattutto nell’età moderna che fioriscono le buone maniere e la cortesia, simboleggianti un nuovo rapporto fra gli uomini dettato da una nascente attenzione reciproca, dall’attenzione per l’individualità e lo sguardo empirico: è infatti nell’età moderna che si comincia a prestare attenzione alle esigenze altrui, con una pragmatica ragionevolezza. Vi sono quindi usanze convenienti ed altre sconvenienti: e il termine "conveniente" già segnala la prospettiva utilitaristica in cui si muove l’uomo moderno, giacchè "conveniente" è ciò che a tutti consente di vivere bene, con il massimo interesse per la sfera mondana. Pretendere dagli altri la buona educazione comporta una non scritta coercizione reciproca e ciò porta alla codificazione delle buone maniere che, pur non essendo scritte, tutti conoscono (ma non tutti riconoscono). In sostanza, ci si accorge che conviene mettersi dal punto di vista dell’altro, ed è appunto in ciò che consiste quella che Schopenhauer chiama "compassione", un sentimento che può a ragion veduta essere accostato alla "cortesia". Se per alcuni pensatori può sussistere una forma disinteressata di compassione e se per altri la questione è irrisolvibile (tale è per Schopenhauer), altri negano radicalmente l’esistenza di una compassione disinteressata: è questo il caso di La Rochefoucault, il quale sostiene che la compassione è una raffinatissima forma di egoismo, è cioè un mettersi dal punto di vista del compatito e un soccorrerlo perché si è così lungimiranti da pensare che un domani potremmo essere noi al posto suo e necessiteremmo del medesimo soccorso. Pur non potendo in via definitiva chiarire se sia un sentimento disinteressato o meno, possiamo tuttavia con certezza affermare che la compassione è cosa utilissima per la società. Ed è per questo che si creano società pacifiche, poiché cresce l’esigenza dell’autocontrollo che deve indurmi a non disturbare e ad intervenire verso gli altri affinchè gli altri così intervengano verso di me. E dunque le buone maniere sono di volta in volta limitazioni dell’aggressività naturale: le trasformazioni sociali dell’aggressività sono innumerevoli, e per capirlo possiamo pensare alla morte economica del concorrente (che è pur sempre meglio della morte reale), o alla morte attuata dalla diffamazione. Nella società civilizzata dalle buone maniere l’uso delle mani è regolato: la civiltà ci insegna a tenerle al loro posto, e la stretta di mano diventa il sigillo di un patto e va comunque usata con parsimonia nei casi d’eccezione; in definitiva, il divieto che la civiltà ci impone è di prendere e far nostro tutto ciò che ci piace, sicchè le mani sono sostituite dalla vista e noi, da attori, diveniamo spettatori, e non è un caso che in un paese civile (o presunto tale) non si va in giro armati. Nella modernità si arriva perfino al tentativo di regolamentare ciò che di per sé è barbarie: la guerra. Solo un idiota o un criminale crede di poterla controllare, ma è altresì vero che certi controlli sul comportamento bellico sono effettivamente entrati in vigore: ad esempio, è stata abbandonata l’efferata pratica di mutilare il prigioniero. Questo risicato e secolare processo di modernizzazione è dai moderni teorizzato come opera della ragione , e si mette in luce come le religioni non siano mai state promotrici di civiltà ed anzi esse stesse si civilizzano nella misura in cui si civilizza la società in cui son radicate. Se consideriamo la tolleranza, l’emancipazione, l’abolizione della schiavitù in Europa non possiamo non notare come questi fenomeni si siano verificati non grazie al cristianesimo, ma nonostante il cristianesimo, che ad essi si è spesso vigorosamente opposto. E’ la borghesia che – in età illuministica – ha portato avanti tali battaglie cardinali dell’età moderna, ed è per questo che il Settecento si configura, nel suo complesso, come un secolo alquanto anti-cristiano.
HOBBES

Il pensiero di Thomas Hobbes segna uno snodo fondamentale nell’etica utilitaristica dell’età moderna: egli organizza il pensiero di Machiavelli in sede etica e politica, partendo – in sintonia coi dettami dell’empirismo di cui è vessillifero – dalla constatazione che principio di tutti i viventi sia un movimento. Ciò vuol dire che c’è vita là dove c’è qualcosa che si muove; si tratta, allora, di un movimento vitale consistente in uno sforzo mirante alla propria perpetuazione. Sussiste come sforzo perché gli esseri viventi non sono mai stabilmente se stessi e sono sempre passibili di essere e di non essere, e altro non possono se non sempre e di nuovo sforzarsi di essere e di conservarsi; e ciò è inscritto nel loro essere finito e in divenire. Sforzo (conatus in latino) significa per Hobbes una – più o meno – cieca "voglia di", e tale sforzo si sviluppa in azioni che hanno inizio nelle sensazioni, le quali sono di due tipi: ci sono infatti azioni di piacere e azioni di dolore; quelle di piacere sono un rinforzo del movimento vitale, quelle di dolore ne sono invece una diminuzione. Queste sensazioni sono già gli impercettibili inizi delle azioni in cui il movimento vitale si dispiega: così la sensazione di piacere è l’inizio impercettibile dell’appetito verso ciò che piace. Lo sforzo cioè si struttura in sensazioni (piacere, dolore), volontà (appetito, avversione) e in pensiero (calcolo). Il movimento vitale è già sempre concretamente appetito di ciò che piace e avversione di ciò che dispiace: e lo sforzo che il movimento vitale è si manifesta sempre come passioni (appetiti o avversioni) che gli esseri viventi si ritrovano già sempre ad essere e perciò subiscono passivamente; e quando alle passioni si aggiunge la deliberazione si passa all’azione volontaria, la deliberazione di acquisire i beni (gli oggetti degli appetiti) ed evitare i mali (gli oggetti dell’avversione) e Hobbes distingue tra beni reali e beni apparenti grazie al pensiero che è già sempre un ingrediente delle passioni. I beni reali sono qui e ora presenti, mentre quelli apparenti sono futuri, configurati come tali dal pensiero che prevede la bontà di un oggetto futuro. Le passioni, dunque, sono il motore unico delle azioni, così come l’azione segue sempre alla deliberazione: ciò vuol dire che la nostra volontà è il prodotto dell’interazione tra l’ambiente e le nostre passioni e che il nostro atteggiamento non è il frutto della nostra volontà, ma al contrario noi vogliamo perchè il nostro sforzo vitale e il mondo circostante ci inducono a volere, vogliamo sempre e comunque la nostra conservazione secondo beni e appetiti che dipendono dal mondo che ci sta attorno. Dunque lo sforzo di autoconservazione è la radice di ogni nostro agire ed è innanzitutto un conatus: ma se mira alla sua conservazione, allora mirerà anche ai mezzi atti a produrre tale conservazione, e Hobbes tali mezzi li chiama "poteri": "il potere di un uomo, se si prende questo termine nel suo senso universale, consiste nei mezzi presenti di ottenere qualche bene apparente futuro" (Leviatano, cap. 13). Ciò significa che i poteri sono quei mezzi che appaiono alla ragione calcolatrice capaci di garantire la conservazione dello sforzo. Ci saranno poteri naturali (cioè immediatamente dati dalla natura: si tratta delle facoltà psico/fisiche come la forza, la bellezza e l’eloquenza; devono essere conservati e, sebbene immediatamente presenti, appaiono anch’essi come beni futuri) e poteri strumentali; questi ultimi derivano dai naturali ma richiedono arte e sforzo per essere acquisiti (tali sono la ricchezza, la reputazione, gli amici, il rango sociale, i servi); ciascuno di questi poteri permette di conservare quelli naturali e lo sforzo che ciascuno di noi è. Ciascuno di essi, poi, è il mezzo della propria stessa riproduzione e del proprio stesso incremento, è cioè strumento che produce altri strumenti (la ricchezza produce ricchezza, la reputazione produce reputazione: ma la reputazione produce anche ricchezza, e la ricchezza reputazione); anche questi sono beni futuri ma, a differenza di quelli naturali, sono incrementabili ad oltranza (la bellezza si incrementa fino ad un certo limite, la ricchezza invece all’infinito). Come in Machiavelli allora il conatus prolifera desiderando sempre nuovi beni e sempre un loro nuovo incremento, il quale è a sua volta incremento del persistere e del potenziarsi del desiderio stesso, sicchè abbiamo un desiderio illimitato perché volto a perpetuare indefinitivamente se stesso. Scrive Hobbes (Leviatano, cap. 19): "l’oggetto del desiderio dell’uomo non è di godere una sola volta e durante un solo istante, ma render sicura una volta per tutte la strada del suo desiderio futuro"; oggetto del desiderio è il desiderio di accumulare tutti quei poteri atti a garantirgli il suo perdurare nel futuro, cosicchè l’uomo è perennemente coinvolto dai calcoli e dalle congetture sui calcoli e sui beni apparenti futuri senza che gliene derivi una certezza tranquillizzante. Gli esseri viventi sono tanto più tormentati dall’ansia quanta più ragione posseggono, cioè tanto più prevedono il futuro. Così l’animale ha paura della morte solo quando si trova in condizione di pericolo mortale; l’uomo, invece, teme la morte per tutta la propria vita. Pascal significativamente dice che noi uomini siamo tutti dei condannati a morte che però ignorano la data in cui sarà eseguita la condanna e perciò cerchiamo distrazione nel divertimento. In Hobbes la tendenza naturale strumentale sarà la tendenza ad accumulare sempre più poteri strumentali per poter desiderare anche nel futuro. Nel "Leviatano (cap. 13) troviamo scritto: "così io metto in primo luogo a titolo di inclinazione generale di tutta l’umanità un desiderio perpetuo e senza tregua di acquistar potere su potere, desiderio che cessa solo con la morte". Lo sforzo di conservazione dà quindi vita all’ambizione, alla volontà di onnipotenza, alla vendetta, alla guerra di tutti contro tutti; è questa un’empirica (e non metafisica) deduzione del permanente conflitto tra gli individui: i rapporti interumani – nota Hobbes sulla scia di Machiavelli – sono sempre utilitaristici e consistono tendenzialmente nel commercio di poteri; da un lato, la volontà di potere è naturale e ineliminabile, dall’altro i rapporti sono utilitaristici e la società si configura come mercantile, cosicchè il mercato arriva ad abbracciare l’intera sfera dei rapporti umani. Specifiche dell’uomo sono la parola e la capacità di prevedere il futuro grazie al calcolo razionale che prevede in seguito all’osservazione empirica il ripresentarsi di certi effetti in seguito al ripresentarsi di certe cause: il futuro è dunque concepito in base al ragionamento e si configura come un cercar gli effetti futuri di una causa presente e tale prevedibilità dilata il desiderio dell’uomo, sicchè nessun essere vivente desidera tanto quanto l’uomo; ben si spiega, allora, la rapina di risorse che l’uomo attua verso l’ambiente. Gli animali, dal canto loro, hanno limitata previsione del futuro e il loro desiderio è meno frenetico; ma, del resto, la capacità di pensare e prefigurare l’avvenire è anche quella che permette all’uomo di svincolarsi dall’immediatezza presente: il patto sociale è dunque reso possibile dal linguaggio e dalla lungimiranza della ragione umana, ed è dunque l’uomo soltanto (e nessun altro animale) a poter uscire dal barbarico stato di natura. E così Hobbes può distinguere agevolmente tra ciò che è umano per natura e ciò che è umano per artificio: in particolare, sarà umano per natura lo stato di natura, mentre umano per artificio la civiltà che segue alla stipulazione del patto sociale. L'avvento della civiltà, tuttavia, non toglie, ma controlla lo stato di natura, trasformandolo utilmente: l’uomo è artefice dell’umanità sociale e questo perché dotato di due diverse tipologie di conoscenza. Da un lato, abbiamo la prudenza (anche gli animali ne sono provvisti), che si fonda semplicemente sul ricordo della successione degli eventi, senza implicare un ragionamento vero e proprio; dall’altro lato, la scienza è peculiare dell’uomo (manca agli animali) e di una ragione che sa elaborare regole generali ed intuire princìpi primi; ma tale ragione non viene concepita da Hobbes come facoltà formata, bensì come virtuale, è cioè un atto del raziocinio che si sviluppa con l’uso, sicchè può evolvere qualora l’uomo la eserciti. La ragione – inizialmente elementare, e cioè capace solo di prudenza – evolve gradatamente verso la scienza, ma si tratta di un tragitto tortuoso e disseminato di errori, un tragitto che può essere o non essere compiuto: non tutti gli uomini, infatti, sono in grado di percorrere tale strada, giacchè in essi, nello stato di natura, prevale la volontà di nuocersi a vicenda: ciò avviene perché la somiglianza dei bisogni genera il desiderio per gli stessi oggetti e porta necessariamente ad entrare in conflitto con gli altri individui. Nello stato di natura – nota acutamente Hobbes – la vita umana è addirittura più miserabile di quella degli animali, poiché gli uomini sono incessantemente tormentati dall’assillo del futuro che, moltiplicando il desiderio, moltiplica anche l’aggressività. E così nel De homine (libro X, cap. 3) Hobbes si domanda – secondo l’espressione di Plauto – se sia vero che homo homini lupus est, e, paradossalmente, arriva a rispondere che in realtà – nello stato di natura – homo homini est, il che è ben peggio, giacchè – come abbiam detto – nello stato di natura gli uomini son ben più aggressivi degli animali: non c’è nulla di peggio che avere a che fare con gli uomini. Lo stato di natura è – secondo Hobbes – lo stato dei calcoli sbagliati, del calcolo elementare e, perciò, miope: alla prudenza manca la lungimiranza, e la ragione nel suo livello elementare calcola, sì, ma non in maniera sufficientemente lungimirante; ma non appena il calcolo dell’utile si fa più chiaro e coerente, ecco che allora l’uomo si orienta verso la pace, istituendo la vita sociale nelle strutture statali, nelle quali trova quella garanzia di sicurezza che lo stato di natura non è in grado di fornire. La contrapposizione di Hobbes con Aristotele è evidente e l’antiteticità delle prospettive non potrebbe essere più radicale; per Aristotele l’uomo è "animale politico" per natura, a tal punto che "tutti gli uomini sono portati da un’inclinazione naturale alla vita in società" (Politica, 1253 A); viceversa, per Hobbes l’uomo non nasce in tale disposizione naturale alla società, ma anzi la parola e il calcolo razionale, nella loro immediatezza, lo allontanano vistosamente dalla società stessa, cosicchè l’eventuale concordia tra gli uomini si instaura solo sormontando una tale naturale discordia: tale concordia, pertanto, è meramente artificiale, oggetto di un’istituzione arbitraria e convenzionale, ed essa è il frutto "del timore e del calcolo, ma di un secondo e più raffinato calcolo della ragione"; sull’altro versante, la società di natura poggia sul "terrore" e su un "imperfetto calcolo della ragione". Troviamo qui contrapposti il terrore ferino e il timore umano: il terrore è terrore della morte che uomini e animali condividono nello stato di natura, mentre il timore è timore non della morte in quanto tale, ma della morte violenta, ed è uno stato d’animo che si integra e si produce nel secondo calcolo della ragione, quel calcolo che porta alla conclusione che solo la pace ci permette di morire di morte naturale, senza interrompere prematuramente il ciclo naturale dell’esistenza; il timore, quindi, è lungimirante, sa vedere da lontano la convenienza della pace, ed è tale timore a socializzare e a civilizzare l’uomo: proprio in ciò risiede la differenza tra l’uomo – naturalmente non socievole – e quelle specie di animali (le api, le termiti, le formiche, ecc) che sono spontaneamente socievoli. E’ dunque questo secondo calcolo, che mette in luce la convenienza della pace collettiva ai fini della sicurezza individuale, ad interrompere lo stato di natura, ma questo passaggio non è necessario, bensì possibile (può avvenire o non avvenire); si tratta di un calcolo che, esercitando uno sforzo, inverte la direzione puramente individualistica dell’io, ed è pertanto una convenzione imposta ad arte allo stato naturale. Ma – domandiamoci – quale è la differenza tra arte e natura? I teologi distinguevano la natura, intesa come il meramente umano, dalla grazia, concepita invece come ciò che trascende l’umano e si innesta su di esso; e l’arte – che distinguiamo dalla natura e, anzi, ad essa contrapponiamo – è certamente inclusa nella natura dell’uomo, ma da essa si distingue come qualcosa di non immediatamente dato: l’arte è ciò che la natura umana sviluppa mediante apprendimento (ars longa, vita brevis, secondo un antico detto proverbiale), e ciò vuol dire che l’arte è ciò che la natura produce con sforzo: esempio classico è quello dell’artista; egli è tale naturalmente (poiché possiede talento naturale), ma passa da dilettante ad artista nella misura in cui – esercitandosi e sforzandosi, ovvero incrementando le doti naturali – sviluppa l’arte. Tornando a Hobbes, lo stato di natura è il dispiegarsi dell’istinto di conservazione e ciò implica il primo deficiente calcolo della ragione che porta alla volontà di dominio su tutto e su tutti; si tratta di un calcolo che vede solo nella capacità di ampliare sempre più e di far trionfare la propria aggressività. E’ un calcolo ancora irriflesso, nel senso che ad esso pervengono tutti gli individui dotati di capacità calcolatoria (anche certi animali vi giungono), sicchè comporta un minimo di riflessione razionale, e l’uomo, nella sua pura naturalità, è già sempre terrore e primo calcolo. Questa sua essenza si sviluppa (se non è ostacolata) nel calcolo di conquista del massimo potere, ed è per questo che si configura come antisocievole e come stato di guerra di tutti contro tutti. Il secondo calcolo non è spontaneo come il primo, bensì è l’uomo che deve imporselo (e imporlo agli altri), interrompendo in tal maniera (e rigettando) il primo calcolo e, di conseguenza, uscendo dall’immediatezza naturale. E’ sempre l’istinto di conservazione a portare al secondo calcolo, ma lo munisce dell’arte, che è lo strumento che porta l’uomo appunto a quel secondo calcolo: la natura umana immediatamente bellicosa è anche in grado di convertirsi alla socievolezza, alla società, che è una sua creazione artificiale. Ben si capisce, in un tal contesto, come la società, essendo frutto di compromessi e tensioni continue, di repressioni dell’immediatezza, sia una conquista sempre periclitante e in forse e tale da richiedere l’arte della politica per essere mantenuta in piedi; e, per di più, non si tratta del culmine della razionalità, ma di un’opzione a cui la ragione può o non può pervenire. La società civile, poi, include sempre al proprio interno lo stato di natura, giacchè l’aggressività è stata non eliminata, ma incanalata ed è sempre pronta a riesplodere. Così, tra stato di natura e civiltà vi è, ad un tempo, continuità e discontinuità: vi è sì una netta rottura con lo stato di natura, ma i due stati finiscono nella società civile per coabitare, essendo quello di natura sempre pronto a riemergere e, di fatto, ciò avviene ogni qual volta si contravvenga ad una legge positiva (rubando, uccidendo, ecc). La società sarà allora la rinuncia al libero uso della propria forza secondo il proprio calcolo individuale, mentre il secondo calcolo è collettivo e possibile: si tratta di due modi diversi di svilupparsi delle passioni, è cioè una diversa evoluzione dello stesso istinto di autoconservazione, sicchè siamo in presenza non di un’evoluzione naturale e irreversibile, né tantomeno di una libera scelta; dove c’è ragione lungimirante, c’è necessariamente il secondo calcolo? No, risponde Hobbes: la ragione è indispensabile ma, da sola, insufficiente per produrre il secondo calcolo, il quale avviene solamente se – accanto alla ragione – vi è la persuasione del calcolo stesso verso se stesso e, dunque, una sua produzione tramite lo sforzo. Si tratterà, allora, di un duplice sforzo: prima deve persuadersi della maggiore utilità del secondo calcolo e poi deve reprimere l’immediatezza, e del resto non si può parlare di libera scelta poiché siamo sempre e comunque determinati dallo sforzo. E’ poi anche necessario un influsso dell’ambiente circostante , tale da costringere alla seconda riflessione la ragione con un vero e proprio shock, che apra la mente e faccia vedere qualcosa che prima non si vedeva o si intravedeva soltanto; proprio come chi ha subito un primo infarto muta radicalmente il proprio stile di vita, facendo cose utili alla propria sopravvivenza perché indotto da tale trauma. Non è dunque una libera scelta, ma è una particolare evoluzione di una particolare ragione (la più sofisticata) promossa da particolari circostanze. Lo sforzo che la civiltà richiede è uno sforzo continuo: come l’artista deve incessantemente esercitarsi, così noi ci sforziamo ininterrottamente di controllarci e il continuo esercizio ci aiuta in ciò (come avviene con le buone maniere: dobbiamo reprimere forzatamente il naturalmente maleducati che siamo). La civiltà è dunque frutto di un egoismo illuminato, prodotto dallo sforzo che continuamente imbriglia la nostra spontanea naturalezza; Hobbes oscilla così tra un pessimismo derivatogli dal vedere l’uomo come naturalmente aggressivo e un ottimismo che nasce dalla possibilità di controllare tale aggressività intrinseca e di trasformarla in strumento di benessere; ma, in fin dei conti, egli resta più pessimista che non ottimista, dal momento che è profondamente convinto che l’umanità sia ripartita in un folto stuolo di stolti e in una ristretta cerchia di dotati di ragione, e – per di più – tra questi pochi l’evoluzione della ragione non sempre avviene, occorre ch’essa sia tale da poter evolvere, e i più restano da ciò esclusi, sono incapaci di ragionare correttamente, ecco perché i più sono inadatti alla società. Ma già nella prudenza è in qualche modo avvertita la legge naturale che invita l’uomo alla pace: quel tanto di ragione che basta a governare la propria famiglia privata è già in grado di percepire la legge naturale (il precetto del "non fare agli altri ciò che non vorresti venisse fatto a te"), è cioè capace di aver sentore (anche se si tratta di un sentore nebuloso) di ciò, pur mancando della lucidità che consenta di comprendere la bontà della legge naturale, la quale da sola non può esser la norma di riferimento oggettivo accettata da tutti; occorre invece un’autorità che la imponga come legge positiva. Sebbene la ragione prima abbia sentore, non ha le capacità di cogliere la bontà della pace: ci vuole un’acquisizione artificiale, è la ragione scientifica che arriva ad un calcolo più complesso che si traduce nelle prime due leggi della natura: a) il diritto a tutto non va conservato, ma certi diritti vanno trasferiti o abbandonati; b) si deve stare ai patti e rispettare la parola data. Da quell’oscura e istintiva spinta verso la pace che nello stato di natura non si traduce in riflessione la ragione deduce queste due leggi, cosicchè Hobbes ne evince che "nello stato di natura si conduce una vita povera, solitaria e breve". E perciò si passa alla civiltà, nella misura in cui la conservazione non è più vista in prospettiva individualistica, ma collettivistica: conservando la vita altrui, conservo la mia; ed è in questo momento che al di là della forza si scopre la forza/lavoro; nello stato di natura, infatti, la forza era vista come mezzo di violenza, ora invece la si scopre anche nella sua positiva valenza lavorativa. Si attua poi un trasferimento di forza dagli individui alla potenza sovrana, e ciò avviene con una rinuncia al libero uso della forza secondo il proprio calcolo individuale: la forza è delegata al potere sovrano del monarca oppure dell’assemblea (ma Hobbes scarta subito questa seconda possibilità), e ad esso è demandato il calcolo teleologico dell’utile comune. E quando gli stati fanno la guerra si ritrovano improvvisamente nello stato di natura. Ci troviamo in presenza di tre diversi tipi di individui, ciascuno con la sua propria morale: l’uomo di natura, il sovrano, il cittadino. Fermo restando che l’uomo di natura non è qualcosa di storicamente e geograficamente esistente (ma piuttosto un modello ideale), la sua morale è di ordine egocentrico: l’io è il primo e l’ultimo dei suoi beni. Nello stato civile, invece, bene e male, giusto e ingiusto sono convenuti e sanciti dalle leggi emanate dal sovrano, il quale perciò è esentato dall’osservanza di tali leggi: l’unica legge cui egli deve sottostare è quella che prescrive la salvezza del popolo (salus populi suprema lex), e in base a ciò egli può attuare la deroga delle varie leggi promulgate. Il cittadino non è meno pieno di desideri rispetto all’uomo naturale, ma è tale in una prospettiva di ulteriore razionalizzazione che sfocia nella modestia e nella socievolezza. Hobbes opta dunque per il Leviatano, per il patto sociale che conferisce al sovrano potere assoluto, e ciò in forza del pessimismo antropologico che connota il pensiero hobbesiano (di matrice machiavellica): tale sfiducia nel genere umano nasce in Hobbes anche per il triste periodo storico in cui egli è vissuto, un’era sconvolta dalle cruente guerre di religione, sicchè egli arriva a dire che qualsiasi forma di governo è meglio rispetto all’anarchia e alla guerra civile; ci vuole cioè un potere assoluto che costringa gli uomini al patto sociale, reprimendo l’aggressività umana e le passioni che dominano i più. Il pessimismo antropologico resta il presupposto di ogni pensiero reazionario. L’etica hobbesiana risulta dunque scandita in tre momenti distinti: in primis, abbiamo il selvaggio stato di natura, in cui ciascuno è nemico potenziale di ogni altro, e la legge morale vigente è quella del più forte; in secundis, subentra il patto sociale, con il quale ogni individuo persegue il proprio interesse subordinandolo a quello comune e delegando il potere al sovrano, il quale tuttavia – pur essendo svincolato dalle leggi – non può agire del tutto liberamente, giacchè ogni sua azione deve sempre e comunque mirare alla sicurezza comune. Infine, il terzo momento è quello che si ha quando si sviluppa pienamente la società civile, con l’etica del cittadino corrispondente all’uomo moderno. Si tratta dell’etica frutto della lungimiranza della ragione, la quale astutamente intuisce come sia conveniente tutelare l’interesse del singolo inserendolo in quello più ampio della collettività. Da tale concezione deriva necessariamente una prospettiva in cui ad esser virtù son le passioni, abilmente pilotate (in vista dell’utile) dalla ragione stessa: alcune passioni – nota Hobbes – sono virtù, altre sono invece vizi; più precisamente, virtù saranno quelle passioni che consentono una vita felice, comune e comoda, mentre vizi saranno quelle che spingono in direzione antitetica. E così quando Hobbes parla di modestia, di virtù e di egoismo dobbiamo immaginarci delle passioni sotto la ferrea guida della ragione, e tutte queste virtù confluiscono in quella della socievolezza, che di tutte è la principale. Sicchè clemenza, gratitudine e le mille altre "virtù" altro non sono se non l’interessata adesione al patto sociale, cosicchè la socievolezza corrisponderà al servire Lo Stato, ossia all’osservare le leggi in esso vigenti e all’aiutare i cittadini a soddisfare i loro legittimi interessi nel quadro dell’interesse particolare che ciascuno persegue. La socievolezza di cui parlava Aristotele (connaturata all’uomo) era quella praticata dal sapiente virtuoso che, abbandonato il punto di vista comune, coglie la giustizia e la esercita, esercitando con essa tutte le virtù etiche, le quali non sono più passioni utilmente guidate dalla ragione (come invece crede Hobbes). Il cittadino così come lo immagina Hobbes configura l’uomo moderno quale era stato tratteggiato da Machiavelli e da Castiglione, un uomo che sa di essere sempre e comunque interessato, che il bene e il giusto sono convenzionali e che in vista del loro raggiungimento si codifica il comportamento ritenuto giusto e buono: l’uomo moderno è dunque pienamente cosciente del fatto che la legislazione è positiva, cioè – appunto – posta in maniera convenuta, e non dettata dalla natura. Ne seguirà che, nell’età moderna, il giusto comportamento da adottare sarà quello consistente nell’attenersi alle leggi, prescindendo dalle intenzioni retrostanti: e se un etico o un religioso pretendono di aggiungere alla legalità la moralità disinteressata, ciò ai moderni non interessa minimamente, giacchè a contare per davvero è il rispetto esteriore delle leggi scritte e di quelle non scritte (le buone maniere); sicchè il vero buon cittadino è quello rispettoso delle leggi e osservante delle buone maniere, rinunciatario della Verità e della Virtù, ma non del sapere o dell’agire bene: sia il sapere sia l’agire bene vengono ristretti e, perciò, risultano incredibilmente efficaci. Pensiamo, a tal proposito, al sapere scientifico, indubbiamente limitatissimo se raffrontato con quello metafisico, o all’agire bene – cioè attenendosi a ciò che le leggi prescrivono -, che senz’altro è limitato rispetto alla pratica della virtù aristotelicamente intesa, ma, edotto dei limiti della ragione, risulta maggiormente civilizzatore di quanto non fosse la metafisica. Quest’etica dell’utile che abbiamo finora tracciato impiega secoli per affermarsi e diventare dominante, e tende spesso a convivere (ancora oggi in parte è così) con un’ideologia ufficiale corrispondente ai dettami dell’etica tradizionale; ciò appare evidente soprattutto se volgiamo lo sguardo all’arte, la quale per lo più raffigura personaggi incarnanti gli eroi dell’etica tradizionale, quali possono essere il re magnanimo o i santi. Ma tale autorappresentazione mendace che la società continua sottobanco ad offrire di sè si accompagna con il pragmatismo tipicamente moderno, basato sulla legalità e sulle buone maniere. E più l’illuminismo avanza, più l’etica moderna prende coscienza di sé, combattendo quella metafisica: le nuove virtù vengono presentate ufficialmente (ed è la borghesia a farlo) come rispetto della legge, protestando implicitamente contro i privilegi (la polizia privata, la nobiltà di sangue, l’intoccabilità dalla legge, ecc) di cui ancora si ammantavano i nobili; perciò rivendicare come virtù l’osservanza delle leggi significa protestare e promuovere una riformulazione del patto sociale che renda caduco quello feudale ancora vigente, esaltando l’antiaristotelica e antiaristocratica laboriosità, la voglia di primeggiare contro l’ozio di chi vive dei diritti ereditari acquisiti; in sostanza, nasce la sempre più forte esigenza di essere riconosciuti per quel che si vale nella società, dando così vita ad una nuova giustizia che sancisca l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge. In questa maniera, dalla moralità si passa alla legalità, dall’eroismo e dalla santità all’urbanità e all’affabilità, dal rigorismo e dall’ascetismo (chimerici, oltrechè inutili) ad una realistica rilassatezza dei costumi, dove acquisiscono sempre maggiore importanza le comodità e il benessere: comincia allora a prospettarsi una sempre maggiore esteticizzazione della vita, e ciò pare confermato da quel progressivo slittamento terminologico inaugurato da Machiavelli. Nel pensatore toscano il termine "virtù" era sinonimo di "utilità": ora, similmente, le buone maniere divengono anche le belle maniere, e così la "gente bene" è gente bella, e l’onest’uomo e il galant’uomo sono onesti e insieme piacevoli; in altri termini, l’utile si accompagna al bello. Charles Perrault – a metà Seicento -, dissertando sulla differenza fra gli antichi e i moderni (e schierandosi palesemente dalla parte dei moderni), scrive, nel suo Parallelo degli antichi e dei moderni: "ciò che distingue in particolare il bel mondo e i galant’uomini dal popolo minuto è ciò che l’eleganza greca e l’urbanità romana hanno cominciato e che l’educazione degli ultimi tempi ha portato ad un grado superiore di perfezione". L’onest’uomo in questione coincide con l’uomo utilmente convenuto dalla ragione mediatrice fra gli amor propri, delineando il savoir vivre in un mondo che è conflitto perenne di interessi che devono essere mediati e composti. Così l’onest’uomo in questo mondo si comporterà come mediatore, e non come un elefante in un negozio di cristalli. Il patto sociale potrà dunque essere opportunamente ritoccato per evitare di ripiombare nella guerra di tutti contro tutti, e per rendere più agevole e comoda la vita. Ne segue il mutare della concezione antropologica di fondo: dal profondo pessimismo nutrito da Machiavelli e da Hobbes, avente in sede politica esiti tragicamente reazionari, si passa all’ottimismo antropologico di cui si alimentano (in buona parte, anche se non tutti) gli Illuministi, meno pessimisti circa la ragionevolezza a cui gli uomini – mediante un’acconcia educazione – possono essere portati; sicchè il tasso di civiltà potrà essere incrementato e, quindi, si potrà procedere verso una sempre maggiore democrazia: quest’ultima potrebbe a ragion veduta essere definita come una continua ridiscussione e rivisitazione del patto sociale, ritenuto non come un qualcosa di fissato una volta per tutte, ma sempre pronto ad essere corretto in vista dell’utile. E, paradossalmente, è proprio tale prospettiva dell’utile - riconoscente l’ineluttabilità delle passioni - a poter civilizzare il mondo, riuscendo laddove la metafisica e la religione hanno miseramente fallito. Che la metafisica non sia riuscita a civilizzare il mondo è un dato di fatto, su cui non vale neanche la pena discutere; ma che ciò valga anche per la religione è – forse – questione più controversa, soprattutto se teniamo conto di una certa tradizione storiografica che tende a vedere i valori più squisitamente moderni (la libertà, l’uguaglianza, la fratellanza) come secolarizzazione di valori cristiani: questa corrente storiografica fa infatti leva su come (nella tradizione cristiana) tutti gli uomini siano figli di un unico Dio, e perciò uguali e fratelli; ma si tratta, in realtà, di un inganno ottico dovuto a scarsa cultura teologica, poiché l’annuncio cristiano della libertà, dell’uguaglianza e della fratellanza non ha nulla a che fare con l’esistenza mondana e, quindi, con la struttura della società. In particolare, se leggiamo le Scritture, ci accorgiamo di come figli di Dio siano solo i prescelti e, fra loro, gli eletti; allo stesso modo, la libertà di cui si parla nei Testi Sacri è libertà dal peccato, non libertà socio/politica; infine, l’uguaglianza è meramente fantasiosa, e per accorgersene basta volgere lo sguardo alle rigide gerarchie nella struttura ecclesiastica. Del resto, la cosiddetta "predestinazione doppia" (quella in forza della quale alcuni individui sarebbero ab aeterno destinati alla salvezza) non è nozione esclusivamente luterana e calvinista, ma anche cattolica: Dio ha ab aeterno predestinato alcuni eletti alla salvezza, altri alla dannazione, come ha vigorosamente ribadito il Concilio di Trento e come sostiene lo stesso Tommaso; lo stesso san Paolo si muove esplicitamente in una siffatta prospettiva. Se ne ricava, allora, che tali princìpi di uguaglianza, di libertà e di fraternità valgono solo coram Deo, e non coram hominibus, tant’è vero che le società in cui il cristianesimo è stata religione dominante non son certo state modelli di libertà o di uguaglianza; in particolare, il cristianesimo non ha preso posizione né contro la schiavitù né contro le differenze sociali, come affiora chiaramente da diversi passi di san Paolo. Nella prima lettera a Timoteo (6, 1, 12) egli dice: "quelli che si trovano sotto il giogo della schiavitù, trattino con ogni rispetto i loro padroni, perché non vengano bestemmiati il nome di Dio e la dottrina. Quelli poi che hanno padroni credenti, non manchino loro di riguardo perché sono fratelli, ma li servano ancora meglio, proprio perché sono credenti e amati coloro che ricevono i loro servizi". Ancora, nella lettera agli Efesini (6), san Paolo scrive: "schiavi, obbedite ai vostri padroni secondo la carne con timore e tremore, con semplicità di spirito, come a Cristo, e non servendo per essere visti, come per piacere agli uomini, ma come servi di Cristo, compiendo la volontà di Dio": ben emerge come è per volontà di Dio che esistano gli schiavi ed i padroni, e come anzi gli schiavi siano tenuti a servirli umilmente. Ancora nella lettera ai Colossesi (3,22, 24) scrive san Paolo: "voi, servi, siate docili in tutto con i vostri padroni terreni". La schiavitù, pertanto, non solo non è stata abolita dai cristiani, ma anzi è stata da essi praticata forse più barbaramente che non dagli antichi, il che è del resto provato dalla vergognosa tratta dei neri da parte della cattolicissima Spagna. Da tutto ciò risulta dunque piuttosto ingenua la tesi che vede nei valori cristiani la base della modernità: si tratta – a dir poco – di un equivoco, nato da un’indebita sovrapposizione del mondo celeste (dove per il cristiano trionferà la giustizia) con quello terreno (dove è invece giusto che dilaghino le sopraffazioni ai danni dei più deboli). La fratellanza, la libertà e l’uguaglianza che costituiscono le fondamenta dell’età moderna sono allora il frutto di una lunga lotta (concretizzatasi soprattutto nella Rivoluzione Francese) condotta dai "deboli" inappagati dalle fumose promesse di una felicità posticipata ad un’altra vita, una lunga lotta condotta anche contro il potere di quella Chiesa che tutto ha fatto fuorchè propiziare l’avvento della democrazia e della civiltà; è stata una lotta nella quale è assurta a stratega la ragione calcolatrice, la quale ha scoperto la libertà dall’arbitrio, l’uguaglianza di fronte ad una legge pattuita fra gli uomini e la reciproca utilità della solidarietà. L’arretratezza di cui si è nella storia fatta portavoce la Chiesa è testimoniata, oltrechè dai tristi episodi della tratta schiavile, anche dalla concezione della donna che emerge dalla lettura dei Testi Sacri e che i cristiani hanno sempre sostenuto; leggendo la prima epistola a Timoteo (1, 11) di san Paolo, ci imbattiamo in una concezione della donna a dir poco arretrata, forse anche più di quella degli antichi Greci: "la donna impari in silenzio, con tutta sottomissione. Non concedo a nessuna donna di insegnare, né di dettare legge all'uomo; piuttosto se ne stia in atteggiamento tranquillo. Perché prima è stato formato Adamo e poi Eva; e non fu Adamo ad essere ingannato, ma fu la donna che, ingannata, si rese colpevole di trasgressione. Essa potrà essere salvata partorendo figli, a condizione di perseverare nella fede, nella carità e nella santificazione, con modestia". Una pari arretratezza traspare nell’affrontare il problema della pena di morte, intorno alla quale è fiorito soprattutto in epoche recenti un vivacissimo dibattito, mentre per secoli nessuno (salvo sporadiche eccezioni) si era interrogato seriamente su tali problematiche. E’ invece la ragione che, nel suo momento più felice – l’età illuministica, non a caso battezzata come "età della ragione" -, ha messo in discussione, tra le tante cose, anche la pena di morte: soprattutto nella Lombardia asburgica si è sviluppato il dibattito, promosso da Pietro Verri e magistralmente affrontato da Cesare Beccaria nel suo Dei delitti e delle pene, dibattito che porterà concretamente – nel 1786 – all’abolizione della pena di morte nel Gran Ducato di Toscana. Cos’ha fatto sì che improvvisamente, in età illuministica, si mettesse in dubbio ciò che da sempre veniva accettato? Prima che esplodesse la modernità, a prevalere era stata una concezione metafisico/religiosa della giustizia, una concezione tale da ritenere conoscibile (o grazie alla ragione onnipossente o grazie alla Rivelazione) il giusto e naturale ordine delle cose; in una tale prospettiva, l’esercizio pratico della giustizia è far sì che ogni cosa sia ciò che deve essere, ponendola al giusto posto fra le altre: una siffatta concezione (condivisa da Aristotele, da Ulpiano e da Agostino) è sintetizzabile nell’espressione suum unicuique tribuere, rispettando il giusto ordine delle cose. Alla pena sarà allora, per i metafisici e per i religiosi, attribuita funzione comparativa, ed infliggere la pena equivarrà a restaurare la giustizia annullando il reato attraverso una giusta compensazione che ripristini la situazione di equilibrio antecedente al reato: il termine greco punh, da cui deriva il nostro "pena", significa appunto "compenso", "soddisfazione", ed è in quest’accezione che lo intendono i religiosi ed i metafisici. Caso classico è quello del denaro che il ladro deve restituire alla persona derubata. Ancora Hegel – in pieno Ottocento – sostiene che la pena è "negazione della negazione", poiché, se il reato nega l’ordine, a sua volta la pena nega il reato. Nel caso poi di reati particolarmente gravi, la pena potrà soddisfare solamente se viene impedito il ripetersi del reato: ed è per questo che si tagliava la mano al ladro, la lingua al mentitore, e si comminava la pena di morte in certi casi ancora più gravi; quando ad esempio è stata uccisa una persona, poiché è impossibile riportarla in vita, si può (e anzi si deve) attribuire sorte analoga all’assassino. Similmente, quando il reo è un corpo estraneo all’ordine della giustizia, deve essere neutralizzato fisicamente: così si esprime lo stesso Platone, quando asserisce (Protagora, 322 d) che "l’uccisione degli uomini incapaci di giustizia è comando divino". Tutto cambia, però, con l’abbandono del pensiero metafisico e con il trionfo di quello moderno: mutano sia la concezione della giustizia sia quella della pena; la prospettiva metafisica cede il passo ad una convenzionalistica e utilitaristica concezione della giustizia, la quale cessa così di essere un ordine precostituito che gli uomini sono tenuti a riconoscere conformando ad esso le loro leggi, e viene invece considerata come il frutto di un accordo tra i contraenti del patto sociale. Questi ultimi la individuano in ciò che essi convengono essere il bene supremo e il fine ultimo della società a cui danno vita: Hume dice significativamente che il fine ultimo della società è "tutto quanto torna utile alla società, alla sua conservazione e, soprattutto, alla prosperità dei suoi membri", e tale veduta è pienamente condivisa dallo stesso Beccaria, che – nel paragrafo 7 di Dei delitti e delle pene – scrive: "la sola necessità ha fatto nascere dall'urto delle passioni e dalle opposizioni degl'interessi l'idea della utilità comune, che è la base della giustizia umana". Pertanto giusti saran ritenuti quei comportamenti che concorrono al raggiungimento di quel fine e giuste tutte quelle leggi efficaci a tutelare i diritti degli aderenti al patto, ossia il diritto al raggiungimento di quel fine: ben si intuisce come le leggi non scaturiscano dalla verità delle cose stesse, ma siano poste in essere dall’autorità del legislatore esprimente il comune accordo su ciò che è giusto perché utile. In questa mutata concezione della giustizia, la pena non ha più funzione compensativa, ma di difesa sociale, fondamentalmente rivolta ad evitare un reato futuro dissuadendo: la sua funzione è allora deterrente, agisce come prevenzione mirante a trattenere le persone dal delinquere e i delinquenti dal delinquere ancora; sicchè Beccaria può scrivere, nel capitolo 12: "il fine delle pene non è di tormentare ed affliggere un essere sensibile, né di disfare un delitto già commesso. […] Il fine dunque non è altro che d'impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi cittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali. Quelle pene dunque e quel metodo d'infliggerle deve esser prescelto che, serbata la proporzione, farà una impressione piú efficace e piú durevole sugli animi degli uomini, e la meno tormentosa sul corpo del reo". La pena ha dunque fine politico, mirante alla difesa della città in cui si vive: e se il fine è quello di salvaguardare l’interesse generale, non è affatto scontato che la pena capitale sia proporzionata a tale fine, nasce anzi il dubbio che essa possa essere sproporzionata e inefficace a conseguire lo scopo prefisso. Se, come dice Bentham, ha lo scopo di "stimolante della condotta umana", ossia serve a prevenire determinati comportamenti nocivi alla collettività, si potranno allora trovare forme alternative di pena (magari l’ergastolo o i lavori forzati), che assolvano meglio a questo compito dissuasivo, ed è in tale ottica che ci si domanda se sia ancora utile la pena di morte, anche se – ad essere onesti – un dibattito così strutturato pare irrisolvibile, giacchè ci si muove sul piano delle opinioni, e non delle verità immutabili. Eppure ci si può rifare ad un secondo argomento per mettere in luce in maniera inoppugnabile l’inutilità della pena di morte: l’errore giudiziario, il quale acquista, nella moderna concezione giuridica, un’importanza mai conosciuta prima. Nell’età precedente a quella moderna, si riteneva di poter conoscere la Verità delle cose, sicchè l’errore giudiziario era un errore trascurabile e, per di più, tale eventualità perdeva peso di fronte alla posta in gioco (la restaurazione del giusto ordine delle cose dopo il sovvertimento operato dal reato), come a dire "pur di salvare l’ordine delle cose, va bene anche se muore un innocente". Presso i moderni, invece, vige la convinzione della limitatezza e della fallibilità della ragione umana e da ciò deriva che l’errore giudiziario è non solo possibile, ma anche largamente diffuso, cosicchè dobbiamo essere sempre pronti a correggere la sentenza pronunciata in tribunale, cosa che evidentemente non potrebbe avvenire dopo che abbiamo ucciso il diretto interessato. Con ciò è ancora una volta messa in luce l’inutilità della pena di morte, peraltro sostenuta anche dal fatto che il patto sociale implichi reciprocità: pretende dagli aderenti la legalità, ma offre ad essi protezione da parte della società, sicchè, nel momento stesso in cui lo Stato giustizia un individuo, sta violando il patto sociale, ripiombando nel selvaggio stato di natura. Infine ci si potrebbe ancora domandare: che senso ha dissuadere dall’uccidere uccidendo? Come si può pensare di uccidere per far vedere che è sbagliato uccidere?


Corso tenuto dal professor Alessandro Klein nella primavera 2003 presso l'Università di Torino

http://www.filosofico.net/fi1lmoraleintrodx.htm

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