LA LOTTA TRA LE PASSIONI E LA RAGIONE
ANTICHITA’
I problemi di filosofia morale, dall’antichità ad oggi, sono andati incontro
a notevoli sviluppi ed evoluzioni: morale deriva dal latino mos, che
significa "costume", sicchè la filosofia morale avrà a che fare con la domanda
"come devo comportarmi?", a sua volta connessa ad un’altra questione: "che cosa
è il bene? Per me? E per gli altri? E la relazione tra il bene per me e quello
per gli altri?" Risulta fin da ora evidente come, per poter capire che cosa sia
il bene per me, io debba preliminarmente capire chi sono io e, di conseguenza,
che cosa sono gli uomini. Ne consegue che non possiamo interrogarci sulla morale
se non partendo dalla filosofia in generale, soprattutto quella greca, che ha
lucidamente formulato tutte le domande possibili. Ci imbattiamo subito in una
radicale differenza tra la storia come magistra vitae (maestra di vita) e
la filosofia come meditatio mortis, secondo l’interpretazione che dà
Platone nel Fedone (60 d, e seguenti): prendendo alla lettera queste due
massime, sembrerebbe che alla storia spetti il compito indubbiamente più
gratificante di guida nella vita, di narrazione di ciò che è avvenuto, mentre
alla filosofia toccherebbe l’ufficio più opprimente di riflettere sulla morte.
Tutto ciò può essere facilmente smentito se teniamo presente la scarsa
attenzione e la poca importanza riservata dagli antichi alla storia: già
Aristotele - nella "Poetica" – opera una distinzione tra storici e poeti,
mettendo in luce come i primi si limitino alla cronaca degli accadimenti,
registrati nel loro singolare e contingente succedersi, mentre i secondi (alla
pari dei filosofi) si occupano dell’universale, non di cosa accadde ad
Alcibiade, ma di cosa potrebbe accadere ad uno come Alcibiade, cogliendo in tal
modo i tratti eterni dell’universale umanità dell’uomo : narrano cioè le cose
oia an genoito, "quali
potrebbero avvenire". Anche il filosofo si occupa dell’universale, in quanto si
sforza di conoscere ciò che accomuna determinate cose, costituendone – al di là
delle loro accidentali differenze individuali – il vero essere che le identifica
per quelle che sono. In questa prospettiva, l’arte e la filosofia si pongono al
di sopra del sapere proprio dello storico, confinato al particolare e alla
banale catalogazione degli aventi. Un’analoga svalutazione della storia – forse
anche più accentuata che in Aristotele – troviamo in Schopenhauer, il quale dice
che gli oggetti della storia sono gli uomini e le loro imprese nel loro contesto
storico, ricostruito dalla storia su un piano illustrativo; secondo il filosofo
tedesco – in sintonia con Aristotele – se poesia e filosofia conoscono l’uomo in
quanto tale, il filosofo coglie l’in sé di quelle cose che lo storico si limita
ad elencare. Tutte queste considerazioni ci inducono a rivedere le due massime
da cui siamo partiti: la storia è maestra di vita nel senso che, esibendoci il
comportamento degli uomini, ci introduce alle innumerevoli difficoltà del vivere
nel tempo, ma non è in grado di fornirci spiegazioni di più vasta portata. E’,
in altri termini, maestra di vita nella misura in cui illustra il disagio
esistenziale: dal canto suo, la filosofia è meditazione sulla morte nel senso
che ha a che fare con questioni ultime e di ordine generale, tanto più che il
filosofo stesso implica una morte. Infatti, questa superiorità della filosofia
sulla storia e, più in generale, sul punto di vista comune è segnalata dalle
grandi difficoltà che l’accesso al punto di vista filosofico implica. Questo
passaggio – dal punto di vista comune a quello filosofico – comporta un
autentico trauma, paragonabile a quello della conversione religiosa o del
passaggio dall’adolescenza all’età adulta, sicchè non è sbagliato dire che si
tratta di una morte e di una rinascita: muore il vecchio (il punto di vista
comune, o – per restare alla metafora della religione – il profano) e nasce il
nuovo (il punto di vista filosofico, o il religioso). Il processo è pertanto
accompagnato sia dai dolori della morte del vecchio sia da quelli del parto con
cui viene al mondo il nuovo: questo passaggio lo troviamo per la prima volta
esposto nei dialoghi platonici, il cui protagonista – Socrate – è l’ostetrico
del filosofare, colui che ha assistito e coadiuvato la nascita del punto di
vista filosofico, e ciò implica che egli inevitabilmente sia il becchino del
punto di vista comune. Seguendo Platone, assistiamo al nascere e al crescere del
filosofare, all’individuarsi e al distinguersi dei diversi punti di vista in
virtù di una curiosità radicale e insoddisfatta di ciò che via via si trova a
sapere. Viene in tal modo a delinearsi una netta separazione tra le opinioni
(doxai) – proprie del punto
di vista comune - e la scienza (episthmh) – propria del sapere filosofico: le
prime sono suscettibili di essere vere o false, mentre la seconda è solidamente
radicata nel vero. Nel Teeteto (180 e) Socrate si domanda: "chiami tu
pensare quel che chiamo io? Un discorso che fra sé e sé l’anima tiene su ciò che
esamina […]. Altro non è l’anima se non un discorrere". Ciascuno di noi, secondo
Platone, quando pensa è come se dialogasse tra sé e sé: ed è per questa ragione
che il filosofo ateniese ravvisa nel dialogo la forma più adatta per fare
filosofia, preferendola di gran lunga alla trattatistica. Le opinioni, ad avviso
di Platone, sono acritiche, infondate e passivamente subite, mentre la scienza è
costantemente critica e frutto della ragione, giudica e mette in krisiV un’opinione, mette in crisi ogni
sapere dubbio, ogni pregiudizio ("si dice", "si crede", ecc): così si spiega
come, se la filosofia è dialogo, l’opinione è invece monologo, assolutamente
priva di confronti e aperture. In questo senso, l’Oriente non greco monologa, e
infatti non scrive dialoghi ma libri sapienziali, mentre sono i Greci a scoprire
la filosofia, intesa come messa in discussione di tutto, smascherando le
opinioni, qualunque sia l’autorità di cui esse si ammantano. Si tratta,
naturalmente, di un passaggio doloroso, giacchè si abbandona il certo per
l’incerto, il noto per l’ignoto: e non è un caso che la filosofia nasca con
l’assassinio del suo ostetrico Socrate; mentre l’innocenza è immediata e,
perciò, più fragile, la virtù non è immediata e dunque è meno fragile, poiché è
stata messa alla prova. Il sapere filosofico, dai Greci ad oggi, è andato
sviluppandosi lungo due direttrici: da un lato, dopo aver attraversato il
fondamentale momento della critica delle opinioni, si articola in una visione
onnicomprensiva e metafisica del mondo (Leibniz, Kant, Hegel, Marx); dall’altro,
si è sviluppato un sapere in cui la riflessione critica della ragione non
costituisce solo un momento imprescindibile, bensì costituisce essa stessa
l’aspetto fondamentale di un filosofare in cui permangono dubbi e difficoltà di
conoscenza: si tratta di un sapere lontano dalle pretese onnicomprensive e
metafisiche, un sapere che procede con circospezione, che formula congetture più
che teoremi. Tra i suoi esponenti - antichi, moderni e contemporanei (giacchè
questa forma di pensiero è tipica dell’età moderna e contemporanea) - possiamo
ricordare i Sofisti, gli Scettici, i Cinici, i Cirenaici, i Megarici,
Machiavelli, Hobbes, Montaigne, Erasmo, Vattimo. Assodata la diversità tra punto
di vista comune e punto di vista filosofico, si può anche vivere senza
filosofare, cosicchè la filosofia sarebbe qualcosa di accessorio e di cui si
potrebbe benissimo fare a meno (anche se contro questa tesi si schiera
apertamente Aristotele nel Protreptico). Del resto, che la filosofia sia
un lusso pare tramandato dalla massima primum vivere, deinde
philosophari, con la quale si mette in luce come la vita venga prima della
filosofia e come quest’ultima sia ad essa subordinata: ma – chiediamoci – se è
vero che si può vivere senza fare filosofia, è anche vero che si può vivere bene
senza fare filosofia? In particolare, sia Aristotele sia Bergosn distinguono tra
"vivere" e "vivere bene", domandandosi entrambi se il vivere non-bene possa
dirsi vivere. Anche il filosofo deve soddisfare i suoi bisogni primari (la sete,
la fame, ecc), altrimenti non sarebbe un essere umano ma un Dio: ciò non toglie,
però, che nella misura in cui filosofa, egli si dedica ad un’attività divina,
ingrediente della vita felice. Tuttavia, se considerati separatamente, sia il
sapere critico sia quello metafisico sono insufficienti: anche se, a prima
vista, sembrerebbe che i risultati del primo siano evidenti (quelli del secondo
appaiono infinitamente meno soddisfacenti). In quanto conoscenza del vero bene,
la ragione è confutazione delle passioni, sicchè queste nulla più possono contro
di essa: la ragione sa anche che cosa ogni cosa deve essere, che cosa è giusto
che ogni cosa sia. Attribuendo a ciascuno il suo, la ragione fa il giusto. Ma
nel corso della storia è anche andato spostandosi il punto di vista verso Dio:
se Tommaso è convinto che il teologo possa anticipare la scienza di Dio, la
filosofia è per Hegel "la domenica della vita", nel senso che è il
compimento più alto e l’ornamento più squisito della vita umana. Tutt’altra
concezione della ragione (e di Dio) è quella propria dei filosofi "critici", per
i quali – date le interminabili dispute che contrappongono tra loro i vari
pensatori – è impossibile raggiungere una verità ultima; addirittura, agli occhi
di costoro la metafisica , oltrechè inutile, appare nociva, poiché distrae dal
sapere coerente dei propri limiti intrinseci di essere umano che procede per
congetture e ipotesi, non per verità assolute. Questi pensatori tendono a
concepire il bene come l’utile collettivo che la ragione di volta in volta
individua e calcola: già Montaigne nota come basti spostarsi sull’altra sponda
del fiume per accorgersi che tutte le leggi e le usanze cambiano, cosicchè ciò
che di qua era lecito, di là non lo è. Emerge chiaramente, allora, come la
giustizia altro non sia se non il frutto di un accordo mirante al bene della
collettività, senza voler per questo arrivare alle note conclusioni di Trasimaco
(nella Repubblica di Platone) secondo cui "il giusto altro non è che
l'utile del più forte". E’ una ragione rinunciataria, che rinuncia alla
verità assoluta e si accontenta di piccole certezze acquisite un po’ alla volta.
Una prospettiva rinunciataria, sì, ma con funzione strumentale, non ornamentale:
mira infatti a promuovere un miglioramento della vita umana sulla terra anche
attraverso lo sviluppo di quella scienza sempre troppo poco considerata dalla
metafisica. Ecco perché la filosofia trasforma la vita vegetale in esercizio
critico e mosso da sincera curiosità, contraddistinguendoci da tutti gli altri
animali: per i metafisici, però, si tratta sempre della contemplazione della
verità assoluta, ma, sotto questo profilo, è la prospettiva critica (sofistica e
scettica) - tendente ad organizzare il nostro sapere terreno - a poter
effettivamente migliorare le nostre condizioni di vita terrene, ed è per questo
che oggigiorno tende a prevalere tale posizione. Ma dove va a finire la
metafisica? Possono gli uomini eticamente fare a meno dell’ornamento? Non è un
caso che nel Novecento l’architettura sia stata caratterizzata dall’abolizione
di ogni abbellimento, promuovendo esclusivamente il funzionalismo e la completa
oggettività. C’è anche stato chi ha detto che "l’ornamento è un delitto", una
sorta di reazione al culto del bello nella architettura liberty di inizio ‘900.
Ma possiamo abbandonare il superfluo? Può il sapere rimanere chiuso e fare a
meno di ogni forma di trascendenza? Forse la questione può essere, se non
risolta, almeno chiarita in analogia con il ruolo che Kant assegna alla
metafisica, da lui smascherata come un errore della mente umana, incline a
spingersi erroneamente al di là del sensibile e del finito: secondo Kant, la
metafisica è sì un errore, ma non per questo può essere debellata; così come
quando in riva al mare vediamo l’orizzonte più in alto e, pur sapendo che si
tratta di un’illusione, non per questo riusciamo a vederlo allo stesso livello
del mare. Così come la metafisica viene da Kant, in qualche maniera, relegata
all’ambito dell’ornamentale, impossibilitata ad una completa assolutizzazione,
similmente possiamo capire come, da una parte, il superfluo non vada mai
abbandonato e, dall’altra, come la metafisica rientri in tale
superfluo/ornamentale. Dicevamo che è con Platone e con i suoi dialoghi che vede
la luce la filosofia: ma il vero ostetrico del sapere filosofico è la figura di
Socrate, colui che distingue la scienza dalle opinioni, cerca spiegazioni
razionali, cerca di darsi ragione delle norme della propria condotta e del
proprio sapere vagliando criticamente le opinioni e distruggendole quando – come
spesso accade – si rivelano fasulle. Egli è armato dell’ironia e della
maieutica: la prima è la figura retorica con la quale si farebbe intendere il
contrario di ciò che si dice (cfr. Encyclopedie di Diderot; De
oratore, III, di Cicerone; Quintiliano). Ma il tono della voce segnala una
discrepanza tra il detto e il significato: se prendiamo il verbo greco
eironeuomai notiamo come
esso significhi "dissimulare", "nascondersi parlando", ma anche "canzonare",
"prendere in giro"; o eirwn , poi, vuol dire "colui che si spaccia per". L’ironia può essere dunque
definita come un espediente tecnico impiegato da avvocati e da oratori:
Quintiliano la tratteggia come un modo di relazionarsi con gli altri improntato
sulla comunicazione, un modo non soltanto indiretto, ma addirittura complicato e
articolato. Non sorprende, pertanto, che l’ "ironista" sia più preparato
rispetto al suo uditorio: il che si verifica soprattutto in due casi, quando
cioè l’interlocutore è ignorante (ma si crede colto), o anche quando è
intellettualmente debole, cosicchè gli si può dar ragione fino a che non vengano
alla luce tutte le contraddizioni derivanti dall’ammissione delle sue tesi. Chi
si avvale dell’ironia ne fa, in certo senso, un uso narcisistico, quasi
umiliante nei riguardi del proprio interlocutore, cosicchè non è sbagliato dire
che l’ironista esercita una forma di crudeltà verso gli altri, una sorta di
sadismo, un irresistibile gusto che si prova ad essere superiori. Così il
commediografo Aristofane fa del termine "ironista" un vero e proprio insulto con
cui zittire chi asseconda falsamente i propri interlocutori, fingendo
furbescamente di approvare le loro tesi; lo stesso Platone (Repubblica,
I) mette in bocca agli interlocutori di Socrate parole piuttosto aspre verso la
sua ironia canagliesca. Così, con Trasimaco finge di ignorare che cosa sia la
giustizia, sfugge alle domande che gli vengon poste appellandosi alla propria
ignoranza e spazientendo i propri interlocutori: si può allora dire che la
difficoltà della ricerca sia ironia? Platone libera il maestro Socrate dal luogo
comune mettendo in evidenza come l’ironia, propriamente, sia una relazione –
indiretta – con la verità e per questo motivo dotata di valenze pedagogiche,
poiché innalza l’interlocutore ad un sapere certo; così si ha l’impressione che
Socrate si faccia beffe di Trasimaco e degli altri protagonisti della
Repubblica, ma in realtà li incalza, li sprona come fa la mosca coi
cavalli e li fa uscire dal vicolo cieco dell’opinione verso la retta via della
scienza. In questo caso, la dissimulazione si configura quasi come una benevola
conquista, non come un gesto di mera superiorità dettata da uno sprezzante
orgoglio, poiché è finalizzata a portar fuori dal circolo della limitatezza:
l’interlocutore non è più schernito e deriso, ma soccorso, l’ironia sacrifica il
proprio sapere per redimere gli altri dall’ignoranza, è un abbassamento
(khnosiV), un farsi piccoli
per salvare gli altri. Ma – attenzione – ad abbassarsi è Socrate, non il sapere
in quanto tale, altrimenti l’ironia si trasformerebbe in divulgazione. Il
concetto greco di khnosiV
come "svuotamento" (in greco kenon significa "vuoto") lo ritroviamo nella teologia cristiana quando si
parla dell’incarnazione di Dio e della sua liberazione dal peccato: e, in
parallelo, c’è stato chi ha guardato in analogia alla figura di Socrate e di
Cristo (Hegel stesso lo fa), poiché sia con l’uno sia con l’altro si ha
un’autentica liberazione, ci si maschera per smascherare, si mistifica per
demistificare ciò che pare certo ma che, in realtà, non lo è affatto. In questo
senso, l’ironistica porta la guerra laddove c’è una pace illusoria, getta
scompiglio, spiazza, è – in altri termini – pars destruens ma, in certo
senso, anche pars costruens. Infatti, distrugge, sì, le opinioni, ma per
partire da zero e fondare un sapere certo, che oltrepassi il limite e lo
riconosca come ormai sorpassato, per rendere partecipi di ciò anche gli altri
uomini: per far riferimento al celebre "mito della caverna" di Platone, è l’uomo
che, liberatosi dalle catene che lo tenevano prigioniero sul fondo della
caverna, sale in superficie, scopre la verità e ritorna dai suoi compagni per
trasmetterla anche a loro. L’ironia socratica può allora essere definita come
impegno totale per il Bene, uno slancio verso l'esistenza autentica e contro il
lasciarsi vivere passivamente in cui molti incappano. Un tale sapere dovrà
necessariamente essere di tipo concettuale, e del concetto Socrate stesso può
dirsi inventore: esso è una definizione della cosa in questione (il bene, il
bello, il giusto, ecc), una definizione che prende le mosse dalla domanda "che
cosa è (ti esti) quella
cosa?" e a cui si dà una risposta scientifica, esulante dall’opinione. In questo
modo, tale aspirazione a spingersi al di là del dato si traduce in scienza
dell’essere, come la metafisica (che è scienza dell’essere in quanto tale): e
così la figura di Socrate va incontro ad un enigmatico sdoppiamento, per cui ci
troviamo di fronte ad un Socrate platonico/metafisico e ad un Socrate
empirico/cirenaico, uno speculativo, l’altro esistenziale (basato
sull’ammissione della propria ignoranza e nella massima delfica del "conosci
te stesso"). Ma il gnwqi sauton può dare adito a due diverse interpretazioni, una metafisica, l’altra
esistenziale: al "conosci che cosa sei in quanto essere umano", ossia "conosci
che cosa è l’uomo" (scienza di sé), si contrappone il "conosci te stesso come
singolo" (coscienza di sé), cercando di vivere la tensione al bene come tua
propria esclusiva. Così Platone interpreta l’ignoranza come iniziale critica
dell’opinione, mentre le scuole socratiche la concepiscono diversamente, come
direttiva di vita più che di sapere, con la conseguenza che il vivere da
filosofo vorrà dire comportarsi contro convenzioni e vivendo in pura
naturalezza. Non si tratta pertanto – secondo le scuole socratiche – di cercare
che cosa sia l’uomo, ma, piuttosto, di cercare degli autentici uomini, ossia
coscienze adatte a ricercare il vero bene, coscienze che siano realmente se
stesse senza cadere in convenzioni culturali, sistematiche e, in definitiva,
conformistiche. Da questo atteggiamento (congiunto ad una valenza fortemente
critica della ragione) deriva una forte autarchia (autarkeia), un esistere autonomamente senza
farsi toccare dagli accadimenti esterni. Il problema dell’ignoranza era posto
sul tappeto da Platone a proposito dell’immortalità dell’anima:
nell’Apologia, invece, era lasciato aperto uno spiraglio di scetticismo,
anche se poi – con la voce della metafisica – il filosofo ateniese avrebbe
debellato del tutto l’ignoranza, arrivando ad ammettere la certezza di una vita
ultraterrena e dell’immortalità dell’anima. L’ignoranza viene dunque bandita?
Con Platone, Socrate arriva a verità iperuraniche e assolute, mentre con le
scuole socratiche egli resta avvolto da un alone di ignoranza, di una "dotta
ignoranza" (per usare le parole di Cusano), consapevole dei propri limiti
intrinseci ma, non per questo, disposta a rinunciare al sapere. Se in Socrate
sussiste un perfetto equilibrio tra i due atteggiamenti, in Aristotele e in
Platone prevale decisamente l’indirizzo metafisico, mentre nella successiva età
ellenistica trionfa quello scettico/critico: dal VI al XII secolo c’è poi una
parentesi non filosofica ma teologica, dove l’attenzione per Dio e i problemi di
fede prendono il posto in precedenza occupato dall’indagine filosofica, ora
detronizzata. Dal XIII al XVI secolo torna invece a dominare l’indirizzo
metafisico, ma da Machiavelli fino all’età illuministica (e così sarà anche nel
Novecento post-marxista) trionfa l’atteggiamento critico/scettico.
All’atteggiamento metafisico corrisponde un’etica saldamente basata sulla virtù,
mentre a quello critico/scettico un’etica che fa dell’utile il suo parametro: ad
esse sono sottese due differenti concezioni della ragione e del suo rapporto con
l’etica. I pensatori dell’uno e dell’altro indirizzo si trovano d’accordo
nell’individuare nell’uomo un’entità dotata di ragione e di passioni, ma quando
si tratta di dire che cosa sia la ragione già nascono le prime divergenze di
prospettiva. Per individuare i due tipi di etica, dovremo pertanto capire che
cosa effettivamente siano le passioni e poi la ragione metafisicamente e
critico/scetticamente concepita. Il termine greco che traduce "passioni" è
paqoV, che letteralmente
significa "quel che si prova", dal verbo pascw; significa anche subire la presenza di
qualcuno o di qualcosa, sicchè passione è il contrario di azione e il termine
coincide con "affezione", che vuol dire subire un’azione essendone influenzato e
modificato: passione è dunque, in primo luogo, qualsiasi modificazione
dell’anima. Tali sono anzitutto le sensazioni che ci giungono dal mondo esterno
e dalle quali l’anima è affetta, ma tali sono anche le passioni in senso
stretto, ossia le modificazioni di natura affettiva, dalle quali l’anima è
mossa. L’anima (sia che sia sconvolta da passioni interne sia che lo sia da
esterne) è mossa, è paziente, subisce un’azione, patisce sia le sensazioni
provenienti dall’esterno sia le passioni producentesi all’interno (stati
d’animo, emozioni, pulsioni: l’ira, l’odio, la paura, ecc), proprio come il
paziente patisce la malattia e la cura somministratagli dal medico. L’anima è
passione perché si ritrova ad essere preda di tali passioni, stati e pulsioni di
volta in volta occasionate da certe circostanze, inerenti all’anima in quanto
tale, latenti in essa e risvegliate dalle circostanze: le passioni sono –
secondo Platone e Aristotele – una sfera dell’anima, l’anima sensitiva, che sta
a monte della ragione. Esse invadono e tendono a dominare l’anima determinando
il comportamento dell’individuo che ne è preda; un tale individuo è tutt’uno con
la passione, è mero patire: esse sono necessarie, nel senso che si trovano
naturalmente ad essere quel che sono, sicchè l’operare delle passioni è, a ben
vedere, un operare subìto e patito, il passionale non sa perché opera a quel
modo né ha deliberato di operare così, ma subisce passivamente quell’operare
delle passioni in lui (come si dice: la passione è cieca). Sorprendono e
catturano l’individuo che ne è vittima ignara: se l’uomo fosse solo passioni,
ignorerebbe di esserlo. Ma finchè sono passioni, il mio agire resta un patire,
un essere necessitato. Il linguaggio comune dice giustamente che si è
spinti dalla passione, dall’odio, dalla paura, ecc; si è cioè spinti ad
operare alla cieca, non discernendo e perciò non deliberando. Ma l’anima non è
solo passioni: c’è anche, al suo interno, la ragione, la facoltà del pensiero
discorsivo che guida l’uomo. Il problema della morale resta, in questo senso, il
rapporto tra ragione e passioni: quale è il rapporto? Quale concetto di ragione
fanno valere i diversi orientamenti filosofici? La ragione è dialogo
(nell’accezione greca di dia + logoV),
ossia un trascorrere da un concetto all’altro organizzandoli
ed articolandoli in un sapere che risulti organico. Il concetto è così il
risultato della definizione, dice che cosa una cosa è, ne coglie cioè l’essenza,
costituendone l’essere che la identifica per quella che è, individuando ciò in
forza di cui essa è se stessa, ciò che essa deve essere per essere se stessa. In
altri termini, il concetto individua e coglie ciò che ritroviamo permanente e
accomunante in tutte le cose che in virtù di quel qualcosa di permanente e
accomunante formano una specie. Ma tale essere permanente e accomunante è per i
metafisici l’essenza universale e comune, colta dalla definizione e fissata nel
concetto. La domanda "che cosa sono Tizio, Caio e Sempronio?" rimanda a quella
"quale è l’essenza universale che li costituisce?" Essi sono corpo e discorso,
ovvero sono animali razionali: questo è il concetto che li identifica nella loro
essenza, cogliendo il genere prossimo (sono animali, come molti altri esseri) e
la differenza specifica (sono uomini); alla base di ciò stanno il principio di
identità (A è A e deve essere A) e quello di non contraddizione (A è non uguale
a non-A). Il termine "essere", che abbiamo più volte trovato dispiegato nelle
definizione, è però fortemente ambiguo: servendoci del linguaggio degli
Scolastici, possiamo dire che si tratta di un termine non univoco, ma equivoco,
ossia dotato di più significati. Soprattutto due: ha un significato
essenzialistico e un significato esistenzialistico. Di un soggetto, infatti,
possiamo predicare il verbo "essere" in due modi diversi, a seconda che si
risponda a due diverse domande: "quid est?" e "an est?". Nel primo
caso, mi chiedo che cosa una cosa è, mentre nel secondo mi interrogo se essa
c’è, ossia se esiste: così domandarsi "che cosa è " Socrate è differente da
chiedersi "c’è Socrate?". Nel primo caso, voglio sapere in che cosa consista il
suo essere, nel secondo caso, invece, mi interrogo intorno alla sua
anitas, mi domando cioè se esiste oppure no. A questa seconda domanda,
rispondo di volta in volta con una constatazione: se Socrate c’è, risponderò con
"c’è"; se invece non c’è dirò "non c’è". Alla prima, invece, rispondo allorchè
vengo alla definizione della cosa, "Socrate è animale razionale"; posso
rispondere solo se conosco la definizione. Se poi esperisco anche l’esistenza,
potrò dire che effettivamente esiste un uomo di nome Socrate. Definendolo, siamo
venuti a determinare il suo essere, ne abbiamo definito l’essenza, ossia ciò che
ne costituisce la permanente ed irrinunciabile peculiarità del suo essere, tolta
la quale cesserebbe di essere quel che è. Quando i metafisici parlano di essere,
usano sempre l’accezione essenzialistica: l’ultimo grande metafisico – Plotino –
dice che l’essere deve essere un questo (todh
ti) e quindi alcunchè di delimitato, tant’è che l’
ousia stessa è un
todh ti. All’essere non
compete, secondo Plotino, il librarsi qua e là nell’indeterminatezza, bensì di
essere consolidato da determinazioni e da forma, da delimitazioni, da stabilità
e la stabilità è delimitazione e forma: l’essere è, anzi, sempre forma, un
qualcosa di determinato, un essere conformato, il determinato esser qualcosa
proprio di un certo ente, coglibile dal pensiero che lo coglie definendolo. Si
scopre un’intenzionalità tra pensiero ed essere: il pensiero è fatto per
l’essere che è forma, e l’essere in quanto è forma è definibile dall’esser
ridotto al pensiero intelligibile, fatto per il pensiero stesso. E’ questo
l’ottimismo razionalistico greco, che vede nella ragione l’arma appositamente
data per conoscere il mondo. Sempre Plotino dice che occorre che il pensante
afferri qualcosa di in sé distinto e il pensato, colto dal pensiero, deve essere
alcunchè di indifferenziato, altrimenti non se ne dà pensiero, ma solo uno
sfiorare - senza toccarlo – il concetto. In questo senso, Plotino sta
introducendo la teologia: tutto ciò che è informe non può essere conosciuto, al
massimo può essere alluso: tale è l’Uno, che è situato al di là dell’essere, è
ineffabile, è nome al di sopra di ogni altro nome. Per il greco, l’informe è
perciò stesso impensabile. La domanda "che cosa è?" prende di mira un esser
qualcosa che ritorna in molti enti diversi, ma nei molti in cui lo riconosciamo
appare sì diverso, ma è sempre lo stesso. Socrate è, in questo modo, identico e
diverso dagli altri uomini: sono tutti ugualmente uomini, ma ciascuno lo è in
maniera diversa. I tanti uomini si trovano accomunati da una stessa
quidditas (l’esser uomo) che tutti sono, ma ciascuno a suo modo. L’esser
qualcosa che li identifica e li accomuna è l’universale che li mostra come
membri di una stessa specie. Oggetto del sapere filosofico è la quidditas
delle cose esistenti nello spazio e nel tempo e che in quanto permanente e
comune è coglibile dal pensiero e fissabile nel concetto: la scienza del sapere
filosofico per oggetto ha l’universale e il necessario, mentre il mutevole e
l’accidentale può essere raccontato ma non saputo nel senso più forte del
termine. Così il sapere storico – ritornando al punto di partenza – è inferiore
rispetto a quello filosofico. Non c’è infatti sapere stabile di Tizio o di Caio,
ma dell’uomo che Tizio e Caio sempre e comunque sono: alla ragione filosofica
compete pertanto un punto di vista peculiare, che non solo ha per oggetto
l’universale, ma che proprio perché ha un tale oggetto deve esso stesso essere
universale, vale a dire un punto di vista che trascende quello dei singoli
individui empirici, variamente determinato dalle diverse impressioni sensibili,
dalla mutevolezza della facoltà immaginativa, dall’influsso delle passioni. E’
il punto di vista della ragione stessa presente in tutti gli uomini. E il
filosofo è colui che, riflettendo e ragionando, si converte dal punto di vista
empirico (dove la ragione latita o dorme, e l’anima è ridotta a sensitiva) in
cui trionfano le opinioni a quello superiore, in cui si è solo ragione,
l’identica e oggettiva ragione presente in ogni uomo a prescindere da pulsioni,
impulsi, fantasie: si tratta di un punto di vista super partes, in cui
vige la pura e disinteressata conoscenza contemplativa del che cosa le cose
sono, al di là degli accidenti, una pura e disinteressata contemplazione
dell’essere, di cui la metafisica è scienza (secondo la definizione di
Aristotele). Sia Platone sia Aristotele sono concordi nel concepire la filosofia
come conoscenza degli universali, ma differiscono nell’intendere gli universali
stessi, da Platone chiamati "idee" e intesi come ante rem, in re e
post rem; da Aristotele (che li chiama "forme") intesi solo in re
e post rem. Dal diverso modo di intenderli, il differente tipo di
conoscenza prospettato dai due filosofi: per Platone si tratta di anamnesi, per
Aristotele di astrazione. Ma che cosa è l’idea (eidoV) per Platone? A partire da Cartesio,
"idea" designa cumulativamente ogni genere di nostra percezione, è una
rappresentazione mentale (l’immagine mentale che ho del rosso, del cane o di
Dio). Ma per Platone non è così: essa coincide con la morfh, ossia con la forma, e allude ad un
contorno racchiudente qualcosa, altro non è se non un essere qualcosa. L’esser
uomo è una modificazione nel tempo e nello spazio dello stesso essere uomo che
sussiste nell’eternità, immutabile, come pienezza di quel certo essere qualcosa,
sussiste come complicazione di tutti i possibili modi di essere quella certa
cosa. L’eterna, infinita pienezza dell’essere un certo qualcosa altro non è se
non il mondo delle idee presupposto e principio di questo temporale mondo di
singoli enti empirici, ciascuno dei quali è una modificazione delle idee a cui
fa capo. E’ un particolar modo di essere quella o quelle infinite idee. Tizio e
Caio sono diversi modi di essere dell’idea uomo e animale. A produrre queste
modificazioni che sono le cose empiriche sono le idee stesse, che non cessano di
essere quelle che sono (eterna pienezza d’essere) ma si modificano divenendo nel
tempo e nello spazio i singoli enti che ad esse fanno capo, ai quali
partecipano. Conoscere il vero essere delle cose sarà conoscere le idee. La
ragione ridestata dalle sensazioni risale dal mondo sensibile (che sulle prime
le appare come l’unica realtà) a quello iperuranico, di cui il nostro è copia
sbiadita: la ragione si è destata e ad essa sola il filosofo si è ridotto,
avendo trasceso i sensi da cui aveva preso le mosse. Che cosa sono gli enti?
Esistono in virtù di se stessi o di un’altra realtà? Secondo Platone, essi
esistono in virtù dell’esistenza di un’altra realtà, le idee, che ne sono il
presupposto e il principio; le idee sono siffatte che esistono necessariamente
come tali, la loro perfezione ontologica non può mancare di esistenza (prova
ontologica). Universali sono per Platone le idee, perfette perché costituenti
l’infinita pienezza d’essere: l’idea di cavallo, cioè, è la perfetta attuazione
di tutti i possibili cavalli. Il che significa che l’idea di cavallo non è un
enorme cavallo in cui stanno tutti i cavalli sensibili: l’idea è secondo Platone
qualcosa di immateriale, fuori dal tempo e dallo spazio (altrimenti sarebbe
finita e non infinita). La conoscenze delle idee sarà razionale, mera intuizione
intellettiva, il che segnala che la ragione è tutt’altra dalla sensazione e
dalle passioni, è completamente autonoma. Il motivo per cui Platone ipotizza il
mondo delle idee può almeno in parte essere compreso se facciamo riferimento al
nostro mondo: come può esso spiegarsi se non facendo riferimento ad un altro
mondo di cui il nostro sarebbe copia? Che cosa può spiegarmi l’essere identico e
diverso che accomuna le differenti famiglie di enti empirici, per cui vedo gli
uomini uguali e diversi fra loro? Si tratta, naturalmente, di fare riferimento
al mondo delle idee, per capire come l’esser cavallo (o, se preferiamo, l’idea
di cavallo) sia presente nei diversi cavalli sensibili, che di essa partecipano.
Gli enti sono appunto classificabili in forza di un’identità che li accomuna, ma
un tale principio in grado di render conto del mondo quale a noi appare non è
rintracciabile nel mondo sensibile, poiché tutti gli enti che in esso ci
appaiono di volta in volta sono se stessi, determinati, e perciò non possono
fungere da princìpi dell’esser uomo di Caio e di Tizio. Ciascun ente empirico,
cioè, non può render conto della sterminata molteplicità di enti finiti,
cosicchè essi si spiegano a partire da altro: proprio qui sta la differenza
riconosciuta dagli Scolastici tra l’ "ens a se" (l’ente che sussiste di
per sé) e l’ "ens ab alio" (l’ente che esiste nella misura in cui dipende
da qualcos’altro). Il nostro mondo empirico non è "a se", secondo
Platone, ma "ab alio", dipende cioè da qualcos’altro, e quel
qualcos’altro è appunto il mondo eterno delle idee: l’essere quel che sono gli
enti lo devono per l’appunto alle idee di tale mondo intelligibile, che,
diventandoli, li fanno essere quel che effettivamente sono. E così il mondo
esiste in virtù del parteciparsi delle idee, le quali continuano ad essere quel
che sono e diventano la molteplicità degli enti finiti che ad esse fanno capo.
Tuttavia né Platone né nessun altro neoplatonico ha mai azzardato a spiegare
come ciò possa avvenire, come le idee si modifichino, poiché tale processo si
sottrae al nostro sapere, il quale abbraccia solo la conoscenza del fatto che
tale partecipazione è la sola cosa in grado di render conto dell’esistenza del
mondo empirico (e che la ragione può conoscere le idee). Un’altra questione non
irrilevante lasciata in sospeso da Platone è perché il mondo delle idee "crei"
questo mondo: ricorrendo ad un’immagine che sarà propria dei Neoplatonici,
potremmo dire che è come se Dio, nella sua esuberanza di essere, traboccasse
perché "diffuisivus sui", dandosi in maniera discendente, per cui il
mondo è assolutamente inferiore rispetto alle idee. Nel mondo, dunque, non c’è
nulla di veramente nuovo, l’unica relativa novità è che si tratta di un mondo
deficiente rispetto a quello delle idee, che ne è modello. La conseguenza che ne
deriva per quel che concerne la concezione della ragione è che conoscere
empiricamente l’idea di cavallo significherebbe conoscere concretamente tutti i
singoli cavalli esistiti nel presente, nel passato e nel futuro, senza
trascurare alcun esemplare; e, del resto, noi possiamo predicare la cavallinità
di questo o di quel cavallo empirico perché abbiamo già insita nella nostra
testa, in qualche modo, l’idea di cavallo, alla quale raffrontiamo i cavalli
sensibili quando diciamo che sono cavalli (riconoscendo in essi la cavallinità
in noi presente a livello concettuale). Ciò significa che abbiamo già dentro la
nostra mente, fin dalla nascita, l’idea di cavallo ed è in virtù di essa che
possiamo riconoscere i singoli cavalli empirici dinanzi a cui ci troviamo: sono
anzi tali cavalli sensibili a risvegliare in noi l’idea latente di cavallo. Si
deve pertanto trattare, è evidente, di un’intuizione sovrasensibile, non
ottenibile a posteriori, ma a priori, ossia è già sempre presente in noi, fin
dalla nascita: come potremo allora dire che Tizio è più perfettamente uomo
rispetto a Caio? Ciò avviene – risponde Platone – perché conosciamo il criterio,
il modello, l’idea di uomo, con la quale confrontiamo Tizio e Caio, analizzando
quale dei due meglio la imiti: in tale confronto si ha l’anamnesi, ovvero il
ricordo di quell’idea di uomo già conosciuta (perché da sempre insita in noi)
che ora, stimolata dall’esperienza sensibile (vedo Tizio e Caio) riaffiora alla
memoria. Sicchè possiamo dire che la conoscenza sensibile è occasione perché
nella ragione si sviluppi un’anamnesi che permetta di contemplare le idee:
conoscere l’essere non sarà, quindi, un apprendere ex novo. Aristotele, dal
canto suo, rifiuta la dottrina platonica delle idee, giudicandola una superflua
complicazione il cui risultato è, tra l’altro, una ingenua svalutazione di
questo mondo, che è secondo lo Stagirita l’unico e che per Platone era invece
una pallida copia di quello iperuranico. Platone si avvaleva della dottrina
delle idee, da lui elaborata, per una congerie di motivi, tra i quali merita di
essere ricordato quello di sapore religioso: la dottrina delle idee permetteva
al pensatore ateniese quell’anelito infinito verso l’assoluto che tanto gli
stava a cuore, e l’intero suo sistema era pervaso da una profonda nostalgia per
l’assoluto stesso, una nostalgia sconosciuta ad Aristotele; proprio tale
nostalgia l’aveva indotto ad immaginare quello che Nietzsche definisce come il
"retromondo" platonico, ossia quel mondo dietro il mondo che è l’Iperuranio.
Questo mondo – dice Aristotele – si spiega benissimo da se stesso, senza far
ricorso alle idee: le "forme", infatti, sono atti d’essere un certo qualcosa, è
un certo esser qualcosa in atto che ha in se stesso, nel suo esser atto, il
proprio principio e la propria ragion d’essere. Naturalmente, nessuno di questi
atti sussiste, in questo mondo, perfettamente attuato: mentre Platone parla di
perfezione come infinita pienezza d’essere qualcosa (le idee), Aristotele la
intende invece come piena attuazione d’un finito atto d’esser qualcosa. Nessuno
degli atti d’esser qualcosa è perfettamente attuato, però, e ciò avviene perché
ciascuno è legato a una parziale porzione di materia; così ogni anima razionale
e sensitiva è sempre congiunta ad un corpo che limita quell’anima facendone
l’umanità relativamente attuata di Tizio, di Caio e di Sempronio; similmente,
l’anima vegetativa è sempre unita ad una porzione di materia che ne fa quella
certa pianta. La visione del mondo che ha Aristotele è quella di un mondo eterno
che sussiste in forza dei suoi princìpi costitutivi - le forme e la materia
(sempre unite): l’essenza di una cosa, allora, è l’atto di quel certo esser
quella cosa che la fa essere quella che è, ma è più o meno attuata a seconda del
corpo che la natura le ha assegnato. In Aristotele, dunque, le forme sono causa
e fine di se stesse: causa in quanto sono ciò in virtù di cui gli enti esistono;
fine nel senso che sono ciò a cui essi tendono, sono la tensione verso la
propria attuazione, una tensione ostacolata dalla materia e che riesce nella
misura in cui la resistenza da essa opposta viene superata. Così l’uomo è tanto
più uomo quanto più è filosofo, ovvero quanto maggiormente esercita lo strumento
di cui egli solo è equipaggiato: la ragione. Come è facile capire, nella
prospettiva aristotelica non c’è alcun bisogno di rimandare ad un mondo
ulteriore ed ultraterreno: basta e avanza il mondo terreno, un mondo increato,
eterno, in cui Dio – pensiero che pensa se stesso – è una sorta di magnete che
mette in moto ogni singolo ente che tenta di emularlo nella sua immobile
perfezione. In quest’accezione, il senso della vita risiederà in questo, nella
realizzazione – meglio o peggio riuscita – del proprio essere. Anche Aristotele
ritiene di poter spiegare l’identità/differenza aggirata da Platone grazie al
ricorso al fantomatico mondo delle idee: gli enti empirici sono le sostanze,
unioni di forma e di materia, e a spiegare l’identità/differenza sarà il fatto
che in ciascuna sostanza di una specie è presente virtualmente lo stesso
identico atto d’esser uomo, virtualmente identico ma variamente attuato nella
materia. Così tutti gli uomini sono identici perché dotati dell’anima razionale,
ma sono diversi per via della materia, che li distingue gli uni dagli altri.
L’universale sarà allora conoscibile per astrazione, ovvero astraendo
dall’oggetto sensibile la forma, pervenendo, attraverso il particolare,
all’universale (per induzione): così da una miriade di singoli uomini, operando
un’astrazione, ricaverò la forma uomo, come forma presente "in re" in tutti gli
uomini singoli. Ma l’induzione non è il solo ragionamento, altrimenti avrebbe
ragione Platone ad ammettere il mondo delle idee quale modello da cui il nostro
enigmaticamente deriva: secondo Aristotele, l’induzione comincia, sì, come
ragionamento, che paragona e raffronta, ma poi cessa di essere tale e culmina in
un’intuizione dell’essenza, un’intuizione che giunge alla definizione
dell’essenza stessa attraverso un salto in qualche misura extra-razionale. La
ragione, in questo senso, approda intuitivamente a due diversi ordini di verità:
le definizioni (ossia la conoscenza degli universali) a cui si giunge per
induzione, e i princìpi primi (principio di non contraddizione e derivati) a cui
si perviene invece per intuizione, poiché essi appaiono immediatamente evidenti
alla ragione in quanto tali. A questo punto, il sapere è puramente razionale e
da induttivo diventa deduttivo, cioè trae le conseguenze dalle definizioni e dai
princìpi deducendo sillogisticamente. Sicchè definire l’uomo come animale
razionale comporterà conseguenze morali e politiche che la ragione coglie per
deduzione: il punto di vista della ragione è altro rispetto a quello delle
passioni, questo è il nucleo centrale cui pervengono – per vie diverse – Platone
e Aristotele (nonché tutti gli altri pensatori); l’etica della metafisica
classica greca può essere condensata, a tal proposito, in tre punti
fondamentali: 1) l’alterità della ragione rispetto alle passioni; 2) la
superiorità della ragione sulle passioni; 3) l’immancabile vittoria della
ragione sulle passioni. La superiorità della ragione risiede nel fatto che,
conoscendo essa l’essere e quindi il bene e, di conseguenza, il vero e il
giusto, è in grado di confutare le passioni e gli pseudo-beni che esse
propongono all’uomo. Conoscere l’essere di una cosa significa conoscerne la
verità, ma anche conoscerne il bene, giacchè esso è l’affezione del suo essere,
e il bene è anche la giustezza della cosa (infatti una cosa è giusta quando
effettivamente è se stessa): giusto, per un ente, sarà tutto ciò che inerisce al
suo essere, anzitutto il diritto di essere se stesso. E’ giusto che l’uomo,
dotato di ragione (la quale è attitudine al comando), sia libero, ed è giusto
che chi della ragione è privo non sia libero: è un buon esempio (anche se
rischioso, per le conseguenze a cui può portare) di deduzione. La ragione ci
indirizza al bene confutando le passioni e in ciò possiamo già leggere la sua
immancabile vittoria su di esse; dove si attua la vittoria, là primeggia ciò che
è superiore, al quale l’inferiore non può in alcun modo resistere. La ragione è
il superiore e si sa come tale e, in virtù di ciò, sconfigge le passioni, che
non possono distoglierla dalla sua strada allettandola coi loro pseudo-beni
effimeri; essa è inattaccabile dalle passioni, poiché rivela come quelli da esse
proposti non sono veri beni; in questo senso, la ragione è eterna confutazione
delle passioni: chi ne è preda lo è o perché in lui la ragione dorme o perché
del tutto privo di essa. Le passioni magari non saranno cieche, ma senz’altro
sono assai miopi, soprattutto se confrontate con l’occhiuta ragione: esse non si
accompagnano, in realtà, ad un’assenza assoluta di pensiero; pullulano quando
però manca la retta ragione e dominano la fantasia e l’immaginazione, producenti
immagini mentali (i fantasmata di Aristotele), ossia immagini a metà strada tra il pensiero e il
sensibile. Infatti, una cosa è il concetto di uomo, altra cosa è l’immagine di
uomo: nel secondo caso, ce lo si rappresenta in quel determinato modo perché lo
si è effettivamente visto in carne ed ossa: le conclusioni che poggiano su tali
immagini, nate dal sensibile, non possono che essere (al pari del sensibile)
fluttuanti, ondeggianti, instabili: così dirò, padroneggiato dalle passioni, che
"mi piace, lo voglio" o "non mi piace, lo fuggo". Si tratta, evidentemente, di
un pensiero frutto delle inclinazioni sensibili, un pensiero configurantesi come
elementare calcolo (cosa è che mi diletta di più?), dominato dalle passioni,
strumento dell’appetito sensibile, gratificazioni empiriche mal fondate. Si
tratta di pseudo-beni proposti come fini dell’ambizione, della volontà, del
piacere: insomma, è un pensiero che finisce per opinare che il benessere fisico
sia il bene supremo. Come possono, tuttavia, le passioni controbattere alle
argomentazioni dispiegate dalla ragione scatenatasi contro di esse? Questa è
appunto la loro insopperibile impotenza: non sanno argomentare. In secondo
luogo, poi, l’intellettualismo greco (che abbiamo già visto in atto nella
concezione dell’essere e del pensiero come fatti l’uno per l’altro) dà una
clamorosa smentita delle passioni: la volontà è, per i Greci, una funzione della
ragione, cosicchè è la stessa ragione che, conosciuto il vero e il bene, lo
vuole a tutti i costi, senza soluzione di continuità. L’anima sensibile è, sotto
questo profilo, conoscenza (perché sensazione e fantasia) e volontà (in quanto
appetente), mentre l’anima razionale è conoscenza razionale e volizione
razionale (cioè deliberativa): la ragione è sempre le due cose – pensiero e
volontà – giacchè conosce il bene e, dopo di che, lo vuole adempiere a tutti i
costi; si può a ragion veduta affermare che dove c’è la ragione c’è anche la
volontà di raggiungere il bene conosciuto. Marsilio Ficino, in età umanistica,
ha perfettamente colto quest’aspetto dell’intellettualismo greco: "come
l’appetito irrazionale segue i sensi, così la volontà, che è avidità della
ragione, segue ciò che l’intelletto conosce", altro non essendo la volontà
se non "un’inclinazione della mente al bene". Del resto, la ragione è da
sempre anche desiderio, desiderio di conoscere e di conseguire il bene che
conosce, il che vuol dire che la volontà non è una dimensione ulteriore rispetto
alla ragione: così Kierkegaard dirà che una cosa è sapere cosa sia il bene,
un’altra volerlo. La ragione è, in questo senso, un Giano bifronte: nell’atto in
cui conosce il bene, lo vuole; ed è per questo motivo che trionfa sulle
passioni. Per il mondo greco, dunque, la volontà è, in certo senso, la ragione
stessa in un’altra sua veste: ma, in età moderna, si opporranno a tale
prospettiva Kant e molti altri, ad avviso dei quali la volontà è cosa diversa, e
anzi opposta, alla ragione. Dove la ragione vige, essa è già sempre essa stessa
oltre gli appetiti sensibili, risulta l’imprendibile per essi, il che è stato
formulato brillantemente dal detto scolastico "voluntati naturale est quae
bona iudicata sunt velle" ("per la volontà è naturale volere ciò ch’è stato
giudicato buono"): ciò vuol dire che la volizione è il frutto necessario di una
conclusione logica (con cui si individuano il bene e il giusto), sicchè
nell’atto con cui conosce delibera coerentemente. La vittoria della ragione
sulle passioni si configura in modi diversi in Platone e in Aristotele: in
Platone, la ragione si separa dai sensi e dal sensibile diventando pura
contemplatrice del mondo delle idee, a tal punto che l’anamnesi platonica è
appunto quest’ascesa dell’io empirico spazio/temporale del filosofo al vero io
che è la ragione eterna contemplatrice delle idee, di una dimensione divina
(tema, questo, che verrà approfondito da Plotino e dai suoi seguaci, per i quali
la ragione ridestata corre dall’empirico all’intelligibile). L’anima si fa
secondo Platone mera anima razionale, e se la reminiscenza è recupero dell’io
autentico, è allora evidente che l’anamnesi platonica ha una dimensione
specificamente ontologica, cioè implica una trasmutazione ontologica del
soggetto e non ha nulla a che fare con una presunta reminiscenza psicologica
(come è invece quella ammessa da Proust). Tale ascesa platonica comporta, sul
versante etico, una fuga (fugh dice Plotino) dai vizi dell’individualità empirica e sensibile, giacchè è
un’evasione dal sensibile (pensiamo al mito platonico della caverna), è un
andare oltre le deficienze dell’io empirico, che invece tenderebbe ad
assolutizzare il livello sensibile. La virtù platonica per eccellenza sarà, in
quest’ottica, la sapienza, poiché è conseguendo questa che l’io raggiunge la
propria autenticità, rirecupera la "plenitudo essendi" della ragione
contemplante e tale sapienza implica la giustizia e la capacità di esercitarla.
Per Platone, dunque, la dimensione etica si configura nei termini di una vera
conversione radicale (di metabolh si parla nella Repubblica) che presenta le caratteristiche di una
fuga da questo mondo. Diversa è, invece, la posizione sostenuta da Aristotele,
il quale – come sappiamo – tiene ben saldi i piedi per terra: anche quando è
filosofo, l’uomo resta, secondo lo Stagirita, indissolubilmente legato al corpo
e il conoscere stesso muove pur sempre dalla conoscenza sensibile (la quale non
è pertanto un mero trampolino di lancio, come in Platone); ma anche per
Aristotele la ragione, in ultima analisi, si colloca su un punto
extra-razionale, puro e disinteressato, un livello di mera contemplazione delle
forme che costituiscono l’in sé delle cose e, di conseguenza, l’ordine del
cosmo, astraendo del tutto dal sensibile, ma non per questo distaccandosi dal
corpo e dalle sue esigenze. Non potersi completamente distaccare dal corpo
equivale a dire che si può filosofare solo ad intermittenza, ossia solo dopo
aver soddisfatto i propri bisogni fisici, di fronte al cui ritornare bisognerà
nuovamente sospendere l’attività filosofica per poterli soddisfare. E’ nell’
Etica nicomachea di Aristotele che troviamo, in nuce, l’etica del
mondo classico: al cuore di questo scritto sta la distinzione tra "virtù etiche"
(cioè pratiche) e "virtù dianoetiche" (cioè proprie della speculazione). Le
virtù etiche sono degli atti della ragione, delle volizioni secondo ragione e
questi atti - a furia di ripetersi - si consolidano, ma non in abitudini (ovvero
in azioni di natura meccanica), bensì in abiti, che sono il frutto di successive
e sempre rinnovantesi deliberazioni: il ripetersi di una deliberazione consolida
la tendenza della ragione a comportarsi in un dato modo. La virtù, quindi, è
quell’atto della ragione consolidatosi in abito, cioè nella disposizione ad
agire secondo ragione: così la ragione subordina e limita le inclinazioni
passionali che le si parano dinanzi. Temerità e viltà – dice Aristotele – sono
due passioni contro ragione, mentre il coraggio è una forma di virtù razionale:
ma chi è coraggioso? Colui che è permanentemente disposto ad osare o a temere
secondo ragione, e questo può essere acquisito solo con la ripetizione dei
singoli atti di coraggio che instaurano l’abito stesso del coraggio, atti che
sono sempre consapevoli e razionalmente deliberati. La ragione, allora, modifica
le passioni subordinandole a sé: gli impulsi a osare o a temere, se abbandonati
a sé, si trasformano nelle mostruose passioni della temerità e della viltà, ma è
la ragione a trasformarle in coraggio: non le elimina, ma le modifica,
deliberando di avvalersene come essa stabilisce. In questa maniera, compio un
atto coraggioso quando, di volta in volta, temo e oso secondo ragione: in
presenza delle inclinazioni a osare o a temere, la ragione delibera di osare e
di temere quando e quanto sente che è giusto e, così facendo, si esercita nel
coraggio, trasformando le disposizioni passionali nel coraggio (che è appunto
una virtù etica). In questo senso, da passioni subite diventano azioni
deliberate, novità prodotte dalla ragione che doma e soggioga le aberranti
passioni, impedendo che nasca la viltà e la temerità. Ben si capisce come per
Aristotele (e in ciò concorda l’etica greca tutta) non sia la ragione ad essere
al servizio delle passioni, ma viceversa: è essa a deliberare autonomamente il
comportamento virtuoso a cui uniformarsi. Aristotele dice apertamente che la
superiorità della ragione si manifesta nella suprema virtù etica: la giustizia.
Essa è la virtù suprema perché ad essa sono subordinate le altre, che essa
comprende ed organizza; è infatti solamente grazie alla giustizia che le altre
virtù sono quello che sono. Esse, infatti, sono il giusto mezzo tra due
inclinazioni opposte: così il coraggio è il giusto mezzo tra la viltà e la
temerità, la liberalità è il giusto mezzo tra la prodigalità e l’avarizia. Ma
Aristotele intende qui la giustizia sensu lato: ha infatti in mente la
"giustizia politica" (o "universale"), quella cioè che ha per oggetto ciò che è
giusto per natura e che costituisce il bene comune. La giustizia politica
concerne l’universalmente e il naturalmente giusto, che altro non è se non
l’universale ordine dell’essere, ovvero l’ordine del mondo e umano. E la
giustizia è, appunto, quella virtù che è disposizione permanente a riconoscere,
conservare, promuovere ed eventualmente restaurare tale ordine; ciò significa
che un uomo è giusto nella misura in cui riconosce l’ordine, nel duplice senso
che lo conosce (ragione speculativa) e lo promuove (ragione pratica), affinchè
esso si preservi e prosperi e nel tutto sopravviva la parte, intesa come parte
contestualizzata nel posto che le compete nell’economia del tutto. E l’uomo
giusto si deve adoperare anche attraverso giuste limitazioni e rinunce, anche
attraverso la rinuncia a volere tutto e immediatamente. Allora potremo dire che
giustizia è favorire e promuovere il tutto, il giusto ordine delle cose: ma tale
ordine va anzitutto conosciuto ed è conoscibile solo da una ragione che
prescinda dai punti di vista particolari e che sia collocata da un punto di
vista universale, come disinteressata contemplatrice della verità delle cose,
verità che coincide con la giustezza stessa delle cose (esse sono giuste nella
misura in cui sono se stesse). Ma questo è il sapere metafisico, possibile
solamente in quanto sviluppantesi da un punto di vista universale e
disinteressato: tale giustizia coincide col bene comune, dove ciascuna cosa
attua coerentemente il proprio essere. E questo bene comune è naturale, tutt’uno
con la natura delle cose, altro non essendo questa se non la loro essenzialità.
Si tratta, dunque, di un bene colto da una ragione attenta, giacchè in grado di
trascendere quello che Machiavelli chiama "il particulare". Soltanto chi
ha una simile visione del giusto ordine potrà sempre sapere come agire
giustamente, sarà ad esempio in grado di agire quando è giusto e con il giusto
coraggio, evitando oculatamente sia la viltà sia la temerarietà. Solo chi ha una
simile visione e agisce sempre di nuovo deliberando acquista l’abito della
giustizia, virtù delle virtù. Egli sarà giusto in tutto ciò che fa, e sarà colui
che realizza pienamente se stesso, attuando in pieno la propria razionalità di
uomo, ossia la propria struttura metafisico-etico-politica; sa, conosce e agisce
di conseguenza all’interno della poliV, in cui si trova a posto con se stesso
perché è al suo giusto posto. Vive interamente secondo ragione, conosce la
giustizia ed è ad essa che mira (nella duplice accezione che la contempla e ad
essa aspira), esercita la "giustizia distributiva", consistente nel dare a
ciascuno il suo ("dare cuique suum"), ossia recapitandogli ciò che
naturalmente gli spetta. Ma il vero filosofo – oltrechè col dare a ciascuno il
suo - esercita la giustizia anche correggendo le disuguaglianze, ripristinando
la giustizia venuta meno: in questo modo, egli esercita la "giustizia
correttiva" (o "commutativa"). E’ facile capire come, nella prospettiva
aristotelica, sapienza e giustizia siano le due facce della stessa medaglia,
poiché il sapiente è il giusto e il giusto è il sapiente, in cui la retta
ragione non incontra ostacoli nel suo dispiegarsi. In questo senso, si può dire
che le virtù sono attitudini prodotte dalla ragione e, perciò, inesistenti prima
di essa: se le passioni sono subite, le virtù sono attivamente agite (in quanto
deliberate). Questo vale per quel che riguarda le virtù: ma Aristotele si
riferisce spesso anche alla virtù in senso lato, come atto della mente umana;
egli dice che la ragione conoscente e agente, se funziona correttamente,
realizza le sue possibilità ed è in ciò che consiste l’areth, il perfetto compimento della natura
umana, compimento che corrisponde del resto alla felicità. Sicchè l’uomo potrà
dirsi felice quando e nella misura in cui si sente realizzato, e per realizzarsi
dovrà attuare metafisicamente la propria natura, esercitando quell’elemento che
più di ogni altro lo rende uomo: la ragione. Non è, dunque, il lavoro a
realizzare l’uomo, come credeva Anassagora e come crederà Marx, bensì il
pensiero. Tale areth è
realizzabile entro i confini della poliV
(perciò è politica), è la condizione del sussistere del
soggetto umano, il quale – se vivesse al di fuori della città e, quindi, isolato
– non sarebbe altro che una bestia. Anche l’esercizio della ragione si realizza
al meglio nella vita di relazione, solo in tale contesto è dato praticare le
virtù etiche: è solo nella poliV, infatti, che si realizza la vera filosofia platonicamente intesa in
forma dialogica, come scambio reciproco di idee che si attua nella relazione
interpersonale. Ed è solo nella poliV
che può svilupparsi l’amicizia, da Aristotele distinta in
amicizia fondata sui bisogni (un’amicizia di mutuo soccorso, che nasce dalla
necessità di soddisfare reciproche esigenze) ed amicizia disinteressata (solo
questa autentica e duratura, poggiante sulla reciproca attuazione della propria
razionalità). L’animale razionale è, secondo lo Stagirita, tale in quanto è
animale politico, cosicchè la poliV può essere etichettata come naturale approdo della ragione umana. Questo
significa che il consenso politico è quello naturale e implicito di tutti gli
uomini, dei veri uomini liberi, ossia di tutte le rette ragioni, è – in altri
termini – il consenso a cui naturalmente la ragione perviene. Allora alla base
dello Stato non vi è il patto sociale, cioè l’opzione soggettiva di una
molteplicità di individui che si accordano a tavolino e convengono su cosa è il
bene comune, ma, al contrario, c’è l’esigenza oggettiva dell’universale natura
umana, ossia dell’uomo concepito come animale razionale/politico. Dove c’è una
molteplicità di individui dotati di retta ragione, lì si produce lo Stato, come
insieme spontaneo di individui governati dalla loro ragione. Naturalmente, in
una concezione del genere pare serpeggiare un esasperato ottimismo
antropologico, che sarà deriso dagli uomini rinascimentali. Tuttavia, onde
evitare di scivolare in facili fraintendimenti, è bene domandarsi cosa dobbiamo
intendere per "uomo" quando sentiamo Platone e Aristotele parlarne: chi è uomo?
Chi ha la ragione e la esercita rettamente, cosicchè uomini in senso pieno sono
i soli filosofi, ossia una esigua minoranza. L’ottimismo di partenza già
scricchiola. La posizione stoica, poi, pare sotto questo profilo significativa:
gli Stoici, infatti, dicono che il vero saggio (l’unico essere degno di essere
detto "uomo") non è mai esistito né mai esisterà, sicchè di uomo non ce n’è mai
stato (né mai ce ne sarà) neanche uno. Senza arrivare agli estremismi stoici, ma
restando a Platone e ad Aristotele, all’ambito dell’umano vengono da loro
sottratti molti individui che noi, abitualmente, riteniamo uomini in senso
pieno: così già Platone – nella Repubblica – nota come gli esseri umani
siano stati plasmati con tre diversi metalli, con la conseguenza che ci sono
uomini superiori e uomini inferiori dalla nascita, senza possibilità di cambiare
status; l’educazione stessa, più che trasformare l’essenza di ciascuno,
porta a svilupparsi ciò che ciascuno è potenzialmente fin dalla nascita. La
posizione di Aristotele è più drastica: a suo avviso, non sono propriamente
esseri umani tutti coloro che non possono esercitare rettamente la ragione:
restano così esclusi dalla cittadinanza umana schiavi, ragazzi e donne. Solo i
Sofisti - gli illuministi del mondo greco – avevano affermato a gran voce che la
schiavitù esiste solo convenzionalmente e che, alla nascita, gli uomini sono
tutti uguali: tesi, questa, abbracciata, seppur con sfumature diverse e
piuttosto variegate, da Ippia, Antifonte e Alcidamante. Già Platone, invece,
sosteneva che solo i Barbari potevano essere fatti schiavi, mentre ciò era
impossibile con individui di origine greca. Ma è legittimo domandarsi quale sia
la differenza (ammesso che ci sia) tra uomini liberi e schiavi: Platone la
individua nel fatto che gli schiavi sono sprovvisti di logoV e dotati esclusivamente della doxa, possono cioè opinare senza però
formulare ragionamenti, con la conseguenza che lo schiavo è un mero esecutore
incapace di autodeterminarsi e in tutto e per tutto dipendente dal padrone.
Questa distinzione la troviamo in Aristotele (Politica, I 13), il quale
opera una diversificazione tra individui dotati di ragione (e perciò capaci di
pensare e di prevedere) ed individui sprovvisti di essa e tenuti solo a faticare
col proprio corpo; questi ultimi sono puri e semplici strumenti nelle mani del
padrone, alla pari del bue e dell’aratro. "Differiscono quanto alle capacità
di deliberare derivata dalla riflessione razionale: tutti hanno le parti
dell’anima, ma in maniera diversa. Lo schiavo non possiede in tutta la sua
pienezza la parte deliberativa; la donna la possiede ma senza autorità; il
ragazzo la possiede ma non ancora sviluppata". E – aggiunge Aristotele – si
è degni di stare dentro o fuori le mura della poliV a seconda che si possegga o meno il
boulhtikon, la capacità di
deliberare. Lo schiavo può apprendere la ragione dal padrone, poiché la sua è
una razionalità riflessa, che imita ed emula quella del padrone appunto. La
donna, invece, la possiede ma senza autorità: ella ragiona poco, non al punto da
persuadere, cosicchè, quando si trova a discutere col filosofo, ella si trova
costantemente in uno stato di minoranza. Solo il maschio adulto (e per questo il
ragazzo risulta escluso) ha piene facoltà razionali: esso solo è uomo nel vero
senso della parola (animale razionale e politico). E non è un caso che lo
Stagirita distingua l’adrapodon (l’essere dai piedi umani) dal tetrapodon (l’essere a quattro zampe, ovvero la
fiera), identificando il primo con l’uomo, il secondo con lo schiavo. Secondo
Aristotele, la schiavitù è giusnaturalisticamente costituita, giacchè esistono
esseri dotati di ragione e per questo destinati al comando, ed esseri che
sembrano essere uomini ma che in realtà non lo sono e, in virtù di ciò, mancano
degli stessi diritti del cittadino, il quale è secondo lo Stagirita un greco,
maschio, adulto, ozioso, urbano e libero, cosicchè – contrariamente alle tesi
sofistiche – la schiavitù è naturale e legittima. Altra cosa, invece, sono gli
schiavi per legge, ossia quegli uomini che perdono in guerra, poiché vinti, la
loro libertà: una schiavitù di questo tipo è giusta solamente se i vinti fatti
schiavi sono tali già per natura, altrimenti, se ci troviamo dinanzi a uomini un
tempo liberi e ora privati della loro libertà e ridotti in catene, trattasi di
una schiavitù illegittima. A corollario di quanto detto, ricordiamo la dottrina
aristotelica del dispotismo e la distinzione ch’egli opera con la tirannia: il
despota è per natura il padrone della casa (oikoV), e il dispotismo da lui esercitato è il
potere arbitrario del padrone sugli schiavi e su quanti (donne e bambini) non
sono propriamente uomini, sebbene Aristotele si renda perfettamente conto che la
relazione intrattenuta dal "pater familias"/despota con la moglie non si
configuri come un dispotismo, ed è per questo che lo Stagirita tende a parlare
di un’aristocrazia all’interno della casa, dove a governare sono il marito e la
moglie congiuntamente; in questo modo, viene reintrodotto il potere femminile,
precedente negato. In sostanza, il dispotismo è il legittimo rapporto di potere
che si instaura tra chi possiede il bouleutikon e chi ne è sprovvisto, un rapporto
che è esercitato non nei confronti di cittadini, ma verso strumenti quali sono
per Aristotele lo schiavo e il bambino. Al contrario, la tirannia è un sopruso
esercitato nei confronti dei cittadini e per questo motivo è del tutto
illegittimo, e reso ulteriormente illegittimo dal fatto che se il despota è il
cittadino razionale e virtuoso per eccellenza, il tiranno invece è colui che
meno possiede la ragione, e che anzi è preda delle proprie passioni, sicchè
l’illegittimità del suo potere è fondata dal suo padroneggiare sui cittadini e
sulla tipica incapacità di comandare propria di chi è in balia delle nocive
passioni. In questi termini, il dispiegato ottimismo del popolo greco trova una
sua clamorosa smentita: l’uomo, che così spesso troviamo tratteggiato nelle
pagine dei filosofi, è in realtà un personaggio meno frequente del previsto,
anche se non è mai possibile fugare completamente l’ambiguità di fondo,
quell’ambiguità che ci assale puntualmente ogni qual volta ci imbattiamo nel
termine "uomo", così ricorrente negli scritti di Platone e di Aristotele. Alla
diffusione di tale ambiguità ha contribuito il massimo divulgatore del pensiero
greco, Marco Tullio Cicerone, troppo spesso presentato semplicemente come un
avvocato capzioso e verboso, e non come una delle più lucide menti filosofiche
dell’antichità, quale effettivamente fu. Il suo De officiis è la
quint’essenza dell’etica antica: vi troviamo un costante elogio reiterato
dell’uomo raziocinante, virtuoso, instancabile cultore del bene, interamente
dedito all’esercizio della ragione, e, presi dal magnifico periodare
ciceroniano, finiamo per dimenticare che quello da lui descritto è un animale
rarissimo, quasi inesistente.
IL MEDIOEVO
Tentata un’ardita sintesi, proveremo ora a delineare succintamente il
mutamento intervenuto in ambito filosofico grazie al cristianesimo, tra il VI e
il XII secolo d.C. La grande e fondamentale novità che l’avvento del
cristianesimo ha introdotto è il ridimensionamento netto della ragione antica,
la cui celebrazione greca deve fare ora i conti con l’instaurarsi del principio
di autorità e con il dogma della destinazione divina dell’uomo, nonché della
beatitudine eterna e, ad essa correlato, il peccato originale. Nel mondo antico,
la ragione era la sola, suprema autorità, a tal punto che si potrebbe parlare di
sovranità della ragione: nessuna autorità le contendeva il primato di
autorevolezza teorica ed etica, il saper dire "che cosa fare" e "come agire". Un
tale agonismo tra la ragione e un’autorità da essa distinta interviene con il
cristianesimo, che ha caratteristiche diversissime dalla religione degli antichi
Greci e che lo conducono inevitabilmente ad un conflitto con la ragione, una
belligeranza lunghissima e dapprima risolta (in età medioevale) con la
subordinazione totale della ragione alla Rivelazione; tale subordinazione si
attua in due momenti distinti: in un primo momento, nella fase patristica; in un
secondo, in quella scolastica. Il momento patristico (che si protrae fino al XII
secolo) ha la sua sistemazione in Agostino di Ippona e informa di sé la cultura
teologica e monastica che domina fino al XII secolo a.C, quando subentreranno
novità che porteranno ad una riformulazione – la "scolastica" – del rapporto
intercorrente tra rivelazione e ragione, soprattutto grazie all’opera di Tommaso
d’Aquino. Grazie all’Aquinate, verrà restituito, almeno parzialmente, alla
ragione qualcuno dei diritti di cui era stata spogliata dalla patristica. Ma –
chiediamoci – perché la religione antica non si era opposta alla ragione (come
invece accade in età cristiana)? Le fonti su cui poggiava la religione antica,
in special modo quella greca, erano due: la mitologia e gli oracoli, e, per di
più, la mitologia di marca greco/romana non si configura come una rivelazione
divina, ma come un’affabulazione umana, come interpretazione del mondo, e ne
sono portavoce i poeti (Omero ed Esiodo), i quali scoprono, immaginano e
inventano gli dei, le loro reciproche relazioni e quelle con gli uomini; si
tratta, dunque, di un’affabulazione anteriore e parallela rispetto alla
riflessione razionale, ma – al pari di questa – è pur sempre umana e, perciò,
risolvibile nella speculazione filosofica, secondo un passaggio dal muqoV al logoV, passaggio che si concretizza nella
cultura antica, quando cioè i filosofi hanno fatto propri i miti e ne hanno dato
formulazioni razionali. Così hanno agito Platone, gli Stoici e i Neoplatonici,
rielaborando in chiave razionale i miti; anche Epicurei e Scettici si sono mossi
in un contesto non del tutto differente, demistificando la mitologia come cumulo
immane di fandonie liquidate dalla ragione: da tutto ciò si evince come, nel
mondo antico, ragione e mitologia non siano mai, propriamente, entrati in
conflitto. Sull’altro versante, l’oracolo è parola divina comunicata agli uomini
in luoghi precisi (i templi) attraverso una persona consacrata alla divinità
venerata in quel determinato luogo: un tale verbo divino ha, tendenzialmente,
contenuto di pronostici, di oroscopi, di divinazioni, ed è rivolto ai singoli
che di volta in volta interrogano l’oracolo. Ciò segnala che alla religione
antica ineriva una funzione eminentemente profetica, e il profetismo era risolto
in una precisa casistica, il Dio si esprimeva attraverso il medium umano
(la Pizia, la Sibilla, ecc), che rispondeva di volta in volta a puntuali e
circoscritte domande, quali "che cosa fare nei momenti di ansia e di paura?" Le
risposte, quindi, erano altrettanto puntuali rispetto alle domande, cosicchè la
parola oracolare del Dio non si organizza mai in un configurarsi di rivelazioni,
ossia in una visione complessiva, totalizzante e veritiera del reale; al
contrario, il verbo divino non concerne la verità, e d’altro canto quando tende
ad articolarsi in verità si presenta sempre come affabulazione poetica, che può
essere rielaborata dai filosofi. Non è un caso che, in tale prospettiva, agli
antichi greci fosse sconosciuta una Bibbia rivelante la verità, una Chiesa
intorno alla quale raccogliersi, poiché questa si costituisce solamente in
seguito ad una rivelazione, di cui è l’unica autentica interprete. Non sussiste
nel mondo antico alcun problema di fede e ragione come due possibili e diversi
accessi alla verità: il problema, invece, si pone con le "religioni del libro",
con il cristianesimo, l’ebraismo e l’islamismo, dove ci si imbatte in una
rivelazione divina che si scontra con la ragione, ai cui occhi tale rivelazione
appare come una folle stranezza, in quanto non solo predica cose nuove e non
pronunciate dalla ragione, ma addirittura incomprensibili e opposte alla ragione
stessa e ai suoi dettami (tale è il caso della Trinità, che si oppone al
principio di identità). E per di più tali stranezza vengono dalla Rivelazione
sentenziate con una veste di autorità sovrannaturale, come verbo divino. Con il
mondo cristiano, ci si trova dinanzi a due distinti fonti della Verità
immediatamente contrastanti e guerreggianti, cosicchè diventa inevitabile
interrogarsi sul loro rapporto: per i non cristiani, la Rivelazione è mera
invenzione umana e, come tale, viene prontamente liquidata. Ma, con l’erezione
del cristianesimo a religione dell’impero avvenuta sotto Costantino, si ha
l’insediamento del principio di autorità, e questo perché la natura divina della
Rivelazione del libro è imposta e riconosciuta dal potere politico, spesso – se
necessario – con la forza. In quanto parola divina, essa è l’assoluta verità cui
la ragione umana è chiamata a sottomettersi, con la conseguenza che la "pagina
sacra" e la dottrina che i suoi legittimati interpreti ne traggono è la Verità
stessa, cui deve piegarsi ogni pretesa verità puramente umana. Ne sorge una
società in cui la cultura non potrà essere se non cultura del "Libro sacro",
cultura cioè di un solo libro, e configurantesi precipuamente come sua lettura
e, rispetto a ciò che il testo detta, l’atteggiamento della ragione non potrà
che essere ricettivo e strumentale, un passivo ascolto e una mera fornitura dei
mezzi volti alla comprensione quel dettato dell'auctoritas: ed è appunto
questo che si compie nei monasteri fino al secolo XI (lectio divina). Ma,
accanto alla novità dell’autorità, è introdotta l’innovazione della mutata
immagine dell’uomo: creato da Dio e destinato a godere di beatitudine eterna,
anche se parzialmente compromessa dal peccato originale, ma recuperabile col
soccorso della grazia divina, l’uomo non può contare soltanto sulla propria
ragione. L’obiettivo centrale e imprescindibile della vita umana diviene lo
sforzo di meritarsi la beatitudine eterna e, dunque, il tentativo di conseguire
con le buone opere la giustizia divina occorrente per acquisire tale
beatitudine, una giustizia che è però radicalmente diversa da ogni altra. Si
tratta tuttavia di un obiettivo irraggiungibile in questa vita, stante quel
peccato originale che ha corrotto la ragione e ha tarpato le ali alla volontà di
ottenere la beatitudine; è però in virtù della Grazia che tale impegno viene
finalmente premiato, e la vita acquista senso in riferimento al suo tendere alla
santità. L’uomo che si sforzi di vivere rettamente (secondo la legge divina, non
quella umana) è destinato allo scacco qualora pretenda di raggiungere tale fine
esclusivamente con le sue forze, poiché – come nota Agostino – si trova
ineluttabilmente vinto dal peccato se non fa riferimento alla Grazia divina
liberatrice. In quest’ottica, le morali elaborate dagli antichi sbagliano nel
proporre fini puramente umani e terreni, che alla luce della Grazia si rivelano
come illusori ed effimeri, lungi dall’autentico Bene. E il raggiungimento di
quel bene terreno e umano – vuoi l’areth aristotelica, vuoi l’ascesa razionale
platonica – richiede l’esercizio di virtù che sono tali solo per chi ignora la
natura di Dio e dell’Amore (agaph) che Egli pretende dalle sue creature, quell’amore disinteressato per il
prossimo che è sconosciuto all’etica antica; il falso eudaimonismo dei Greci
poggia, secondo i cristiani, sull’ignoranza di quale sia la natura divina,
giacchè tutto ciò che concerne la relazione intercorrente tra uomo e Dio (e
dunque la Grazia, il peccato originale, la perfezione dell’Amore, ecc) esula
dalle capacità conoscitive della ragione resa incapace dal peccato originale.
Allora la relazione con questo Dio rivelatosi diventa l’essenziale, e così
l’uomo in quanto ragione mira a conoscerLo e in quanto volontà tesa a compiere
quella divina è rimandato continuamente a tale Rivelazione, alla quale deve in
tutto e per tutto sottomettersi, piegandosi anche alla Grazia che si sviluppa in
un nuovo agire reso possibile dal concorrere della Rivelazione e dalla Grazia:
è, questo, l’unico vero sapere e l’unico vero agire, l’unico a contare davvero
per la salvezza, frutto della Grazia agente sulla ragione e sulla volontà,
secondo quanto stabilito da Dio. Con la "patristica" assistiamo ad una radicale
delegittimazione di ogni punto di vista che non sia quello imposto dalla fede, e
pertanto il sapere viene concepito e praticato unicamente come teologia, ovvero
come LogoV intorno a
QeoV, come scienza di Dio:
si tratta di un genitivo sia soggettivo sia oggettivo, in quanto Dio è l’oggetto
di tale scienza, ma è al contempo Dio stesso il soggetto che sa, è la Grazia
divina che con la Rivelazione informa il fedele circa Dio. La delegittimazione
di ogni altro sapere finisce per investire anche la filosofia e viene scandita
secondo due modalità: in primo luogo, il filosofare umano è congedato come
errore frutto dell’ignoranza di che cosa sia la natura divina; in secondo luogo,
qualora non venga così brutalmente messo alla porta, viene etichettato come una
vana curiosità intorno a cose di poco conto se raffrontate all’unica cosa che
davvero conta: la salvezza umana; tutto ciò che non ha ad essa attinenza è
vana curiositas e, come tale, va rigettato, si abbandona il sapere umano
e si abbraccia la fede, viatico alla beatitudine eterna, una fede che è un
assenso e una fiducia in ciò che viene rivelato, ma è altresì notizia di ciò che
è rivelato, ossia è nozione di ciò in cui si ripone la fiducia. La fede,
pertanto, incrementando questa sua spinta conoscitiva, si sviluppa in
intelligenza di sé e dà così vita ad un sapere in cui è al contempo oggetto e
soggetto; tale sapere è intellectus fidei, l’intellezione della fede,
l’intellezione che ha ciò in cui crede. Agostino dice che vi è un primo momento
di "fede semplice", e un secondo in cui si è fatta intellectus fidei.
Nello stato di fede semplice, la ragione aderisce strettamente alla parola
scritturale, la tiene per vera e si riduce ad essa, si ha cioè una ragione come
mera ricezione del Verbo. In un secondo momento, in forza dell’illuminazione
proveniente da quella parola, l’intelletto muove dalla parola mirando ad una più
ampia comprensione della parola stessa e, quindi, dirigendosi ad essa: la parola
è principio della fede, e la fede illuminata tende ad una più profonda
comprensione della parola. Sempre muovendosi entro l’orizzonte della parola, la
fede da semplice diventa teologia, anche se tale passaggio non si verifica in
tutti i fedeli (nella stragrande maggioranza resta fede semplice), ma solo in
pochi eletti. Agostino nota come nello sforzo di articolazione della fede da
semplice a complessa, accada al teologo di ricorrere alle dottrine di alcuni
filosofi che lo hanno preceduto e che lo sorprendono per la loro straordinaria
somiglianza con quel che la Rivelazione dice: tali sono, secondo Agostino, i
Platonici e i Neoplatonici. Ma non per questo il teologo abbandona i suoi panni
per indossare il mantello del filosofo: non si rinuncia al proprio punto di
vista, poiché le dottrine filosofiche accostabili a quelle dettate dalla
Rivelazione altro non sono se non un plagio o il frutto di una Rivelazione
parallela; Platone stesso non è altro che un "Mosè atticizzato". Come
Mosè ha ricondotto il popolo dall’Egitto alla terra promessa, così Platone ha
fatto il suo viaggio in Egitto e ha trovato le tracce della Rivelazione ebraica
e se ne è impadronito per riformularle come propria filosofia. Ne deriva che il
platonismo è un plagio. La seconda teoria (formulata da Clemente Alessandrino) è
quella della "Rivelazione parallela": stando ad essa, bisogna riconoscere che se
ci sono (e, di fatto, ci sono) analogie tra alcune ragioni cristiane e alcune
filosofiche, ciò dipende dal fatto che, accanto alla Rivelazione vera e propria,
Dio ne ha prodotta un’altra - in senso lato -, ed essa corrisponde ad un certo
filone della filosofia greca; e del resto la ragione di cui si son serviti nel
loro incedere i filosofi antichi non è forse anch’essa il frutto della creazione
divina? Sicchè il teologo che si impadronisce di certe dottrine filosofiche non
fa altro che recuperare ciò che per natura è suo, formula cioè la stessa verità
nello stesso modo in cui l’avrebbe prima o poi formulata, anche senza incontrare
quelle dottrine filosofiche, poiché si tratta della medesima fonte di Verità.
Fino a Bonaventura (XIII secolo d.C.), passando per Bernardo di Chiaravalle,
domina questa prospettiva teologica che vuole la ragione interamente guidata
dalla fede, e ciò non solo in sede teoretica, ma anche in campo etico, dove le
improbabili virtù della sola ragione vengono surclassate dallo sforzo verso la
santità supportato dalla Grazia, con la conseguenza che il vero comportamento è
quello del monaco asceta e della sua assidua lotta contro il peccato, ch’egli
conduce vivendo fino in fondo, nel suo cuore, la distinzione – soprattutto
agostiniana - tra città divina e città terrena. Quando alla sovranità della
ragione socraticamente intesa come curiosa di tutto si sostituisce l’autorità di
un solo punto di vista imposto dalla fede, sovrarazionale e perciò inattaccabile
dalla ragione, il dialogo cede il passo al monologo, la cultura da vivace che
era diventa statica e stagnante, con un unico orizzonte entro il quale la
ragione è mero strumento passivo, illuminato dalla Grazia: non vi è altro da
sapere se non la vita eterna che si vivrà, e il nostro mondo perde in tal modo
di rilevanza, quasi diventa favola, il monaco il monastero assurgono a simboli
di una fuga dal mondo e dalla vita terrena, con l’apparentemente irrisolvibile
paradosso che in quei monasteri in cui ci si vuole sottrarre dal mondo e
dall’esercizio della ragione abbondano i copisti, che – attraverso il loro
strenuo lavoro di copiaggio – trasmettono ai posteri un sapere puramente umano.
In realtà, è un paradosso solo apparente, giacchè tali copisti, che ricopiavano
per intero le opere dei grandi filosofi dell’antichità, facevano ciò solo per
penitenza, per guadagnarsi il paradiso, senza nemmeno leggere quel che copiavano
(sarà poi il mondo umanista che tornerà a leggere con rinnovato interesse i
testi tramandatici dall’antichità). In tutte queste componenti del mondo
medievale troviamo conferma della tremenda depressione culturale in cui è
immersa quest’epoca: ma, a partire dalla metà del XII secolo d.C., si assiste al
ritorno di Aristotele e del suo bagaglio di scritti, che irrompono portati dagli
Arabi (soprattutto Avicenna e Averroè), e l’ingresso dello Stagirita in
Occidente è uno shock culturale, in quanto ci si ritrova dinanzi ad una
sistematica visione del mondo (precisamente: di questo mondo) che è così
articolata, complessa e diffusamente argomentata – e perciò istruttiva – che non
sembra più possibile sbarazzarsene come di un blocco fatto passare per menzogna
o vana curiosità. E’ un sapere così autonomo che non sembra neppure possibile
farlo rientrare in qualche modo nell’alveo della Rivelazione, poiché si tratta
di un sapere improntato sull’esercizio non della fede, ma della ragione: con
Aristotele, torna in Occidente – con rinnovato vigore - il sapere filosofico,
dopo un esilio durato qualche secolo, con un effetto assolutamente dirompente,
dal momento che costringe i teologi ad ammettere una forma di sapere altrettanto
legittima rispetto alla loro, e li induce ad elaborare una nuova teologia che
tenga conto di questa realtà poggiante su di un positivo sapere umano impostosi
inconfutabilmente. Così, Bonaventura avrebbe preferito che Aristotele non fosse
mai "risorto", ma, di fronte al monumentale corpus aristotelico, non può non
riconoscergli lo statuto di un sapere razionale valido, diverso sì da quello del
teologo, ma non per questo da rigettarsi. Per questa via, la filosofia (opus
rationis) e la teologia (intellectus fidei) si configurano come due
ordini distinti, caratterizzati ciascuno da un proprio statuto, cosicchè alla
teologia si impone di trasformarsi per poter intrattenere con la risorta
filosofia un rapporto che le consenta di esserle superiore: prima che Aristotele
facesse irruzione nell’Occidente medievale, la superiorità della teologia era
scontata e aproblematica; ora, invece, la si deve riformare per far sì ch’essa
sia in contatto con la ragione filosofica, ma restando ad essa superiore. Ed è
in questa prospettiva che si orienta Tommaso, il quale fa nascere la teologia
scolastica, ribadendo l’egemonia della teologia, pur non respingendo la ragione.
Compie questo in due mosse congiunte: fa all’interno dell’economia della
salvezza maggior spazio al puramente umano di quanto non venisse ad esso
riservato dalla tradizione agostiniana. Prima del ritorno in Occidente di
Aristotele, la ragione era del tutto appiattita sulla fede ("intellectus
fidei") e il sapere era meramente teologico: la ragione poteva sì conoscere
qualcosa, ma unicamente in forza dell’illuminazione della Rivelazione. Con
l’irruzione di Aristotele, anche i teologi più renitenti (quale fu Bonaventura)
sono ora costretti a riconoscere, accanto a quello teologico, un sapere
filosofico non scevro di una sua dignità, e il teologo deve quindi riaffermare
la supremazia della teologia sulla filosofia, senza potersi sbarazzare tout
court di quest’ultima: Tommaso non si esime da questo compito strategico con
– come abbiamo già detto – una duplice mossa. Viene dall’Aquinate aperto maggior
spazio di quanto non ne venisse lasciato da Agostino alla capacità razionale e
alla volontà dell’uomo, poiché, se per Agostino il peccato originale ha fatto
tabula rasa demandando l’uomo all’intervento salvifico della Grazia, secondo
Tommaso tale peccato ha solo tangenzialmente ferito la natura umana, l’ha
vulnerata di ferite non tali da impedire all’uomo l’esercizio delle sue naturali
facoltà, ed è così (equipaggiato di efficaci doti conoscitive) che lo descrive
Aristotele e, sulle sue orme, Tommaso. La ragione crea proficui processi
argomentativi, ma risulta altresì in grado di innalzarsi, elaborando una
teologia naturale (meramente razionale), ossia una vera – seppur parziale –
conoscenza di Dio, razionalmente inteso come principio del mondo. Ed è a questo
punto che subentra la seconda mossa di Tommaso: non solo il retto uso della
ragione è possibile e dà buoni risultati, ma è il solo che, producendo una
veritiera conoscenza del mondo e di Dio, non solo non è contrario alla fede, ma
anzi prelude e introduce ad essa. Sicchè il percorso razionale è meritorio e
degno d’esser praticato, e questo perché i due ordini (della ragione e della
fede) provengono dallo stesso ed unico Dio, cosicchè la retta ragione non può
contraddire la fede: la verità della fede e quella della ragione non si elidono
vicendevolmente. Ciò vuol dire che una filosofia contraria alla fede è un errore
della ragione che la ragione stessa è in grado di individuare e di correggere:
la filosofia corretta è l’aristotelismo che culmina nella teologia razionale
tomistica, quel tale aristotelismo sviluppato appunto da Tommaso nei suoi
scritti; devono invece essere rigettate come errate tutte quelle interpretazioni
dell’aristotelismo che hanno esiti diversi, prima fra tutte quella espressa da
Averroè (contro i cui seguaci l’Aquinate si schiera soprattutto nel De
unitate intellectus contra Averroistas), la cui rielaborazione
dell’aristotelismo finiva per predicare l’eternità del mondo. La sola ragione
può qualcosa da sé, se correttamente esercitata, e configura il filosofare come
introduzione alla fede, giacchè un tal corretto filosofeggiare culmina
naturalmente nella conoscenza di Dio. Ma la filosofia non si riduce a questo: il
suo esercizio prosegue dopo l’incontro della ragione con la Rivelazione, la
quale non fa altro che potenziarla; illuminata, la ragione è ora in grado di
dare alla fede l’intelligenza di sé e la propria comprensione, cui è la fede
stessa ad aspirare. Ne nasce il sapere teologico propriamente detto, sicchè il
teologo è colui che anticipa la beatitudine conoscitiva propria degli eletti. In
questo modo Tommaso, nell’atto stesso in cui riconosce la bontà e la legittimità
del filosofare (se direzionato dalla fede), pone la filosofia sotto la tutela
della teologia, ribadendo così l’incontrastata preminenza di quest’ultima. E’ sì
legittimo filosofeggiare, ma tale attività – se corretta – è preludio alla fede:
la filosofia è in tal modo ridotta al rango di ancilla theologiae. Non vi
è contraddizione e neanche soluzione di continuità, giacchè il sapere filosofico
si prolunga nella teologia positiva, cosicchè si tratta di un unico sapere
frutto dapprima della sola ragione, poi anche della fede, il tutto sotto l’egida
della Rivelazione e della fede stessa, il cui primato è costantemente messo in
evidenza. Da una parte c’è la ragione senza fede ed è preambolo alla fede, ossia
le cammina davanti; e, successivamente, abbiamo il sapere ottenuto dalla ragione
congiunta alla fede, ci troviamo cioè di fronte all’inveramento di quel
preambolo costituito dal solo procedere della ragione. Tra le due – ragione e
fede – vige una nuova relazione anche sul versante etico/pratico: la stessa
continuità che sussiste sul piano teoretico (culminante in teologia rivelata)
regna anche sul piano pratico tra etica filosofica ed etica rivelata. A tal
proposito, Tommaso parla di lex divina, di lex naturalis e di
lex humana: quella divina è rivelata da Dio nella Scrittura, quella
naturale è scoperta dall’investigare della ragione ed è anch’essa di natura
divina, poiché insita nelle cose prodotte dal Creatore; infine, quella umana è
deliberata e messa in atto dall’uomo, legittima solo in quanto derivata da
quella naturale. In quanto dotato di ragione, l’uomo conosce la legge naturale,
il cui nocciolo – apparentemente tautologico - è così esprimibile: fai il bene
ed evita il male. Ora, il bene a cui fa qui riferimento Tommaso è il bene a noi
noto nel significato aristotelico e colto, appunto, dalla ragione: si tratta,
cioè, del bene come piena attuazione dell’essere proprio di ogni ente; tale
processo si scandisce in fasi diverse: la conservazione di sé, la procreazione,
la crescita della prole, la vita in società, la conoscenza della verità, l’agire
secondo ragione. Ed è in ciò che consiste anche il raggiungimento della
perfezione umana e della felicità terrena: ma questa, che per Aristotele era la
massima felicità, per il cristiano Tommaso risulta invece una felicità
imperfetta e depotenziata, terrena e perciò mutila. Occorre notare, a tal
proposito, che in questo discorso di etica filosofica ritroviamo invariate tutte
le caratteristiche del filosofare etico/aristotelico, ivi compreso
l’intellettualismo, in particolare là dove esso asserisce che la volontà è
funzione della ragione: non a caso Tommaso dice che "si ratio recta, et
voluntas recta", ad indicare che dove la ragione procede bene, lì anche la
volontà – che ad essa è indisgiungibilmente connessa – funziona bene. Ma tutto
ciò vale esclusivamente nell’ambito dell’etica naturale, cioè nell’adempimento
della legge di natura: c’è però – come sappiamo – anche una legge divina, che la
ragione non può conoscere né la volontà può adempiere, bensì necessita della
Rivelazione per essere conosciuta e della Grazia per essere osservata. Essa
prescrive all’uomo la iustitia divina, ossia il puro e disinteressato
Amore divino, conosciuto con la Rivelazione e praticato con la Grazia: è solo
tale morale a fornire la vera felicità, mentre l’etica naturale funge da
preambolo ad essa proprio come la filosofia è preambolo al sapere teologico, nel
senso che predispone l’uomo – distogliendolo dagli istinti passionali – ad
ascoltare la volontà divina. Ugualmente, l’etica filosofica prepara l’uomo
all’etica cristiana, è una prima tappa di raccoglimento in vista del
conseguimento dell’eterna beatitudine. Siamo tuttavia in presenza di un evidente
duplice ottimismo: da un lato, la ragione conosce le virtù (il che le era dalla
patristica precluso) e, dall’altro, pur non soddisfando l’esigenza divina di
giustizia, prepara ad essa, ottenibile solo in virtù del soccorso della Grazia;
così la ragione, rinforzata dalla Grazia stessa, riesce per un po’ a perseguire
la santità. Infine, la legge umana è quella stabilita dal potere politico
amministrato dagli uomini: essa è legittima nella misura in cui è trasposizione
fedele della legge naturale, e se la contraddice non è legge, così come quando
la filosofia contravviene alla fede non è filosofia, ma erramento. Sicchè è
lecito affermare che la legge è tale solo e nella misura in cui è giusta,
altrimenti va respinta: ed è per questo che Tommaso riconosce la liceità
politica della ribellione e della lotta contro il tiranno (con il conseguente
abbattimento del medesimo). E tuttavia, nella legge umana, traduzione di quella
naturale e divina, tale legge esprime parallelamente all’etica la medesima
funzione propedeutica, poiché, costringendo a non fare il male e a non
delinquere – anche solo per il timore di essere puniti – indirizza verso il
bene, cosicchè c’è da aspettarsi che quanti costretti dalla legge non fanno il
male solo per paura delle pene derivanti (ed è questa la tesi proposta nella
Repubblica platonica attraverso il mito di Gige) si abituino a non farlo
e a fare volontariamente ciò che prima facevano sotto costrizione. Da tutto
questo discorso si evince come le novità apportate da Tommaso non siano poche e
di scarso valore: prima fra tutte, la legittimazione del filosofare in quanto
tale, seppur subordinato alla teologia e nonostante il persistere della
subordinazione del terreno al divino; similmente, beatitudine eterna e santità
restano lo scopo ultimo a cui tendere e per cui impegnare le proprie energie. Il
tomismo restituisce alla sfera umana un respiro che per secoli era stato
abolito: legittimare il sapere filosofico significa rilegittimare la conoscenza
di questo mondo, e nelle università urbane fiorite ai tempi di Tommaso nel loro
massimo splendore si insegna e si studia la filosofia come una conoscenza
squisitamente razionale, soffermandosi sull’aristotelismo presentato in tutte le
sue molteplici forme, anche le più radicali (l’averroismo). Anche se nella metà
del 1200 si terrà a Parigi il processo intentato a Sigieri di Brabante e agli
altri pensatori che, sulla sua scorta, ponevano la filosofia in antitesi con la
fede, ciononostante la filosofia continuerà ad essere costantemente insegnata,
godendo di grande fortuna. Ciò non toglie, però, che nella cultura dell’età
medievale la relativizzazione della vita terrena e mondana resti dominante e
sancita, e l’esigenza della santità rimanga discriminante; l’uomo deve sì
raggiungere le virtù, ma non fermarsi ad esse, giacchè al di là vi è la santità.
In questo panorama, la figura del monaco, ovvero di colui che impegna tutto se
stesso nel raggiungimento di suddetta santità, resta un modello imprescindibile
per tutti, di contro a cui la vita civile e mondana si rivela periferica e
imperfetta. Del resto, non è un caso che ancora il Concilio di Trento minaccerà
l’anatema a chi azzardi sostenere la superiorità del matrimonio sulla castità
monacale: ciò testimonia come la vita nel mondo terreno resti per lungo tempo
soggetta al sospetto e alla diffidenza, e come, nonostante le innovazioni e le
aperture apportate da Tommaso e da altri pensatori illuminati, la modernità
resti ancora all’orizzonte. La riscoperta di Aristotele impressiona fortemente
l’Aquinate, ma viene spontaneo domandarsi perché non sortisca effetti
altrettanto profondi su Agostino e sulla cultura del suo tempo, che aveva
liquiditato lo Stagirita (inserito nel tutto della cultura antica) come errore e
vana curiositas. Come è possibile che Tommaso resti affascinato dal
pensiero greco espresso da Aristotele, mentre Agostino lo congeda come se fosse
una bagatella? Una possibile risposta a tale interrogativo potrebbe essere
quella che invoca la categoria hegeliana di "Spirito del tempo", ossia la
tendenza peculiare e irresistibile di una certa epoca storica e della sua
cultura: la tendenza trionfante in una determinata epoca è, in definitiva, una
manifestazione dello "Spirito del tempo", e in effetti la categoria hegeliana è
più complessa di quanto si possa pensare sulle prime, giacchè lo "Spirito del
tempo" risulta composto da innumerevoli e imperscrutabili fattori che,
variamente combinandosi, determinano i mutamenti epocali (ad esempio la fine del
mondo antico e l’avvio di quello medievale). Tali fattori sono così numerosi
(pressochè infiniti) da richiedere un’analisi quasi interminabile: ci troviamo
pertanto di fronte ad una categoria vaga, perché in ultima istanza lo "Spirito
del tempo" hegeliano sfugge alla presa della ragione discorsiva, è un certo
nonsochè di sfumato, che non può essere colto dal pascaliano "esprit de
geometrie", ma dall’opposto "esprit de finesse". Ed è in quest’ottica
che dinanzi ad Aristotele si reagisce in maniere diverse, per svariati e non
precisi motivi legati allo "Spirito del tempo", forse perché ai tempi di
Agostino la ragione era in declino e la fede rappresentava una novità
sollecitante, mentre ai tempi di Tommaso, viceversa, si cominciava a nutrire un
rinato interesse per le facoltà razionali così a lungo sepolte. In maniera del
tutto analoga alla reazione di fronte ad Aristotele, capita che una stessa
città, se vista nel cuore della notte, quando vi si giunge stanchi, appaia
orribile; ma, al contrario, se osservata alla luce del sole, da riposati,
risulti meravigliosa, pur essendo sempre la stessa.
LA MODERNITA’
A partire dal XIII secolo d.C. si instaura un processo di progressiva
rivendicazione di affermazione di sé da parte della ragione umana, e questo
ridestarsi della ragione dopo il lungo letargo medievale sfocia nell’Umanesimo,
da alcuni concepito come l’alba della modernità. Cronologicamente, per modernità
si è propensi ad intendere il periodo che va dalla seconda metà del XV secolo
fino ai giorni nostri; in termini generalissimi, stando alla definizione che ne
dà Hegel, tale modernità è la "conversione dal cielo alla terra": non più
l’al di là, bensì l’al di qua, non la beatitudine eterna, ma la felicità
mondana, non la vita futura ma la presente, costituiscono il centro
dell’interesse dell’uomo umanistico, per il quale tanto il cielo religioso
quanto quello metafisico delle immutabili idee platoniche e delle forme
aristoteliche si scostano per cedere il posto alla finita vita terrena. In
realtà, questo processo prende le mosse in pieno XIII secolo e dura per
parecchio tempo, raggiungendo l’apice nel XVIII secolo con l’illuminismo, e
passando per due grandi momenti emancipativi: emancipazione dal principio di
autorità e la rinascita della curiosità. Sgombrare il campo dal principio di
autorità significa far rinascere l’autonomia della ragione, incensurata e non
sottoposta al comando di alcuna entità; la modernità risiede anzi soprattutto
nel libero esercizio della ragione, il che vuol dire che essa ridiventa
socraticamente curiosa, e – per dirla con Kant – cessa di essere impigrita dal
dominio del Libro. I "moderni" hanno legittimato la rinata curiosità in tre
fondamentali momenti: il primo di essi è segnato dall’Ulisse nell’Inferno
di Dante, che col suo ardore "a divenir del mondo esperto" si spinge fin
oltre le Colonne d’Ercole, imbattendosi infine nella morte; il secondo trova
invece espressione in un passo di Giordano Bruno (De gli eroici furori,
dialogo 5), in cui il Nolano scrive: "O curiosi ingegni, / […] Per largo e per
profondo / Peregrinate il mondo, /
Cercate tutti i numerosi
regni", con una chiara allusione alle grandi scoperte
geografiche di quei tempi. Infine, il terzo e ultimo momento è scandito da una
lettera di Cartesio inviata il 9 febbraio 1639 a padre Mercenne: "io studio
per la mia utilità e per la mia curiosità"; particolarmente interessante è
il riferimento cartesiano alla categoria dell’utile, che da quel momento in poi
assumerà un ruolo fondamentale in sede filosofica. Da queste tre tappe appare
evidente come siamo incommensurabilmente distanti dalla dannazione monastica
della curiosità (quale era stata sancita da Pier Damiani e da Bernardo), la
quale è conditio sine qua non per sbarazzarsi del principio di autorità:
è sì una condizione necessaria, ma ciononostante non sufficiente, poiché –
affinchè il principio di autorità venga scalzato – è altresì necessario che la
ragione diventi anche critica, quale era presso gli antichi. Essa torna appunto
tale nell’Umanesimo, un termine, questo, che troviamo solo a fine Settecento e
inizio Ottocento: l’Umanista è chi ha accesso a una cultura superiore, è chi si
umanizza studiando i testi tramandati dagli antichi, presi a modello di umanità
in quanto paradigmi del libero esercizio della ragione, non più ancella della
teologia, ma libera e disincantata padrona del mondo. Questo era già,
sostanzialmente, il significato della humanitas presso gli antichi, e
tale viene compendiato da Aulo Gellio nelle sue Notti attiche (libro
XIII, cap. 17): "chi parlava una volta bene latino, designava col termine
humanitas quello che i Greci denominavano paideia […]. Sono dotati di humanitas quanti
mostrano per le arti una passione sincera e perciò meritano di esser detti i più
umani tra gli uomini". Nell’età umanistica, in sintonia con la nozione
antica di humanitas, si diffondono con incredibile rapidità espressioni
del tipo humanae litterae, humanitas o studia humanitatis,
che ben rispecchiano il clima di profonda attenzione per la produzione degli
antichi (che in età medioevale era stata letta in maniera strumentale alla fede)
che si respirava in quel periodo. Scriverà Giambattista Vico: "gli uomini
prima sentono senza avvertire, dappoi avvertiscono con animo perturbato e
commosso, finalmente riflettono con mente pura"; con questa celebre
riflessione, egli mette in luce come gli uomini in un primo momento siano ancora
dei bruti, mera sensazione inconsapevole; poi accedono ad una consapevolezza
perturbata dall’emozione e, infine, pervengono alla pura ragione discorrente e
ragionante (il che corrisponde appunto all’età antica di Aristotele e Platone e
al ritorno di quell’epoca nel mondo umanistico), impadronendosi della
"bilancia dello spirito critico", che – aristotelicamente – non può
essere posseduta né dai primitivi né dai fanciulli e che nasce con l’Umanesimo.
Non è casuale che in età umanistica torni in auge il dialogo, che soppianta il
monologare del principio di autorità dell’età medievale: si attua in tal maniera
una straordinaria moltiplicazione dei punti di vista e delle prospettive, perché
le più disparate concezioni vengono riscoperte e riproposte. Non domina più quel
tutt’uno onnisciente che è la dottrina cristiana, ma pullulano tantissime
filosofie nella loro individualità, anche scuole di pensiero espunte o
tralasciate dai Medievali (l’epicureismo, lo scetticismo e lo stoicismo). Sicchè
la tradizione, a partire dall’età umanistica, è messa in krisiV, cioè sottoposta a giudizio e ricomposta
nelle sue differenti componenti – spesso inconciliabili – e questa è la
condizione imprescindibile affinchè possa farsi strada la tolleranza, ovvero la
pacifica convivenza di punti di vista diversi e, spesso, contrari. Il primo
importante manifestarsi della rinascente coscienza critica è la filologia
umanista, che non può essere ridotta ad un arido grammaticalismo, ma va
piuttosto intesa come tensione a reinterpretare nella sua complessità la cultura
antica quale ci è pervenuta. Insomma, non si tratta di una mera restaurazione
linguistica (non è, cioè, un banale ritorno al latino di Cicerone, come lo
intenderà certo umanismo, quale quello di Ermolao Barbaro), ma è piuttosto
l’esercizio critico della ragione; tale è, per l’appunto, la critica filologica
condotta da Lorenzo Valla contro la "Donazione di Costantino", da lui
smascherata – col solo utilizzo di mezzi filologici – come un falso posteriore,
redatto da un monaco ignorante. Siamo in altri termini di fronte ad una
riappropriazione critica della tradizione antica, considerata in sé come un
valore smarrito nella buia età medievale. Risulta a questo punto opportuno
indagare – seppur sinteticamente – su che cosa sia accaduto alla ragione nei
cosiddetti "secoli bui" dell’età medievale: dal prevalere egemonico della
consuetudine sulla ragione, nasce una cultura nella quale si assiste al
sopravvento di un unico punto di vista (quello cristiano), spesso imposto con la
violenza, un punto di vista che non è il frutto del libero investigare del
raziocinio, ma, piuttosto, è un qualcosa che viene tramandato
consuetudinariamente di padre in figlio, ed è in tale condizione che si palesano
gli effetti deleteri giocati dal cristianesimo sulla ragione umana. Quanto più
la consuetudine prende il sopravvento, tanto più viene stimolata la pigrizia del
filosofare, imponendo la comoda facilità del risaputo, con l’inevitabile
conseguenza che la capacità di giudizio propria della ragione si ottunde ed essa
subisce un precoce ed artificioso invecchiamento che ne atrofizza le funzioni
riducendola a mero portavoce e a pura cassa di risonanza della prospettiva
cristiana. Un simile esempio di sclerotizzazione di un’intera civiltà – quale si
è avuto nel Medioevo – ci è fornito anche dalla Cina, così come essa si è
sviluppata fino al XIX secolo d.C., in un incredibile immobilismo che Hegel ha
rintracciato nella produzione artistica, tristemente rimasta invariata nelle sue
forme, a tal punto da essere nel XVIII secolo ancora ridotta a riprodurre
prototipi del tutto uguali a quelli dei secoli precedenti, in una repititività
assoluta, peraltro presente anche nelle istituzioni politiche di quell’immenso
Paese. Ora, qualcosa di affine al caso cinese avviene in Occidente nell’età
medievale: prova ne è che se ci chiediamo in che cosa si differenzi l’Ottocento
dal Novecento o dal Mille, ci troviamo alquanto in imbarazzo nel fornire
risposte soddisfacenti, proprio come non riusciamo a rispondere se interrogati
su quali siano le distinzioni tra la Cina del XIX secolo e quella del XII. Lo
shock culturale prodotto dal rientro in Europa di Aristotele ha, in tal
prospettiva, l’effetto di una vera e propria scarica di adrenalina; e, del
resto, l’intellettualismo greco, così profondamente venato di ottimismo, da
cos’altro trae origine se non dallo stupore continuo che sorprende la ragione
che scopre se stessa? I dialoghi platonici non sono forse un incessante stupore
della ragione che disvela le sue virtù? Ora, la modernità non esita a condannare
il Medioevo e il suo rifiuto della ragione come faro della vita umana: e,
bandito il principio di autorità e ripristinata la curiosità di marca socratica,
i moderni procedono con una terza importantissima via emancipativa con la quale
convertirsi dal cielo alla terra, e quella via è una diretta conseguenza del
ripudio del principio d’autorità. Scrive Hegel in merito all’età medievale,
epoca della "coscienza infelice" che vede in Dio tutto e nell’uomo nulla – e al
suo trapasso in modernità: "gli uomini avevano un cielo ornato con ricca
abbondanza di pensieri e di immagini […]. Anziché sostare in questo pensiero,
che invece sorvolava, lo sguardo si innalzava al cielo, ad un essere divino, ad
un presente – se così si può dire – al di là. Si rese così necessario, in età
moderna, costringere l’occhio dello Spirito sulle cose di questa terra e
trattenerlo". Il cielo della religione cristiana, delle idee platoniche e
delle essenze aristoteliche viene dai moderni abbandonato: anche le essenze
aristoteliche – è bene notarlo – fanno parte del cielo e non della terra, poiché
esse sono contemplabili da parte della ragione solo attraverso un’astrazione che
le svincoli dall’empirico e, di conseguenza, dalla vita. In età moderna, è la
ragione, ridestatasi dal lungo letargo medievale, che – critica e polemica ad un
tempo – costringe l’occhio alla terra, svuotando i cieli allestiti dalla
religione e dalla metafisica, le quali appaiono alla ragione stessa come vane
fantasticherie o fumose congetture, ossia come mondi fantasmagorici o, quanto
meno, incerti, privi cioè di salde prove e perciò immeritevoli di convogliare su
di sé tutta l’attenzione e la sollecitudine dell’uomo. La pretesa di fare di
questi cieli il fine ultimo dell’uomo appare agli occhi vigili della ragione
critica non solo infondata, ma anche nociva, giacchè distoglie l’uomo stesso
dall’occuparsi di quegli obiettivi in larga misura certi e tangibili: le cose
ch’egli potrebbe compiere quaggiù, finirà per trascurarle completamente se si
ostina a perder tempo in questi fantomatici e sedicenti cieli; la ragione nella
sua veste critica, dunque, distoglie da essi, mentre quella nella sua veste
critica e operatrice trattiene a terra lo sguardo, mettendo mano ad una ben
calcolata (cioè scientifica) trasformazione della terra, volta a trarre la
massima utilità e il massimo profitto possibili per l’uomo. Ecco allora che
l’emancipazione dal cielo si articola in una prima riappropriazione della terra
grazie alla ragione calcolatrice che sfocia in una prospettiva eudemonistica e
utilitaristica tipica della modernità, sfocia in un filantropismo che culminerà
nell’illuminismo. E allora ciò che la risvegliata ragione sortisce è un
allontanamento dal miraggio d’una lontana e dubbia beatitudine celeste (distacco
anche dalle forme aristoteliche e dalle idee platoniche), avviandosi
all’indubbia e prossima felicità terrena, frutto di un corretto impiego della
ragione, il quale è sì un impiego critico e polemico, ma non più metafisico
(come quello antico), la ragione non si interessa cioè più di speculare, ma
concentra la sua attenzione sul calcolare e sull’operare. In piena età
illuministica, Voltaire e Diderot affermano concordi che "la felicità è
l’unico dovere dell’uomo", ma non si tratta della felicità platonicamente ed
aristotelicamente intesa, culminante nella sapienza speculativa; al contrario, è
la felicità di chi riesce a rendere questo mondo più comodo e agevole, in un
significato piuttosto vicino a quello che odiernamente attribuiamo al
"benessere". Ne segue che l’emancipazione dal cielo comporta la riappropriazione
della terra, ma anche una seconda riacquisizione: affinchè l’uomo si riappropri
della terra trasformandola a proprio vantaggio, è necessario che egli sia
presente hic et nunc a se stesso, edotto e consapevole delle proprie
caratteristiche e qualità, fiducioso nei propri mezzi e padrone di far di essi
l’uso più consono. Occorre cioè la riappropriazione di sé da parte dell’uomo, il
che significa che i moderni elaborano una nuova e diversa immagine dell’uomo
stesso, rispetto a quella affiorata in età medievale. Una lunga tradizione
storiografica che parte da La civiltà del Rinascimento in Italia (1860)
di Jacob Burckhardt e arriva fino a Giovanni Gentile scorge i prodromi di questa
rinnovata immagine dell’uomo nei trattati umanistici sulla dignità e
sull’eccellenza dell’uomo, nei quali si tesse un elogio del genere umano e se ne
segnalano la superiorità e l’egemonia su tutti gli altri esseri. Ma sono
veramente questi i testi in cui emerge l’immagine dell’uomo nuovo? Sono per
davvero gli incunaboli di un genere umano dal volto rinnovato? O non sono
piuttosto altri? Scendendo nello specifico, notiamo come i trattati umanistici a
cui fan riferimento Burckhardt e Gentile siano suddivisibili in due diversi
filoni – uno platonico e l’altro aristotelico - , nessuno dei quali tuttavia
delinea veramente la nuova immagine dell’uomo moderno. Il più noto esponente del
filone platonico è indubbiamente Pico della Mirandola e la sua Oratio de
hominis dignitate, nella quale sostiene che l’uomo è stato creato ad
immagine di Dio e, perciò, come un microcosmo, in maniera tale da riprodurre
entro di sé l’infinita pienezza di Dio (la pienezza delle idee platoniche si
configura per Pico come pienezza dell’essere divino, infinito perché racchiude
in sé l’infinita totalità delle idee). Il mondo stesso è, del resto, un’immagine
(deficiente) di Dio e l’uomo rappresenta un mondo in miniatura, in quanto egli è
virtualmente ogni forma possibile di vita: vegetale (poiché possiede l’anima
vegetativa), animale (perché dotato di anima sensitiva e, quindi, di istinti e
passioni), umana (in quanto equipaggiato di ragione e pensiero), angelica (nel
caso raggiunga la pura intuizione intellettuale). Ben si capisce come l’uomo
compendi entro di sé l’intero cosmo, perfino la vita divina. E tale
microcosmicità fonda la libertà dell’uomo, chiamato a scegliere quali seguire
tra queste vite virtualmente presenti in lui: con un libero slancio di volontà,
può decidere se restare pianta, animale, uomo, o se innalzarsi alla natura
angelica e magari anche a quella divina. Tale libertà è la prima ragione della
particolare eccellenza e dignità da Pico riconosciuta al nostro genere,
strettamente imparentato con Dio stesso: è solo l’uomo, infatti, a poter
scegliere liberamente se rimanere pianta o innalzarsi a Dio, mentre tutti gli
altri enti (le piante, gli animali, e gli angeli stessi) sono destinati a
rimanere quali sono, fissati nella loro determinatezza. Certo, non si tratta di
una libertà assoluta, ma relativa, in quanto non costituisce i valori tra i
quali scegliere, ma li trova già costituiti: ma è comunque tale da consentirci
una nostra dignità eccellente. E Pico – qui in sintonia con Ficino e con il suo
De immortalitate animorum – sviluppa un’attenta riflessione sul
"desiderio naturale", che è un desiderio congenito alla natura di un certo ente;
ora, esso è presente in tutti gli enti e in tutti ha per oggetto un bene che è –
aristotelicamente – il proprio bene, ossia la perfezione dell’essere di quel
dato ente, sicchè ogni cosa appare come in cammino verso la propria piena
realizzazione. Anche nell’uomo trova spazio tale desiderio naturale, ma con la
prerogativa di non potersi appagare di un simile perfezione: al contrario, mira
alla perfezione dell’essere in quanto tale, e perciò a quella dell’essere
divino. Sotto le spoglie del desiderio naturale divino di cui parla Pico non è
difficile riconoscere l’eros socratico/platonico, quell’anelito all’infinito che
tornerà ancora nella cultura romantica: tale sforzo verso l’infinito alimenta la
nostra anima per tutta la sua esistenza, poiché nessuno dei beni che conquista è
in grado di estinguere la sua sete; da ciò deriva che l’esistenza dell’anima,
tendente all’infinito e per questo motivo mai appagata pienamente, dovrà essere
infinita, cosicchè essa sarà immortale. E’ una contraddizione solo apparente
quella in cui ci imbattiamo quando Pico parla dell’uomo come ente finito e del
suo desiderio naturale come mirante all’infinito: l’uomo, infatti, è atto al
fine soprannaturale ed è in ciò soccorso dalla Grazia, secondo quel celebre
motto medievale "Gratia perfecit naturam"; è pertanto concesso all’uomo
di raggiungere l’infinito, grazie all’intervento della Grazia: ciò avviene
nell’estasi mistica, il che vuol dire che in questa suprema possibilità di
unirsi a Dio Pico ravvisa la superiorità umana su tutto il creato, giacchè solo
l’uomo (e non l’angelo) può indiarsi. Gli è permesso di innalzarsi fino alle
sfere celesti o di abbassarsi fino ai bruti: che l’uomo si trovi in qualche
misura in una posizione privilegiata rispetto agli angeli è anche provato dalla
tradizione biblica, che vuole che, caduti sia gli uomini sia gli angeli
(Lucifero), Dio si prenda cura esclusivamente dei primi, concedendo loro la
possibilità di redimersi. Questo discorso di Pico rileva la centralità dell’uomo
nell’economia del cosmo, di cui l’uomo appunto è il massimo prodotto: "o
somma liberalità di Dio Padre, somma e mirabile felicità dell'uomo! Al quale è
dato avere ciò che desidera, essere ciò che vuole. […] I quali [uomini]
cresceranno in colui che li avrà coltivati e in lui daranno i loro frutti. Se
saranno vegetali, diventerà pianta; se sensibili abbrutirà. Se razionali,
riuscirà animale celeste. Se intellettuali, sarà angelo e figlio di Dio. E se,
non contento della sorte di nessuna creatura, si raccoglierà nel centro della
sua unità, fattosi uno spirito solo con Dio, nella solitaria caligine
del Padre, colui che è collocato sopra tutte le cose su tutte
primeggerà" (Oratio de hominis dignitate). L’uomo così inteso è
faber fortunae suae: eppure la prospettiva di Pico (condivisa in gran
parte da Ficino e da Landino) può davvero dirsi moderna in senso pieno? Getta
davvero le basi del nuovo uomo? Sia Pico sia Ficino mantengono il cielo come
mèta ultima (platonica e cristiana), restando lontanissimi dall’affermazione
hegeliana secondo cui il moderno sarebbe un passaggio dal cielo alla terra. Se
ci spostiamo sul filone aristotelico, ci imbattiamo in tre grandi pensatori:
Manetti (autore del De dignitate et excellentia hominis), Alberti (di
indirizzo stoico) e Bracciolini. Essi si occupano della nobiltà dell’uomo,
rinvenuta nell’esercizio delle virtù etiche e politiche (per questo motivo
questi tre autori si collocano sul filone "aristotelico"); domandandosi quale
sia la vera nobiltà, negano radicalmente che sia quella di sangue (già Eckhart
in età medievale aveva intrapreso una strada analoga) e sostengono che proviene
dalla propria virtù; l’eredità non è a loro avviso un’autentica forma di
possesso, poiché si può dire di possedere solamente ciò che ci si è procacciato.
Naturalmente, la virtù non è qualcosa di ereditabile, e ne è una fulgida prova
il fatto che da padri ottimi nascano figli pessimi e viceversa, non vi è cioè un
progresso etico dell’umanità. La vera nobiltà sarà allora – stando a Poggio
Bracciolini – uno splendore procedente dalla virtù che illustra i suoi
possessori, qualunque ne sia la condizione sociale: è la nascente borghesia che
comincia a rivendicare i suoi diritti di fronte alla nobiltà, inaugurando un
atteggiamento che culminerà, qualche secolo dopo, con la Rivoluzione francese.
E’ coi nostri meriti e con le nostre libere azioni che ci meritiamo lode e
nobiltà, sostengono questi pensatori, riferendosi soprattutto alle virtù
pubbliche: è il cittadino virtuoso ad esser degno della nobiltà, cosicchè
ciascuno di noi sarà stimolato a guadagnarsi tale patente fuggendo l’ozio e
l’ignavia. Ma siamo autorizzati a dire che questo secondo filone della
trattatistica umanistica prospetti l’immagine dell’uomo nuovo e moderno?
Dobbiamo forse riconoscere, in sintonia con tali autori, che l’uomo moderno è
virtuoso? Sicuramente questa variante è più "moderna" rispetto a quella di Pico
e di Ficino, ancora così legati al "cielo" e distanti dalla "terra", ma non è
ancora corretto dire che in questi autori si trovi la modernità, altrimenti ci
troveremmo costretti ad ammettere ch’essa consista in una ripresa anacronistica
dell’etica aristotelica della virtù e dell’ottimismo che da essa trasuda. Tanto
più che l’uomo moderno non torna affatto ad Aristotele, ma anzi, oltre a
congedarsi dal cielo in favore della terra, prende le distanze da Aristotele,
pur restando fedele alla felicità mondanamente intesa. I moderni combattono
tanto l’aristotelismo quanto il cristianesimo, in quanto retaggio del Medioevo e
autorità alle quali appellarsi per tacitare gli interlocutori: con Aristotele,
viene anche ripudiato il suo impianto etico (rimpiazzato da uno spiccato
utilitarismo) e il suo modello del sapiente virtuoso (sostituito dal cittadino
felice). La modernità si configura allora come fortemente anticristiana – nelle
sue linee essenziali – con un secco rifiuto del cielo in favore della terra,
poiché è solo in questa vita che ci si può salvare, in vista di un continuo
seppur lento miglioramento, badando non già alla quantità della vita (ritenuta
eterna dalla tradizione cristiana), bensì alla sua qualità, che deve essere
quanto più elevata: la beatitudine eterna viene addirittura intesa come ostacolo
per il conseguimento della felicità terrena, giacchè l’etica religiosa
dell’ascesi e del dominio di una prospettiva escatologica distrae dai problemi
mondani, facendoli passare in secondo piano. Ne consegue un deciso rigetto della
santità medievale, rifiuto che nel Settecento diventa il cavallo di battaglia
della borghesia, oramai pienamente cosciente di sé e pronta a realizzare le sue
rivoluzioni. Anche l’etica aristotelica è combattuta, insieme con il suo ideale
del sapiente virtuoso e della razionalità disinteressata, che si colloca al di
là delle parti e, perciò, riesce a signoreggiare le passioni detronizzandole:
perfino l’idea di una società naturalmente sviluppantesi col solo retto
esercizio della ragione è abbandonata, sebbene il riferimento alla santità e
alla virtù disinteressata permanga per lungo tempo nella civiltà moderna, per
morire di una morte lentissima, e anzi restando dominante almeno attraverso
l’arte che la società sviluppa. Dietro a questa facciata apparentemente non
distinta dall’età medievale, però, prende piede una tendenza sempre più marcata
a negare la santità e la virtù disinteressata, e le convinzioni proprie della
modernità, prima di diventare appannaggio di un’intera classe sociale (la
borghesia nascente) o, addirittura, modi comuni di pensare (come sono oggi),
vengono portate avanti da una ristretta cerchia elitaria, così come avviene con
il trapasso dalla scienza antica aristotelica a quella moderna: come si
ricorderà, mentre a livello universitario e di cultura generale si continuava a
pensare aristotelicamente che la Terra fosse al centro di un universo finito e
che il Sole le ruotasse intorno, alcuni pensatori andavano scardinando queste
errate convinzioni, introducendone di radicalmente nuove che sarebbero a poco a
poco prevalse. E così come nuovi vessilliferi di una cultura moderna sbocciata
in profondità meritano di essere ricordati Erasmo, Pomponazzi, Machiavelli,
Guicciardini, Montaigne, i libertini francese, i moralisti francesi e, infine, a
conclusione del processo, gli illuministi. L’ideale della santità è respinto, lo
sguardo torna sulla terra: ma si può ancora parlare, nell’età moderna, di una
razionalità vincitrice sulle passioni? Secondo i moderni, ciò è impossibile,
perché si tratta di vano utopismo, di una chimera da lungo tempo inseguita:
bisogna fare affidamento non sulla capacità di praticare la pura virtù dominando
le passioni (chè questa è una sciocca illusione), ma sulla capacità (da loro
promossa) di servirsi delle passioni e degli impulsi a vantaggio sia dei singoli
individui sia della collettività presa nel suo insieme. L’uomo non può vincere
sulle passioni, ma, ciononostante, può manipolarle e farne un mezzo che serva
per trasformare la vita in vista di un incrementato benessere, cosicchè
l’immagine di uomo ora proposta è del tutto nuova, e se quella tradizionale è
giudicata chimerica e fantastica, quella che essi propongono è ritenuta
veritiera perché realistica, cioè fondata sull’esperienza e non su nebbiose
congetture sganciate dal reale. Ed è questa istanza critica e realistica a
caratterizzare la nascita della modernità, il cui vero e grande primo esponente
è Machiavelli: essa si sviluppa anche – e vi abbiamo accennato in precedenza –
secondo una terza direttrice emancipativa, dall’immagine dell’uomo tramandata
dalla tradizione.
MACHIAVELLI
I moderni si avviano ad un’aspra critica dell’astrattezza e del dogmatismo in
cui erano immerse l’età classica e la sua metafisica, quell’astrattezza che
portava automaticamente all’immagine dell’uomo razionale, animale politico e
campione di virtù. Con Machiavelli fa la sua comparsa sullo scenario filosofico
un’istanza realistica e critica che esordisce con una critica della tradizionale
(e chimerica) immagine dell’uomo, frutto del dogmatismo e dell’astrattezza del
pensiero metafisico: come si produce un tale esito del pensiero? Avviene che un
particolare aspetto - inteso in certo modo – di una complessa e concreta realtà
venga identificato col vero essere di quell’intera realtà, cosicchè essa finisce
con l’essere identificata in tutta la sua complessità con un singolo aspetto dei
molteplici che la caratterizzano. E, una volta operata questa astrazione, si
identifica dogmaticamente tale singolo aspetto con l’indiscussa verità di quella
realtà: tale è appunto la definizione metafisica di uomo come "animale
razionale", quasi come se la ragione esaurisse l’esser uomo proprio dell’uomo e
come se gli uomini fossero tutti tali poiché possessori di siffatta razionalità:
una tale astrazione finisce col cristallizzarsi dogmaticamente in verità
indiscutibile, da accettarsi passivamente. I metafisici classici hanno, in
questo senso, assolutizzato una loro interpretazione della realtà e non è un
caso che Platone e Aristotele, pur divergendo in moltissimi punti, si trovino
d’accordo nel ritenere che il filosofare scaturisca dalla meraviglia
(to qaumazein) di fronte a
ciò che non si conosce; ma è lecito affermare che questa loro dogmatica
astrazione della ragione così concepita corrisponda tout court al reale?
Si può dire che essa qualifichi l’uomo? O non è forse più corretto affermare che
ne costituisce un’idealizzazione, non dissimile da quella attuata dalla scultura
greca, che ci presenta una bella umanità evidentemente idealizzata? E’ forse
lecito ammettere che gli uomini siano essenzialmente ragione? E – soprattutto –
la ragione in questione è quella come la intendevano gli antichi? Porsi queste
domande equivale a mettere in dubbio che i metafisici siano nel giusto e far
valere un’istanza realistica, come appunto fa Machiavelli: egli opera nella
stessa Firenze e negli stessi anni in cui Pico e Ficino andavano sostenendo la
centralità del divino, gli stessi anni in cui Savonarola si scagliava contro il
lusso dilagante, sicchè assistiamo contemporaneamente al canto del cigno della
metafisica (simboleggiata dal neoplatonismo fiorentino) e all’esordio del punto
archimedeo su cui poggia la modernità. Nel capitolo XV del Principe
troviamo brillantemente esposta, in maniera sintetica e icastica, la prospettiva
machiavelliana: "sendo l'intento mio scrivere cosa utile a chi la intende, mi
è parso più conveniente andare drieto alla verità effettuale della cosa, che
alla immaginazione di essa. E molti si sono immaginati repubbliche e principati
che non si sono mai visti né conosciuti essere in vero; perché elli è tanto
discosto da come si vive a come si doverrebbe vivere, che colui che lascia
quello che si fa per quello che si doverrebbe fare, impara più tosto la ruina
che la perservazione sua: perché uno uomo che voglia fare in tutte le parte
professione di buono, conviene rovini infra tanti che non sono buoni. Onde è
necessario a uno principe, volendosi mantenere, imparare a potere essere non
buono, et usarlo e non usare secondo la necessità. Lasciando adunque indrieto le
cose circa uno principe immaginate, e discorrendo quelle che sono vere,
dico che tutti li uomini, quando se ne parla, e massime e principi, per essere
posti più alti, sono notati di alcune di queste qualità che arrecano loro o
biasimo o laude". Centrali sono alcune espressioni e alcune concezioni che
affiorano nel passo, quali l’utilità, la verità effettuale, il rifiuto
dell’immaginazione, tutti parametri propri di Machiavelli e dell’età moderna e
preannuncianti l’imminente dissoluzione della metafisica trascinatasi fino a
quei tempi. Machiavelli, quando accenna a chi ha voluto tratteggiare gli uomini
non quali sono ma quali dovrebbero essere, mette alla berlina la
Repubblica di Platone e la Politica di Aristotele, massime
espressioni della tramontante età metafisica; chi si ostina a guardare non al
come si vive ma al come si dovrebbe vivere, va inevitabilmente incontro alla
propria rovina, poiché la propria preservazione – concetto squisitamente moderno
– è impossibile per chi vuol essere buono in mezzo a tanti che buoni non sono;
ne consegue allora che chi cerca fantasticamente di essere quel che dovrebbe
essere cade in miseria, sicchè il principe che aspira a restar tale deve
apprendere a poter non essere buono. Questo passo machiavellico segnala, tra
l’altro, come il "principe" concerna l’uomo in quanto tale e valga per il
"principe" proprio perché vale per l’uomo. Il "principe", dunque, altro non è se
non una metafora dell’uomo e il trattato di Machiavelli mira innanzitutto ad
insegnare come mantenere la propria preservazione, cosicchè, prima di essere un
manuale di politica, esso è un manuale di sopravvivenza rivolto a tutti gli
uomini, affinchè essi imparino a sopravvivere nella giungla della vita senza
esser travolti dai soverchiamenti altrui; e la politica sarà allora in primo
luogo la ricerca della propria preservazione, senza domandarsi se sia giusta o
ingiusta o, tanto meno, che cosa siano il giusto e l’ingiusto in sé. Si può
allora leggere in filigrana un’antropologia di fondo in questo discorso politico
condotto tecnicamente: ben si evince come i suoi principali ingredienti siano il
realismo, il pragmatismo e il pessimismo. Vi troviamo un secco rifiuto
dell’immaginazione (propria della metafisica) e un invito alla ricerca della
verità effettuale della cosa, rivendicata nel momento stesso in cui Machiavelli
dichiara – nella dedica del Principe - esser frutto del suo sapere una
lunga esperienza delle cose moderne e una continua lettura di quelle antiche
(attraverso le storie narrate da Livio, Tacito, ecc). L’esperienza viene da lui
sapientemente coniugata al sapere storico, mettendo l’accento sulla loro
concretezza; è concreta l’esperienza che si ha stando a contatto con la realtà,
ma anche quella che si fa leggendo i libri di storia, configurantisi come una
sorta di esperienza narrata, giacchè essi ci raccontano ciò che effettivamente e
singolarmente è accaduto, senza vane pretese di cogliere fantomatici universali,
di contro all’astrattezza che avviluppa la metafisica. Dobbiamo però prestare
molta attenzione alla terminologia impiegata da Machiavelli, spesso fuorviante:
per "buono" egli intende qualcosa di radicalmente diverso a ciò a cui noi tutti
siamo abituati, e in particolare egli si riferisce all’ "efficace", cosicchè per
Machiavelli può dirsi "buono" ciò che risulta "efficace". Discorso analogo vale
per il termine "virtù", di cui il pensatore toscano si serve in un’accezione
diversissima rispetto a quella tradizionale: nell’accezione medica di
"potestas quaedam faciendi", come quando si parla delle virtù
terapeutiche di una medicina, alludendo al suo saper sortire un determinato
effetto. Si può dunque legittimamente affermare che i termini "bontà" e "virtù"
si colorino in Machiavelli di significati nuovi, indorandosi di un’impostazione
utilitaristica e pragmatistica, quasi come se egli ribattezzasse la terminologia
tradizionale. Egli, dunque, pone al centro dei suoi interessi l’uomo o, meglio,
i singoli uomini , ma, proprio perché non parla dell’uomo universalmente inteso
(come invece facevano Platone e Aristotele), ma della infinita molteplicità
degli individui concreti, si tratta di un’autentica esperienza reale e
concretizzata, mentre invece la "favola" dell’uomo universale, raccontata per
secoli e secoli, non ci riguarda minimamente sul piano empirico, anche se può
dilettare la nostra immaginazione e compiacere il nostro narcisismo. Occorre
piuttosto indagare l’essere e non il dover essere, sicchè verso la fine del
secolo un altro grande inauguratore dell’età moderna, Francesco Bacone, scriverà
nel suo De augmentis scientiarum (cap. VIII, par. 2) che si deve esser
grati a Machiavelli per l’aver mostrato quello che gli uomini sono e non ciò che
dovrebbero fare; viene esaltata da Bacone (e da molti altri) la franchezza,
l’avversione all’ipocrisia, e la concretezza nella sua efficaceità, giacchè meno
ipocriti siamo verso noi stessi e tanto meglio riusciamo ad organizzare la
nostra esistenza in questo mondo, muovendoci in direzione del nostro personale
interesse, che è in primo luogo la nostra preservazione. Machiavelli viene
dunque osannato come demistificatore, sebbene egli a più riprese mostri la
necessità di ricorrere all’ipocrisia e alla simulazione. Prima ancora che per il
principe, vi sono per tutti gli uomini virtù (pretese o ritenute tali) che, se
seguite, portano alla rovina, e ci sono vizi (pretesi o ritenuti tali) che, se
eseguiti, ci preservano: allora – si domanda Machiavelli – perché mai dobbiamo
chiamare virtù quelle e vizi quegli altri? Stiamo in queste riflessioni
ammirando l’ "aurora" (così si esprime Giovanni Gentile) di una
concezione dell’uomo e del mondo circostante tratteggiata dai moderni, ad avviso
dei quali spesso i vizi privati si rivelano come pubbliche virtù. Quella che
prende a svilupparsi è, in altri termini, una vera rivoluzione copernicana
dell’etica: non si è forse sempre sostenuto che la virtù è essa stessa il primo
premio dell’uomo virtuoso? E, di conseguenza, non si è sempre ritenuto che
dall’agire virtuosamente derivi sempre il successo? Tale veduta è – per dirla
con Manzoni – "una di quelle sottigliezze metafisiche, che una moltitudine
non ci arriva", ossia si tratta di immaginazioni filosofiche prive di
riscontro nella realtà, ed è qui che subentrano le considerazioni di Machiavelli
sulla questione religiosa e, in particolare, la distinzione da lui operata tra
la religione dei moderni (il cristianesimo) e quella degli antichi (il
paganesimo), con particolare attenzione ai diversi effetti che esse producono:
quella dei moderni ha effetto indebolente, poiché fa perdere la stima di questo
mondo, concepito alla stregua di un’anticamera rispetto al presunto vero mondo,
cosicchè non è importante se in tale anticamera ci si trova sdraiati o seduti,
liberi o in catene, padroni o servi, giacchè semplicemente di un’anticamera si
tratta; viceversa, la religione degli antichi sortisce effetti rafforzanti,
rivaluta pienamente il mondo che ci sta dinanzi e esorta a dedicarsi interamente
ad esso, compiendo azioni determinate e "bellicose". In altri termini, il
cristiano vive il mondo passivamente, giacchè quello che ha davanti non è il
vero mondo, mentre il pagano – per il quale il mondo che gli sta dinanzi è il
solo – vive attivamente, cavalcando l’onda degli accadimenti. Scrive a tal
proposito Machiavelli, nei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio
(II, 2) : "la religione antica, oltre a di questo, non beatificava se non
uomini pieni di mondana gloria, come erano capitani di eserciti e principi di
repubbliche. La nostra religione ha glorificato piú gli uomini umili e
contemplativi che gli attivi. Ha dipoi posto il sommo bene nella umiltà,
abiezione, e nel dispregio delle cose umane; quell’altra lo poneva nella
grandezza dello animo, nella fortezza del corpo ed in tutte le altre cose atte a
fare gli uomini fortissimi". Qui Machiavelli inaugura quell’accesa polemica
contro il cristianesimo che si trascinerà per tutta l’era moderna, facendo leva
sul fatto che quello cristiano è un modo di vivere che ha reso debole la vita
stessa e l’ha consegnata nelle mani degli "scellerati" che possono adeguatamente
maneggiare il mondo, vedendo come i più, per andare in paradiso, pensano più a
sopportare le proprie ingiustizie anziché vendicarle, rendendosi in tal maniera
passivi e sottomessi a chi non ha di questi scrupoli. Ne consegue allora che gli
antichi avevano una religione falsa ma buona (cioè utile), mentre i moderni ne
hanno una vera ma non buona ai fini mondani, giacchè, per ottenere la propria
preservazione, occorre essere astuti come volpi in modo tale da scovare le
trappole disseminate sul percorso della vita (e in modo da disseminarle sui
percorsi altrui) e forti come leoni, in maniera tale da spaventare i lupi che ci
circondano (è l’homo homini lupus di Hobbes che qui trova un
antecedente). Certo, se gli uomini fossero tutti buoni (nel significato
tradizionale di "buono"), allora questo precetto andrebbe respinto, ma poiché
essi sono "tristi", ovvero malvagi, e non ci risparmierebbero, a nostra volta
non dobbiamo risparmiare loro. Il mondo che Machiavelli esibisce – lontanissimo
da quello armonico della metafisica, in cui ogni cosa occupa il posto che le
compete – è assolutamente umano e appare retto da una logica economica di
concorrenza spietata, in cui non vi è posto per altra regola e tutti gareggiano
contro tutti (è un’anticipazione del bellum omnium contra omnes di
Hobbes) in vista della propria individuale sopravvivenza. Al di là dei giudizi
favorevoli espressi da Bacone e da altri illustri filosofi, non sono mancati i
demonizzatori di Machiavelli, vistosamente infastiditi dallo smascheramento da
lui attuato, uno smascheramento che non ha risparmiato nemmeno la politica e la
religione e che ha portato ad una graduale laicizzazione procedente in senso
opposto al platonismo, all’aristotelismo e al cristianesimo. Nel capitolo XII
del Principe il pensatore toscano si sofferma sulle leggi: "principali
fondamenti che abbino tutti li stati, cosí nuovi come vecchi o misti, sono le
buone legge e le buone arme. E perché non può essere buone legge dove non sono
buone arme, e dove sono buone arme conviene sieno buone legge, io lascerò
indrieto el ragionare delle legge e parlerò delle arme". Leggendo questo
brano, si nota facilmente come la legge sia basata sulla forza, cosicchè
Machiavelli parla delle leggi proprio perché parla delle armi, che ne sono il
fondamento; è infatti la forza a porre le leggi, e pertanto lo Stato non è il
naturale frutto di una presunta socievolezza umana (come invece si illudeva
Aristotele), per cui la ragione andrebbe evolvendosi verso sempre più complesse
forme di convivenza (la famiglia, il villaggio, la poliV), bensì è imposto manu militari, in
maniera coercitiva e attraverso la sottomissione dei più deboli da parte dei più
forti, dove la forza in questione è sia quella leonina (cioè fisica) sia quella
volpina (cioè intellettuale); ne segue che lo Stato altro non è se non il frutto
di un conflitto d’interesse e, quindi, di una lotta per il potere, e non già
della cooperazione di sapienti virtuosi in vista dell’esercizio della giustizia;
esso è dunque intessuto da rapporti di forza variamente mediati e sia la presa
sia il mantenimento del potere richiede la consapevolezza delle forze in gioco.
In Machiavelli, tuttavia, non troviamo una dottrina dello Stato esplicitamente
esposta, che ne spieghi la forma e la struttura: sarà invece Hobbes, nel secolo
seguente, a sviluppare adeguatamente le basi gettate dal filosofo toscano;
aleggia però negli scritti machiavellici la consapevolezza che la vita politica
è teatro di scontri fra interessi contrastanti e, pertanto, il problema centrale
è come districarsi in questo caotico groviglio di situazioni in cui padrona è la
forza. Quale sarà, allora, l’origine delle leggi? E quella dello Stato? Le prime
e uniche leggi sono poste dalla volontà di qualcuno, anche se essa si gabella
per volontà divina: "e veramente, mai fu alcuno ordinatore di leggi
straordinarie in uno popolo che non ricorresse a Dio; perché altrimente non
sarebbero accettate: perché sono molti i beni conosciuti da uno prudente, i
quali non hanno in sé ragioni evidenti da poterli persuadere a altrui. Però gli
uomini savi, che vogliono tôrre questa difficultà, ricorrono a Dio". Qui
Machiavelli inaugura quell’accesa polemica contro il cristianesimo che
caratterizza l’età moderna: quello cristiano è un modo di vivere che ha reso
debole la vita stessa e l’ha affidata nelle mani di "scellerati" che possono
adeguatamente maneggiare il mondo a loro vantaggio, vedendo come i più, per
avere accesso in paradiso, pensino maggiormente a sopportare le ingiustizie
subìte anziché vendicarle, rendendosi in tal maniera passivi nei confronti di
chi invece non ha di questi scrupoli. E pertanto gli antichi disponevano di una
religione falsa, ma buona, mentre invece i moderni ne hanno nel cristianesimo
una vera ma non buona ai fini mondani, giacchè per ottenere la propria
conservazione occorre essere astuti come le volpi, in maniera tale da scovare le
trappole disseminate lungo il percorso della vita (e in modo tale da
disseminarle sui percorsi altrui) e forti come leoni, in modo tale da poter
spaventare i lupi famelici che ci circondano e non aspettano altro che di
sbranarci (è questo, in nuce, l’ homo homini lupus di Hobbes, che
trova in Machiavelli un suo illustre antecedente). Certo, se gli uomini fossero
tutti buoni (nel significato tradizionale di "buono"), allora questo precetto
sarebbe da respingersi, ma poiché essi sono "tristi" (ossia malvagi) e non ci
risparmierebbero, dobbiamo essere noi i primi ad agire, non risparmiandoli. Il
mondo che Machiavelli esibisce nei suoi scritti – infinitamente lontano da
quello armonico della metafisica, in cui ogni cosa occupava magicamente il posto
che le competeva – è assolutamente umano e appare retto da una logica economica
di concorrenza spietata, in cui non pare vi sia posto per altra regola e in cui
tutti gareggiano contro tutti in vista della propria individuale sopravvivenza.
Oltre a chi, come Bacone, l’ha esaltato, vi è anche stato chi ha demonizzato il
pensiero di Machiavelli, perché infastidito da quello smascheramento da lui
attuato che non risparmia nemmeno la politica e la religione, portando ad una
graduale laicizzazione procedente in senso opposto rispetto al platonismo,
all’aristotelismo e al cristianesimo. Nel capitolo XII del Principe
Machiavelli si sofferma diffusamente sulle leggi: "principali fondamenti che
abbino tutti li stati, cosí nuovi come vecchi o misti, sono le buone legge e le
buone arme. E perché non può essere buone legge dove non sono buone arme, e dove
sono buone arme conviene sieno buone legge, io lascerò indrieto el ragionare
delle legge e parlerò delle arme". Nella prospettiva machiavellica, la legge
si basa sulla forza, cosicchè il pensatore toscano parla delle leggi proprio
perché parla delle armi, che ne sono il fondamento. In altri termini, è la forza
a porre le leggi, sicchè lo Stato non è il frutto della naturale socievolezza
umana (come invece si illudeva Aristotele), per cui la ragione andrebbe
evolvendo verso sempre più complesse forme di convivenza (dalla famiglia alla
città passando per il villaggio), bensì è imposto manu militari, con la
forza e con la sottomissione dei più deboli da parte dei più forti, dove la
forza in questione sono è solo quella leonina (cioè fisica), ma pure quella
volpina (ovvero intellettuale) tipica di chi sa ingannare il prossimo. Lo Stato
risulta allora essere il frutto di un conflitto d’interesse e, quindi, di una
lotta volta alla conquista del potere, e non già il risultato della cooperazione
dei sapienti virtuosi in vista dell’esercizio della giustizia: esso è, allora,
intessuto da rapporti di forza variamente mediati e sia la presa sia il
mantenimento del potere richiede la consapevolezza di quali siano le forze in
gioco. Ciononostante, leggendo gli scritti machiavelliani, non rintracciamo una
dottrina dello Stato esplicitamente esposta, che ne spieghi la struttura e la
nascita: sarà invece – un secolo dopo – Hobbes a sviluppare pienamente questi
presupposti di Machiavelli. Pur mancando di un’esplicita formulazione di teorie
che chiariscano la nascita e lo sviluppo dell’apparato statale, Machiavelli è
però perfettamente consapevole di come la vita politica sia un teatro di scontro
fra interessi contrastanti e, dunque, il problema sarà capire come districarsi
in questo caotico groviglio di situazioni delle quali è padrona la forza bruta.
Quale è l’origine delle leggi? E quella dello Stato? La risposta fornita da
Machiavelli è che le prime e uniche leggi sono state poste dalla volontà di
qualcuno, anche se essa si gabella per volontà divina: "veramente, mai fu
alcuno ordinatore di leggi straordinarie in uno popolo che non ricorresse a Dio;
perché altrimente non sarebbero accettate: perché sono molti i beni conosciuti
da uno prudente, i quali non hanno in sé ragioni evidenti da poterli persuadere
a altrui. Però gli uomini savi, che vogliono tôrre questa difficultà, ricorrono
a Dio". Chi è saggiamente prudente scorge una miriade di beni che però, in
se stessi, non hanno ragioni così fondate da persuadere tutti gli uomini della
loro bontà, e perciò tali uomini lungimiranti si appellano artificiosamente
all’autorevole volontà di Dio: facendo passare per beni posti da Dio quelli che
essi hanno individuato, riescono a far sì che anche la gente comune li riconosca
effettivamente come beni. Ne segue che il bene comune non ha in sé ragioni
evidenti, non è cioè immediatamente lampante alla ragione, la quale scorge in un
primo momento soltanto il bene dei singoli individui. In sostanza, non tutti gli
uomini son dotati di una ragione così lungimirante da vedere come il bene del
singolo trovi migliori possibilità di realizzazione se inserito nel bene comune
(l’ordine, la pace, ecc) e subordinato ad esso, e il buon legislatore è quello
che sa distinguere il bene comune da quello individuale e sa cogliere
l’opportunità di subordinare il secondo al primo, e per far ciò ricorre a Dio. I
più non sono lungimiranti in quanto accecati dalla legge incontrastata delle
divoranti passioni: e come dimostra ogni storia, è necessario presupporre che
tutti gli uomini siano malvagi (cioè succubi delle passioni) e che usino la
malvagità del loro animo ogni qual volta ne abbiano l’occasione; viene in questo
modo affermata la funzione coercitiva delle leggi e smascherata la
fantasticheria metafisica secondo cui l’uomo sarebbe per natura incline al bene.
Il mondo così inteso si configura allora come uno scacchiere in cui tutti
guerreggiano contro tutti in una battaglia regolata dalla forza, animata dalla
ricerca della propria individuale conservazione e, quindi, del potenziamento di
sé. L’attacco sferrato da Machiavelli all’ottimismo metafisico è frontale: la
visione celebrativa ed encomiastica elaborata da secoli e secoli di
elucubrazioni metafisiche è vigorosamente ripudiata. In quegli stessi anni
Erasmo da Rotterdam pubblicava il suo Elogio della follia, nel quale
ritroviamo un analogo capovolgimento dell’immagine tradizionale dell’uomo:
"perché la vita umana non fosse del tutto improntata a malinconica severità,
Giove infuse nell'uomo molta più passione che ragione: press'a poco nella
proporzione di mezz'oncia ad un asse. Relegò inoltre la ragione in un angolino
della testa lasciando il resto del corpo ai turbamenti delle passioni. Quindi,
alla sola ragione contrappose due specie di violentissimi tiranni: l'ira, che
occupa la rocca del petto e il cuore stesso che è la fonte della vita, e la
concupiscenza che estende il suo dominio fino al basso ventre. Quanto valga la
ragione contro queste due agguerrite avversarie ce lo dice a sufficienza la
condotta abituale degli uomini: la ragione può solo protestare, e lo fa fino a
perderci la voce, enunciando i princìpi morali; ma quelle, rivoltandosi alla
loro regina, la subissano di grida odiose, finché lei, prostrata, cede
spontaneamente dichiarandosi vinta" (cap. 16). La facciata è quella di uno
scherzo erudito, ma in realtà Erasmo sta contrabbandando una diversa immagine
dell’uomo, contribuendo a quella crisi dell’immagine del mondo che si stava
propagando in quegli anni con incredibile rapidità. La ragione – secondo Erasmo
– funziona solo come ragione critica che denuncia le aporie irrisolte del reale
e, accanto a tale ufficio, come ragione calcolatrice: la sua relazione con le
passioni non è quella ottimisticamente fantasticata dalla metafisica; in
opposizione a quella prospettiva ormai superata, si può dire con piena liceità
che la ragione non è padrona delle passioni, ma ne è lo zimbello, e la figura
del santo cristiano e del virtuoso filosofo sono solamente pii desideri frutto
della dogmatica astrazione della ragione che perde di vista il concreto e il
reale perché abbagliata dall’ideale, dimentica dell’enorme complessità in cui la
realtà si articola. A tal proposito, così scrive Machiavelli nell’Introduzione
ai Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio: "e veggiendo, da
l'altro canto, le virtuosissime operazioni che le storie ci mostrono, che sono
state operate da regni e republiche antique, dai re, capitani, cittadini, latori
di leggi, ed altri che si sono per la loro patria affaticati, essere più presto
ammirate che imitate; anzi, in tanto da ciascuno in ogni minima cosa fuggite,
che di quella antiqua virtù non ci è rimasto alcun segno; non posso fare che
insieme non me ne maravigli e dolga". E’ come se qui il pensatore toscano ci
stesse segnalando un cortocircuito in virtù del quale l’ammirazione per i grandi
personaggi si sostituisse all’imitazione dei medesimi, quasi come se ammirandoli
li si imitasse. E Machiavelli rileva quanto sia discosto il come si dovrebbe
vivere dal come realmente si vive: il principe deve perciò saper usare la
"bestia" che è in lui (cioè la volpe e il leone), precetto questo che non
sarebbe valido se gli uomini fossero tutti buoni. Sorge spontaneo domandarsi
fino a che punto, tuttavia, Machiavelli quando tratteggia il principe non ricada
egli stesso nei meandri dell’aborrita metafisica: in realtà, egli non ci dice
mai che cosa l’uomo sia, proprio per evitare di inciampare in una nuova
metafisica – ancorchè di segno opposto -, ma resta sul piano delle
considerazioni empiriche, tenendosi lungi da generalizzazioni metafisiche,
osserva più di quanto non spieghi, cosicchè il suo si qualifica come un prudente
e limitato empirismo che generalizza ipoteticamente e provvisoriamente, sempre
in attesa di smentite empiriche. Dove risiede, dunque, il pessimismo di cui il
pensiero di Machiavelli è intriso? E cosa dobbiamo intendere quand’egli afferma
che gli uomini sono malvagi? All’origine della loro malvagità vi è l’istinto di
conservazione che ciascuno di noi ha, in quanto animato dalla ricerca della
propria sopravvivenza, che deve perennemente confrontarsi con la fortuna,
essendo esposta al rischio di trovarsi in situazioni non prevedibili e, quindi,
tali da mettere sempre e di nuovo in pericolo la conservazione, il cui istinto
si sviluppa in una congenita insicurezza che lo frantuma, moltiplicandolo in una
miriade di passioni (l’avarizia, la brama di dominio, ecc) e induce a
proteggersi dai colpi della capricciosa fortuna accumulando ciò di cui essa può
in qualsiasi istante privarci. La malvagità umana è quindi prodotta dal timore
che naturalmente accompagna l’istinto di conservazione. Il piacere di godere dei
beni, così come il timore di perderli, spiega come la sete di ricchezza sia
universale quanto l’avarizia e l’ingratitudine; ma, parallelo al desiderio di
ricchezza, è anche quello di reputazione e di gloria, giacchè onore e fama danno
potere e, quindi, come le ricchezze, procurano la conservazione, diventando in
questa maniera il fine a cui ciascuno tende. Da ciò si evince come per
Machiavelli l’uomo sia precipuamente "bisogno", come affiora dai suoi stessi
scritti: "essendo gli effetti umani insaziabili perchè avendo dalla natura di
potere e volere desiderare ogni cosa e dalla fortuna di potere conseguitarne
poche, ne risulta continuamente una mala contentezza nelle menti umane, il che
fa biasimare i presenti tempi, laudare i passati e desiderare i futuri". Altrove
(nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio), egli scrive: "la
natura ha creato gli uomini in modo che possono desiderare ogni cosa e non
possono conseguire ogni cosa: talchè essendo sempre maggiore il desiderio che la
potenza dello acquistare, ne risulta la magra contentezza di quello che si
possiede, e la poca soddisfazione d'esso". Machiavelli, però, non si lascia
andare a fantasticheria metafisiche, bensì si limita a constatare empiricamente
che gli uomini sono per natura desiderio e i due brani riportati introducono le
nozioni chiave di "natura" e di "fortuna", che approfondiremo meglio più avanti:
il pensatore toscano non esplicita le ragioni in virtù delle quali l’uomo è
desiderio, ma si può facilmente comprendere come sia tale per via della sua
consustanziale finitezza, che fa sì ch’egli sia un desiderio permanente e
perennemente inappagato, giacchè la finitezza implica inevitabilmente che
ciascuno di noi sia ogni volta quello che è ora, nel modo limitato in cui
effettivamente lo è, e non sia più quel che era né ancora quel che sarà. La
finitudine umana, allora, comporta una precarietà congenita dell’essere finito
che, perché tale, manca costantemente di ciò che era e di ciò che sarà: in altri
termini, nessuno di noi è mai tutto e sempre l’uomo che è, cosicchè possiamo
dire che ci manca sempre qualcosa, siamo animati dal bisogno d’essere tutto e
sempre ciò che siamo. Ciò significa che "essere finito" non è essere, quanto
piuttosto desiderio d’essere che si palesa in uno sforzo continuo. L’istinto di
conservazione, dunque, altro non è se non preservare se stessi, ma tale "se
stessi" è desiderio di sé che l’essere finito permanentemente è, un desiderio
sempre rinnovantesi e mai estinguibile, perpetuamente proliferante in una
molteplicità di desideri, in quanto di volta in volta diventa desiderio di tutto
ciò che lo alimenta, lo conserva e lo fortifica, configurandosi di conseguenza
come repulsione di ciò che invece lo restringe e lo mette in pericolo. Esso
necessariamente diventa da ultimo volontà di onnipotenza, poiché solo
quest’ultima appare come garanzia di futuro, ossia certezza di poter continuare
a potenziare il desiderio che si è. Tale desiderio può a ragion veduta essere
definito come "amore di sé", che brama la perpetuazione e la propria persistenza
nell’avvenire, rivelando in tal maniera che non è un desiderio limitato a
determinati oggetti che, se ottenuti, lo placano, bensì è intacitabile nel
tempo, perché guardando al futuro non potrà mai venir meno e, appunto in forza
di ciò, pullula incessantemente in sempre nuovi desideri di ciò che gli pare
possa garantirgli la sopravvivenza nel tempo a venire. Se non è confinato
dall’esterno, allora si sviluppa come volontà di onnipotenza: siamo qui dinanzi
alla moderna riduzione dell’uomo ad istinto di conservazione, ad animale
desiderante, e una tal riduzione configura certamente un’animalizzazione
dell’uomo stesso, giacchè l’amore di sé ora riconosciuto alla base dell’umanità
è un tratto comune con gli altri viventi, un tratto che li accomuna più di
quanto non facesse il corpo o l’istintualità, pur con l’insormontabile
differenza che gli uomini dispongono della ragione, intesa però unicamente come
critica e calcolatrice (gli animali detengono solo, in qualche misura, la
ragione calcolatrice). Affiora cioè l’immagine di un uomo che non è più
tutt’altra cosa rispetto alle passioni (tra le quali rientra l’amor di sé), ma
come loro stessa espressione e funzione nella misura in cui cerca
incessantemente la propria conservazione, mosso da quell’istinto che lo accomuna
agli altri animali. Tale istinto, per l’appunto, nell’uomo si dota di quella
particolare facoltà che è la ragione, della quale si avvale per meglio
raggiungere il proprio fine. In altri termini, la natura ha attrezzato i viventi
dell’istinto di conservazione, e in più agli uomini ha dato quel sofisticato
strumento che è la ragione. Di qui nasce un processo di accumulazione costante
di beni e ricchezze, spinto dal timore di perderle: sorgono l’odio, l’invidia e
tutte le altre manifestazioni del desiderio di dominare, desiderio dal quale
tutti siamo animati; e l’insicurezza in cui siamo immersi è determinata, più che
dalla fortuna (ossia ciò che sfugge al controllo della ragione), dalla finitezza
della nostra esistenza, finitezza che si concretizza nei rischi che ci derivano
dall’incontrollabilità della fortuna e dall’essere in compagnia (spesso pessima)
dei nostri simili. E allora, ancor prima che di timore della fortuna, si tratta
di timore del prossimo, "desiderando gli uomini in parte di avere di più,
parte di perdere l’acquistato, si viene alle inimicizie e alla guerra, dalla
quale nasce la rovina di quella provincia e l’esaltazione di quell’altra".
In queste righe, Machiavelli sta inconsapevolmente delineando quello che sarà lo
stato di natura di cui parlerà Hobbes qualche tempo dopo. Gli uomini sono ad
avviso del filosofo fiorentino spinti essenzialmente da due cose: l’amore di sé
e il timore, "né per altra cagione si cerca la vittoria né gli acquisti per
altro si desiderano che per fare sé potente e debole l’avversario"
(Historie fiorentine, VI, 1).Ben si vede come il discorso di Machiavelli
tenda a procedere su due piani diversi, quello politico e quello antropologico,
sicchè la vittoria di cui egli parla può essere tanto quella ottenuta sul campo
di battaglia, quanto quella riportata invece in una faida familiare, ed è
interessante come venga posto l’accento sugli acquisti che gli uomini fanno per
sembrar ricchi, per accrescere la loro reputazione e, conseguentemente, per
aumentare il proprio potere sugli altri: in un certo senso, così parlando,
Machiavelli sta fotografando una realtà giunta fino ai giorni nostri. Il suo è
un pessimismo assolutamente laico, dove non vi è alcun peccato originale che
spieghi tale condizione: un pessimismo, dunque, che è frutto dell’esperienza che
si ha e che gli storici ci tramandano, e che dunque si configura come un
pessimismo da sempre esistente. Ciò avviene perché, secondo Machiavelli, il
mondo sembra essere sempre stato così come pare a chi lo osservi non già con gli
occhiali rosa della metafisica, ma con l’occhio vigile e scientifico di chi
resta ancorato all’esperienza; ciò vuol dire che, pur nel suo continuo mutare,
il mondo è sostanzialmente immobile: "e pensando io come queste cose
procedino, giudico il mondo sempre essere stato ad uno medesimo modo, ed in
quello essere stato tanto di buono quanto di cattivo; ma variare questo cattivo
e questo buono di provincia in provincia, come si vede per quello si ha notizia
di quegli regni antichi, che variano dall’uno all’altro per la variazione de’
costumi, ma il mondo restava quel medesimo: solo vi era questa differenza, che
dove quello aveva prima allogata la sua virtú in Assiria, la collocò in Media,
dipoi in Persia, tanto che la ne venne in Italia e a Roma" (Discorsi
sopra la prima Deca di Tito Livio, II, Proemio). Il mondo, allora, si
presenta come l’immobile variare del "tristo": non solo non vi è progresso nella
e della storia verso un qualche fine (quale poteva essere in passato la
realizzazione della poliV o
della città celeste), ma neppure vi è un qualche senso che rischiari il
ripetersi ciclico del tempo, per Aristotele motivato dalla necessità di un
eterno riprodursi della ragione umana. Sembra anzi che l’unico senso della
storia sia la coazione a ripetere della forza e dell’arbitrio, e ce ne
accorgiamo non appena gettiamo uno sguardo a come procedono le cose oggi e a
come procedevano ieri – ai tempi degli antichi -, sicchè siamo di fronte – per
usare un’espressione del Gattopardo – ad un tentativo di cambiare tutto
per non cambiare nulla. Una grande agitazione che non porta alcun mutamento,
poiché le cose sono operate dagli uomini ed essi sempre hanno ed ebbero le
stesse passioni: la storia umana è allora – flirtando con Shakespeare -
"tanto rumore per nulla" e questa prospettiva ben può essere compendiata
nelle parole bibliche: nihil sub sole novi. A chi giova, allora, questo
mondo, definito da Hegel come un "mattatoio"? E’ una domanda seria ed
inquietante, a cui Machiavelli non dà risposta. Nasce subito un’altra domanda: i
teorici dell’imprescindibilità dell’amor proprio e, quindi, dell’etica
dell’utile (da cui esulano le virtù disinteressate) non distinguono forse tra
barbarie e civiltà? Non ammettono forse un avvenuto passaggio dall’una
all’altra? Il discrimine tra la barbarie e la civiltà risulta presso i moderni
meno marcato rispetto a quanto non fosse presso i metafisici, ad avviso dei
quali la civiltà è sotto l’egida di una ragione tutt’altra dalle passioni, in
balia delle quali si sviluppa invece la barbarie, con l’inevitabile conseguenza
che per un Platone, un Aristotele o un Tommaso tra le due – barbarie e civiltà –
vi è un baratro. In Machiavelli e in buona parte dei moderni, invece, tra le due
– è incontestabile – sussiste una relativa continuità, data da quell’interesse
che è motore primo sia nella barbarie sia nella civiltà; ma, se è vero che
l’utile è il fine a cui sempre siamo ordinati (è, in un certo senso,
corrispondente aristotelicamente sia alla causa formale sia a quella finale),
allora sarà l’utile comune a segnare la differenza tra la civiltà e la barbarie,
e sarà la ragione – che è espressione dell’amor di sé – calcolatrice ad
elaborare la distinzione tra utile privato e utile comune: la barbarie è tale
perché non vede null’altro che non sia l’utile individuale, ed è perciò
caratterizzata dallo stato di natura; al contrario, la civiltà si ha quando
entra in gioco l’utile comune e l’istinto di conservazione viene controllato
dalla ragione. Sebbene Machiavelli si interroghi sul quo modo sit et fit,
senza chiedersi il quid metafisico, non di meno egli giunge
indirettamente e congetturalmente a qualcosa di sempre smentibile dall’empiria,
ad una visione del mondo che ci mette di fronte ad una cieca natura retta dal
caso e dalla forza, una visione che può essere definita come naturalismo
pessimistico e fatalistico. Ma che cosa dobbiamo intendere per "natura" quando
Machiavelli ne parla? Essa è un plesso di fatti o di forze deterministicamente
regolato dalla struttura delle cose, la quale è l’impulso alla conservazione, la
vitalità che si rinnova in continuazione, sicchè per Machiavelli la legge di
natura è – darwinianamente - quella del più forte e nell’uomo la forza diventa
virtù, leonina e volpina insieme. E tale forza/virtù si incarna storicamente di
volta in volta nei Greci, nei Romani, nei Turchi e nei Germani, ossia nei popoli
più virtuosi, ossia più efficaci a garantirsi la sopravvivenza in una
prospettiva deterministica di guerra di tutti contro tutti. "Noi non ci
possiamo opporre a quello che ci inclina la natura" (Discorsi sopra la
prima deca di Tito Livio, libro III) : ciò vuol dire che quando vaneggiamo
di essere liberi, stiamo in realtà confondendo – come noterà Schopenhauer – la
libertà di fare con quella di volere, che ci manca, giacchè nessuno può non
volere la propria conservazione; in altri termini, siamo dotati di una libertà
assimilabile a quella del cane legato alla catena, che non può correre dove
vuole, ma può ciononostante spostarsi e sedersi in più punti, cercare riparo dal
sole spostandosi all’ombra, a patto che la catena sia sufficientemente lunga.
Tale visione del mondo è una sorta di fenomenologia empirico/storica, ma è anche
una visione biologica della vita umana, una concezione fisicistica del reale,
per cui la natura è vita multiforme mirante a conservarsi; e in tale natura
prevale chi è meglio attrezzato – cioè il più forte -, tenendo sempre presente
che nell’uomo la forza è la virtù, e non può essere in alcun caso ridotta a mera
forza bruta, giacchè spesso sono i più deboli ma astuti a dominare i più forti
ma stolti. Ne consegue, allora, che la ragione di cui l’uomo è dotato configura
la sua forza anche e soprattutto come astuzia, come calcolo che permette di
elaborare una strategia e una tattica nel condurre la propria esistenza, ed è
nella scelta della tattica che si rinviene quel margine di libertà da
Machiavelli riconosciuto all’uomo: la ragione calcolatrice, infatti, è
strategica nella misura in cui sa guidare alla vittoria finale passando per
obiettivi intermedi (quali l’indebolimento del nemico, il costringerlo a
battaglie campali, e così via), ed è tattica nella misura in cui sa disporsi
efficacemente sul campo, cosicchè mentre la strategia è la pianificazione di
fini a medio e a lungo termine (con obiettivi ultimi – la nostra preservazione –
e con obiettivi intermedi – l’arricchirsi, il diventar potente), la tattica è
escogitazione delle tecniche attraverso le quali raggiungere i fini intermedi
che la strategia si è assegnata (così la tattica mi suggerisce di raggiungere la
ricchezza rubando con la forza o truffando con l’astuzia). Questa complicità tra
la strategia e la tattica emerge benissimo in Guerra e Pace di Tolstoj,
quando il generale, per far fronte all’avanzata dell’esercito napoleonico in
Russia, segue la strategia della ritirata, illudendo in tal maniera l’esercito
avversario, e a ciò aggiunge la tattica della terra bruciata, rendendo
impossibile all’esercito francese l’approvvigionamento. Nel caso dell’uomo,
tuttavia, secondo Machiavelli non vi è libertà nella scelta della strategia:
l’obiettivo ultimo e determinato è la conservazione di se stessi, che però
possiamo raggiungere dispiegando liberamente una tattica a scelta. Essa può
esser dettata dalle sole passioni o dalla lungimiranza della ragione
calcolatrice, e così c’è chi mira alla conservazione ascoltando soltanto la
primitiva voce delle passioni e chi invece tende l’orecchio a quella più
sofisticata della ragione calcolatrice, subordinando l’interesse proprio a
quello comune e ottenendo in tal modo la propria conservazione. Da ciò si evince
come siamo irrimediabilmente legati alla catena dell’istinto di conservazione,
ma possiamo comunque liberamente scegliere quale tattica schierare: ed è in
questo ritaglio di libertà che si inserisce Machiavelli con i suoi consigli, ed
è in lui la ragione lungimirante a prendere la parola, riconoscendo la realtà
per quella che è e se stessa per quella che è, mero strumento in mano alle
passioni. In natura, dunque, trionfa il più forte ed è qui che si pone il
problema del rapporto tra fortuna e virtù, senza una profonda libertà di scelta,
poiché la nostra volontà è già sempre motivata dall’amor di sé. E’ a dir poco
strano come Machiavelli vada elaborando il proprio pensiero negli stessi anni in
cui Pico faceva le sue elucubrazioni sull’infinita libertà dell’uomo, capace di
innalzarsi a Dio o di abbassarsi ai bruti: quanto invece la nostra libertà sia
per Machiavelli relativa, lo si evince facilmente nel rapporto che egli
individua tra la fortuna e la virtù. Da una parte abbiamo la fortuna, ovvero
quell’insieme di cose che sfuggono alla presa della ragione, e possiamo
identificarla con la stessa necessità cosmico-naturale, ossia con quanto
trascende l’uomo: è, in altri termini, la natura stessa in tutto ciò che sfugge
alla nostra ragione, è quell’intreccio di forze vitali di cui l’uomo è parte
integrante ma che non può del tutto padroneggiare. A più riprese Machiavelli si
esprime circa la fortuna, e in prima analisi le sue appaiono spesso affermazioni
contrastanti e autoelidentisi, ma che in realtà – se lette in trasparenza – sono
coerentemente legate al necessitarismo di cui Machiavelli fa il proprio cavallo
di battaglia. A tal proposito, uno dei passi più celebri è il seguente (Il
principe, cap. 25): "perché el nostro libero arbitrio non sia spento,
iudico potere essere vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni
nostre, ma che etiam lei ne lasci governare l'altra metà, o presso, a noi. Et
assomiglio quella a uno di questi fiumi rovinosi, che, quando s'adirano,
allagano e' piani, ruinano li arberi e li edifizii, lievono da questa parte
terreno, pongono da quell'altra: ciascuno fugge loro dinanzi, ognuno cede allo
impeto loro, sanza potervi in alcuna parte obstare. E, benché sieno cosí fatti,
non resta però che li uomini, quando sono tempi quieti, non vi potessino fare
provvedimenti, e con ripari et argini, in modo che, crescendo poi, o andrebbono
per uno canale, o l'impeto loro non sarebbe né si licenzioso né si dannoso.
Similmente interviene della fortuna: la quale dimonstra la sua potenzia dove non
è ordinata virtù a resisterle, e quivi volta li sua impeti, dove la sa che non
sono fatti li argini e li ripari a tenerla". Stante questo passo, si può
dire che virtù e fortuna si spartiscano – secondo Machiavelli – il 50 % del
potere, come se sussistesse il libero arbitrio: e il pensatore toscano supporta
la propria tesi con l’esempio – più volte iterato – della piena del fiume, che è
sì inevitabile, ma ciononostante può essere incanalata: similmente, non possiamo
abolire la fortuna che ci sovrasta, ma possiamo accomodarci ad essa e con essa,
e nell’atto stesso in cui pare rivendicare il libero arbitrio Machiavelli già lo
nega, perché l’uomo è sempre e comunque incatenato alla necessità naturale e
all’istinto di conservazione (il che taglia le gambe ad ogni dottrina della
libertà d’arbitrio): restiamo però liberi di trarne il miglior partito, ossia di
far valere all’interno di questa condizione ineliminabile la forza della nostra
virtù, siamo cioè spinti dall’istinto di conservazione ma possiamo in parte
modificare – grazie alla tattica - questo spazio limitato, ed è appunto proprio
dei virtuosi l’adattarsi ai tempi e alle circostanze (che coincidono con la
fortuna che ci è toccata), traendone partito. E questa mezzadria tra virtù e
fortuna, volta a far sì che il "nostro libero arbitrio non sia spento" (ossia
che, pur limitato, non venga del tutto meno), è da Machiavelli asserita più in
forma ottativa (di speranza) che non enunciativa, cosicchè viene lasciato in
qualche modo aperto uno spiraglio per il dubbio. La virtù si configura allora
come l’efficienza realizzatrice che è nell’uomo la punta di diamante del
naturale istinto di conservazione (leonino e volpino). Mai come in Machiavelli
può valere l’antico adagio virgiliano secondo cui audaces fortuna iuvat,
dove gli "audaci" in questione sono i virtuosi, che proprio perché tali sono
destinati a vincere. La fortuna, infatti, è avversa laddove la virtù latita,
giacchè "gli uomini possono secondare la fortuna e non opporsegli"
(Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio), possono tessere gli orditi
suoi e non romperli, ma in realtà è sempre la fortuna a creare le condizioni
affinchè un uomo si imponga sugli altri, e tale uomo deve solamente afferrarla e
accoglierla facendola propria. Il quadro che così viene delineandosi è un quadro
in cui domina la prepotenza della fortuna, giacchè è sempre lei ad imperare, non
solo perché è essa a propiziare la virtù, ma anche perché è la fortuna stessa a
suscitare e a donare la virtù: è la natura, infatti, a creare i più forti e,
poi, perché tali, li incoraggia e li stimola offrendo loro le occasioni più
favorevoli. I disegni della fortuna, però, trascendono in ultima analisi ogni
virtù, risultandole imprendibili: è la fortuna a donare la virtù e,
successivamente, a decidere a favore o contro di essa. E la fortuna primaria che
ci è toccata in sorte non consiste soltanto nell’esser nati ricchi anziché
poveri, in pace anziché in guerra, e così via, ma anche nell’esser nati virtuosi
anziché non virtuosi, di essere cioè venuti al mondo dotati di quello strumento
indispensabile per accordarsi con la fortuna che è la virtù. Il raggio d’azione
di quest’ultima non solo è limitato dalla fortuna, ma è altresì allestito da
essa, poiché è lei a menare il gioco, lasciando alla virtù solo lo spazio per
cogliere l’occasione, che è poi lo spazio dell’astuta riflessione del calcolo
razionale. Non è un caso che nei trattati in cui si impersonificavano
pittoricamente le qualità, l’occasione fosse solitamente rappresentata come nota
a pochi, coi piedi alati e col volto coperto da una chioma che impedisce di
scorgerne i lineamenti facciali, in modo tale che sia difficile notarne il suo
volante passaggio. E poiché i suoi capelli sono rivolti in avanti, risulta
impossibile afferrarla una volta che è passata, poiché dietro non ha capelli che
sporgano e ai quali potersi attaccare; occorre dunque coglierla al momento
opportuno (il kairoV di cui
parlava Gorgia) in cui, riconosciutala un attimo prima del suo passaggio, la si
vede transitare, agguantandola con decisione, cosa di cui son capaci solo in
pochi ed è a quei pochi che sorride il successo. "Coloro che, per cattiva
elezione o per naturale inclinazione, si discordono dai tempi, vivono, il più
delle volte, infelici, ed hanno cattivo esito le azioni loro" (Discorsi
sopra la prima Deca di Tito Livio, libro III): la fortuna fornisce la virtù
e la stimola donandole le occasioni, sicchè i virtuosi seguono i disegni della
fortuna, che sono quelli di far vincere i virtuosi stessi secondo la legge del
più forte. E’ nella logica della natura che il virtuoso colga l’occasione creata
ad hoc per lui, e se non la coglie, ciò per la natura non ha alcuna
importanza, perché essa – come dirà Schopenhauer - "non fa economia", è
dissipatrice, si sbarazza di chi non è all’altezza. Così, sarà lecito affermare
che a consentire l’impero dei Romani sia stata la loro privilegiata relazione
con la fortuna, che ha fornito loro le giuste occasioni: e in questa prospettiva
ben si inquadra il discorso di Machiavelli sulle religioni "buone" e su quelle
"cattive". La fortuna è donna e, in quanto tale, deve essere picchiata: ma la
forza bruta, da sola, non è sufficiente, come Machiavelli rileva ne La vita
di Castruccio Castracani da Lucca, dove descrive le vicende di questo
capitano di ventura forte e irruente mandato in rovina dalla fortuna per via
della sua stessa irruenza. Non si deve dunque far leva sulla forza bruta, ma
piuttosto sulla virtù che afferra l’occasione proposta dalla fortuna, senza però
sottomettere e battere quest’ultima. Allora l’espressione "battere" qui
impiegata da Machiavelli va presa nel significato di saper cogliere l’occasione,
e se vogliamo seguire il pensatore toscano nella sua metafora erotica del
rapporto fra marito e moglie, possiamo dire che con la fortuna avviene lo stesso
che accade agli uomini con le donne, delle quali essi si credono conquistatori
senza accorgersi che si tratta di una conquista che avviene non per loro
volontà, bensì è la fortuna che ci dota della virtù per cogliere le occasioni
che essa stessa fortuna propone e lascia credere all’idiota di turno di essere
stato lui stesso il protagonista piuttosto che l’oggetto passivo del reticolo
della vita. Dunque la virtù è sola, assediata dalla necessità naturale e dalla
fortuna dominante il mondo e la virtù stessa, la quale porta al successo
solamente se asseconda la fortuna. Si tratta, evidentemente, di un quadro
desolante ma che pretende di essere veritiero, una realtà crudele e sanguinaria,
in cui necessariamente trionfa la simulazione (ed è questo un elemento
caratteristico della modernità), voluta dalla ragione astuta e calcolatrice:
"ma è necessario […] essere gran simulatore e dissimulatore: e sono tanto
semplici li uomini, e tanto obediscano alle necessità presenti, che colui che
inganna troverrà sempre chi si lascerà ingannare" (Il principe, cap.
XVIII). Viviamo pertanto in un mondo soggetto al caso, scosso dalle vicende
della fortuna e abitato da lupi, e in un tal mondo la morale tradizionale e
l’utilità sono necessariamente in contraddizione e in conflitto tra loro, e la
simulazione è lo strumento indispensabile alla sopravvivenza. Possiamo allora
considerare non Pico, Ficino o Alberti e Bracciolini, ma Machiavelli come il
vero inauguratore dell’età moderna, colui che ha laicizzato la politica,
scrivendo quello che può esser detto innanzitutto un manuale di sopravvivenza
rivolto a tutti gli uomini (e non solo al principe): egli è in senso pieno un
tecnico della riuscita e del successo, che non bada ai grandi fini universali e
trascendenti (la giustizia, la verità, ecc), ma alla riuscita entro un orizzonte
finito; e, sotto questo profilo, il suo scritto Dell’arte della guerra è,
prima di tutto, un manuale per sopravvivere in quella guerra di tutti contro
tutti che è il mondo. A far di Machiavelli lo scopritore della modernità è poi
la sua consapevolezza della complessità e della tortuosità del reale, concepito
come trama fittissima di forze concrete (storiche, psicologiche, culturali, ecc)
che è in gioco nelle vicende umane, una complessità che lo sguardo stralunato
della metafisica aveva tralasciato, quasi come se, discorrendo di universali, si
fosse scordata degli individui o, peggio ancora, avesse finto che la nostra
realtà non fosse autentica. Tale realtà mondana (che è l’unica vera realtà) è
complessa, quasi come una matassa di interessi e di motivazioni, sicchè
l’esercizio della politica è opera di intelligenza, di stratagemmi e della
ragione al servizio delle passioni e dell’amor di sé: occorre essere esperti di
tattica e di strategia per poter trionfare. Emerge così il carattere tipicamente
moderno del "manager", strategico e tattico, ricco di ingegnosità e campione
nell’esercizio della maschera, con la scoperta rilevanza della simulazione:
quella partita a scacchi che è la vita è allora una mascherata, e la logica
della simulazione percorre sotterraneamente l’ingarbugliata matassa
inframondana, segnata dal fondamentale ruolo giocato dalla reputazione, intesa
come la mia verità presso l’opinione altrui; tale reputazione diviene tutta la
verità del mondo di quaggiù, e, con essa, è la modernità che balza fuori
all’improvviso, come Minerva sbucò dalla testa di Giove: ne nascono l’importanza
centrale della simulazione, dell’autocontrollo, della manipolazione,
dell’inganno, dell’arte di dirigere e di persuadere. Il principe non sopporta di
essere adulato, ma ama adulare - a seconda delle convenienze – il popolo, i
prelati, l’esercito, usando quelle che Machiavelli definisce "parole di
seta": affiora in tal modo la concezione squisitamente moderna del piacere
per soggiogare, nella logica del mors tua vita mea, siamo cioè agli
albori della pubblicità e della civiltà dell’immagine, nella quale conta più
l’apparire che l’essere, nelle cui corti e nelle cui industrie si intessono gli
orditi dei giochi delle apparenze. L’idea del politico moderno – il principe di
Machiavelli – nasce in questo modo, ma si tratta, più che di un’invenzione,
della scoperta di un qualcosa che da sempre è esistito, seppur sempre occultato
da mille fattori: il potere risulta dunque essere il portatore di un coacervo di
interessi di parti, di classi, di corporazioni; e che si tratti non di
un’invenzione, ma di una mera scoperta lo attestano gli storici, che ci
tramandano figure di grandi simulatori: così Sallustio scrive che Catilina era
"quoius rei lubet simulator ac dissimulator", Livio narra l’arte del
simulare di Annibale, e Machiavelli stesso racconta che "Alessandro VI non
fece mai altro, non pensò mai ad altro che ad ingannare uomini" ("Il
principe", cap. XVIII). Un altro basilare elemento di modernità che emerge
con Machiavelli è il procedere per tentativi, come un cieco che saggia il
terreno col bastone prima di allungare il passo, giacchè siamo immersi in una
routine complessa, dove nulla è sicuro, fuorchè la generale insicurezza,
e tutto è rimesso sempre e di nuovo in gioco, sicchè si deve procedere coi piedi
di piombo e il bene altro non è che il male minore. La politica stessa assume i
tratti del luogo del compromesso, in cui regna incontrastato non già il bene,
bensì il minor male: il leone di cui parla Machiavelli presenta in tal senso
notevoli affinità con la nozione greca di megaloyucia, la "grandezza di vedute",
corrispondente appunto alla fredda e volitiva leonina energia dei capi di
ventura: e non è un caso che nel Cinquecento prenda forma il mito di don
Giovanni – che troverà poi la sua prima definizione del secolo seguente -,
questo irresistibile seduttore di donne che è tale nella misura in cui sa di
essere – nel suo rapporto con la fortuna - più sedotto che seduttore. Ma
dobbiamo anche chiederci come la fortuna venisse intesa nel precedente mondo
cristiano, di cui Machiavelli segna la fine: emblematica è, in questo senso, la
prospettiva di Petrarca, che per molti versi rappresenta la cerniera tra il
medievale e il moderno; a suo avviso, la fortuna è la complessità e
imprevedibilità degli eventi, è una capricciosa e potente (mendax,
varia, levis, volubilis) dea bendata che humanarum rerum
omnium excepta virtus domina est, signoreggia su tutte le cose umane fuorchè
sulla virtù, sicchè la fortuna è tutto ciò che si sottrae alla virtuosità umana.
Ma l’ammissione di questa prospettiva di imprevedibilità implica in sede
cristiana il problema del rapporto tra fortuna e provvidenza divina, la cui
soluzione è prospettata da Agostino, da Petrarca stesso e da Dante, il quale
tratteggia la fortuna come "ministra" (Inferno, VII, 78) del
volere di Dio, ossia come strumento della provvidenza divina, uno strumento per
esercitare una funzione pedagogica, evitando in tal modo l’eccessiva
mondanizzazione dei singoli individui; nel suo duello con l’uomo, la fortuna
guerreggia con due armi – la prosperità e l’avversità – entrambe costituenti due
pericoli, poiché la prosperità suscita in noi superbia e l’avversità produce la
disperazione, ma ecco che contro la superbia interviene la virtù cristiana della
modestia e contro la disperazione la virtù della pazienza; in questo modo,
dunque, alla fortuna viene opposta la virtù, in grado (e qui cogliamo una
divergenza netta con Machiavelli) di padroneggiarla, cosicchè la fortuna viene a
configurarsi come un duro banco di prova dell’umana virtù e della sua volontà, e
la lotta dell’uomo contro di essa si prospetta come lotta dell’uomo contro le
proprie passioni, ed è appunto a questa lotta che la fortuna invita, il che ci
dà conferma della natura ottimistica del cristianesimo e della sua santità. Ne
fiorisce un’etica che – non a caso – trova formulazione nelle metafore del
"miles christianus" (Paolo, "Lettera agli Efesini", VI, 13, 17), o
nell’opuscolo di Erasmo intitolato Manuale del soldato cristiano, dove i
nemici che il guerriero è chiamato a fronteggiare sono le passioni occasionate
provvidenzialmente dalla buona o dalla cattiva sorte; la stessa tematica del
"combattimento spirituale" ritorna con un’incredibile frequenza nella
letteratura del Cinquecento, del Seicento e anche del Settecento. Tratto
saliente del pensiero moderno (che è e rimane antimetafisico) è poi, in campo
pratico, l’assunzione di una riflessione mirante a calcolare gli interessi
terreni e mondani della collettività, e non stupisce dunque che all’origine del
moderno vi siano non già trattati, bensì manuali, quale è Il principe di
Machiavelli o Il cortegiano di Baldesar Castiglione: ci troviamo cioè di
fronte a guide pratiche, che segnano il mutato indirizzo di pensiero.
BALDESAR CASTIGLIONE
Se per Machiavelli il fine a cui è orientata ogni nostra azione è la
preservazione di se stessi, in Castiglione la preservazione diventa
"cortegiania", ossia il soggiornare a corte piacendo al principe, ed
anch’egli esorta il lettore ad una riflessione di calcolo: Machiavelli ci invita
a fare come gli arcieri prudenti (Il principe, cap. VI), che calcolano
con precisione la traiettoria delle frecce, scagliandole tanto più in alto
quanto più è distante il bersaglio; Castiglione, invece, esorta il suo
apprendista cortigiano ad un calcolo analitico e sistematico, a cui non sfugga
nulla di ciò che deve essere fatto e detto: "consideri ben che cosa è quella
che egli fa o dice e 'l loco dove la fa, in presenzia di cui, a che tempo, la
causa perché la fa, la età sua, la professione, il fine dove tende e i mezzi che
a quello condur lo possono; e cosí con queste avvertenzie s'accommodi
discretamente a tutto quello che fare o dir vole" (Il cortegiano, II,
7). Castiglione, dunque, teorizza quale debba esser l’arte di chi sta a corte
descrivendola anzitutto come arte della conversazione: il compito del
"cortegiano" è infatti primariamente quello di piacere al principe e la
conversazione è appunto uno degli strumenti per generare tale piacevolezza, il
torneare con motti ingegnosi, il dispiegare facezie, arguzie e giochi di parole,
inscenando un "gioco ingegnoso" che permetta di conversare amabilmente. E tale
conversazione è distinta dall’oratoria del filosofo platonico/metafisico: "né
io voglio che egli parli sempre in gravità, ma di cose piacevoli, di giochi, di
motti e di burle, secondo il tempo"; non è un caso che uno dei protagonisti
de "Il Cortegiano" sia Pietro Bembo, il più grande petrarchista
rinascimentale, depositario della concezione platonica dell’amore: egli –
nell’opera di Castiglione – rappresenta il tipico metafisico e si avventura in
un discorso platonizzante, finchè non è interrotto da Cesare Gonzaga, che lo
mette in guardia facendogli cortesemente notare che a parlare in maniera così
elevata si rischia di far la fine di Icaro, al quale - volando troppo vicino al
sole – si sciolse la cera delle ali e di conseguenza precipitò in mare. Bembo,
nel suo argomentare metafisico, pare quasi "astratto e fuor di sé" ed
incarna l’universal ragione metafisica in contemplazione del mondo
intelligibile, e – non a caso – di lui si dice stava con lo sguardo fisso verso
l’alto – quasi rimirasse i cieli iperuranici -, "come stupido", fino a
che la signora Emilia non lo afferra per il vestito e, scossolo, lo fa tornare
in sé dicendo scherzosamente: "guardate, signor Pietro, che con questi
pensieri rischiate che l’anima si separi dal corpo". Al di là
dell’inevitabile effetto comico della scena, vi è un evidente richiamo del
filosofo, perso dietro ai sogni di un visionario in preda di un attacco di
delirante metafisica, a ritornare coi piedi per terra, saldamente fissi sul vero
mondo. Nelle parole di Emilia (che simboleggiano quelle di Castiglione) si
scorge quell’invito a rivolgersi dal cielo alla terra che è tipico dell’età
moderna, un volgersi dal sublime al mediocre, pienamente consapevoli dei propri
limiti intrinseci: dalle speculazioni metafisiche tendenti ad avvitarsi su se
stesse senza giungere a nulla di concreto si sostituisce un pacato conversare
mirante ad un piacevole stare insieme, ed è appunto in questo che consiste il
vivere in società quale Castiglione lo intende. La conversazione così concepita
diventa forma di mediazione di conflitti, un discorrere accademico vagliando i
diversi punti di vista per poter in tal maniera risolvere i conflitti tra
individui e aspirare ad una pacifica conciliazione. Emerge vivamente il
carattere tentativo/ipotetico/congetturale che ha assunto il conversare in età
moderna, un discorrere formulando ipotesi, discutendole e, in ultima battuta,
trovando la mediazione che le concili: proprio in ciò risiede il tratto
distintivo della convivenza sociale, affidata al tatto, così come nel buio si
tasta ciò che ci circonda per trovare la strada. Lo stesso Montaigne, in età
rinascimentale, quando intitola la sua opera Saggi fa riferimento
all’etimologia del termine, legato al "saggiare" ciò che ci circonda, così come
si saggia un terreno per appurare che non ceda sotto il nostro peso. Per questa
via, il male e il bene metafisicamente intesi come assoluti cedono il passo a
ipotesi e a punti di vista che, senza arrogarsi la pretesa di sapere con
certezza, vengono a confronto pacificamente. In un contesto di questo genere è
allora fondamentale, secondo Castiglione, la "sprezzatura": "e, per
dir forse una nova parola, usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda
l'arte e dimostri ciò che si fa e dice venir fatto senza fatica e quasi senza
pensarvi". In pochi (forse anzi nessuno) posseggono la "cortegianeria"
naturalmente, giacchè in pochi son dotati dell’arte di inanellare piacevolmente
motti di spirito e giochi di parole, ed è per questo ch’essa dev’essere
acquisita con arte; ma se è frutto di uno sforzo e deve presentarsi come
graziosa, ne segue che lo sforzo che la produce deve essere celato, perché esso
non è piacevole a vedersi: la sprezzatura è appunto l’arte di celare l’arte,
l’artifizio di dissimulare la simulazione, il far comparire la grazia ma non lo
sforzo che l’ha prodotta. In altri termini, la grazia deve diventare come una
seconda natura e in chi non la possiede per natura (cioè nella maggioranza dei
casi) essa è frutto di calcolo e di simulazione, ma ciononostante deve apparire
come se fosse dote naturale. Come esempio tipico di sprezzatura possiamo addurre
il caso dell’attore; a tutti noi pare un pessimo attore quello in cui è palese
lo sforzo che compie di recitare, ossia quello in cui ci accorgiamo che sta
recitando; ci sembra invece un ottimo attore quello che impersona la parte come
se fosse la sua vera natura. Per raggiungere la sprezzatura, però, sono
possibili due diverse vie, teorizzate – in epoche diverse e posteriori a
Castiglione: da un lato, Diderot – nel suo Il paradosso dell’attore –
sostiene l’assoluta freddezza dell’attore, asserendo che questi è tale nella
misura in cui è freddamente distaccato dai personaggi che impersona; è tale
freddezza, infatti, la risorsa che gli permette di celare lo sforzo che egli
compie per impersonificare quella data parte. La seconda via è quella percorsa
in Russia da Stanislawsky, il quale sosteneva che si diventa ottimi attori
solamente se ci si cala nei personaggi impersonificati, identificandosi con essi
e in essi scomparendo, a tal punto confondendosi da nascondere lo sforzo che si
compie per imitarli. Il contrario della sprezzatura è l’ "affettazione",
che altro non è se non il fallimento della sprezzatura stessa, lo sforzo di
essere graziosi che non riesce a celarsi. L’esempio che Castiglione adduce in
merito è quello del ballerino che danza "con tanta attenzione che di certo
pare vada enumerando i passi", senza riuscire ad introiettare lo sforzo di
esser piacevole. L’affettato è, in altri termini, colui che vuole piacere ma non
vi riesce ed è perciò tenuto lontano dalla corte nello stato di natura,
impacciato nella sua assenza di grazia; egli, manifestando un evidente ed
esasperato sforzo di autocontrollo, rivela un non ancora avvenuto autocontrollo,
dimostra di volersi controllare ma di non essere ancora capace a farlo senza
darlo a vedere. Letteralmente, "stare a corte" significa "corteggiare", "fare la
corte", ovvero seguire il principe intrattenendolo ovunque egli si rechi,
facendo cerchia intorno al potere: sicchè la corte, per un verso, è il luogo
segreto in cui si esercita il potere e, per un altro verso, è il luogo aperto,
festivo e solare in cui si pratica la rappresentazione dello stare a corte: è,
per dirla diversamente, il potere che da un lato viene esercitato e dall’altro
inscena se stesso, cercando in tal maniera la propria legittimazione; ma esso è
anche tale da modificare sempre più sensibilmente la convivenza, poiché da una
parte la corte legittima – mascherandolo – il proprio potere, ma dall’altra –
indossando tale maschera – tempera e modifica il proprio potere stesso. E così
la corte rinascimentale segnala un accentramento del potere (il che è centrale
per il futuro passaggio all’assolutismo), ma si configura anche come
accentramento di consuetudini: "la vita del principe è legge e maestra dei
cittadini e forza è che dei costumi di quello dipendano quelli di tutti gli
altri", scrive Castiglione, e tale vita di corte – così concepita – si
presenta con tutte le caratteristiche della cortesia. Qualche decennio dopo,
Torquato Tasso comporrà dei trattati di divulgazione filosofica che
costituiscono un autentico compendio umanistico/rinascimentale: in uno di
questi, significativamente intitolato Il malpiglio ovvero della corte –
egli riprende temi di Castiglione, arrivando a scrivere quanto segue: "le
virtù non tutte ugualmente né sempre si manifestano, ma la magnificenza, la
liberalità e quella che si chiama cortesia è dipinta coi più fini colori che
abbia l’artificio della corte e del cortegiano; parimenti la virtù del
conversare, l’affabilità e la piacevolezza". La cortesia compendia tutte le
virtù ed è l’arte del conversare piacevolmente (in netta antitesi con lo scontro
verbale dei singoli); essa si forma a corte e si diffonde gradualmente nella
società civilizzandola. Il conciliare il principe si sposta così al conciliare i
cittadini fuori dalla corte: si deve dunque in ogni caso esser piacevoli e
schivare la noia, ma la corte si intrattiene perché si trattiene; emerge cioè
sempre più l’arte del padroneggiarsi, giacchè nella misura in cui ci si domina
ci si risulta scambievolmente piacevoli e ci si trattiene. Nel Seicento, La
Bruyére dirà che "un uomo che sa la corte è padrone dei propri gesti, dei
propri occhi, del proprio volto", ossia sa perfettamente come condursi su
quel palcoscenico che è la vita; ma è a corte che si sviluppa la capacità di
smussare le differenze e di incorporare le conflittualità, presentandole sotto
l’egida dell’etichetta e del protocollo capaci di armonizzare ogni cosa; ed è lì
che la forza bruta viene sostituita da quella trattenuta e dissimulata, ed è
appunto in ciò che possiamo scorgere la funzione civilizzatrice della cortesia.
Ancora La Bruyére sintetizza: "la corte è come un palazzo di marmo: voglio
intendere che essa è composta di uomini ben duri ma politi"; come si evince
dal testo, la spigolosità degli individui a corte non è eliminata, ma solamente
polita, ovvero trattenuta per convenzione; e un poco alla volta le buone maniere
diffusesi a corte si divulgheranno nella società e fra i cittadini, producendo
quel fenomeno che è l’urbanità, cui è opposta la villania, ovvero
l’atteggiamento del villano che sta lontano dalla città e dalle buone maniere.
La civiltà, insomma, prende a svilupparsi sul modello della corte, ingerendone
le usanze e i costumi: ne è prova lampante il fatto che la civiltà moderna è la
civiltà delle cosiddette buone maniere, trasferitesi dalla corte alla città. E
come il discorso di Machiavelli non valeva solo per il principe, ma per ogni
cittadino, ugualmente quello di Castiglione non è rivolto solo al cortigiano, ma
anzi ci invita tutti a diventare cortigiani, ad esser piacevoli con gli altri,
intrattenendo la malagrazia e la spiacevolezza dell’egoistica individualità di
ciascuno di noi, individualità che la cortesia reprime e dissimula: ma si tratta
di qualcosa che si spinge oltre all’ipocrita dissimulare, giacchè si realizza
una reale smussatura dell’aggressività, e ciò si attua grazie all’operare
dell’arte della cortesia. La funzione civilizzatrice della corte è ribadita da
Monsignor Giovanni della Casa nel suo Galateo. Overo de costumi, in cui
scrive (XVI): "e queste parole di signoria e di servitù e le altre a queste
somiglianti, come io di sopra ti dissi, hanno perduta gran parte della loro
amarezza; e, sì come alcune erbe nell'acqua, si sono quasi macerate e
rammorbidite dimorando nelle bocche degli uomini". Anche per Giovanni della
casa la cortesia non elimina, ma ammorbidisce la servitù e la signoria,
rendendole più vivibili, proprio come l’acqua ammorbidisce certe erbe in essa
immerse.
IL SEICENTO
Nel Seicento ci imbattiamo in una nutrita schiera di pensatori che
traghettano le idee di Machiavelli e di Castiglione (le quali aprono la
modernità) fino all’illuminismo. Il primo filosofo a riprendere in maniera
sistematica la convinzione che l’agire umano sia sempre e comunque interessato,
essendo insopprimibile l’amor proprio, è Thomas Hobbes, il quale concepisce la
ragione come puro strumento di calcolo delle conseguenze e la scienza come
conoscenza delle conseguenze stesse, ossia della concatenazione causale di fatti
offertici dall’esperienza. Da siffatte premesse non può discendere se non
un’etica dell’interesse, utilitaristica e fondata sui calcoli della ragione,
calcoli che, se evolveranno come avviene in certi casi, mostreranno che la
miglior salvaguardia degli interessi personali sta in una relativa
subordinazione ad un concordato interesse comune – che è la pace -, condizione
indispensabile di ogni prosperità individuale. Sul piano etico, di tale patto
sociale si dà una variante reazionaria, che mette il potere in mano ad un
sovrano assoluto, e una variante ‘democratica’, che invece lo mette nelle mani
di un’assemblea, anche se Hobbes ritiene che solo quella autoritaria possa
realmente funzionare; il patto sociale così inteso obbliga chi vi aderisce a
comportamenti aderenti a ciò che il patto sociale stesso esige, comportamenti
cioè che siano i mezzi di una vita comoda, sociale e gradevole. Questi
comportamenti aderenti al calcolo fondamentale del patto, benchè Hobbes li
chiami "virtù", nulla hanno a che fare con le virtù tradizionali, giacchè
mancano di disinteresse e anche perché al patto sociale importa solo il
comportamento esteriore, non quello interiore: "il potere della legge è
regola solamente delle azioni e non è estendibile al pensiero e alla coscienza
degli uomini", scrive Hobbes. In altri termini, importa solo la legalità,
cioè l’aderenza alle leggi pattuite, e non esiste una disposizione interiore
disinteressata, ma – quand’anche esistesse – resterebbe comunque fuori gioco,
poiché l’importante è sempre e solo come si agisce esteriormente. Hobbes va
elaborando queste sue idee anche in seguito al suo soggiorno in Francia (dove
aveva composto il De cive) e non fa specie che egli incida in maniera
straordinaria sulla formazione dei cosiddetti "moralisti francesi" del Seicento
(La Rochefoucault, La Bruyére, Pierre Nicole) – teorici dell’amor proprio -, i
quali, attraverso Hobbes e attraverso i Libertini, vengono a contatto con il
pensiero di Machiavelli. Pierre Nicole vede a fondamento della società un
"amor proprio illuminato", frutto di quella stessa ragione lungimirante
che per Hobbes statuisce il patto sociale e che persegue i suoi propri interessi
producendo le condizioni migliori (prima fra tutte la pace) perché ciò avvenga.
Nei moralisti ritorna con insistenza il machiavelliano tema della simulazione
come pratica imprescindibile per la vita civile; il problema di una prospettiva
di questo genere, tuttavia, è sintetizzabile nella questione se una tale etica
dell’utile sia realizzabile o non sia piuttosto un sogno utopistico, se cioè gli
interessi individuali si esprimano in realtà in una sregolata guerra di tutti
contro tutti. Tutti questi pensatori sono profondamente convinti che tale etica
sia realizzabile e non chimerica, e fanno a tal proposito notare come l’amor
proprio sia invincibile e come le passioni siano valide e incrementabili
mediante un sagace intervento della ragione calcolatrice. Anzi, a rigore, l’amor
proprio appare come strumento indispensabile per lo sviluppo dei singoli e della
specie. A tal proposito, Mandeville dirà che i vizi e le imperfezioni dell’uomo,
sommate alla intemperie ambientali, spingono l’uomo stesso all’evoluzione
biologica: proprio perché pungolato dall’amor proprio, egli organizza al meglio
la sopravvivenza terrena, e le passioni in cui essa si ordina (orgoglio,
avarizia, ecc) producono finalità (desiderio di arricchirsi e di primeggiare) e
comportamenti (emulazione, concorrenza, ecc) la cui utilità pubblica è
innegabile: quelli che sono vizi sul piano privato (l’emulazione, l’arricchirsi,
ecc) diventano virtù sul piano pubblico, come recita il titolo della favola di
Mandeville La favola delle api. Vizi private e pubbliche virtù. In questo
breve scritto, l’autore racconta di un favo di api in cui la produzione del
miele procede magnificamente poiché tutti lavorano instancabilmente, finchè esse
non decidono di chiedere a Giove di far sì che si comportino non più per
interesse ma per virtù: accontentate dal padre degli dèi, il loro favo va presto
in rovina. La morale che se ne ricava è fin troppo evidente: "il vizio è
tanto necessario in uno stato fiorente quanto la fame è necessaria per
obbligarci a mangiare. È impossibile che la virtú da sola renda mai una nazione
celebre e gloriosa". Del resto Bayle – calvinista rifugiatosi in Olanda dopo
la revoca dell’editto di Nantes – scrive significativamente: "lasciate le
massime del cristianesimo ai predicatori; conservatele per la teoria e
riconducete la pratica sotto le leggi della natura, la quale consente di
ribattere colpo su colpo e che ci spinge ad innalzarci al di sopra del nostro
stato, a divenire più ricchi e di miglior condizione dei nostri padri". La
funzione proficua delle passioni è dunque anche da Bayle lumeggiata: esse
giovano al singolo inserito nella società, ed è in ciò che i vizi privati si
palesano come pubbliche virtù. Questa funzione calcolatrice della ragione non
solo è al servizio dell’amor proprio, ma ne è la più fine produzione, è in essa
che trova lo strumento che, promuovendo la nascita e lo sviluppo della società
civile, mette l’amor proprio nelle condizioni migliori: Schopenhauer parlerà
curiosamente di "egoismo illuminato". La ragione, infatti, dota l’uomo
della capacità di prevedere e di calcolare, ma resta una peculiarità che
distingue solo relativamente gli uomini dagli animali (e non assolutamente, come
era in Aristotele o in Cartesio), poiché tale ragione non è che l’espressione
più perfezionata di quell’istinto di conservazione che hanno tutti i viventi. Si
capisce facilmente come l’etica dei moderni – se accostata a quella degli
antichi – sia assai modesta, e l’uomo moderno stesso è piuttosto modesto se
raffrontato con il santo cristiano o con l’antico campione di virtù; tuttavia
l’uomo moderno dimostra il possesso di una perizia mai vista prima
nell’impadronirsi della felicità terrena, e tale perizia è il frutto del
pensiero di Machiavelli, che ci dice non come l’uomo debba fantasticamente
essere, ma come effettivamente è, palesando ciò che di positivo e di utile è
presente nella sua pur limitata natura. Questo punto di vista – anfibio tra il
primo Cinquecento e la fine del Seicento – troverà numerosi e (spesso)
spregiudicati attacchi e formulazioni, con la fondamentale novità, però,
rispetto all’età antica che tale punto di vista fa i conti con l’uomo reale e
non con quello immaginato, è cioè la prima etica che tenga conto delle
difficoltà della messa in pratica, difficoltà che non significano una rinuncia a
questo obiettivo, ma una consapevolezza dei limiti; ed è anche per questa
ragione che tale etica si è rivelata più efficace di quella classica, sapendo
civilizzare la società e non restando staccata da essa. Se ne ricava che il
solco che separa la barbarie dalla civiltà è meno profondo di quanto credessero
i metafisici antichi, e sempre e di nuovo avviene che chi si illude di esser più
forte smarrisca la lungimiranza della ragione e pretenda di revocare il patto
sociale per poter così far valere la legge del più forte (retrocedendo al
barbarico stato di natura). Ciò significa, naturalmente, che il patto sociale
non è mai qualcosa di definitivamente dato e di irreversibile: può essere
revocato in qualsiasi momento. L’unica ciambella di salvataggio a cui possiamo
aggrapparci è data dalla ragionevolezza, che inizia con le buone maniere: la
corte, in questo senso, costituisce un modello comportamentale che si diffonde a
poco a poco presso l’intera cittadinanza; tali buone maniere, se attentamente
analizzate, rappresentano una sorta di patto sociale non scritto, sono cioè un
qualcosa a cui tutti siamo tenuti ad obbedire sebbene non vi sia alcuna legge
scritta che ce lo prescriva. Dunque la diffusione delle buone maniere sfocia in
un repertorio artificiale di comportamenti convenzionali, frasi di convenienza e
atteggiamenti sottintesamente pattuiti: su ciò si sofferma La Bruyère, il quale
scrive che "c’è un pontuario di frasi belle e fatte che si tiran fuori come
dagli scaffali di un magazzino" per piacere agli altri; e, per quanto
artificiose e simulate, non di meno non è consentito ometterle. Lutero ci
provocava dicendo: provate a toglier Cristo dai Vangeli e vi accorgerete che non
rimane più nulla, giacchè essi altro non sono se non l’annuncio di Cristo come
salvezza; similmente, proviamo ad eliminare le frasi fatte e le buone maniere:
cosa rimane? Nulla, all’infuori di un imbarbarimento delle relazioni
interpersonali. Se infatti ci dicessimo l’un con l’altro solamente la verità,
saremmo ciò che effettivamente siamo ma che attualmente cerchiamo di dissimulare
con il ricorso alle buone maniere: saremmo cioè gli uni in concorrenza contro
tutti gli altri, nell’hobbesiano bellum omnium contra omnes. In altri
termini, resterebbe la spigolosa aggressività connaturata dell’io, dettata
dall’istinto di conservazione. Emergerebbe quella barbara relazione fra
individui che è l’opposto della conversazione cortese, affabile e mediatrice. In
piena età illuministica, uno dei più grandi commediografi italiani – Carlo
Goldoni – prenderà in esame la nozione di cortesia in due sue importanti opere,
La donna di garbo e Momolo cortesan, nella cui avvertenza al
lettore egli scrive: "intendesi da noi per cortesan un uomo di mondo franco
in ogni occasione, che non si lascia gabbare facilmente, che sa conoscere i suoi
vantaggi, onorato e civile ma soggetto però alle passioni; amante, anziché non,
del divertimento". Il cortigiano, pertanto, è da Goldoni inteso come colui
che pratica la cortesia, come il cittadino che si trova a proprio agio in questo
mondo, ovunque egli sia: la sua guida preminente è l’egoismo illuminato, l’amor
proprio razionalizzato. L’invenzione più tipica dell’amor proprio sarà allora
l’onore, ossia quel sistema di virtù che l’amor proprio stesso comporta: l’uomo
onorato mantiene la parola data, sta ai patti, ma l’onore per un verso sollecita
il narcisisimo dell’amor proprio e, per un altro, fa meglio dispiegar l’amor
proprio stesso. Sempre nel Settecento, in un lessico universale pubblicato a
Lipsia nel 1736, tra le tante voci campeggia anche quella di "cortesia", termine
che "deriva da corte, vita di corte; le corti dei grandi signori sono un
teatro in cui ciascuno vuol fare fortuna, ma ciò può avvenire solamente se si
acquista la benevolenza dei principi; perciò bisogna sforzarsi di rendersi
amabili. Nulla giova maggiormente del far vedere agli altri che siamo pronti a
sacrificarci per gli altri"; con l’atteggiamento esteriore dobbiamo cioè
dare a vedere che siamo pronti a servire il prossimo, in modo tale che questi ci
dia la sua fiducia e sia desideroso di fare per noi qualcosa di buono. La
cortesia si configura in tal modo come ammortizzatore sociale che instaura un
diverso modo di relazionarsi fra gli uomini. Nello scritto del 1824 Discorsi
sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani, Giacomo Leopardi constata
come il fondamento della vita civile sia la cortesia, da lui chiamata "buon
tuono" (dal francese "bon ton"); anzitutto, egli parla del conformismo che
caratterizza la modernità mettendo in luce la dilagante tendenza a "ridurre
tutto il mondo a una nazione, e tutte le nazioni ad una persona" e
osservando amaramente come le buone maniere sostituiscano le virtù tradizionali:
"effettivamente lo stato delle opinioni e delle nazioni quanto alla morale è
ridotto in questa precisa miseria che il buon tuono è non solo il più forte ma
l’unico fondamento che resti ai buoni costumi e che i buoni costumi non sono
esercitati per altro, generalmente parlando e dalle classi civili, che per le
ragioni per cui si esercita il buon tuono e che dove il buon tuono della società
non v’è o non si cura, qui la morale manca d’ogni fondamento e la società d’ogni
principio fuor della forza; così nelle dette nazioni la società stessa
producendo il buon tuono produce la maggiore e anzi unica garanzia dei costumi
sia pubblici che privati e quindi è causa immediata della conservazione di se
medesima. Gli uomini politi delle dette nazioni si astengono dal fare il male e
fanno il bene non mossi dal dovere ma dall’onore". Questo brano leopardiano
segnala una lucidità realistico/pragmatica degna di Machiavelli, si nota un
lamento levato contro quella "miseria" in cui ci si trova ad agire non per
virtù, ma per onore; ma, ciononostante, Leopardi riconosce il merito alla
modernità di essere funzionale alla convivenza civile, funzionalità tanto
maggiore là dove il dovere appaia chimerico e mistificatorio. E così
l’affermazione leopardiana circa l’ordinarietà del "buon tuono"
presuppone che il termine "ordinario" significhi tanto "diffuso" quanto (e
soprattutto) "fondante un ordine" codificato in cui si può vivere e per di più
vivere meglio che non nella barbarie e anche – forse – che non in una società
predicante ma non praticante la virtù tradizionale. La spiccata attenzione per
le buone maniera era già in realtà affiorata in età medioevale, quando ad
esempio Bonvesin della Riva – con il suo Delle cinquanta cortesie da
praticare a tavola – aveva composto uno dei primi trattati di buone maniere,
in cui forte era la distinzione tra classi civili e popolo incivile. Ma –
nonostante questi sviluppi embrionali in età medioevale – è soprattutto nell’età
moderna che fioriscono le buone maniere e la cortesia, simboleggianti un nuovo
rapporto fra gli uomini dettato da una nascente attenzione reciproca,
dall’attenzione per l’individualità e lo sguardo empirico: è infatti nell’età
moderna che si comincia a prestare attenzione alle esigenze altrui, con una
pragmatica ragionevolezza. Vi sono quindi usanze convenienti ed altre
sconvenienti: e il termine "conveniente" già segnala la prospettiva
utilitaristica in cui si muove l’uomo moderno, giacchè "conveniente" è ciò che a
tutti consente di vivere bene, con il massimo interesse per la sfera mondana.
Pretendere dagli altri la buona educazione comporta una non scritta coercizione
reciproca e ciò porta alla codificazione delle buone maniere che, pur non
essendo scritte, tutti conoscono (ma non tutti riconoscono). In sostanza, ci si
accorge che conviene mettersi dal punto di vista dell’altro, ed è appunto in ciò
che consiste quella che Schopenhauer chiama "compassione", un sentimento
che può a ragion veduta essere accostato alla "cortesia". Se per alcuni
pensatori può sussistere una forma disinteressata di compassione e se per altri
la questione è irrisolvibile (tale è per Schopenhauer), altri negano
radicalmente l’esistenza di una compassione disinteressata: è questo il caso di
La Rochefoucault, il quale sostiene che la compassione è una raffinatissima
forma di egoismo, è cioè un mettersi dal punto di vista del compatito e un
soccorrerlo perché si è così lungimiranti da pensare che un domani potremmo
essere noi al posto suo e necessiteremmo del medesimo soccorso. Pur non potendo
in via definitiva chiarire se sia un sentimento disinteressato o meno, possiamo
tuttavia con certezza affermare che la compassione è cosa utilissima per la
società. Ed è per questo che si creano società pacifiche, poiché cresce
l’esigenza dell’autocontrollo che deve indurmi a non disturbare e ad intervenire
verso gli altri affinchè gli altri così intervengano verso di me. E dunque le
buone maniere sono di volta in volta limitazioni dell’aggressività naturale: le
trasformazioni sociali dell’aggressività sono innumerevoli, e per capirlo
possiamo pensare alla morte economica del concorrente (che è pur sempre meglio
della morte reale), o alla morte attuata dalla diffamazione. Nella società
civilizzata dalle buone maniere l’uso delle mani è regolato: la civiltà ci
insegna a tenerle al loro posto, e la stretta di mano diventa il sigillo di un
patto e va comunque usata con parsimonia nei casi d’eccezione; in definitiva, il
divieto che la civiltà ci impone è di prendere e far nostro tutto ciò che ci
piace, sicchè le mani sono sostituite dalla vista e noi, da attori, diveniamo
spettatori, e non è un caso che in un paese civile (o presunto tale) non si va
in giro armati. Nella modernità si arriva perfino al tentativo di regolamentare
ciò che di per sé è barbarie: la guerra. Solo un idiota o un criminale crede di
poterla controllare, ma è altresì vero che certi controlli sul comportamento
bellico sono effettivamente entrati in vigore: ad esempio, è stata abbandonata
l’efferata pratica di mutilare il prigioniero. Questo risicato e secolare
processo di modernizzazione è dai moderni teorizzato come opera della ragione ,
e si mette in luce come le religioni non siano mai state promotrici di civiltà
ed anzi esse stesse si civilizzano nella misura in cui si civilizza la società
in cui son radicate. Se consideriamo la tolleranza, l’emancipazione,
l’abolizione della schiavitù in Europa non possiamo non notare come questi
fenomeni si siano verificati non grazie al cristianesimo, ma nonostante il
cristianesimo, che ad essi si è spesso vigorosamente opposto. E’ la borghesia
che – in età illuministica – ha portato avanti tali battaglie cardinali dell’età
moderna, ed è per questo che il Settecento si configura, nel suo complesso, come
un secolo alquanto anti-cristiano.
HOBBES
Il pensiero di Thomas Hobbes segna uno snodo fondamentale nell’etica
utilitaristica dell’età moderna: egli organizza il pensiero di Machiavelli in
sede etica e politica, partendo – in sintonia coi dettami dell’empirismo di cui
è vessillifero – dalla constatazione che principio di tutti i viventi sia un
movimento. Ciò vuol dire che c’è vita là dove c’è qualcosa che si muove; si
tratta, allora, di un movimento vitale consistente in uno sforzo mirante alla
propria perpetuazione. Sussiste come sforzo perché gli esseri viventi non sono
mai stabilmente se stessi e sono sempre passibili di essere e di non essere, e
altro non possono se non sempre e di nuovo sforzarsi di essere e di conservarsi;
e ciò è inscritto nel loro essere finito e in divenire. Sforzo (conatus
in latino) significa per Hobbes una – più o meno – cieca "voglia di", e tale
sforzo si sviluppa in azioni che hanno inizio nelle sensazioni, le quali sono di
due tipi: ci sono infatti azioni di piacere e azioni di dolore; quelle di
piacere sono un rinforzo del movimento vitale, quelle di dolore ne sono invece
una diminuzione. Queste sensazioni sono già gli impercettibili inizi delle
azioni in cui il movimento vitale si dispiega: così la sensazione di piacere è
l’inizio impercettibile dell’appetito verso ciò che piace. Lo sforzo cioè si
struttura in sensazioni (piacere, dolore), volontà (appetito, avversione) e in
pensiero (calcolo). Il movimento vitale è già sempre concretamente appetito di
ciò che piace e avversione di ciò che dispiace: e lo sforzo che il movimento
vitale è si manifesta sempre come passioni (appetiti o avversioni) che gli
esseri viventi si ritrovano già sempre ad essere e perciò subiscono
passivamente; e quando alle passioni si aggiunge la deliberazione si passa
all’azione volontaria, la deliberazione di acquisire i beni (gli oggetti degli
appetiti) ed evitare i mali (gli oggetti dell’avversione) e Hobbes distingue tra
beni reali e beni apparenti grazie al pensiero che è già sempre un ingrediente
delle passioni. I beni reali sono qui e ora presenti, mentre quelli apparenti
sono futuri, configurati come tali dal pensiero che prevede la bontà di un
oggetto futuro. Le passioni, dunque, sono il motore unico delle azioni, così
come l’azione segue sempre alla deliberazione: ciò vuol dire che la nostra
volontà è il prodotto dell’interazione tra l’ambiente e le nostre passioni e che
il nostro atteggiamento non è il frutto della nostra volontà, ma al contrario
noi vogliamo perchè il nostro sforzo vitale e il mondo circostante ci inducono a
volere, vogliamo sempre e comunque la nostra conservazione secondo beni e
appetiti che dipendono dal mondo che ci sta attorno. Dunque lo sforzo di
autoconservazione è la radice di ogni nostro agire ed è innanzitutto un
conatus: ma se mira alla sua conservazione, allora mirerà anche ai mezzi
atti a produrre tale conservazione, e Hobbes tali mezzi li chiama "poteri":
"il potere di un uomo, se si prende questo termine nel suo senso universale,
consiste nei mezzi presenti di ottenere qualche bene apparente futuro"
(Leviatano, cap. 13). Ciò significa che i poteri sono quei mezzi che
appaiono alla ragione calcolatrice capaci di garantire la conservazione dello
sforzo. Ci saranno poteri naturali (cioè immediatamente dati dalla natura: si
tratta delle facoltà psico/fisiche come la forza, la bellezza e l’eloquenza;
devono essere conservati e, sebbene immediatamente presenti, appaiono anch’essi
come beni futuri) e poteri strumentali; questi ultimi derivano dai naturali ma
richiedono arte e sforzo per essere acquisiti (tali sono la ricchezza, la
reputazione, gli amici, il rango sociale, i servi); ciascuno di questi poteri
permette di conservare quelli naturali e lo sforzo che ciascuno di noi è.
Ciascuno di essi, poi, è il mezzo della propria stessa riproduzione e del
proprio stesso incremento, è cioè strumento che produce altri strumenti (la
ricchezza produce ricchezza, la reputazione produce reputazione: ma la
reputazione produce anche ricchezza, e la ricchezza reputazione); anche questi
sono beni futuri ma, a differenza di quelli naturali, sono incrementabili ad
oltranza (la bellezza si incrementa fino ad un certo limite, la ricchezza invece
all’infinito). Come in Machiavelli allora il conatus prolifera
desiderando sempre nuovi beni e sempre un loro nuovo incremento, il quale è a
sua volta incremento del persistere e del potenziarsi del desiderio stesso,
sicchè abbiamo un desiderio illimitato perché volto a perpetuare
indefinitivamente se stesso. Scrive Hobbes (Leviatano, cap. 19):
"l’oggetto del desiderio dell’uomo non è di godere una sola volta e durante
un solo istante, ma render sicura una volta per tutte la strada del suo
desiderio futuro"; oggetto del desiderio è il desiderio di accumulare tutti
quei poteri atti a garantirgli il suo perdurare nel futuro, cosicchè l’uomo è
perennemente coinvolto dai calcoli e dalle congetture sui calcoli e sui beni
apparenti futuri senza che gliene derivi una certezza tranquillizzante. Gli
esseri viventi sono tanto più tormentati dall’ansia quanta più ragione
posseggono, cioè tanto più prevedono il futuro. Così l’animale ha paura della
morte solo quando si trova in condizione di pericolo mortale; l’uomo, invece,
teme la morte per tutta la propria vita. Pascal significativamente dice che noi
uomini siamo tutti dei condannati a morte che però ignorano la data in cui sarà
eseguita la condanna e perciò cerchiamo distrazione nel divertimento. In Hobbes
la tendenza naturale strumentale sarà la tendenza ad accumulare sempre più
poteri strumentali per poter desiderare anche nel futuro. Nel "Leviatano
(cap. 13) troviamo scritto: "così io metto in primo luogo a titolo di
inclinazione generale di tutta l’umanità un desiderio perpetuo e senza tregua di
acquistar potere su potere, desiderio che cessa solo con la morte". Lo
sforzo di conservazione dà quindi vita all’ambizione, alla volontà di
onnipotenza, alla vendetta, alla guerra di tutti contro tutti; è questa
un’empirica (e non metafisica) deduzione del permanente conflitto tra gli
individui: i rapporti interumani – nota Hobbes sulla scia di Machiavelli – sono
sempre utilitaristici e consistono tendenzialmente nel commercio di poteri; da
un lato, la volontà di potere è naturale e ineliminabile, dall’altro i rapporti
sono utilitaristici e la società si configura come mercantile, cosicchè il
mercato arriva ad abbracciare l’intera sfera dei rapporti umani. Specifiche
dell’uomo sono la parola e la capacità di prevedere il futuro grazie al calcolo
razionale che prevede in seguito all’osservazione empirica il ripresentarsi di
certi effetti in seguito al ripresentarsi di certe cause: il futuro è dunque
concepito in base al ragionamento e si configura come un cercar gli effetti
futuri di una causa presente e tale prevedibilità dilata il desiderio dell’uomo,
sicchè nessun essere vivente desidera tanto quanto l’uomo; ben si spiega,
allora, la rapina di risorse che l’uomo attua verso l’ambiente. Gli animali, dal
canto loro, hanno limitata previsione del futuro e il loro desiderio è meno
frenetico; ma, del resto, la capacità di pensare e prefigurare l’avvenire è
anche quella che permette all’uomo di svincolarsi dall’immediatezza presente: il
patto sociale è dunque reso possibile dal linguaggio e dalla lungimiranza della
ragione umana, ed è dunque l’uomo soltanto (e nessun altro animale) a poter
uscire dal barbarico stato di natura. E così Hobbes può distinguere agevolmente
tra ciò che è umano per natura e ciò che è umano per artificio: in particolare,
sarà umano per natura lo stato di natura, mentre umano per artificio la civiltà
che segue alla stipulazione del patto sociale. L'avvento della civiltà,
tuttavia, non toglie, ma controlla lo stato di natura, trasformandolo utilmente:
l’uomo è artefice dell’umanità sociale e questo perché dotato di due diverse
tipologie di conoscenza. Da un lato, abbiamo la prudenza (anche gli animali ne
sono provvisti), che si fonda semplicemente sul ricordo della successione degli
eventi, senza implicare un ragionamento vero e proprio; dall’altro lato, la
scienza è peculiare dell’uomo (manca agli animali) e di una ragione che sa
elaborare regole generali ed intuire princìpi primi; ma tale ragione non viene
concepita da Hobbes come facoltà formata, bensì come virtuale, è cioè un atto
del raziocinio che si sviluppa con l’uso, sicchè può evolvere qualora l’uomo la
eserciti. La ragione – inizialmente elementare, e cioè capace solo di prudenza –
evolve gradatamente verso la scienza, ma si tratta di un tragitto tortuoso e
disseminato di errori, un tragitto che può essere o non essere compiuto: non
tutti gli uomini, infatti, sono in grado di percorrere tale strada, giacchè in
essi, nello stato di natura, prevale la volontà di nuocersi a vicenda: ciò
avviene perché la somiglianza dei bisogni genera il desiderio per gli stessi
oggetti e porta necessariamente ad entrare in conflitto con gli altri individui.
Nello stato di natura – nota acutamente Hobbes – la vita umana è addirittura più
miserabile di quella degli animali, poiché gli uomini sono incessantemente
tormentati dall’assillo del futuro che, moltiplicando il desiderio, moltiplica
anche l’aggressività. E così nel De homine (libro X, cap. 3) Hobbes si
domanda – secondo l’espressione di Plauto – se sia vero che homo
homini lupus est, e, paradossalmente, arriva a rispondere che in realtà –
nello stato di natura – homo homini est, il che è ben peggio, giacchè –
come abbiam detto – nello stato di natura gli uomini son ben più aggressivi
degli animali: non c’è nulla di peggio che avere a che fare con gli uomini. Lo
stato di natura è – secondo Hobbes – lo stato dei calcoli sbagliati, del calcolo
elementare e, perciò, miope: alla prudenza manca la lungimiranza, e la ragione
nel suo livello elementare calcola, sì, ma non in maniera sufficientemente
lungimirante; ma non appena il calcolo dell’utile si fa più chiaro e coerente,
ecco che allora l’uomo si orienta verso la pace, istituendo la vita sociale
nelle strutture statali, nelle quali trova quella garanzia di sicurezza che lo
stato di natura non è in grado di fornire. La contrapposizione di Hobbes con
Aristotele è evidente e l’antiteticità delle prospettive non potrebbe essere più
radicale; per Aristotele l’uomo è "animale politico" per natura, a tal
punto che "tutti gli uomini sono portati da un’inclinazione naturale alla
vita in società" (Politica, 1253 A); viceversa, per Hobbes l’uomo non
nasce in tale disposizione naturale alla società, ma anzi la parola e il calcolo
razionale, nella loro immediatezza, lo allontanano vistosamente dalla società
stessa, cosicchè l’eventuale concordia tra gli uomini si instaura solo
sormontando una tale naturale discordia: tale concordia, pertanto, è meramente
artificiale, oggetto di un’istituzione arbitraria e convenzionale, ed essa è il
frutto "del timore e del calcolo, ma di un secondo e più raffinato calcolo
della ragione"; sull’altro versante, la società di natura poggia sul
"terrore" e su un "imperfetto calcolo della ragione". Troviamo qui
contrapposti il terrore ferino e il timore umano: il terrore è terrore della
morte che uomini e animali condividono nello stato di natura, mentre il timore è
timore non della morte in quanto tale, ma della morte violenta, ed è uno stato
d’animo che si integra e si produce nel secondo calcolo della ragione, quel
calcolo che porta alla conclusione che solo la pace ci permette di morire di
morte naturale, senza interrompere prematuramente il ciclo naturale
dell’esistenza; il timore, quindi, è lungimirante, sa vedere da lontano la
convenienza della pace, ed è tale timore a socializzare e a civilizzare l’uomo:
proprio in ciò risiede la differenza tra l’uomo – naturalmente non socievole – e
quelle specie di animali (le api, le termiti, le formiche, ecc) che sono
spontaneamente socievoli. E’ dunque questo secondo calcolo, che mette in luce la
convenienza della pace collettiva ai fini della sicurezza individuale, ad
interrompere lo stato di natura, ma questo passaggio non è necessario, bensì
possibile (può avvenire o non avvenire); si tratta di un calcolo che,
esercitando uno sforzo, inverte la direzione puramente individualistica dell’io,
ed è pertanto una convenzione imposta ad arte allo stato naturale. Ma –
domandiamoci – quale è la differenza tra arte e natura? I teologi distinguevano
la natura, intesa come il meramente umano, dalla grazia, concepita invece come
ciò che trascende l’umano e si innesta su di esso; e l’arte – che distinguiamo
dalla natura e, anzi, ad essa contrapponiamo – è certamente inclusa nella natura
dell’uomo, ma da essa si distingue come qualcosa di non immediatamente dato:
l’arte è ciò che la natura umana sviluppa mediante apprendimento (ars longa,
vita brevis, secondo un antico detto proverbiale), e ciò vuol dire che
l’arte è ciò che la natura produce con sforzo: esempio classico è quello
dell’artista; egli è tale naturalmente (poiché possiede talento naturale), ma
passa da dilettante ad artista nella misura in cui – esercitandosi e
sforzandosi, ovvero incrementando le doti naturali – sviluppa l’arte. Tornando a
Hobbes, lo stato di natura è il dispiegarsi dell’istinto di conservazione e ciò
implica il primo deficiente calcolo della ragione che porta alla volontà di
dominio su tutto e su tutti; si tratta di un calcolo che vede solo nella
capacità di ampliare sempre più e di far trionfare la propria aggressività. E’
un calcolo ancora irriflesso, nel senso che ad esso pervengono tutti gli
individui dotati di capacità calcolatoria (anche certi animali vi giungono),
sicchè comporta un minimo di riflessione razionale, e l’uomo, nella sua pura
naturalità, è già sempre terrore e primo calcolo. Questa sua essenza si sviluppa
(se non è ostacolata) nel calcolo di conquista del massimo potere, ed è per
questo che si configura come antisocievole e come stato di guerra di tutti
contro tutti. Il secondo calcolo non è spontaneo come il primo, bensì è l’uomo
che deve imporselo (e imporlo agli altri), interrompendo in tal maniera (e
rigettando) il primo calcolo e, di conseguenza, uscendo dall’immediatezza
naturale. E’ sempre l’istinto di conservazione a portare al secondo calcolo, ma
lo munisce dell’arte, che è lo strumento che porta l’uomo appunto a quel secondo
calcolo: la natura umana immediatamente bellicosa è anche in grado di
convertirsi alla socievolezza, alla società, che è una sua creazione
artificiale. Ben si capisce, in un tal contesto, come la società, essendo frutto
di compromessi e tensioni continue, di repressioni dell’immediatezza, sia una
conquista sempre periclitante e in forse e tale da richiedere l’arte della
politica per essere mantenuta in piedi; e, per di più, non si tratta del culmine
della razionalità, ma di un’opzione a cui la ragione può o non può pervenire. La
società civile, poi, include sempre al proprio interno lo stato di natura,
giacchè l’aggressività è stata non eliminata, ma incanalata ed è sempre pronta a
riesplodere. Così, tra stato di natura e civiltà vi è, ad un tempo, continuità e
discontinuità: vi è sì una netta rottura con lo stato di natura, ma i due stati
finiscono nella società civile per coabitare, essendo quello di natura sempre
pronto a riemergere e, di fatto, ciò avviene ogni qual volta si contravvenga ad
una legge positiva (rubando, uccidendo, ecc). La società sarà allora la rinuncia
al libero uso della propria forza secondo il proprio calcolo individuale, mentre
il secondo calcolo è collettivo e possibile: si tratta di due modi diversi di
svilupparsi delle passioni, è cioè una diversa evoluzione dello stesso istinto
di autoconservazione, sicchè siamo in presenza non di un’evoluzione naturale e
irreversibile, né tantomeno di una libera scelta; dove c’è ragione lungimirante,
c’è necessariamente il secondo calcolo? No, risponde Hobbes: la ragione è
indispensabile ma, da sola, insufficiente per produrre il secondo calcolo, il
quale avviene solamente se – accanto alla ragione – vi è la persuasione del
calcolo stesso verso se stesso e, dunque, una sua produzione tramite lo sforzo.
Si tratterà, allora, di un duplice sforzo: prima deve persuadersi della maggiore
utilità del secondo calcolo e poi deve reprimere l’immediatezza, e del resto non
si può parlare di libera scelta poiché siamo sempre e comunque determinati dallo
sforzo. E’ poi anche necessario un influsso dell’ambiente circostante , tale da
costringere alla seconda riflessione la ragione con un vero e proprio shock, che
apra la mente e faccia vedere qualcosa che prima non si vedeva o si intravedeva
soltanto; proprio come chi ha subito un primo infarto muta radicalmente il
proprio stile di vita, facendo cose utili alla propria sopravvivenza perché
indotto da tale trauma. Non è dunque una libera scelta, ma è una particolare
evoluzione di una particolare ragione (la più sofisticata) promossa da
particolari circostanze. Lo sforzo che la civiltà richiede è uno sforzo
continuo: come l’artista deve incessantemente esercitarsi, così noi ci sforziamo
ininterrottamente di controllarci e il continuo esercizio ci aiuta in ciò (come
avviene con le buone maniere: dobbiamo reprimere forzatamente il naturalmente
maleducati che siamo). La civiltà è dunque frutto di un egoismo illuminato,
prodotto dallo sforzo che continuamente imbriglia la nostra spontanea
naturalezza; Hobbes oscilla così tra un pessimismo derivatogli dal vedere l’uomo
come naturalmente aggressivo e un ottimismo che nasce dalla possibilità di
controllare tale aggressività intrinseca e di trasformarla in strumento di
benessere; ma, in fin dei conti, egli resta più pessimista che non ottimista,
dal momento che è profondamente convinto che l’umanità sia ripartita in un folto
stuolo di stolti e in una ristretta cerchia di dotati di ragione, e – per di più
– tra questi pochi l’evoluzione della ragione non sempre avviene, occorre
ch’essa sia tale da poter evolvere, e i più restano da ciò esclusi, sono
incapaci di ragionare correttamente, ecco perché i più sono inadatti alla
società. Ma già nella prudenza è in qualche modo avvertita la legge naturale che
invita l’uomo alla pace: quel tanto di ragione che basta a governare la propria
famiglia privata è già in grado di percepire la legge naturale (il precetto del
"non fare agli altri ciò che non vorresti venisse fatto a te"), è cioè capace di
aver sentore (anche se si tratta di un sentore nebuloso) di ciò, pur mancando
della lucidità che consenta di comprendere la bontà della legge naturale, la
quale da sola non può esser la norma di riferimento oggettivo accettata da
tutti; occorre invece un’autorità che la imponga come legge positiva. Sebbene la
ragione prima abbia sentore, non ha le capacità di cogliere la bontà della pace:
ci vuole un’acquisizione artificiale, è la ragione scientifica che arriva ad un
calcolo più complesso che si traduce nelle prime due leggi della natura: a) il
diritto a tutto non va conservato, ma certi diritti vanno trasferiti o
abbandonati; b) si deve stare ai patti e rispettare la parola data. Da
quell’oscura e istintiva spinta verso la pace che nello stato di natura non si
traduce in riflessione la ragione deduce queste due leggi, cosicchè Hobbes ne
evince che "nello stato di natura si conduce una vita povera, solitaria e
breve". E perciò si passa alla civiltà, nella misura in cui la conservazione
non è più vista in prospettiva individualistica, ma collettivistica: conservando
la vita altrui, conservo la mia; ed è in questo momento che al di là della forza
si scopre la forza/lavoro; nello stato di natura, infatti, la forza era vista
come mezzo di violenza, ora invece la si scopre anche nella sua positiva valenza
lavorativa. Si attua poi un trasferimento di forza dagli individui alla potenza
sovrana, e ciò avviene con una rinuncia al libero uso della forza secondo il
proprio calcolo individuale: la forza è delegata al potere sovrano del monarca
oppure dell’assemblea (ma Hobbes scarta subito questa seconda possibilità), e ad
esso è demandato il calcolo teleologico dell’utile comune. E quando gli stati
fanno la guerra si ritrovano improvvisamente nello stato di natura. Ci troviamo
in presenza di tre diversi tipi di individui, ciascuno con la sua propria
morale: l’uomo di natura, il sovrano, il cittadino. Fermo restando che l’uomo di
natura non è qualcosa di storicamente e geograficamente esistente (ma piuttosto
un modello ideale), la sua morale è di ordine egocentrico: l’io è il primo e
l’ultimo dei suoi beni. Nello stato civile, invece, bene e male, giusto e
ingiusto sono convenuti e sanciti dalle leggi emanate dal sovrano, il quale
perciò è esentato dall’osservanza di tali leggi: l’unica legge cui egli deve
sottostare è quella che prescrive la salvezza del popolo (salus populi
suprema lex), e in base a ciò egli può attuare la deroga delle varie leggi
promulgate. Il cittadino non è meno pieno di desideri rispetto all’uomo
naturale, ma è tale in una prospettiva di ulteriore razionalizzazione che sfocia
nella modestia e nella socievolezza. Hobbes opta dunque per il Leviatano, per il
patto sociale che conferisce al sovrano potere assoluto, e ciò in forza del
pessimismo antropologico che connota il pensiero hobbesiano (di matrice
machiavellica): tale sfiducia nel genere umano nasce in Hobbes anche per il
triste periodo storico in cui egli è vissuto, un’era sconvolta dalle cruente
guerre di religione, sicchè egli arriva a dire che qualsiasi forma di governo è
meglio rispetto all’anarchia e alla guerra civile; ci vuole cioè un potere
assoluto che costringa gli uomini al patto sociale, reprimendo l’aggressività
umana e le passioni che dominano i più. Il pessimismo antropologico resta il
presupposto di ogni pensiero reazionario. L’etica hobbesiana risulta dunque
scandita in tre momenti distinti: in primis, abbiamo il selvaggio stato
di natura, in cui ciascuno è nemico potenziale di ogni altro, e la legge morale
vigente è quella del più forte; in secundis, subentra il patto sociale,
con il quale ogni individuo persegue il proprio interesse subordinandolo a
quello comune e delegando il potere al sovrano, il quale tuttavia – pur essendo
svincolato dalle leggi – non può agire del tutto liberamente, giacchè ogni sua
azione deve sempre e comunque mirare alla sicurezza comune. Infine, il terzo
momento è quello che si ha quando si sviluppa pienamente la società civile, con
l’etica del cittadino corrispondente all’uomo moderno. Si tratta dell’etica
frutto della lungimiranza della ragione, la quale astutamente intuisce come sia
conveniente tutelare l’interesse del singolo inserendolo in quello più ampio
della collettività. Da tale concezione deriva necessariamente una prospettiva in
cui ad esser virtù son le passioni, abilmente pilotate (in vista dell’utile)
dalla ragione stessa: alcune passioni – nota Hobbes – sono virtù, altre sono
invece vizi; più precisamente, virtù saranno quelle passioni che consentono una
vita felice, comune e comoda, mentre vizi saranno quelle che spingono in
direzione antitetica. E così quando Hobbes parla di modestia, di virtù e di
egoismo dobbiamo immaginarci delle passioni sotto la ferrea guida della ragione,
e tutte queste virtù confluiscono in quella della socievolezza, che di tutte è
la principale. Sicchè clemenza, gratitudine e le mille altre "virtù" altro non
sono se non l’interessata adesione al patto sociale, cosicchè la socievolezza
corrisponderà al servire Lo Stato, ossia all’osservare le leggi in esso vigenti
e all’aiutare i cittadini a soddisfare i loro legittimi interessi nel quadro
dell’interesse particolare che ciascuno persegue. La socievolezza di cui parlava
Aristotele (connaturata all’uomo) era quella praticata dal sapiente virtuoso
che, abbandonato il punto di vista comune, coglie la giustizia e la esercita,
esercitando con essa tutte le virtù etiche, le quali non sono più passioni
utilmente guidate dalla ragione (come invece crede Hobbes). Il cittadino così
come lo immagina Hobbes configura l’uomo moderno quale era stato tratteggiato da
Machiavelli e da Castiglione, un uomo che sa di essere sempre e comunque
interessato, che il bene e il giusto sono convenzionali e che in vista del loro
raggiungimento si codifica il comportamento ritenuto giusto e buono: l’uomo
moderno è dunque pienamente cosciente del fatto che la legislazione è positiva,
cioè – appunto – posta in maniera convenuta, e non dettata dalla natura. Ne
seguirà che, nell’età moderna, il giusto comportamento da adottare sarà quello
consistente nell’attenersi alle leggi, prescindendo dalle intenzioni
retrostanti: e se un etico o un religioso pretendono di aggiungere alla legalità
la moralità disinteressata, ciò ai moderni non interessa minimamente, giacchè a
contare per davvero è il rispetto esteriore delle leggi scritte e di quelle non
scritte (le buone maniere); sicchè il vero buon cittadino è quello rispettoso
delle leggi e osservante delle buone maniere, rinunciatario della Verità e della
Virtù, ma non del sapere o dell’agire bene: sia il sapere sia l’agire bene
vengono ristretti e, perciò, risultano incredibilmente efficaci. Pensiamo, a tal
proposito, al sapere scientifico, indubbiamente limitatissimo se raffrontato con
quello metafisico, o all’agire bene – cioè attenendosi a ciò che le leggi
prescrivono -, che senz’altro è limitato rispetto alla pratica della virtù
aristotelicamente intesa, ma, edotto dei limiti della ragione, risulta
maggiormente civilizzatore di quanto non fosse la metafisica. Quest’etica
dell’utile che abbiamo finora tracciato impiega secoli per affermarsi e
diventare dominante, e tende spesso a convivere (ancora oggi in parte è così)
con un’ideologia ufficiale corrispondente ai dettami dell’etica tradizionale;
ciò appare evidente soprattutto se volgiamo lo sguardo all’arte, la quale per lo
più raffigura personaggi incarnanti gli eroi dell’etica tradizionale, quali
possono essere il re magnanimo o i santi. Ma tale autorappresentazione mendace
che la società continua sottobanco ad offrire di sè si accompagna con il
pragmatismo tipicamente moderno, basato sulla legalità e sulle buone maniere. E
più l’illuminismo avanza, più l’etica moderna prende coscienza di sé,
combattendo quella metafisica: le nuove virtù vengono presentate ufficialmente
(ed è la borghesia a farlo) come rispetto della legge, protestando
implicitamente contro i privilegi (la polizia privata, la nobiltà di sangue,
l’intoccabilità dalla legge, ecc) di cui ancora si ammantavano i nobili; perciò
rivendicare come virtù l’osservanza delle leggi significa protestare e
promuovere una riformulazione del patto sociale che renda caduco quello feudale
ancora vigente, esaltando l’antiaristotelica e antiaristocratica laboriosità, la
voglia di primeggiare contro l’ozio di chi vive dei diritti ereditari acquisiti;
in sostanza, nasce la sempre più forte esigenza di essere riconosciuti per quel
che si vale nella società, dando così vita ad una nuova giustizia che sancisca
l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge. In questa maniera,
dalla moralità si passa alla legalità, dall’eroismo e dalla santità all’urbanità
e all’affabilità, dal rigorismo e dall’ascetismo (chimerici, oltrechè inutili)
ad una realistica rilassatezza dei costumi, dove acquisiscono sempre maggiore
importanza le comodità e il benessere: comincia allora a prospettarsi una sempre
maggiore esteticizzazione della vita, e ciò pare confermato da quel progressivo
slittamento terminologico inaugurato da Machiavelli. Nel pensatore toscano il
termine "virtù" era sinonimo di "utilità": ora, similmente, le buone maniere
divengono anche le belle maniere, e così la "gente bene" è gente bella, e
l’onest’uomo e il galant’uomo sono onesti e insieme piacevoli; in altri termini,
l’utile si accompagna al bello. Charles Perrault – a metà Seicento -,
dissertando sulla differenza fra gli antichi e i moderni (e schierandosi
palesemente dalla parte dei moderni), scrive, nel suo Parallelo degli antichi
e dei moderni: "ciò che distingue in particolare il bel mondo e i
galant’uomini dal popolo minuto è ciò che l’eleganza greca e l’urbanità romana
hanno cominciato e che l’educazione degli ultimi tempi ha portato ad un grado
superiore di perfezione". L’onest’uomo in questione coincide con l’uomo
utilmente convenuto dalla ragione mediatrice fra gli amor propri, delineando il
savoir vivre in un mondo che è conflitto perenne di interessi che devono
essere mediati e composti. Così l’onest’uomo in questo mondo si comporterà come
mediatore, e non come un elefante in un negozio di cristalli. Il patto sociale
potrà dunque essere opportunamente ritoccato per evitare di ripiombare nella
guerra di tutti contro tutti, e per rendere più agevole e comoda la vita. Ne
segue il mutare della concezione antropologica di fondo: dal profondo pessimismo
nutrito da Machiavelli e da Hobbes, avente in sede politica esiti tragicamente
reazionari, si passa all’ottimismo antropologico di cui si alimentano (in buona
parte, anche se non tutti) gli Illuministi, meno pessimisti circa la
ragionevolezza a cui gli uomini – mediante un’acconcia educazione – possono
essere portati; sicchè il tasso di civiltà potrà essere incrementato e, quindi,
si potrà procedere verso una sempre maggiore democrazia: quest’ultima potrebbe a
ragion veduta essere definita come una continua ridiscussione e rivisitazione
del patto sociale, ritenuto non come un qualcosa di fissato una volta per tutte,
ma sempre pronto ad essere corretto in vista dell’utile. E, paradossalmente, è
proprio tale prospettiva dell’utile - riconoscente l’ineluttabilità delle
passioni - a poter civilizzare il mondo, riuscendo laddove la metafisica e la
religione hanno miseramente fallito. Che la metafisica non sia riuscita a
civilizzare il mondo è un dato di fatto, su cui non vale neanche la pena
discutere; ma che ciò valga anche per la religione è – forse – questione più
controversa, soprattutto se teniamo conto di una certa tradizione storiografica
che tende a vedere i valori più squisitamente moderni (la libertà,
l’uguaglianza, la fratellanza) come secolarizzazione di valori cristiani: questa
corrente storiografica fa infatti leva su come (nella tradizione cristiana)
tutti gli uomini siano figli di un unico Dio, e perciò uguali e fratelli; ma si
tratta, in realtà, di un inganno ottico dovuto a scarsa cultura teologica,
poiché l’annuncio cristiano della libertà, dell’uguaglianza e della fratellanza
non ha nulla a che fare con l’esistenza mondana e, quindi, con la struttura
della società. In particolare, se leggiamo le Scritture, ci accorgiamo di come
figli di Dio siano solo i prescelti e, fra loro, gli eletti; allo stesso modo,
la libertà di cui si parla nei Testi Sacri è libertà dal peccato, non libertà
socio/politica; infine, l’uguaglianza è meramente fantasiosa, e per accorgersene
basta volgere lo sguardo alle rigide gerarchie nella struttura ecclesiastica.
Del resto, la cosiddetta "predestinazione doppia" (quella in forza della quale
alcuni individui sarebbero ab aeterno destinati alla salvezza) non è
nozione esclusivamente luterana e calvinista, ma anche cattolica: Dio ha ab
aeterno predestinato alcuni eletti alla salvezza, altri alla dannazione,
come ha vigorosamente ribadito il Concilio di Trento e come sostiene lo stesso
Tommaso; lo stesso san Paolo si muove esplicitamente in una siffatta
prospettiva. Se ne ricava, allora, che tali princìpi di uguaglianza, di libertà
e di fraternità valgono solo coram Deo, e non coram hominibus,
tant’è vero che le società in cui il cristianesimo è stata religione dominante
non son certo state modelli di libertà o di uguaglianza; in particolare, il
cristianesimo non ha preso posizione né contro la schiavitù né contro le
differenze sociali, come affiora chiaramente da diversi passi di san Paolo.
Nella prima lettera a Timoteo (6, 1, 12) egli dice: "quelli che si trovano
sotto il giogo della schiavitù, trattino con ogni rispetto i loro padroni,
perché non vengano bestemmiati il nome di Dio e la dottrina. Quelli poi che
hanno padroni credenti, non manchino loro di riguardo perché sono fratelli, ma
li servano ancora meglio, proprio perché sono credenti e amati coloro che
ricevono i loro servizi". Ancora, nella lettera agli Efesini (6), san Paolo
scrive: "schiavi, obbedite ai vostri padroni secondo la carne con timore e
tremore, con semplicità di spirito, come a Cristo, e non servendo per essere
visti, come per piacere agli uomini, ma come servi di Cristo, compiendo la
volontà di Dio": ben emerge come è per volontà di Dio che esistano gli
schiavi ed i padroni, e come anzi gli schiavi siano tenuti a servirli umilmente.
Ancora nella lettera ai Colossesi (3,22, 24) scrive san Paolo: "voi, servi,
siate docili in tutto con i vostri padroni terreni". La schiavitù, pertanto,
non solo non è stata abolita dai cristiani, ma anzi è stata da essi praticata
forse più barbaramente che non dagli antichi, il che è del resto provato dalla
vergognosa tratta dei neri da parte della cattolicissima Spagna. Da tutto ciò
risulta dunque piuttosto ingenua la tesi che vede nei valori cristiani la base
della modernità: si tratta – a dir poco – di un equivoco, nato da un’indebita
sovrapposizione del mondo celeste (dove per il cristiano trionferà la giustizia)
con quello terreno (dove è invece giusto che dilaghino le sopraffazioni ai danni
dei più deboli). La fratellanza, la libertà e l’uguaglianza che costituiscono le
fondamenta dell’età moderna sono allora il frutto di una lunga lotta
(concretizzatasi soprattutto nella Rivoluzione Francese) condotta dai "deboli"
inappagati dalle fumose promesse di una felicità posticipata ad un’altra vita,
una lunga lotta condotta anche contro il potere di quella Chiesa che tutto ha
fatto fuorchè propiziare l’avvento della democrazia e della civiltà; è stata una
lotta nella quale è assurta a stratega la ragione calcolatrice, la quale ha
scoperto la libertà dall’arbitrio, l’uguaglianza di fronte ad una legge pattuita
fra gli uomini e la reciproca utilità della solidarietà. L’arretratezza di cui
si è nella storia fatta portavoce la Chiesa è testimoniata, oltrechè dai tristi
episodi della tratta schiavile, anche dalla concezione della donna che emerge
dalla lettura dei Testi Sacri e che i cristiani hanno sempre sostenuto; leggendo
la prima epistola a Timoteo (1, 11) di san Paolo, ci imbattiamo in una
concezione della donna a dir poco arretrata, forse anche più di quella degli
antichi Greci: "la donna impari in silenzio, con tutta sottomissione. Non
concedo a nessuna donna di insegnare, né di dettare legge all'uomo; piuttosto se
ne stia in atteggiamento tranquillo. Perché prima è stato formato Adamo e poi
Eva; e non fu Adamo ad essere ingannato, ma fu la donna che, ingannata, si rese
colpevole di trasgressione. Essa potrà essere salvata partorendo figli, a
condizione di perseverare nella fede, nella carità e nella santificazione, con
modestia". Una pari arretratezza traspare nell’affrontare il problema della
pena di morte, intorno alla quale è fiorito soprattutto in epoche recenti un
vivacissimo dibattito, mentre per secoli nessuno (salvo sporadiche eccezioni) si
era interrogato seriamente su tali problematiche. E’ invece la ragione che, nel
suo momento più felice – l’età illuministica, non a caso battezzata come "età
della ragione" -, ha messo in discussione, tra le tante cose, anche la pena di
morte: soprattutto nella Lombardia asburgica si è sviluppato il dibattito,
promosso da Pietro Verri e magistralmente affrontato da Cesare Beccaria nel suo
Dei delitti e delle pene, dibattito che porterà concretamente – nel 1786
– all’abolizione della pena di morte nel Gran Ducato di Toscana. Cos’ha fatto sì
che improvvisamente, in età illuministica, si mettesse in dubbio ciò che da
sempre veniva accettato? Prima che esplodesse la modernità, a prevalere era
stata una concezione metafisico/religiosa della giustizia, una concezione tale
da ritenere conoscibile (o grazie alla ragione onnipossente o grazie alla
Rivelazione) il giusto e naturale ordine delle cose; in una tale prospettiva,
l’esercizio pratico della giustizia è far sì che ogni cosa sia ciò che deve
essere, ponendola al giusto posto fra le altre: una siffatta concezione
(condivisa da Aristotele, da Ulpiano e da Agostino) è sintetizzabile
nell’espressione suum unicuique tribuere, rispettando il giusto ordine
delle cose. Alla pena sarà allora, per i metafisici e per i religiosi,
attribuita funzione comparativa, ed infliggere la pena equivarrà a restaurare la
giustizia annullando il reato attraverso una giusta compensazione che ripristini
la situazione di equilibrio antecedente al reato: il termine greco punh, da cui deriva il nostro "pena",
significa appunto "compenso", "soddisfazione", ed è in quest’accezione che lo
intendono i religiosi ed i metafisici. Caso classico è quello del denaro che il
ladro deve restituire alla persona derubata. Ancora Hegel – in pieno Ottocento –
sostiene che la pena è "negazione della negazione", poiché, se il reato
nega l’ordine, a sua volta la pena nega il reato. Nel caso poi di reati
particolarmente gravi, la pena potrà soddisfare solamente se viene impedito il
ripetersi del reato: ed è per questo che si tagliava la mano al ladro, la lingua
al mentitore, e si comminava la pena di morte in certi casi ancora più gravi;
quando ad esempio è stata uccisa una persona, poiché è impossibile riportarla in
vita, si può (e anzi si deve) attribuire sorte analoga all’assassino.
Similmente, quando il reo è un corpo estraneo all’ordine della giustizia, deve
essere neutralizzato fisicamente: così si esprime lo stesso Platone, quando
asserisce (Protagora, 322 d) che "l’uccisione degli uomini incapaci di
giustizia è comando divino". Tutto cambia, però, con l’abbandono del
pensiero metafisico e con il trionfo di quello moderno: mutano sia la concezione
della giustizia sia quella della pena; la prospettiva metafisica cede il passo
ad una convenzionalistica e utilitaristica concezione della giustizia, la quale
cessa così di essere un ordine precostituito che gli uomini sono tenuti a
riconoscere conformando ad esso le loro leggi, e viene invece considerata come
il frutto di un accordo tra i contraenti del patto sociale. Questi ultimi la
individuano in ciò che essi convengono essere il bene supremo e il fine ultimo
della società a cui danno vita: Hume dice significativamente che il fine ultimo
della società è "tutto quanto torna utile alla società, alla sua
conservazione e, soprattutto, alla prosperità dei suoi membri", e tale
veduta è pienamente condivisa dallo stesso Beccaria, che – nel paragrafo 7 di
Dei delitti e delle pene – scrive: "la sola necessità ha fatto nascere
dall'urto delle passioni e dalle opposizioni degl'interessi l'idea della
utilità comune, che è la base della giustizia umana". Pertanto giusti
saran ritenuti quei comportamenti che concorrono al raggiungimento di quel fine
e giuste tutte quelle leggi efficaci a tutelare i diritti degli aderenti al
patto, ossia il diritto al raggiungimento di quel fine: ben si intuisce come le
leggi non scaturiscano dalla verità delle cose stesse, ma siano poste in essere
dall’autorità del legislatore esprimente il comune accordo su ciò che è giusto
perché utile. In questa mutata concezione della giustizia, la pena non ha più
funzione compensativa, ma di difesa sociale, fondamentalmente rivolta ad evitare
un reato futuro dissuadendo: la sua funzione è allora deterrente, agisce come
prevenzione mirante a trattenere le persone dal delinquere e i delinquenti dal
delinquere ancora; sicchè Beccaria può scrivere, nel capitolo 12: "il fine
delle pene non è di tormentare ed affliggere un essere sensibile, né di disfare
un delitto già commesso. […] Il fine dunque non è altro che d'impedire il reo
dal far nuovi danni ai suoi cittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali.
Quelle pene dunque e quel metodo d'infliggerle deve esser prescelto che, serbata
la proporzione, farà una impressione piú efficace e piú durevole sugli animi
degli uomini, e la meno tormentosa sul corpo del reo". La pena ha dunque
fine politico, mirante alla difesa della città in cui si vive: e se il fine è
quello di salvaguardare l’interesse generale, non è affatto scontato che la pena
capitale sia proporzionata a tale fine, nasce anzi il dubbio che essa possa
essere sproporzionata e inefficace a conseguire lo scopo prefisso. Se, come dice
Bentham, ha lo scopo di "stimolante della condotta umana", ossia serve a
prevenire determinati comportamenti nocivi alla collettività, si potranno allora
trovare forme alternative di pena (magari l’ergastolo o i lavori forzati), che
assolvano meglio a questo compito dissuasivo, ed è in tale ottica che ci si
domanda se sia ancora utile la pena di morte, anche se – ad essere onesti – un
dibattito così strutturato pare irrisolvibile, giacchè ci si muove sul piano
delle opinioni, e non delle verità immutabili. Eppure ci si può rifare ad un
secondo argomento per mettere in luce in maniera inoppugnabile l’inutilità della
pena di morte: l’errore giudiziario, il quale acquista, nella moderna concezione
giuridica, un’importanza mai conosciuta prima. Nell’età precedente a quella
moderna, si riteneva di poter conoscere la Verità delle cose, sicchè l’errore
giudiziario era un errore trascurabile e, per di più, tale eventualità perdeva
peso di fronte alla posta in gioco (la restaurazione del giusto ordine delle
cose dopo il sovvertimento operato dal reato), come a dire "pur di salvare
l’ordine delle cose, va bene anche se muore un innocente". Presso i moderni,
invece, vige la convinzione della limitatezza e della fallibilità della ragione
umana e da ciò deriva che l’errore giudiziario è non solo possibile, ma anche
largamente diffuso, cosicchè dobbiamo essere sempre pronti a correggere la
sentenza pronunciata in tribunale, cosa che evidentemente non potrebbe avvenire
dopo che abbiamo ucciso il diretto interessato. Con ciò è ancora una volta messa
in luce l’inutilità della pena di morte, peraltro sostenuta anche dal fatto che
il patto sociale implichi reciprocità: pretende dagli aderenti la legalità, ma
offre ad essi protezione da parte della società, sicchè, nel momento stesso in
cui lo Stato giustizia un individuo, sta violando il patto sociale, ripiombando
nel selvaggio stato di natura. Infine ci si potrebbe ancora domandare: che senso
ha dissuadere dall’uccidere uccidendo? Come si può pensare di uccidere per far
vedere che è sbagliato uccidere?
Corso tenuto dal professor Alessandro Klein nella primavera 2003 presso
l'Università di Torino
http://www.filosofico.net/fi1lmoraleintrodx.htm
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