martedì 14 febbraio 2012

Martin Heideger. Esperienza di una malattia. Quanto ai MODI POSITIVI DELL’AVER CURA ci sono due possibilità estreme. L’aver cura può in certo modo SOLLEVARE L’ALTRO DALLA «CURA» SOSTITUENDOSI A LUI NEL PRENDERSI CURA, INTROMETTENDOSI AL SUO POSTO. QUESTO AVER CURA ASSUME, PER CONTO DELL’ALTRO, CIÒ DI CUI CI SI DEVE PRENDERE CURA. L’ALTRO RISULTA ALLORA ESPULSO DAL SUO POSTO, RETROCESSO, PER RICEVERE A COSE FATTE E DA ALTRI, GIÀ PRONTO E DISPONIBILE, CIÒ DI CUI SI PRENDEVA CURA, RISULTANDONE DEL TUTTO SGRAVATO. IN QUESTA FORMA DI AVER CURA L’ALTRO PUÒ ESSERE TRASFORMATO IN DIPENDENTE E IN DOMINATO, ANCHE SE IL PREDOMINIO È TACITO E DISSIMULATO PER CHI LO SUBISCE. Questo aver cura, che solleva l’altro dalla «cura», condiziona largamente l’essere-assieme e riguarda per lo più il prendersi cura degli utilizzabili. Opposta a questa è la possibilità di aver cura la quale, anziché intromettersi al posto degli altri, li presuppone nel loro poter essere esistentivo, NON GIÀ PER SOTTRARRE LORO LA «CURA», MA PER INSERIRLI AUTENTICAMENTE IN ESSA. Questa forma di aver cura, che riguarda essenzialmente LA CURA AUTENTICA, CIOÈ L’ESISTENZA DELL’ALTRO e non qualcosa di cui egli si prenda cura, aiuta l’altro a divenire trasparente nella propria cura e libero per essa.

Tra due persone accade che talvolta, molto raramente, nasca un mondo. Questo mondo è poi la loro patria. Un minuscolo microcosmo, in cui ci si può sempre salvare dal mondo che crolla."
Martin Heidegger


"Se mi è concesso dare una risposta breve e forse un pò forte, ma comunque basata su una lunga meditazione, direi che la filosofia non potrà produrre nessuna trasformazione immediata dello stato attuale del mondo. ciò non vale solo per la filosofia, ma per tutte e aspirazioni meramente umane. Ormai solo un dio ci può salvare. Ilo vedo come unica possibilità di salvezza quella di preparare nel pensare e nel poetare, una disponibilità all'apparizione del dio o all'assenza del dio nel tramonto; nel fatto che noi, detto grossolanamente, non «crepiamo» ma, se tramontiamo, tramontiamo al cospetto del dio assente”
Tratto da, Risposta. A colloquio con Martin Heidegger di C. Tatasciore, intervista a "Der Spiegel"


Quanto ai MODI POSITIVI DELL’AVER CURA ci sono due possibilità estreme. L’aver cura può in certo modo SOLLEVARE L’ALTRO DALLA «CURA» SOSTITUENDOSI A LUI NEL PRENDERSI CURA, INTROMETTENDOSI AL SUO POSTO. QUESTO AVER CURA ASSUME, PER CONTO DELL’ALTRO, CIÒ DI CUI CI SI DEVE PRENDERE CURA. L’ALTRO RISULTA ALLORA ESPULSO DAL SUO POSTO, RETROCESSO, PER RICEVERE A COSE FATTE E DA ALTRI, GIÀ PRONTO E DISPONIBILE, CIÒ DI CUI SI PRENDEVA CURA, RISULTANDONE DEL TUTTO SGRAVATO. IN QUESTA FORMA DI AVER CURA L’ALTRO PUÒ ESSERE TRASFORMATO IN DIPENDENTE E IN DOMINATO, ANCHE SE IL PREDOMINIO È TACITO E DISSIMULATO PER CHI LO SUBISCE. Questo aver cura, che solleva l’altro dalla «cura», condiziona largamente l’essere-assieme e riguarda per lo più il prendersi cura degli utilizzabili.
Opposta a questa è la possibilità di aver cura la quale, anziché intromettersi al posto degli altri, li presuppone nel loro poter essere esistentivo, NON GIÀ PER SOTTRARRE LORO LA «CURA», MA PER INSERIRLI AUTENTICAMENTE IN ESSA. Questa forma di aver cura, che riguarda essenzialmente LA CURA AUTENTICA, CIOÈ L’ESISTENZA DELL’ALTRO e non qualcosa di cui egli si prenda cura, aiuta l’altro a divenire trasparente nella propria cura e libero per essa.
Martin Heidegger




Il modo di essere -con l'altro già stato analizzato da M.Heidegger a partire dalla nozione di cura (sorge), per cui delle cose l’uomo si prende cura, mentre degli uomini ha cura, nel primo caso non si cura degli altri quanto delle cose da procurare loro, mentre nel secondo caso offre la possibilità di trovare se stessi e di realizzare il proprio essere.
La prima è una forma inautentica come puro essere assieme, la seconda è la forma autentica , il vero co-esistere come con-esserci. 
Riecheggia in questa splendida concezione di cura, inscritta non nel registro della guarigione ma in quello del senso dell’esistenza, l’idea iunghiana di una “cura con le parole”. Essa non può essere considerata come mezzo di guarigione, come avviene in ambito medico, la cui connotazione allude alla risoluzione favorevole di una condizione morbosa e quindi non applicabile in ambito psicologico, in quanto fa parte della condizione del vivere, il dover affrontare ostacoli e difficoltà, talvolta sotto forma di malattia, la quale può anche rappresentare un’opportunità di riflessione, funzionalmente a creare un migliore adattamento alla vita. Jung significativamente dirà …“Non tutto si può e si deve guarire”.



Martin Heidegger, Se Dio crea dal niente.
“ Sul niente la metafisica si pronuncia fin dall’antichità con una tesi in verità equivoca: ‹ex nihilo nihil fit›, dal niente non viene niente. Sebbene nella discussione di questa tesi il niente stesso non diventi mai propriamente un problema, essa tuttavia, dal rispettivo modo di guardare al niente, fa vedere la concezione fondamentale dell’ente che di volta in volta è guida. La metafisica antica concepisce il niente come non-ente, cioè come materia informe che da sé non è in grado di darsi forma e di diventare un ente dotato di forma e quindi di aspetto (εἶδος). Essente è l’insieme delle forme che si forma e che si mostra come tale nella forma (nella veduta). L’origine, la legittimità e i limiti di questa concezione non sono discussi più di quanto non lo sia il niente stesso. La dogmatica cristiana, invece, nega la verità la verità della tesi ‹ex nihilo nihil fit›, dando al niente un altro significato, quello cioè dell’assenza completa dell’ente extra divino, per cui ‹ex nihilo fit – ens creatum›. A questo punto il niente diventa il concetto opposto all’ente vero e proprio, al ‹summum ens›, a Dio come ‹ens increatum›. Anche qui l’interpretazione del niente indica quella che è la concezione fondamentale dell’ente. La discussione metafisica dell’ente si mantiene sullo stesso piano della domanda del niente. Le domande dell’essere come tale e del niente come tale vengono entrambe tralasciate. Per questo non preoccupa neppure la difficoltà che, se Dio crea dal niente, bisogna che proprio lui possa entrare in rapporto col niente. Ma se Dio è Dio, egli non può conoscere il niente, dal momento che l’«assoluto» esclude da sé ogni nientità.”
MARTIN HEIDEGGER (1889 – 1976), “Cos’è la metafisica?” (prolusione pubblica, tenuta nell’Aula dell’Università di Friburgo il 29 luglio 1929, I ed. Cohen, Bonn 1929) in Id., “Segnavia”, a cura di Friedrich-Wilhelm von Herrmann, trad. ed edizione italiana a cura di Franco Volpi, Adelphi, Milano dicembre 1987 (I ed. settembre 1987), ‘La risposta alla domanda’, pp. 74 – 75.
“ Über das Nichts spricht sich die Metaphysik von altersher in einem freilich mehrdeutigen Satze aus: ex nihilo nihil fit, aus Nichts wird Nichts. Wenngleich in der Erörterung des Satzes das Nichts selbst nie eigentlich zum Problem wird, so bringt er doch aus dem jeweiligen Hinblick auf das Nichts die dabei leitende Grundauffassung des Seienden zum Ausdruck. Die antike Metaphysik faßt das Nichts in der Bedeutung des Nichtseienden, d. h. des ungestalteten Stoffes, der sich selbst nicht zum gestalthaften und demgemäß ein Aussehen (‹εἶδος›) bietenden Seienden gestalten kann. Seiend ist das sich bildende Gebilde, das als solches im Bilde (Anblick) sich darstellt. Ursprung, Recht und Grenzen dieser Seinsauffassung werden so wenig erörtert wie das Nichts selbst. Die christliche Dogmatik dagegen leugnet die Wahrheit des Satzes ex nihilo nihil fit und gibt dabei dem Nichts eine veränderte Bedeutung im Sinne der Abwesenheit des außergöttlichen Seienden: ex nihilo fit - ens creatum. Das Nichts wird jetzt der Gegenbegriff zum eigentlich Seienden, zum summum ens, zu Gott als ens increatum. Auch hier zeigt die Auslegung des Nichts die Grundauffassung des Seienden an. Die metaphysische Erörterung des Seienden hält sich aber in derselben Ebene wie die Frage nach dem Nichts. Die Fragen nach dem Sein und Nichts als solchen unterbleiben beide. Daher bekümmert auch gar nicht die Schwierigkeit, daß, wenn Gott aus dem Nichts schafft, gerade er sich zum Nichts muß verhalten können. Wenn aber «Gott Gott» ist, kann er das Nichts nicht kennen, wenn anders das «Absolute» alle Nichtigkeit von sich aus-schließt.”
MARTIN HEIDEGGER, “Was ist Metaphysik?” (öffentlichen Antrittsvorlesung an der Universität Freiburg 24. Juli 1929, 1. Auflage Cohen, Bonn 1929), in Id., “Wegmarken. 1919 – 1961”, in Id., “Gesamtausgabe”, I. Abteilung ‘Veröffentliche Schriften 1914 - 1970’, Band 9, herausgegeben von Friedrich-Wilhelm von Herrmann, Klostermann, Frankfurt am Main 2004 (3. Auflage, 1. Auflage 1976), ‘Die Beantwortung der Frage’, S. 119.




Martin Heidegger. L'ontologia esistenzialista di Essere e tempo
L’intento di Heidegger è quello di costruire un'ontologia fondamentale che, sulle orme dell'ultimo Husserl, ricerchi la natura costitutiva degli oggetti del mondo a partire dal soggetto e dalla coscienza trascendentale che in qualche modo li rende possibili. (.....) . Il tentativo di Husserl di dare concretezza al soggetto trascendentale, secondo Heidegger non è bastato, poiché occorre tener conto anche della sua finitezza e della drammaticità della sua esistenza storica.
Nel costruire la sua ontologia, ossia la scienza che descrive l'essere e le sue strutture fondamentaliHeidegger ritiene si debba partire dal soggetto che pone la domanda su che cosa sia l'essere, cioè l'uomo
L'uomo ha avuto un rapporto problematico con la definizione di essere, finendo per concepirlo come "oggettività", come semplice presenza, come la qualità per cui diversi oggetti o entità sono posti davanti a me (ob-jecta in latino). 

Questa definizione non tiene conto dell'uomo stesso, al quale gli oggetti sono bensì presenti, ma che non è una semplice-presenza nel mondo, bensì un prendersi «cura» di esso, un agire rivolto al futuro continuamente operando in vista di uno scopo. Recependo infatti l'insegnamento fenomenologicosecondo Heidegger l'esistenza umana significa essenzialmente trascendenzaprotesa però allo stesso tempo verso il mondo, al fine di modellarlo e progettarloL'uomo quindi non è presenza ma progetto, o alternativamente esser-ci (Dasein), essere nel mondo, in quanto nodo inestricabile di situazioni nel quale si trova calato.”
-L'ontologia esistenzialista di Essere e tempo –
di Martin Heidegger (Meßkirch, 26 settembre 1889 – Friburgo in Brisgovia, 26 maggio 1976).
tratto da http://it.wikipedia.org/wiki/Martin_Heidegger


L'abbandono di fronte alle cose e l'apertura al mistero si appartengono l'uno all'altra.
Essi ci offrono la possibilità di soggiornare nel mondo in un modo completamente diverso, ci promettono un nuovo fondamento, un nuovo terreno su cui poterci stabilire, su cui poter sostare senza pericolo. […]
Presentisco vagamente che esso si risveglia quando il nostro essere è disposto a lasciarsi ricondurre a ciò che non è un volere. [...] Forse in questo lasciare, nell'abbandono, si cela un senso dell'agire ancora più elevato di quello che attraversa tutte le azioni del mondo e l'agitarsi dell'umanità"
Martin Heidegger



Martin Heidegger, La comprensione emotiva si esprime nel discorso.
“ ‹Il discorso è esistenzialmente cooriginario alla situazione emotiva e alla comprensione›. La comprensibilità, anche prima dell’interpretazione approfondita, è già sempre articolata. Il discorso è l’articolazione della comprensibilità. Esso sta quindi già alla base dell’interpretazione e dell’asserzione. Abbiamo definito il senso come ciò che costituisce l’articolabile dell’interpretazione e, più originariamente ancora, del discorso. Ciò che risulta così articolato nell’articolazione discorsiva è la totalità dei significati. Questa può essere scomposta in una molteplicità dei significati. I significati, in quanto costituiscono l’articolato dell’articolabile, sono sempre forniti di senso. Se il discorso, articolazione dell’articolabilità del Ci, è un esistenziale originario dell’apertura, e se questa, a sua volta, è primariamente costituita dall’essere-nel-mondo, anche il discorso deve avere, per essenza, un modo di essere ‹mondano› specifico. La comprensione emotivamente situata dell’essere-nel-mondo ‹si esprime nel discorso›. La totalità di significati della comprensibilità ‹eccede alla parola›. I significati sfociano in parole. Non accade, dunque, che parole-cosa vengano fornite dai significati.”
MARTIN HEIDEGGER (1889 – 1976), “Essere e tempo”, introduzione e trad. di Pietro Chiodi condotta sull’undicesima edizione, Longanesi, Milano 1988 (VII ed., I ed. Bocca, Milano 1953), Parte prima ‘L’interpretazione dell’Esserci in riferimento alla temporalità e l’esplicazione del tempo come orizzonte trascendentale del problema dell’essere’, Sezione prima ‘L’analisi fondamentale dell’Esserci nel suo momento preparatorio’, Capitolo quinto ‘L’in-essere come tale’, A ‘La costituzione esistenziale del Ci’, § 34 ‘L’Esserci e il discorso. Il linguaggio’, p. 204.
“ ‹Die Rede ist mit Befindlichkeit und Verstehen existenzial gleichursprünglich›. Verständlichkeit ist auch schon vor der zueignenden Auslegung immer schon gegliedert. Rede ist die Artikulation der Verständlichkeit. Sie liegt daher der Auslegung und Aussage schon zugrunde. Das in der Auslegung, ursprünglicher mithin schon in der Rede Artikulierbare nannten wir den Sinn. Das in der redenden Artikulation Gegliederte als solches nennen wir das Bedeutungsganze. Dieses kann in Bedeutungen aufgelöst werden. Bedeutungen sind als das Artikulierte des Artikulierbaren immer sinnhaft. Wenn die Rede, die Artikulation der Verständlichkeit des Da, ursprüngliches Existenzial der Erschlossenheit ist, diese aber primär konstituiert wird durch das In-der-Welt-sein, muß auch die Rede wesenhaft eine spezifisch ‹weltliche› Seinsart haben. Die befindliche Verständlichkeit des In-der-Welt-seins ‹spricht sich als Rede aus›. Das Bedeutungsganze der Verständlichkeit ‹kommt zu Wort›. Den Bedeutungen wachsen Worte zu. Nicht aber werden Wörterdinge mit Bedeutungen versehen.ˮ
MARTIN HEIDEGGER, “Sein und Zeitˮ, Niemayer, Tübingen 1967 (Elfte, unveränderte Auflage, zuerst erschienen als Sonderdruck aus «Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung», herausgegebenen von Edmund Husserl, Niemeyer, Tübingen 1927, Bd. VIII), Erster Teil ʻ‹Die Interpretation des Daseins auf die Zeitlichkeit und die Explikation der Zeit als des transzendentalen Horizontes der Frage nach dem Sein›ʼ, Erster Abschnitt ʻ‹Die vorbereitende Fundamentalanalyse des Daseins›ʼ, Fünftes Kapitel ʻ‹Das In-Sein als solches›ʼ, § 34. ʻ‹Da-sein und Rede. Die Sprache›ʼ, S. 161.

Esperienza di una malattia

Autore: Cesare Gualandris, educatore da una decina di anni in una cooperativa di solidarietà sociale di tipo B che si occupa di inserimenti lavorativi di persone svantaggiate (in gran parte utenti della psichiatria). Volontario in un gruppo di accoglienza per tossicodipendenti in provincia di Bergamo.

"A Settembre del 2005 dopo diversi accertamenti diagnostici scopro di essere colpito da una malattia dal significato fino ad allora me oscuro: linfoma non Hodgkin IV stadio follicolare.
Intendo senz’altro, anche se da profano, che si tratta di qualcosa di serio, un tumore per intenderci,
anche perché i medici (dall’ecografo, al chirurgo, al medico di base) mi “introducono” in questo labirinto della malattia dandomi le prime nozioni scientifiche e cercando di rassicurarmi in quanto agli esiti.
Le prime emozioni dopo la diagnosi, nel mio caso possono descriversi come preoccupazioneansia per il futuro, legata alla famiglia, alle occupazioni quotidiane, ai progetti ecc.

I pensieri sembrano vagare incontrollati da una supposizione, da un’ipotesi o meglio da un’immagine all’altra quasi sempre con un’impronta negativa influenzata forse anche dall’impatto che la nostra cultura occidentale di taglio CARTESIANO ha prodotto nell’IMMAGINARIO COLLETTIVO intorno all’IDEA DI MALATTIA , mi piace citare a questo proposito FOUCAULT quando dice:
La cura inautentica trae origine da un gesto, una scelta originaria, un gesto che sembra sorgere all’interno di una problematizzazione del rapporto dell’uomo con quello che rappresenta ciò che egli fatica a capire, a controllare, a sopportare.
Questa scelta originaria del pensiero occidentale nasce nell’ambito dell’ESPERIENZA DELLA FOLLIA, della MALATTIA, della MORTE: di ciò che effettivamente l’uomo moderno ha allontanato da sécolonizzato con il linguaggio della razionalità e quindi esorcizzato, nel tentativo forse di mettere a tacere quell’inquietudine che tali esperienze sembrano tuttora non smettere di suscitare
".
E in un altro passo:
“QUANDO LA MALATTIA E LA MORTE CESSANO DI RAPPRESENTARE E DI ESSERE VISSUTE COME ESPERIENZE CHE APRONO NELL’UOMO IL DIALOGO CON LA RAGIONE, CON IL MISTERO DI UNA DIFFERENZA CHE NON SI PUÒ NÉ SOPPRIMERE NÉ DOMINARE; quando vengono decisamente separate dall’esperienza umana come infinitamente altro, quando poi vengono iscritte nella finitudine dell’uomo sottoforma di elementi scomponibili che si danno nello sviluppo della vita,  ALLORA MALATTIA E MORTE POSSONO ESSERE CONOSCIUTE COME "COSE DEL MONDO", OGGETTIVATE, E COSÌ PUÒ ESSERE CONOSCIUTO E CURATO ANCHE L’UOMOCOME UN CORPO, COME UN ORGANISMO DELLA CUI FISIOLOGIA FANNO PARTE, VITA, MALATTIA E MORTE ALLO STESSO MODO.
 Ma, direbbe Heidegger COSÌ SI PERDE L’UOMOSI PERDE IL SENSO DELL’UOMO e sI AFFIDA IL SUO ESSERE AD UNA CONOSCENZA INAUTENTICACHE LO RIDUCE A COSA, da ciò non si può che dedurre UNA CURA INEVITABILMENTE INAUTENTICA, APPIATTITA SULL’UTILIZZABILITÀ.

E’ vero LA MALATTIA TI RENDE “DEBOLE”, “VULNERABILE”, si FA FATICA A PARLARNE, A MOSTRARLA, RACCONTARLA CONTROLLANDO LE EMOZIONI CHE SUSCITA, la PAURA POI DI ESSERE RIGETTATI DAGLI ALTRI o di ingenerare timori inconsci come lo è nelle relazioni con persone handicappate o con i malati di mente o con i tossicodipendenti ecc., RISCHIA DI INIBIRE LE RELAZIONI o di suscitare la tentazione di voler celare attraverso un’ apparenza ingannevole, un presunto “STIGMA NEGATIVO”.
Tutti gli aspetti della personalità paiono essere “UMILIATI”, CI SI SENTE AD UN TRATTO TORNAR COME BAMBINI, BISOGNOSI DI TANTO AIUTO, e si corre anche il rischio di farsi “coccolare” un po’ di più.
Tutto ciò però, questo STATO EMOTIVO, CONTIENE UN NON SO CHÉ DI PIÙ PROFONDO, UN SENTIMENTO DI ATTACCAMENTO, SPERIMENTABILE IN UN “AMBIENTE FAVOREVOLE”, che stringe in un patto d’amore, dove risuonano l’eco delle persone a te vicine che ti appaiono sotto altri aspetti, le vedi con occhi diversi, le relazioni si intensificano si fanno “a misura d’uomo” ed è palpabile un senso di solidarietà che rende forza, da coraggio, incute speranza e fiducia in vista di un riguadagnato “benessere” alla ricerca dell’omeostasi perduta.
Ciò che intendo dire e che per me È IMPORTANTE È IL BISOGNO DI RESTITUIRE “SIGNIFICATO” ALLA MALATTIA ANCHE QUANDO QUESTA HA A CHE FARE CON IL PENSIERO DELLA MORTE, e di rimando con il SIGNIFICATO DELLA VITA, DELL’ESSERCI, DELL’ESSERE-CON. Questo bisogno nella mia esperienza personale non può non entrare in contatto con quello che è la DIMENSIONE RELIGIOSA DELL’UOMO.
LA MALATTIA, GLI ERRORI, LA MORTE MOSTRANO CHE L’UOMO NON HA IN SÉ LA RAGIONE DEL PROPRIO ESISTERE: egli è finitezza profonda che esige e richiama Dio, l’Infinito, l’Ineffabile, sorgente di essere e di vita.
Per i più scettici posso assicurare che questa non è una FUGA CONSOLATORIA DOVE NEGARE LA REALTÀ o vivere al di sopra di essa anzi è PRENDERE IN MANO IL PROPRIO “COMPITO” ESISTENZIALE con rinnovato vigore consci dell’unicità e irripetibilità del proprio esistere.


Dentro l’esperienza
Dopo il PRIMO CONTATTO CON LA MALATTIA A LIVELLO DIAGNOSTICO, inizia il percorso del TRATTAMENTO, della TERAPIA, la famosa terapia da “TERA PEU” ossia “RELAZIONE D’AIUTO”.
L’approccio fisico con la struttura ospedaliera (il nuovo day hospital emato-oncologico inaugurato di recente, frutto di sinergie tra associazionismo AIL Paolo Belli e Associazione Oncologica Bergamasca e Direzione Generale degli Ospedali Riuniti) è risultato agevole vista la predisposizione organizzativa, l’ampiezza degli ambienti e le tecnologie moderne presenti e l’abbondanza di riviste scientifico informative dedicate al PAZIENTE ONCOLOGICO.
Quindi a LIVELLO INFORMATIVO (secondario) e SPAZIO-TEMPORALE tutto ok, delle CRITICITÀ in più emergono invece a LIVELLO MICRO NEI RAPPORTI TRA PERSONALE MEDICO, PARAMEDICO E PAZIENTI e a LIVELLO MACRO nell’IMPOSTAZIONE CULTURALE DELLA STRUTTURA CHE PARE ANCORA RICALCARE IL MODELLO BIOMEDICO o perlomeno questo risulta predominante.
Vi è all’interno della struttura un UFFICIO RISERVATO AI COLLOQUI CON L’ASSISTENTE SOCIALE che RICEVE PER UN’ORA DUE VOLTE LA SETTIMANA, prioritariamente PER INDIRIZZARE ALLA PRATICHE BUROCRATICHE legate alle pensioni e invalidità civili, MOLTO MENO PER UN SOSTEGNO PSICOLOGICO O PEDAGOGICO.
NON MI PARE ESISTA O SIA PREVISTA LA FIGURA DELLO PSICOLOGO ALL’INTERNO DELLA STRUTTURA dove convogliano ogni giorno c.a. 100 pazienti oncologici bisognosi di terapia (quale terapia? Se intesa in senso globale come relazione d’aiuto ad una persona che soffre?).
Nonostante il nuovo day hospital sia frutto di sinergie con l’associazionismo dell’AIL (la quale peraltro offre residenzialità agli ammalati ematologici che hanno bisogno di terapie di lunga durata) FINORA NON HO MAI VISTO ALCUN VOLONTARIO NELLE SALE D’ATTESA, nei corridoi o nelle stanze di infusione.
Persiste quindi anche in questa STRUTTURA CONCEPITA IN TERMINI “MODERNI” LA TRADIZIONE DI IMPERMEABILITÀ A CIÒ CHE È ESTRANEO AL MODELLO MEDICO DI INTERVENTO.
Le mie possono esser naturalmente solo riflessioni o percezioni personali, sicuramente aiutate anche dal recente studio dei testi di PSICOLOGIA DELLA SALUTE che hanno allargato i miei orizzonti percettivi coinvolgendomi in questa VISIONE DELLA SALUTE “OLISTICA IN VISTA DEL BENESSERE COME DIRITTO CIVILE, CULTURALE, POLITICO, ETICO….
IL PAZIENTE È UN BUON PAZIENTE QUANDO NON FA TROPPE DOMANDE E ADERISCE ALLA CURA (compliance).
Anche le RELAZIONI TRA PAZIENTI MEDICO e PERSONALE INFERMIERISTICO al di là di qualche eccezione di filantropia individuale, ricalcano il modello tradizionale della struttura ospedaliera anche e SOPRATTUTTO A LIVELLO GERARCHICO.
Ora non sto a descrivere i particolari di queste relazioni, ma È EVIDENTE E PALPABILE IL DISTACCO EMOTIVO DALLA PERSONA DEL MALATO INTESA IN SENSO BIOPSICOSOCIALE entro il concetto di SISTEMA COME ENTITÀ DINAMICA le cui componenti sono in continua e reciproca INTERAZIONE, in modo da formare un unità…
Viene confermato ciò che qualche anno fa intuiva FOUCAULT rispetto al rapporto della clinica con il malato:

LA CLINICA nasce innanzitutto come organizzazione di una esperienza medica e in particolare dell’insegnamento medico. IL SUO OGGETTO È LA MALATTIA, NON L’INDIVIDUO MALATOil compito non è curare ma riunire e rendere sensibile il corpo organizzato della nosologia. SI TRATTA DI CONOSCERE LA MALATTIA, LA VERITÀ DELLA MALATTIA, PER SITUARLA IN UN CAMPO NOSOLOGICO CHE LA RENDA VISIBILE, RICONOSCIBILE".
Sarebbe auspicabile come conclude Bestini nel testo “PENSARE LA SALUTE” ritornare ad esaminare la MISSION STORICA DELL’OSPEDALE FONDATA SULLA CONCEZIONE IPPOCRATICA DEL PRENDERSI CURA DELLA SALUTE INTEGRALE DELLA PERSONA poiché la moderna medicina meccanica non è adeguata a SENTIRE IL GRIDO SOMMESSO DELL’ANIMO UMANO E A CURARNE LE FERITE.
Possiamo dire con GADAMER che il superamento della religione e della filosofia (come domanda esistenziale connaturata all’uomo), da parte della SCIENZA abbia rivelato un VUOTO o una PROBLEMATICITÀ TALE DA INGENERARE QUEL DUALISMO TRA MENTE E CORPO frutto di tante criticità e VISIONI PARZIALI DELL’UOMO, insite quindi anche nel concetto di salute come ben ripreso, in fondo, nella riflessione della psicologia della salute la quale anch’essa però corre questo rischio nel confronto-scontro con la visione bio-medica.
E’ interessante LA RIFLESSIONE e l’operazionalità proposta per uscire dalla tensione dualistica che pare contrapporre i due modelli, cambiando lo sguardo alla salute (lo sguardo di Igea) entro un APPROCCIO INTEGRATO che renda possibile una VISIONE MULTIDIMENSIONALE con l’ADOZIONE DI UNA PROSPETTIVA EVOLUTIVA E COSTRUTTIVISTA.
“Le società neoliberiste vedono compromesse QUALITÀ SOCIALI IMPORTANTI PER LA VITA E LA SALUTE DELLE PERSONE come la FIDUCIA, la RECIPROCITÀ, la COESIONE SOCIALE.”
Per restituire tutto ciò ad una comunità fuori da una dimensione di welfare paternalistico, si dice, e sono pienamente d’accordo, È NECESSARIO USCIRE DALLA LOGICA DEL BISOGNO INTESO COME MANCANZA NELL’ALTRO, PATOLOGIZZANDO IL DISAGIO, È NECESSARIO PASSARE DALLA FILOSOFIA DEL BISOGNO ALLE PRATICHE DEL DIRITTO, RESTITUENDO AI SOGGETTI ED ALLA COMUNITÀ (intesa come ecosistema interdipendente) la CAPACITÀ DI AGIRE SUI PROCESSI DI SALUTE.
Il DIRITTO ALLA CURA ALLA PROMOZIONE DELLA SALUTE E DEL BENESSERE deve essere una componente chiara ed essenziale della cittadinanza.
“La salute è un bene personale e sociale la cui tutela spetta egualmente al SOGGETTO, alla COMUNITÀ FAMILIARE, alla COLLETTIVITÀ SOCIALE e in primo luogo al S.S.N.” anche perché, come si cita nel documento, strumento ICF dell’OMS:
QUALUNQUE PERSONA IN QUALUNQUE MOMENTO DELLA VITA PUÒ AVERE UNA CONDIZIONE DI SALUTE CHE IN UN AMBIENTE SFAVOREVOLE DIVENTA DISABILITÀ”.

Riflessioni a proposito del pensiero di M. Heidegger - 
http://documentistoriafilosofia3.blogspot.com/2011/06/riflessioni-proposito-del-pensiero-di-m.html




La cura
Cura significa per Heidegger la responsabilità che ci si assume di fronte alle cose, il modo con cui ad esse si risponde.
Si può avere cura sia in modo autentico sia in modo inautentico. Il rapporto tra uomo e cose consiste nel prendersi cura delle cose, mentre quello tra uomo e gli altri consiste nella cura delle personeLa cura è dunque la struttura fondamentale dell'esserci (dasein). Verso le persone la cura può consistere nel sottrarre agli altri le loro cureoppure nell'aiutare gli altri ad essere liberi di assumere le proprie cure. Nel primo modo non ci si cura degli altri, ma delle cose da procurare loro. Nel secondo si apre agli altri la possibilità di trovare sé stessi e realizzarsi.
In questo scenario si rivela l'esistenza anonima, cioè la vita di chi ascolta passivamente "il si dice" o "il si fa", diventando succube della generale anonimia che si identifica con il "così fan tutti". E' questo il senso della vita? Se sì, tutto è livellato, reso "ufficiale" convenzionale e, ovviamente, insignificante. Il linguaggio che per sua natura sarebbe svelamento dell'essere, diventa chiacchiera inconsistente. Ma un'esistenza così vuota cerca di riempirsi, perciò è morbosamene attratta dalle novitàNasce la curiosità, non per
l'essere delle cose, ma per la loro apparenza visibile
. Ciò porta all'equivoco, che nell'esistenza anonima conduce a non sapere nemmeno di che si sta parlando. Ecco dunque la deiezione, cioè la caduta dell'esserci al livello delle cose.
Tuttavia, nonostante l'orrore che si può provare di fronte ad un simile condizione che improvvisamente si svela di fronte a noi, tale deiezione non va considerata come un peccato originale e nemmeno come un accidente superabile con il progresso umano e scientifico. Essa fa parte dell'esserci, dipende dal trovarsi gettati nel mondo, in mezzo agli altri, al loro stesso livello esistenziale. Tale condizione viene quindi vissuta nella condizione emotiva in cui l'uomo si sente fondamentalmente abbandonato.

La morte
L'esistenza quotidiana anonima, cioè quella della chiacchiera inconsistente rivolta alle vanità mondane, non è che una fuga di fronte alla morteL'esserci nasconde la morte, la rimuove. Solo la voce della coscienza richiama l'uomo alla morte, al suo essere-per-la-morte. Ovviamente, vivere per la morte non ha il significato di realizzarla con il suicidio. Vivere per la morte non è nemmeno attesa. Piuttosto, è comprendere l'impossibilità dell'esistenza come taleDi fronte alla morte, l'uomo può assumere su di sè il peso della propria finitezza, oppure rimanere nella rassicurante dimensione della inautenticità. Anticipare la morte significa, per l'uomo, far ritorno a se stesso, riconoscendo le possibilità dell'esistenza nella loro natura di possibilità pure. Ogni comprensione è accompagnata da uno stato emotivo: l'angosciaEssa pone l'uomo di fronte al nullala sola esistenza autentica è quella che comprende chiaramente (e emotivamente) la radicale nullità dell'esistenza. L'angoscia rivela all'uomo la sua costitutiva finitezza e lo mette in relazione con la temporalità e la morte.

La temporalità
La temporalità non è, per Heidegger, il tempo dei calendari e degli orologi che misurano e datano gli eventi. Non è nemmeno il tempo soggettivo della coscienza pura. Piuttosto, la temporalità si manifesta in primo luogo nell'essere-per-il-futuro dell'esserci in senso pratico, che può risultare autentico o inautentico. Nell'esistenza inautentica la cura dell'esserci è dispersa nel mondo. Nella vita autentica, al contrario, l'esserci deve scegliere. E proprio nel momento della più autentica libertà, l'esserci viene a trovarsi dipendente, quindi asservito, da possibilità tramandate e ereditate. Quindi l'esserci autentico ha uno sguardo temporale rivolto al passato, oltre che al presente ed al futuro (che è condizione della progettualità).



Heidegger. La tensione ontologica.
L’essere è ciò a cui l’anima tende – non solo occasionalmente e non per uno scopo qualsiasi, ma da sé, secondo la sua essenza e unicamente, appunto, per se stessa. L’anima ‹è› questa tendenza all’essere. In riferimento alla caratterizzazione platonica la chiamiamo tensione all’essere, o, in breve: ‹tensione ontologica›. ‹Anima› è adesso semplicemente il termine che sta per «tensione ontologica». Secondo quanto già detto, la tesi deve essere così formulata: la tensione ontologica costituisce il rapporto del percepire al percetto.
30. ‹Avere e tendere›
a) L’apparente inconciliabilità di tendere e percepire.
Che cosa significa «tendere a»? questa è adesso la domanda importante. Che cosa significa in generale questo ‹rapporto› dell’uomo all’essere, nel senso di quella che chiamiamo «tensione ontologica»?
Il percepire è un ‹avere-davanti-a-sé› qualcosa di dato accogliendolo. Ma se il rapporto dell’anima con l’essere nel percepire qualcosa dev’essere un ‹tendere›, allora in tale rapporto in cui si tende a, non si può ‹avere› il percetto, e il percepire non può non può essere un ‹avere›-davanti-a-sé il percetto!”
MARTIN HEIDEGGER (1889 – 1976), “L’essenza della verità. Sul mito della caverna e sul «Teeteto» di Platone” (1931-1932), a cura di Hermann Mörchen, edizione italiana a cura di Franco Volpi, Adelphi, Milano 1997, Parte seconda ‘Interpretazione del «Teeteto» di Platone in ordine alla domanda sull’essenza della non verità’, III. ‘Progressivo sviluppo di tutti i riferimenti dell’apprensione’, C. ‘Terzo passo. Caratterizzazione del riferimento all’essere da parte dell’anima come tensione ontologica’, 29. ‘Il primato della tensione ontologica nell’anima come rapporto con l’appreso’ – 30. ‘Avere e tendere’, a) ‘L’apparente inconciliabilità di tendere e percepire’, pp. 236 – 237.

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