venerdì 20 gennaio 2012

Pietro Abelardo. Storia delle mie disgrazie. Invece di piangere pentita per quello che ho fatto, sospiro, rimpiangendo quello che ho perduto. E davanti agli occhi ho sempre non solo te e quello che abbiamo fatto, ma perfino i luoghi precisi dove ci siamo amati, i momenti in cui siamo stati insieme, e mi sembra di essere lì con te e fare le stesse cose, e neppure quando dormo riesco a calmarmi.

"Non ho mai cercato nulla in te, Dio lo sa, se non te; desideravo semplicemente te, nulla di tuo. Non volevo il vincolo del matrimonio, né una dote. Mi sforzavo di soddisfare non la mia voluttà o la mia volontà, ma le tue, come sai. E se il nome di moglie sembra più santo e più importante, per me è sempre stato più dolce quello di amica o, se non ti scandalizzi, concubina e persino prostituta." Abelardo, Lettere di Abelardo e Eloisa (Lettera II 106)


Invece di piangere pentita per quello che ho fatto, sospiro, rimpiangendo quello che ho perduto.
E davanti agli occhi ho sempre non solo te e quello che abbiamo fatto, ma perfino i luoghi precisi dove ci siamo amati, i momenti in cui siamo stati insieme, e mi sembra di essere lì con te e fare le stesse cose, e neppure quando dormo riesco a calmarmi.
Pietro Abelardo, Storia delle mie disgrazie - Lettere d'amore di Abelardo ed Eloisa


ABELARDO ED ELOISA, UNA PASSIONE SENZA TEMPO.
[...] Pietro Abelardo, bretone di nascita, è considerato ancora oggi uno dei più importanti teologi della storia della Chiesa. In vita Abelardo fu uno dei maestri più seguiti, guadagnandosi fama e prestigio fra gli universitari di tutta la Francia. Bello e talentuoso, in una lettera lo si trova descritto così:

Tutti si precipitavano a vederti quando apparivi in pubblico e le donne ti seguivano con gli occhi voltando indietro il capo quando ti incrociavano per la via […] Avevi due cose in particolare che ti rendevano subito caro: la grazia della tua poesia e il fascino delle tue canzoni, talenti davvero rari per un filosofo quale tu eri […] Eri giovane, bello, intelligente”.

L’autrice di una lettera così piena di amore e ammirazione è una fanciulla appena sedicenne, Eloisa, nata attorno al 1095 nel cuore di Parigi in una famiglia benestante e affidata dallo zio canonico alle cure del convento di Argenteuil. Qui la giovane si era distinta dalle compagne di studi per le spiccate doti per lo studio, soprattutto delle lingue classiche e dell’ebraico e di quelle che all’epoca venivano chiamate arti liberali (grammatica, retorica, geometria e astronomia).
 L'eccezionale tempra spirituale dei due fu la premessa del loro amore.

GALEOTTO FU IL LIBRO.
Il loro incontro avvenne nel 1116, quando lo zio della giovane decide di coltivare le doti di Eloisa facendole dare lezioni dal maestro più celebre del momento: Abelardo. Lui, quasi quarantenne, si innamora da subito della ragazza, poco più che diciassettenne: “Eloisa aveva tutto ciò che più seduce gli amanti” ricorderà il filosofo nella sua biografia, diventata da subito celebre, “Storia delle mie disgrazie”.

Per la fanciulla Abelardo compone poesie che iniziano a esser lette in tutti i circoli culturali. L’idillio continua fino a quando lo zio di Eloisa scopre la relazione, cacciando il maestro. Eloisa aspetta, però, un figlio e fugge per questo da Parigi assieme ad Abelardo, rifugiandosi in Bretagna. Al bambino verrà imposto il nome di Astrolabio, il rapitore di stelle.

Abelardo, per salvare la ragazza dal disonore, propone alla famiglia di contrarre un matrimonio segreto, al quale, però, Eloisa si oppone, nel timore che il matrimonio metta fine alla carriera ecclesiastica dell’amato. Convinta la giovane, i due si sposano, ma il segreto non regge a lungo. La segretezza delle nozze, peraltro, non restaurava l'onorabilità della giovane e dei suoi parenti. La notizia si diffonde per Parigi, tanto da spingere Abelardo a mandare Eloisa nel convento in cui ha studiato da bambina per difenderla dalle maldicenze. I parenti della ragazza intendono il gesto come un abbandono della moglie da parte del filosofo e iniziano a minacciarlo, fino ad aggredirlo una sera, evirandolo.
Lo scandalo scoppia: il tribunale di Parigi arresterà e mutilerà i parenti responsabili, sanzionando, però, anche Abelardo per aver sedotto e sposato in segreto Eloisa.

Eloisa prende i voti, divenendo badessa.
Abelardo si dedica completamente alla vita intellettuale, rispettando rigidamente la regola ecclesiastica. Qui le loro strade si dividono, ma non si dimenticano, continuando ad amarsi perdutamente, come risulta dal loro carteggio.

In una delle ultime lettere Abelardo chiederà alla donna di far in modo che il suo corpo venga seppellito nell’eremo che anni prima aveva donato alle monache del suo ordine.

Quasi vent’anni dopo, anche la salma di Eloisa verrà sepolta nella stessa tomba dell’amato: la leggenda medievale vuole che il corpo di Abelardo abbia abbracciato quello di Eloisa nel momento della inumazione.

“Trovarono tra tutte quelle orribili carcasse due scheletri, uno dei quali abbracciava singolarmente l’altro. Uno di quegli scheletri, che era quello di una donna, era ancora coperto di qualche lembo di una veste di una stoffa che era stata bianca ed era visibile attorno al suo collo una collana di adrézarach con un sacchettino di seta, ornato da perline verdi, che era aperto e vuoto. Quegli oggetti erano di così poco valore che di certo il boia non li aveva voluti. L’altro, che abbracciava stretto questo, era lo scheletro di un uomo.”
(scriverà in Notre-Dame de Paris Victor Hugo, che secoli dopo rimase affascinato dalla storia del teologo e della fanciulla).

(Post di Isabel Schwaben;
Fonte Libreriamo).


In foto il dipinto di Edmund Leighton, Abelardo ed Eloisa.



Pietro Abelardo (1079 – 1142)
«Non si deve credere in nulla se prima non lo si è capito»


«Nihil credendum nisi prius intellectum»

Fu uno dei più importanti e famosi filosofi e pensatori del medioevo, precursore della Scolastica e fondatore del metodo logico. Per alcune idee fu considerato eretico dalla Chiesa cattolica in base al Concilio Lateranense II del 1139. [...]
Conquistò masse di allievi grazie all'eccezionale abilità nel padroneggiare la logica e la dialettica, e all'acume critico con cui analizzava la Bibbia e i Padri della ChiesaEbbe come temibile avversario Bernardo di Chiaravalle, che non gli risparmiò nemmeno le accuse di eresia. Le sue idee religiose, e in particolare le sue opinioni sulla Trinità, si collocavano in effetti al di fuori della Dottrina cattolica, tanto da essere condannate dai concili di Soissons (1121) e di Sens (1140).
Tra i suoi principali allievi vi furono Arnaldo da BresciaGiovanni di Salisbury, segretario dell'arcivescovoThomas BecketOttone di Frisinga, grande letterato e zio di Federico Barbarossa e Rolando Bandinelli, il futuro papa Alessandro III.
Abelardo fu noto anche col soprannome di Golia: durante il Medioevo tale appellativo aveva la valenza di "demoniaco". Pare che Abelardo fosse particolarmente fiero di questo soprannome, guadagnato in relazione ai numerosi scandali di cui fu protagonista, tanto da firmare con esso alcune delle sue lettere. Celebre è la sua storia d'amore con Eloisa, da molti considerato il primo esempio documentato di amore declinato in chiave "moderna", come passione e dedizione assoluta e reciproca. [...] raccontava la vicenda che sarebbe diventata un classico sul tema dell'amore; di come si innamorasse di Eloisa, la giovane nipote di Fulberto, canonico di Notre-Dame presso il quale Abelardo aveva dimora, la quale gli era stata affidata affinché le insegnasse la filosofia; la descriveva come bella, colta, sensibile e intelligente: «aveva tutto ciò che più seduce gli amanti». La fama della passione tra Abelardo ed Eloisa ben presto riuscì ad eguagliare quella del valore intellettuale di Abelardo, una situazione che non poteva essere tollerata dallo zio di Eloisa, che si vendicò facendo crudelmente evirare Abelardo.
[...] la sua eterodossia, specialmente sulla dottrina trinitaria, fu messa sotto accusa e, nel 1121, gli fu ordinato di comparire davanti ad un concilio, presieduto dal legato pontificio Kunovescovo di Preneste, a Soissons. Mentre non è facile determinare esattamente cosa accadde al Concilio, è chiaro che non ci fu alcuna condanna formale delle dottrine di Abelardo, il quale, tuttavia, fu condannato a recitare il Credo Atanasiano e a bruciare il suo libro sulla Trinità (De unitate et trinitate divina).
[...] Come abate di Saint Gildas, Abelardo visse, secondo il suo racconto, un periodo molto travagliato. I monaci, considerandolo troppo rigoroso, tentarono in vari modi di sbarazzarsi di lui, osteggiandolo e arrivando persino ad avvelenarlo. Infine riuscirono a scacciarlo dal monastero.
[...] Con Eloisa intrattenne una fitta corrispondenza, in parte pervenutaci, dove i due trasponevano il proprio amore terreno, ormai troncato, in un amore verso Dio. Nonostante ciò nelle lettere, spesso dotate di una notevole qualità artistica e di un sincero slancio mistico, trapelano ancora tracce dell'antica passione.
[...]  Bernardo di Chiaravalle attaccarono le sue dottrine. Il monaco di Chiaravalle, l'uomo più potente della chiesa di quei tempi, fu messo in allarme sull'eterodossia degli insegnamenti di Abelardo e mise in discussione la dottrina trinitaria contenuta nei suoi scritti. Ci furono ammonizioni da una parte e mancanze dall'altra; San Bernardo, avendo preventivamente avvisato Abelardo in privato, procedette denunciandolo ai vescovi di Francia; Abelardo, sottovalutando l'abilità e l'influenza del suo avversario, richiese un concilio dei vescovi, di fronte al quale Bernardo e lui avrebbero dovuto discutere i punti disputati. Nel 1141, nella cattedrale di Sens (la sede metropolitana di cui Parigi era allora suffraganea), dinnanzi ad alti ecclesiastici e allo stesso re di Francia, Bernardo lesse la lista delle proposizioni che, temendo un diretto confronto dialettico con Abelardo, aveva fatto precedentemente condannare dai vescovi e gli chiese di riconoscerle. Abelardo, informato, così sembra, del procedimento della sera precedente, rifiutò di difendersi, dichiarando che si sarebbe appellato a Roma.[1] Di conseguenza, le proposizioni vennero condannate, ma Abelardo conservò la sua libertà. Bernardo, con una lettera alla Curia Romana, sollecitò la ratifica papale della condanna di Abelardo. Il decreto di Papa Innocenzo II, con la conferma della condanna di Sens, lo raggiunse mentre era in viaggio per Roma, ma era giunto solamente a Cluny.

[...] Per Abelardo, come per Aristotele, la sostanza (ousia) era l'esistenza nella forma di cosa, di animale o di persona, dunque era un soggetto: «Come certi nomi sono dai grammatici detti comuni e altri propri, così dai dialettici certi termini sono detti universali e altri singolari; l'universale è un vocabolo capace di essere predicato singolarmente di molti, come per esempio, il termine uomo si può unire a tutti gli uomini mentre singolare è il nome predicato di uno solo, per esempio Socrate. Dicendo che Socrate è uomo, Platone è uomo, Aristotele è uomo, uso una parola, uomo, predicato di molti individui: uomo è dunque una parola universale. Quando diciamo che questo o quell'individuo conviene nello stato di uomo... diciamo che è un uomo sebbene lo stato di uomo non sia una cosa, una realtà, ma è la causa comune per cui ai singoli viene dato il nome uomo».
In questo modo l'universale non è né una realtà, come voleva Guglielmo di Champeaux, né un puro suono, come sosteneva Roscellino. L'universale non può essere una cosa, poiché una cosa è un'entità individuale e in quanto tale non può essere predicato di un'altra cosa: e allora l'universale non è realtà. Ma non è neanche un puro suono, perché anche un suono è un'entità individuale e perciò non può essere predicato di altro suono.
«Quando ascolto la parola uomo mi sorge nell'animo un modello comune a tutti gli uomini ma "proprio" di nessuno; quando ascolto la parola Socrate mi sorge un’immagine che esprime una "particolare" persona... come si può dipingere una figura comune, si può concepire una figura comune: l'universale è questa immagine comune, l'immagine di una cosa concepita come comune.»
[...] 

La logica 

Compito della logica è stabilire la verità o falsità di un discorso e solo la libera ricerca razionale può condurre alla verità. Nell'opera Sic et non (Sì e no), raccoglieva un centinaio di proposizioni, tratte dai diciassette libri del Decretum di Yves di Chartres, attraverso le quali indicava il corretto metodo per affrontare le controversie teologiche: distingueva i testi della Bibbia, ai quali bisognava credere necessariamente, dai testi patristici, che potevano essere liberamente analizzati. Occorreva accertare se le espressioni usate dagli autori non fossero state da loro successivamente corrette, se non fossero state riprese da altri, occorreva accertare il reale significato dei singoli termini dati dai diversi autori: in caso di contrasto avrebbe dovuto preferita la tesi più e meglio argomentata.

La teologia 

«Composi il trattato De unitate et trinitate divina per i miei studenti che […] chiedevano ragioni adatte a soddisfare l'intelligenza [...] non si può credere a una affermazione senza averla capita ed è ridicolo predicare agli altri quel che né noi né gli altri comprendono.»
Nonostante questa affermazione, Abelardo poneva, comunque, la fede alla base di ogni ricerca teologica, cercando di giustificarla attraverso analogie razionali. Cercò di spiegare la Trinità utilizzando argomentazioni tratte dal Timeo platonico: lo Spirito Santo procederebbe dal Padre e dal Figlio perché in Platone l'Anima del mondo, assimilata da Abelardo allo Spirito Santo, contempla nell'Intelletto divino (il Figlio) le Idee del Padre e in questo modo «per mezzo della ragione universale governa le opere di Dio traducendo nella realtà le concezioni del suo Intelletto».
Nel cristianesimo, secondo Abelardo, sostanza del Padre è la potenza, del Figlio è la sapienza e dello Spirito Santo è la carità. Dovendo costituire un'unità, le persone divine devono derivare l'una dall'altra: il Padre genera il Figlio che è della stessa sostanza del Padre, perché la sapienza è una forma di potenza divina, mentre lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio, altrimenti la carità senza potenza sarebbe inefficace e senza la sapienza non avrebbe razionalità.
Questa concezione trinitaria fu attaccata da Norberto di Magdeburgo, fondatore dell'ordine dei Canonici Premonstratensi, da Bernardo di Chiaravalle e da Guglielmo di Saint-Thierry, perché considerata affetta da eresia modalista – il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, anziché tre persone, non sarebbero altro che tre manifestazioni o modi attraverso i quali si manifesta l'unico Dio.
Nel Dialogo tra un filosofo, un giudeo e un cristiano, l'ultimo scritto, rimasto incompiuto, di Abelardo, i tre personaggi dell'opera credono tutti in Dio, ma due seguono le Sacre Scritture, mentre il filosofo segue la ragione. Il filosofo, nel dialogo col giudeo, conclude di non poter accettare una religione fondata esclusivamente sull'Antico Testamento, e non condivide le prove della razionalità della fede cristiana. Egli sostiene la necessità di valutare criticamente le scelte religiose in quanto ritiene che si aderisca alla fede di una religione positiva solo seguendo le proprie tradizioni familiari, tanto che, quando due persone di fede diversa si sposano, uno di essi si converte abitualmente alla fede dell'altro.


L'eredità di Abelardo 

Abelardo è stata una delle figure fondamentali non solo del XII secolo, ma della storia del pensiero occidentale in generale. Con le sue opere, in particolare il Sic et Non, si può dire che ha fondato la logica occidentale, dimostrando come la ragione umana possa arrivare a importanti risultati senza bisogno di appoggiarsi pedissequamente alle Sacre Scritture. Egli ha elaborato i principi di identità e di non-contraddizione che furono alla base della filosofia scolastica nel secolo successivo.
Sebbene condannato dalla maggior parte della Chiesa più tradizionalista, il suo metodo venne ripreso con successo dal monaco giurista Graziano, che redasse una raccolta completa di diritto canonico (il Decretum), servendosi proprio della logica abelardiana. Dopo di lui il pensiero scolastico ebbe grandi esponenti che mediarono le innovazioni di Abelardo, tra i quali Alberto MagnoTommaso d'Aquino e Duns Scoto. Essi applicarono il metodo logico-scientifico allo studio della teologia, che divenne una vera e propria scienza, quindi indagabile con i metodi della ragione umana. Questi studiosi si poterono avvalere anche delle traduzioni in latino di un altro grande pensatore, Averroè, che rese possibile la conoscenza diAristotele e dei filosofi arabi in Occidente.

La Goliardia moderna 

Al soprannome di Pietro Golia Abelardo si deve il termine Goliardia. Il termine stesso venne adottato dagli studenti universitari bolognesi sul finire del XIX secolo, quando il movimento venne fondato sotto l'impulso di Giosuè Carducci, allora insegnante presso la locale facoltà di lettere, che aveva assistito in Germania a manifestazioni studentesche simili a quello che sarebbe stato poi il modus operandi dei Goliardi. Gli studenti tedeschi erano effettivamente eredi (considerando le evoluzioni storiche del caso) di quei clerici vagantes tanto osteggiati dalla chiesa durante il XII secolo, e che avevano eletto Pietro Abelardo a proprio vessillo nella lotta – spesso più dozzinale che dottrinale – alle imposizioni ideologiche del Papa.


EVOLUZIONE DEL RAPPORTO FEDE-RAGIONE
[…] Radicalmente opposto al "credo ut intelligam" di Anselmo d'Aosta troviamo "intelligo ut credam" di Abelardo. Non si può credere se non a ciò che si conosce e si deve in ogni caso discutere se si debba o no avere fede. Si deve credere all'autorità fintanto che non si è compreso la dimostrazione di ciò che essa vuole insegnare, ma la fede stessa diventa inutile nel momento in cui la ragione ha la possibilità di accertare in modo autonomo la verità.
Se non si dovesse discutere nemmeno di ciò che si deve o non si deve credere, non avrebbe differenza credere il vero o credere il falso. A differenza di Anselmo in cui la maggiori implicazioni partivano dalla prova ontologica, in questo pensatore è proprio la nuova prospettiva del rapporto fede ragione che ha le più rilevanti conseguenze. La ricerca di Abelardo è infatti impiantata su nuove basi, si rileva infatti come egli vuole mostrare la necessità di adoperare la ragione per risolvere i contrasti e trovare la soluzione.
Questa nuova metodologia di indagine consiste nell'enunciare argomenti che si adducano prò e contro la risposta positiva e quella negativa, e infine nello scegliere una della due soluzioni, confutando quindi l'altra. Ciò è il concetto principale dei una delle sue opere maggiori, il "Sic et non". Successivamente questo metodo sarà proprio di tutti gli scolastici e si manterrà fino alla fine della scolastica stessa, proprio dopo Guglielmo di Ockham.
http://cronologia.leonardo.it/storia/biografie/fede.htm

La natura e la ragione

[...] Colui che espresse meglio degli altri l'ansia di rinnovamento degli studi, l'insofferenza per l'accettazione passiva delle auctoritates, l'esigenza di una libera ricerca razionale, fu Abelardo (1079-1142), nato a Nantes da una nobile famiglia ed educato ad una cultura elevata e raffinata. Spinto dalla passione per la dialettica, Abelardo compí molti viaggi per ascoltare i piú celebri maestri dell'epoca; giunto a Parigi, frequentò la scuola di Guglielmo di Champeaux, ma ben presto entrò in aspra polemica col maestro. Dopo altre peregrinazioni, durante le quali insegnò in varie località aprendo egli stesso delle scuole, ritornò a Parigi, dove, ancora in polemica con Guglielmo, insegnò dialettica e teologia. In questo periodo incontrò Eloisa, dalla quale ebbe un figlio e che sposò segretamente; ma fu un amore sventurato: i parenti della sposa fecero evirare Abelardo, che si ritirò nel convento di S. Dionigi, mentre anche Eloisa prendeva i voti. Tornato ben presto all'insegnamento pubblico, a Parigi, Abelardo vide condannate da un concilio le sue tesi sulla Trinità e fu costretto a bruciare di sua mano l'opera in cui le sosteneva; entrato poi in accesa polemica con Bernardo da Chiaravalle (vedi al paragrafo successivo), questi ottenne la condanna ufficiale di Abelardo dal Sinodo di Sens nel 1140. Costretto a ritrattare molte delle sue tesi, Abelardo si ritirò negli ultimi anni della sua vita nell'abbazia di St. Marcel. Le sue opere piú importanti sono una Dialectica, le Glossae alle opere logiche di Aristotele e di Porfirio, il Sic et Non (una raccolta di opinioni contrastanti dei Padri sui diversi argomenti), l'Ethica seu Scito te ipsum, le Epistulue ad Eloisa, cui premise come introduzione una lettera autobiografica, la Historia calamitatum.

Abelardo afferma chiaramente che bisogna scrivere di teologia per coloro che cercano le ragioni umane e filosofiche e pretendono piú le cose che si possono capire che quelle che si possono dire, [poiché è] superfluo pronunciare parole che non possono essere seguite dalla comprensione, e non si può credere qualche cosa se prima non la si è capita, ed è ridicolo che qualcuno predichi agli altri ciò che non può essere capito. (Historia calamitatum IX)

Questa rivendicazione del valore della ragione non significa però per Abelardo un'opposizione tra ragione e fede: la vera opposizione non è tra ragione e fede, quanto tra ragione e autorità:

Tutti sappiamo che non è necessario il giudizio dell'autorità in quelle cose che possono essere discusse con la ragione. (Theologia cristiana III)

La ragione, dunque, sia pure nella fede e per la fede, ha una netta superiorità sulla autorità, cioè sulla tradizione, ma non per questo la stessa autorità è inutile; essa ha la funzione di portare alla fede coloro che non sono in grado di avvicinarlesi facendo uso della propria ragione:
Ma intanto, finché la ragione rimane nascosta, basti l'autorità, e si mantenga l'importantissimo e notissimo principio della forza dell'autorità tramandata dai filosofi nello stesso corpo della scienza. (Theol crist.III)

Abelardo non è quindi l'eroe del libero pensiero o il paladino di una ricerca assolutamente libera della ragione; la sua polemica con l'autorità e la sua difesa della priorità della ragione su di essa è rivolta anche contro coloro che, possedendo una fede non sorretta dalla ragione, sono propensi ad accettare passivamente qualsiasi credenza religiosa. E infatti alla fede non conduce tanto la testimonianza dell'autorità divina quanto costringe l'argomento della ragione umana. Non si crede perché Dio lo ha detto, ma si accetta perché si è convinti che è cosí. (Introductio ad theologiam Il, 3)

Comunque, per il momento storico e l'ambiente culturale in cui veniva fatta, la rivendicazione di Abelardo conserva intatta il suo valore: se è vero che non si può pretendere di conoscere con la ragione il contenuto della fede, perché si distruggerebbe cosí la fede stessa, ciò significa che bisogna distinguere, per Abelardo, il comprendere, che è "la valutazione delle cose che non appaiono", che la ragione opera nel dominio della fede, dal conoscere, che è "l''esperienza delle cose stesse attraverso la loro stessa presenza" e che rimane il campo esclusivo e incontrastato della ragione umana. Del resto, anche nell'applicazione della ragione alla "comprensione" delle verità rivelate, si finiva per fare di un argomento teologico un oggetto di riflessione filosofica, come accadde di fare ad Abelardo sul concetto di Trinità, strada che era ancora pericoloso imboccare, come egli stesso dovette sperimentare direttamente. Le tre persone della Trinità si riducono infatti per Abelardo a tre diverse proprietà della stessa sostanza:
A questo modo, come nelle cose singole, mentre permane una sola sostanza, si possono assegnare derterminazioni innumerevoli, secondo proprietà reciprocamente differenti, che c'è di strano se, permanendo una sola essenza divina, sono diverse le proprietà che sono in essa, secondo le quali si possono distinguere tre persone? (Introd. ad theolog. II,12)

Una posizione originale Abelardo sostenne nella disputa sugli universali: rifiutata sia la soluzione del nominalismo (che non sa distinguere la differenza tra i termini linguistici come oggetto della grammatica e i termini come indicazioni di concetti), che quella del realismo (che finisce per annullare ogni distinzione tra gli individui), Abelardo ritiene che l'universale sia sermo, discorso, cioè l'attività significante del nome, per la quale esso può venir predicato di piú cose. L'universale è anche lo status delle cose in quanto esse sono distinte le une dalle altre ma hanno proprietà e aspetti simili.

Noi diciamo che lo stato di uomo è lo stesso uomo, che non è una cosa, e diciamo anche che è la causa comune dell'imposizione del nome ai singoli, in base alla quale essi convengono reciprocamente. (Glossae a Porfirio, 20,8-9)

In tal modo Abelardo da un lato liberava i concetti dalla loro supposta esistenza metafisica, dall'altro lato assicurava loro la qualità di strumenti logici indispensabili alla conoscenza e non arbitrari o soggettivi: la logica diveniva cosí scientia sermocinalis e con la dialettica, suo fondamentale supporto, assicurava la reale conoscenza del mondo.
Un'altra posizione originale Abelardo assunse nel campo dell'etica, distinguendo tra vizio, che è una naturale inclinazione alla colpa, e peccato, che è il consenso dato dalla volontà a quest'inclinazione:
Il vizio è pertanto ciò da cui siamo resi inclini al peccato, ...ma il consenso è quello che propriamente chiamiamo peccato. (Ethica III)
Naturalmente anche questa posizione era poco ortodossa, poiché metteva in discussione la trasmissione del peccato originale nei discendenti di Adamo, e negava che gli infedeli peccassero, dal momento che, non conoscendo la verità cristiana, manca in essi un consenso intenzionale a trasgredire i comandamenti divini.
Fino ad ora l'evoluzione del rapporto fede ragione non si è considerata nella sua totalità. E' un complesso ed articolato processo che, nel caso specifico di Abelardo, si integra anche in un contesto ben più ampio che è la disputa sugli universali.
(UNIVERSALE: sono universali quei concetti che per la loro generalità sono predicabili di più entità individuali: p.e. è universale il concetto di "uomo", perché è predicabile di singoli individui. Nel corso del XII sec. si accese una disputa intorno alla reale natura di questi concetti: alcuni (Anselmo, Guglielmo di Champeaux) ritengono che agli universali corrisponda una reale struttura ontologica, che trascende il mondo sensibile e gli fa da modello (Realismo); altri (Roscellino) sostengono invece che non hanno alcuna realtà, ma sono puri nomi, segni convenzionali, e hanno la loro esistenza solo nella voce che li pronuncia (Nominalismo); a queste tesi si oppose Abelardo, sostenendo che gli universali non sono né entità trascendenti, né puri nomi, ma semplici significati logici.)

http://www.giutor.com/sdf/ant/capXIII/par1.htm







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