domenica 29 gennaio 2012

Friedrich Durrenmatt. La morte della Pizia. Ho riflettuto sugli esseri umani e li ho interrogati prima di sottoporre a essi il mio enigma e farli sbranare dalle mie leonesse" rispose la Sfinge. "Mi interessava sapere come mai gli uomini si lascino opprimere: per amore del quieto vivere, ho concluso, che spesso li induce addirittura a inventarsi le teorie più assurde per sentirsi in perfetta sintonia con i loro oppressori, come del resto gli oppressori escogitano teorie non meno assurde pur di riuscire a illudersi di non opprimere gli individui su cui esercitano il loro dominio

Mi chiusi nella boutique, come la chiamavo, una stanzetta piena di fumo vicino all'ufficio vero e proprio. Mi feci portare una bottiglia di Châteauneuf du Pape da un ristorante nei pressi della Sihlbrücke, bevvi qualche bicchiere. Regnava sempre un disordine spaventoso in quella stanza, non voglio negarlo; libri e pratiche ammucchiati alla rinfusa, per principio si capisce, perché sono dell'opinione che in questo stato così ordinato ciascuno ha il dovere di crearsi delle piccole isole di disordine, sia pure di nascosto.”
Friedrich Dürrenmatt, La promessa. Un requiem per il romanzo giallo, Feltrinelli 1991, pagina 45 (traduzione di Silvano Daniele)


Un oracolo ambiguo (per mantenersi comodamente nel vago) e l'importanza della punteggiatura: 
quando una virgola può diventare davvero questione di vita o di morte.
Alla grotta della celebre Sibilla di Cuma si accede tramite un dromos: una galleria a forma trapezoidale con bracci di areazione e di luce laterali, e con tre cistene nelle quali, dice la leggenda, la Sibilla si bagnava. In fondo v'è la stanza oracolare.
Dalla Sibilla si recavano anche i soldati prossimi a partire per la guerra, per essi la Sibilla pronunciava sempre le stesse parole: "ibis et redibis non morieris in bello". Per modificare il vaticinio bastava che ella si soffermasse, oppure no, sulla parola NON. Ne scaturivano, così due diversi oracoli:
- ibis et redibis, non morieris in bello (andrai e ritornerai, non morirai in guerra)
- ibis et redibis non, morieris in bello (andrai e non ritornerai, morirai in guerra.

Anche se questo è una caso estremo, proprio della costruzione sintattica della lingua latina, anche nell'italiano corrente è importante usare correttamente la punteggiatura; a volte, si può modificare il senso della frase solo spostanto una virgola.
http://www.immaginaria.net/articolo/puo-una-virgola-cambiare-il-futuro


Ho riflettuto sugli esseri umani e li ho interrogati prima di sottoporre a essi il mio enigma e farli sbranare dalle mie leonesse" rispose la Sfinge. "Mi interessava sapere come mai gli uomini si lascino opprimere: per amore del quieto vivere, ho concluso, che spesso li induce addirittura a inventarsi le teorie più assurde per sentirsi in perfetta sintonia con i loro oppressori, come del resto gli oppressori escogitano teorie non meno assurde pur di riuscire a illudersi di non opprimere gli individui su cui esercitano il loro dominio.
Friedrich Durrenmatt. La morte della Pizia


Non crucciarti vecchia, lascia che sia ciò che è stato comunque diverso, e che continuerà a risultare sempre diverso, quanto più indagheremo. La verità esiste solo nei limiti in cui la lasciamo in pace. Ci siamo trovati di fronte alla stessa inquietante realtà, che è imperscrutabile come l'uomo che la produce.
Friedrich Dürrenmatt. La morte della Pizia


Friedrich Dürrenmatt. Edipo e la Pizia.
“STIZZITA PER LA SCEMENZA DEI SUOI STESSI ORACOLI E PER L’INGENUA CREDULITÀ DEI GRECI, LA SACERDOTESSA DI DELFI Pannychis XI, lunga e secca come quasi tutte le Pizie che l’avevano preceduta, ASCOLTÒ LE DOMANDE DEL GIOVANE EDIPO, un altro che voleva sapere se i suoi genitori erano davvero i suoi genitori, come se fosse facile stabilire una cosa del genere nei circoli aristocratici, dove, senza scherzi, donne maritate davano a intendere ai loro consorti, i quali peraltro finivano per crederci, come qualmente Zeus in persona si fosse giaciuto con loro. Vero è che in simili casi, essendo comunque subitosi coloro che venivano a consultarla, LA PIZIA SOLEVA RISPONDERE CON UN SEMPLICE: SÌ E NO, DIPENDE…; quel giorno però l’intera faccenda le parve di un’idiozia veramente intollerabile, forse soltanto perché quando il pallido giovanotto arrivò claudicando al santuario erano ormai le cinque passate, invece di starlo a sentire Pannychis avrebbe dovuto chiudere, e allora, vuoi per guarirlo dalla fede incondizionata nelle sentenze degli oracoli, vuoi perché essendo così di cattivo umore le saltò il ghiribizzo di fare arrabbiare quel principe di Corinto dall’aria altezzosa, la Pizia gli fece una profezia che più insensata e inverosimile non avrebbe potuto essere, la quale, pensò, non si sarebbe certamente mai avverata, perché nessuno al mondo può ammazzare il proprio padre e andare a letto con la propria madre, senza contare che per lei tutte quelle storie di accoppiamenti incestuosi fra dèi e semidei altro non erano che insulse leggende. Va detto però che un leggero disagio la colse nel momento in cui, udite le parole dell’oracolo, quel tipo maldestro di un principe di Corinto sbiancò in volto; la Pizia lo notò pur assisa sul tripode e avvolta com’era da una nuvola di vapori, e pensò che dovesse trattarsi di un credulone straordinario. Quando poi, uscito dal santuario con fare circospetto, Edipo ebbe pagato l’oracolo al gran sacerdote Merops XXVII, che incassava personalmente dai clienti aristocratici, Pannychis lo seguì con lo sguardo ancora per un attimo e scrollò il capo perché vide che il giovanotto non prendeva la strada che portava a Corinto, dove pure vivevano i suoi genitori; ma il pensiero che quel responso dato per celia potesse provocare una disgrazia lo respinse subito e, nel rimuovere quella strana e spiacevole sensazione, la Pizia dimenticò Edipo.”
FRIEDRICH DÜRRENMATT (1921 – 1990), “La morte della Pizia”, trad. di Renata Colorni, Adelphi, Milano 1988 (I ed.), pp. 9 – 10.


Dentro, c'è una domanda. La domanda è terribile. Fluisce nella sala. Cala sul pavimento.
S'affigge alle pareti. Si rannicchia alta sul soffitto. S'impadronisce d'ognuno. La sala si dilata.
Il mondo diventa un immenso punto interrogativo.
Friedrich Dürrenmatt. da: "La salsiccia"


Plutarco. La Pizia e la filosofia. Dalla poesia alla prosa.
“Poiché la vita porta con sé mutamenti, a un tempo, e nelle fortune e nelle nature umane, l’uso bandì il superfluo ed eliminò le ‹trecce d’oro› e fece passar di moda le molli tuniche preziose e gli abbigliamenti e, all’occasione, tagliò le chiome troppo fluenti e sciolse il coturno. Ci si avvezzò – e fu un segno di buon gusto – a contrapporre, in fatto di eleganza, a un lusso fastoso, una bella semplicità; e a giudicare ciò che è schietto e semplice, più adorno e bello di ciò che è fastoso e raffinato. Allo steso modo, mentre il linguaggio subiva, contemporaneamente, un’analoga trasformazione e si spogliava delle sue eleganze, anche la storia discese dalle forme metriche, come da un carro, e preferì quel cammino pedestre in cui il vero si distinse dalla leggenda. La filosofia stessa ebbe cara la dote didascalica della chiarezza piuttosto che lo stupore poetico, e perseguì le sue indagini in prosa. Il dio, allora, fece desistere la Pizia dal chiamare i suoi concittadini ‹accenditori di fuoco› e gli Spartani ‹divoratori di serpenti› e gli uomini, in genere, ‹girovaghi dei monti›, e i fiumi ‹beventi l’acqua dei monti›. Eliminando dagli oracoli i versi dell’epos, le grandi parole e le perifrasi e la vaga indeterminatezza, il dio dispose la Pizia a parlare ai consultanti come le leggi alle città, come i sovrani s’intrattengono col popolo e come i maestri si esprimono con i discepoli, adattando, insomma, il linguaggio alla comprensione e alla persuasione.
«È bene, però, sapere che il dio, come dice Sofocle, per i saggi è sempre autore di enigmatici responsi per gli sciocchi è un povero maestro, anche se conciso.
Di pari passo con la chiarezza introdotta negli oracoli, venne, di conseguenza, una rivoluzione nella fede, la quale subì un cambiamento analogo a tutte le altre cose. Conclusione: anticamente ciò che non era familiare o comune, ma era espresso ambiguamente e con circonlocuzioni, fu interpretato come manifestazione della divinità, e fu oggetto di stupore e venerazione per il volgo; ma più tardi, questo stesso volgo preferì imparare ogni cosa chiaramente e facilmente e non già con magniloquenza o con artifici; e biasimò il linguaggio poetico in cui gli oracoli erano chiusi, non solo perché costituiva un ostacolo per la intelligenza dei responsi, nel loro senso verace, ma perché mescolava oscurità e ombre alla rivelazione. Si giunse persino a guardar con sospetto le metafore, gli enimmi, le ambiguità, poiché si sentiva che tutto questo rappresentava un cantuccio appartato e quasi un rifugio per l’oracolo, per una furtiva ritirata nel caso fallisse nella profezia pronunziata!”
PLUTARCO (poco prima del 50 – poco dopo il 120 d.C.), “Perché mai i responsi della Pizia non sono ora più in versi’, in ID., “Diatriba isiaca e dialoghi delfici”, testo e versione a cura di Vincenzo Cilento, Sansoni, Firenze 1962, ‘De Pythiae oraculis’ – ‘Verso e prosa negli Oracoli della Pizia’, pp. 255, 257, 259.


Il dio Apollo e la Sibilla
Nella mitologia greca e romana, la Sibilla era una sacerdotessa dotata di poteri divinatori (concessi dal dio Apollo). In Italia la più importante era la “Sibilla Cumana”, una delle figure più intriganti e misteriose dell'antichità classica (e probabilmente la più famosa grazie alla rappresentazione di Virgilio nell'Eneide).
Secondo la leggenda, il dio Apollo dopo averla vista se ne innamorò perdutamente, tanto che in cambio del suo amore, propose di esaudirle qualunque desiderio. Lei prese un pugno di sabbia e chiese ad Apollo di poter vivere tanti giorni quanti erano i granelli di sabbia nella sua mano, ma fece un grave errore, infatti dimenticò di domandare anche l’eterna giovinezza, il dio gliela avrebbe accordata se si fosse concessa a lui, ma la profetessa rifiutò. La Sibilla iniziò ad invecchiare fino ad assomigliare ad una larva e Apollo decise di metterla in una gabbia nel suo tempio a Cuma. In queste condizioni la Sibilla aveva un solo desiderio la "morte" che tuttavia, non fu soddisfatto. Alla fine rimase solo la sua voce, ma nonostante questo le sue profezie continuarono per secoli, e i suoi presagi raccolti in svariati libri.
Nel VI libro dell'Eneide era il personaggio centrale, con la doppia funzione di veggente e sacerdotessa di Apollo e di guida di Enea nell'oltretomba.
http://illibroeterno.blogspot.it/2010/11/l-oracolo-della-sibilla-giunti-y.html



"Cominciando dalla prima generazione degli uomini parlanti fino alla fine dei tempi
profetizzerò tutte le cose una per una,quali sono state in principio,
quali sono ora e quali saranno in futuro nel mondo a causa dell’empietà degli uomini"
Oracoli Sibillini, Libro I, vv. 1-4 
(tratto da: Bibiana Borzì. Tesi di dottorato 1 Capitolo III. La Sibilla nella tradizione oracolare)
http://webcache.googleusercontent.com/search?q=cache:ZiMZkcX9A5cJ:archivia.unict.it/bitstream/10761/175/6/capitolo%2520III.pdf+oracolo+sibilla&cd=27&hl=it&ct=clnk&gl=it




“ ἐπεὶ δὲ τοῦ βίου μεταβολὴν ἅμα ταῖς τύχαις καὶ ταῖς φύσεσι λαμβάνοντος ἐξωθοῦσα τὸ περιττὸν ἡ χρεία κρωβύλους τε χρυσοῦς ἀφῄρει καὶ ξυστίδας μαλακὰς ἀπημφίαζε καί που καὶ κόμην σοβαρωτέραν ἀπέκειρε καὶ ὑπέλυσε κόθορνον, οὐ φαύλως ἐθιζομένων ἀντικαλλωπίζεσθαι πρὸς τὴν πολυτέλειαν εὐτελείᾳ καὶ τὸ ἀφελὲς καὶ λιτὸν ἐν κόσμῳ τίθεσθαι μᾶλλον ἢ τὸ σοβαρὸν καὶ περίεργον∙ οὕτω τοῦ λόγου συμμεταβάλλοντος ἅμα καὶ συναπολυομένου, κατέβη μὲν ἀπὸ τῶν μέτρων ὥσπερ ὀχημάτων ἡ ἱστορία καὶ τῷ πεζῷ μάλιστα τοῦ μυθώδους ἀπεκρίθη τάληθές∙ φιλοσοφία δὲ τὸ σαφὲς καὶ διδασκαλικὸν ἀσπασαμένη μᾶλλον ἢ τὸ ἐκπλῆττον τὴν διὰ λόγων ἐποιεῖτο τὴν ζήτησιν∙ ἀπέπαυσε δὲ τὴν Πυθίαν ὁ θεὸς ‘πυρικάους’ μὲν ὀνομάζουσαν τοὺς αὑτῆς πολίτας ‘ὀφιοβόρους’ δὲ τοὺς Σπαρτιάτας ‘ὀρεᾶνας’ δὲ τοὺς ἄνδρας ‘ὀρεμπότας’ δὲ τοὺς ποταμούς∙ ἀφελὼν δὲ τῶν χρησμῶν ἔπη καὶ γλώσσας καὶ περιφράσεις καὶ ἀσάφειαν, οὕτω διαλέγεσθαι παρεσκεύασε τοῖς χρωμένοις ὡς νόμοι τε πόλεσι διαλέγονται καὶ βασιλεῖς ἐντυγχάνουσι δήμοις καὶ μαθηταὶ διδασκάλων ἀκροῶνται, πρὸς τὸ συνετὸν καὶ πιθανὸν ἁρμοζόμενος. 
«Εὖ γὰρ εἰδέναι χρὴ τὸν θεόν, ὥς φησι Σοφοκλῆς, 
σοφοῖς μὲν αἰνικτῆρα θεσφάτων ἀεί, 
σκαιοῖς δὲ φαῦλον κἀν βραχεῖ διδάσκαλον.
μετὰ δὲ τῆς σαφηνείας καὶ ἡ πίστις οὕτως ἐστρέφετο συμμεταβάλλουσα τοῖς ἄλλοις πράγμασιν, ὥστε πάλαι μὲν τὸ μὴ σύνηθες μηδὲ κοινὸν ἀλλὰ λοξὸν ἀτεχνῶς καὶ περιπεφρασμένον εἰς ὑπόνοιαν θειότητος ἀνάγοντας ἐκπλήττεσθαι καὶ σέβεσθαι τοὺς πολλούς∙ ὕστερον δὲ τὸ σαφῶς καὶ ῥᾳδίως, ἕκαστα καὶ μὴ σὺν ὄγκῳ μηδὲ πλάσματι μανθάνειν ἀγαπῶντες ᾐτιῶντο τὴν περικειμένην τοῖς χρησμοῖς ποίησιν, οὐ μόνον ὡς ἀντιπράττουσαν τῇ νοήσει πρὸς τά ληθὲς ἀσάφειάν τε καὶ σκιὰν τῷ φραζομένῳ μειγνύουσαν, ἀλλ᾽ ἤδη καὶ τὰς μεταφορὰς καὶ τὰ αἰνίγματα καὶ τὰς ἀμφιβολίας, ὥσπερ μυχοὺς καὶ καταφυγὰς ἐνδύεσθαι καὶ ἀναχωρεῖν τῷ πταίοντι πεποιημένας τῆς μαντικῆς ὑφεωρῶντο.”
ΠΛΟΥΤΑΡΧΟΥ “Περὶ τοῦ μὴ χρᾶν ἔμμετρα νῦν τὴν Πυθίαν” (“De Pythiae oraculis”), in op. cit., 406 D – 407 B, 24 – 25, pp. 254, 256, 258.

“Die delphische Priesterin Pannychis XI, wie die meisten ihrer Vorgängerinnen lang und dürr, hatte, verärgert über den Unfug ihrer Orakelsprüche und über die Leichtgläubigkeit der Griechen, den Jüngling Ödipus angehört; wieder einer, der danach fragte, ob seine Eltern seine Eltern seien, als wäre das in
aristokratischen Kreisen so einfach zu entscheiden, wirklich, gab es doch Eheweiber, die angaben, Zeus selbst habe ihnen beigewohnt, und Ehemänner, die das sogar glaubten. Zwar hatte die Pythia in solchen Fällen, da die Fragenden ohnehin schon zweifelten, einfach geantwortet: teils – teils, aber heute war ihr das Ganze zu dumm, vielleicht nur, weil es schon nach fünf war, als der bleiche Jüngling angehumpelt kam, eigentlich hätte sie das Heiligtum schließen müssen, und so prophezeite sie ihm denn, sei es, um ihn von seinem Aberglauben an die Orakelkunst zu heilen, sei es, weil es ihr in einer boshaften
Laune gerade einfiel, den blasierten Prinzen aus Korinth zu ärgern, etwas möglichst Unsinniges und Unwahrscheinliches, von dem sie sicher war, daß es nie eintreffen würde, denn, dachte Pannychis, wer wäre auch imstande, seinen eigenen Vater zu ermorden und seiner eigenen Mutter beizuschlafen – die inzestbeladenen Götter- und Halbgöttergeschichten hielt sie ohnedies für Märchen. Zwar beschlich sie ein leises Unbehagen, als der linkische Prinz aus Korinth auf ihr Orakel hin erbleichte, sie bemerkte es, obgleich sie auf ihrem Dreifuß von Dämpfen umhüllt war – der junge Mann mußte wirklich außerordentlich leichtgläubig sein. Als er sich dann behutsam aus dem Heiligtum zurückgezogen und beim Oberpriester
Merops XXVII bezahlt hatte, der bei Aristokraten persönlich kassierte, schaute Pannychis Ödipus noch einen Augenblick lang nach, kopfschüttelnd, weil der junge Mann nicht den Weg nach Korinth einschlug, wo doch seine Eltern wohnten; daß sie mit ihrem scherzhaften Orakel vielleicht irgendein Unheil angestiftet haben könnte, verdrängte sie, und indem sie dieses ungute Gefühl verdrängte, vergaß sie Ödipus.”

FRIEDRICH DÜRRENMATT, “Das Sterben der Pythia”, in ID., “Der Sturz. …” Diogenes, Zürich 1988 (I. ed., in ID., “Der Mitmacher ”, Arche, Zürich 1976), S. 119 – 120.


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