venerdì 27 gennaio 2012

Carlos Ruiz Zafón. L'ombra del vento. Ricordo ancora il mattino in cui mio padre mi fece conoscere il Cimitero dei Libri Dimenticati. Erano le prime giornate dell'estate del 1945 e noi passeggiavamo per le strade di una Barcellona prigioniera di un cielo gri-giastro e di un sole color rame che inondava di un calore umido la rambla de Santa Mónica. «Daniel, quello che vedrai oggi non devi raccontarlo a nessuno» disse mio padre. «Neppure al tuo amico Tomás. A nessuno.» «Neanche alla mamma?» domandai sottovoce. Mio padre sospirò, offrendomi il sorriso dolente che lo seguiva sempre come un'ombra. «Ma certo» rispose mesto. «Per lei non abbiamo segreti.»

L’invidia è la religione dei mediocri.
Li consola, risponde alle inquietudini che li divorano e, in ultima istanza, imputridisce le loro anime e consente di giustificare la loro grettezza e la loro avidità fino a credere che siano virtù e che le porte del cielo si spalancherebbero solo per gli infelici come loro, che attraversano la vita senza lasciare altra traccia se non i loro sleali tentativi di sminuire gli altri e di escludere, e se è possibile distruggere chi, per il semplice fatto di esistere e di essere ciò che è, mette in risalto la loro povertà di spirito, di mente e di fegato. Fortunato colui al quale latrano i cretini, perché la sua anima non apparterrà mai a loro”.
Carlos Ruiz Zafón “Il gioco dell’angelo”


Ogni libro, ogni volume che vedi possiede un'anima, l'anima di chi l'ha scritto e di coloro che l'hanno letto, di chi ha vissuto e di chi ha sognato grazie ad esso. Ogni volta che un libro cambia proprietario, ogni volta che un nuovo sguardo ne sfiora le pagine, il suo spirito acquista forza.
Carlos Ruiz Zafón, L'ombra del vento

Mi balenò in mente il pensiero che dietro ogni copertina di quei vecchi libri si celasse un universo infinito da esplorare e che, fuori da quel luogo misterioso, la gente sprecasse il tempo ascoltando partite di calcio e sceneggiati alla radio paga della propria mediocrità.
Carlos Ruiz Zafón, L'ombra del vento


Ariella Williams 
  [...] sono stata contagiata a vita dalle illustrazioni dei miei libri di fiabe, di cui avevo una collezione invidiabile e che ho letti e riletti per anni. Ergo, le associazioni immediate con quella stessa bambina di allora (e di adesso...)


IL "mio libro".................lo scelgo, lo sfoglio,cerco di trattarlo bene.........e quando alcune frasi mi colpiscono,faccio quello che forse non bisogna fare,lo sottolineo.Il libro deve incuriosirmi,deve rilassarmi e deve farmi riflettere.Il libro deve..............io voglio.


‎"Davvero non hai letto nessuno di questi libri?" Gli domandò
"i libri sono noiosi."
"I libri sono specchi: riflettono ciò che abbiamo dentro" rispose Juliàn.
Carlos Ruiz Zafón

Quando una libreria chiude i battenti, quando un libro si perde nell'oblio, noi, custodi di questo luogo, facciamo in modo che arrivi qui. E qui i libri che nessuno ricorda, i libri perduti nel tempo vivono per sempre, nell'attesa del giorno in cui potranno tornare nelle mani di un nuovo lettore, di un nuovo spirito.
Carlos Ruiz Zafón, L’ombra del vento


La gente non è cattiva, mia cara. E’ idiota, il che è ben diverso. La malvagità presuppone un certo spessore morale, forza di volontà e intelligenza. L’idiota invece non si sofferma a ragionare, obbedisce all’istinto, come un animale nella stalla, convinto di agire in nome del bene e di avere sempre ragione. Si sente orgoglioso in quanto può rompere le palle, con licenza parlando, a tutti coloro che considera diversi, per il colore della pelle, perché hanno altre opinioni, perché parlano un’altra lingua, perché non sono nati nel suo paese o perché non approva il loro modo di divertirsi. Nel mondo c’è bisogno di più gente cattiva e di meno rimbambiti.
Carlos Ruiz Zafón, L’ombra del vento


Ci guardammo nella penombra cercando parole che non esistevano. Per la prima volta notai che mio padre stava invecchiando e che i suoi occhi tristi erano rivolti al passato.
Carlos Ruiz Zafón, L’ombra del vento


‎Non valeva la pena perdere tempo cercando di cambiare il mondo;
bastava evitare che il mondo cambiasse noi
Carlos Ruiz Zafon, Le luci di settembre

“Ha una brutta faccia.” Sentenziò. “Indigestione” Replicai. “Di cosa?” “Di realtà.”
Carlos Ruiz Zafón

La televisione è l'anticristo. Nel giro di tre o quattro generazioni la gente non sarà più nemmeno in grado di scorreggiare da sola e l'essere umano regredirà all'età della pietra, alla barbarie del medioevo, a uno stadio che la lumaca aveva già superato allepoca del pleistocene.
Carlos Ruiz Zafón, L’ombra del vento

A volte è più facile confidarsi con un estraneo. Chissà perché.
Forse perché un estraneo ci vede come siamo realmente, e non come vogliamo far credere di essere. 
Carlos Ruiz Zafón




Sono d'accordo, con un estraneo non hai bisogno di 'nasconderti'.



L'età ti fa capire certe cose. Per esempio, adesso so che la vita di un uomo si divide fondamentalmente in tre periodi. Nel primo, uno non pensa neppure che invecchierà, né che il tempo passa, e che fin dal primo giorno, quando nasciamo, camminiamo verso un unico e identico fine. Passata la prima giovinezza, comincia il secondo periodo, nel quale uno si rende conto della fragilità della propria vita, e quello che in principio è una semplice inquietudine va crescendo nell'animo come un mare di dubbi e incertezze che ti accompagnano durante il resto dei tuoi giorni. Per ultimo, alla fine della vita, si apre il terzo periodo, quello dell'accettazione della realtà e, di conseguenza, quello della rassegnazione e della speranza. Lungo la mia vita ho conosciuto molte persone che sono rimaste agganciate a uno di questi stadi senza mai riuscire a superarli. È qualcosa di terribile... è un cammino che ognuno di noi deve imparare a percorrere da solo, pregando Dio di aiutarlo a non perdersi prima di arrivare alla fine. Se tutti fossimo capaci di comprendere all'inizio della nostra vita questa cosa, che sembra così semplice, buona parte delle miserie e delle pene di questo mondo scomparirebbero. Però, e questo è un incomprensibile paradosso, ci viene concessa questa grazia solo quando è troppo tardi.
Carlos Ruiz Zafon, "Il principe della nebbia"





Carlos Ruiz Zafòn - L'ombra del vento - Il cimitero dei libri dimenticati

http://youtu.be/qisPOh4Ji8Y



Ebbi la sensazione di esser circondato da milioni di pagine abbandonate,da anime e mondi senza padrone che si inabissavano in un oceano tenebroso mentre fuori di lì il genere umano,tanto più smemorato quanto più convinto di essere saggio,scivolava verso un inconsapevole oblio.
Carlos Ruiz Zafon, 





CARLOS RUIZ ZAFÓN
L'OMBRA DEL VENTO
(La Sombra Del Viento, 2001)

A Joan Ramon Planas,
che meriterebbe qualcosa di meglio

Il Cimitero dei Libri Dimenticati

Ricordo ancora il mattino in cui mio padre mi fece conoscere il Cimitero dei Libri Dimenticati. Erano le prime giornate dell'estate del 1945 e noi passeggiavamo per le strade di una Barcellona prigioniera di un cielo gri-giastro e di un sole color rame che inondava di un calore umido la rambla de Santa Mónica.
«Daniel, quello che vedrai oggi non devi raccontarlo a nessuno» disse mio padre. «Neppure al tuo amico Tomás. A nessuno.»
«Neanche alla mamma?» domandai sottovoce.
Mio padre sospirò, offrendomi il sorriso dolente che lo seguiva sempre come un'ombra.
«Ma certo» rispose mesto. «Per lei non abbiamo segreti.»
Subito dopo la guerra civile, il colera si era portato via mia madre. L'avevamo sepolta a Montjuïc, sotto una pioggia battente, il giorno in cui compivo quattro anni. Ricordo che quando chiesi a mio padre se il cielo piangeva gli mancò la voce. Sei anni dopo, l'assenza di mia madre era ancora un grido muto, un vuoto che nessuna parola poteva colmare. Mio padre e io abitavamo in un piccolo appartamento di calle Santa Ana, vicino alla piazza della chiesa, sopra la libreria specializzata in edizioni per collezionisti e libri usati che era stata del nonno, un magico bazar che un giorno sarebbe diventato mio, diceva mio padre. Sono cresciuto tra i libri, in compagnia di amici immaginari che popolavano pagine consunte, con un profumo tutto particolare. Da bambino, prima di addormentarmi raccontavo a mia madre come era andata la giornata e quello che avevo imparato a scuola. Non potevo udire la sua voce né essere sfiorato dalle sue carezze, ma la luce e il calore del suo ricordo riscaldavano ogni angolo della casa e io, con l'ingenuità di chi conta ancora gli anni sulle dita delle mani, credevo che se avessi chiuso gli occhi e le avessi parlato, lei mi avrebbe ascoltato, ovunque si trovasseA volte mio padre mi sentiva dal soggiorno e piangeva di nascosto.
Ricordo che quella mattina di giugno mi ero svegliato gridando. Il cuore mi batteva come se volesse aprirsi un varco nel petto e fuggire via. Mio padre, allarmato, era accorso in camera mia e mi aveva preso tra le braccia per calmarmi.
«Non mi ricordo più il viso della mamma» dissi con un filo di voce.
Mio padre mi strinse forte.
«Non preoccuparti, Daniel. Lo ricorderò io per tutti e due.»
Ci guardammo nella penombra, cercando parole che non esistevano. Per la prima volta notai che mio padre stava invecchiando e che i suoi occhi tristi erano rivolti al passato. Si alzò in piedi e aprì le tende per far entrare la pallida luce dell'alba.
«Su, Daniel, vestiti. Voglio mostrarti una cosa» disse.
«Adesso? Alle cinque del mattino?»
«Ci sono cose che si possono vedere solo al buio» rispose, sfoderando un sorriso enigmatico che doveva aver preso in prestito da un romanzo di Dumas.
Per strada si udivano solo i passi di qualche guardia notturna. I lampioni delle ramblas impallidivano accompagnando il pigro risveglio della città, pronta a disfarsi della sua maschera di colori slavati. All'altezza di calle Arco del Teatro svoltammo in direzione del Raval, passando sotto l'arcata avvolta nella foschia, e percorremmo quella stradina simile a una cicatrice, allontanandoci dalle luci delle ramblas mentre il chiarore dell'alba cominciava a disegnare í contorni dei balconi e dei cornicioni delle case. Mio padre si fermò davanti a un grande portone di legno annerito dal tempo e dall'umidità. Di fronte a noi si ergeva quella che a me parve la carcassa di un palazzo, un mausoleo di echi e di ombre.
«Daniel, quello che vedrai oggi non devi raccontarlo a nessuno. Neppure al tuo amico Tomás. A nessuno.»
Ci aprì un ometto con la faccia da uccello rapace e i capelli d'argento. Il suo sguardo si posò su di me, impenetrabile.
«Buongiorno, Isaac. Questo è mio figlio Daniel» disse mio padre. «Presto compirà undici anni, e un giorno manderà avanti il negozio. Ha l'età giusta per conoscere questo posto.»
Isaac ci invitò a entrare con un lieve cenno del capo. Dall'atrio, immerso in una penombra azzurrina, si intravedevano uno scalone di marmo e un corridoio affrescato con figure di angeli e di creature fantastiche. Seguimmo il guardiano fino a un ampio salone circolare sovrastato da una cupola da cui scendevano lame di luce. Era un tempio tenebroso, un labirinto di ballatoi con scaffali altissimi zeppi di libri, un enorme alveare percorso da tunnel, scalinate, piattaforme e impalcature: una gigantesca biblioteca dalle geometrie impossibili. Guardai mio padre a bocca aperta e lui mi sorrise ammiccando.
«Benvenuto nel Cimitero dei Libri Dimenticati, Daniel.»
Sui ballatoi e sulle piattaforme della biblioteca scorsi una dozzina di persone. Alcune si voltarono per salutarci: riconobbi alcuni colleghi di mio padre, librai antiquari come lui. Ai miei occhi di bambino, erano una confraternita di alchimisti che cospirava all'insaputa del mondo. Mio padre si chinò su di me e, guardandomi negli occhi, mi parlò con il tono pacato riservato alle promesse e alle confidenze.
«Questo luogo è un mistero, Daniel, un santuario. Ogni libro, ogni vo-lume che vedi possiede un'anima, l'anima di chi lo ha scritto e di coloro che lo hanno letto, di chi ha vissuto e di chi ha sognato grazie a esso. Ogni volta che un libro cambia proprietario, ogni volta che un nuovo sguardo ne sfiora le pagine, il suo spirito acquista forza. Molti anni fa, quando mio padre mi portò qui per la prima volta, questo luogo era già vecchio, quasi come la città. Nessuno sa con certezza da quanto tempo esista o chi l'abbia creato. Ti posso solo ripetere quello che mi disse mio padre: quando una biblioteca scompare, quando una libreria chiude i battenti, quando un libro viene cancellato dall'oblio, noi, i custodi di questo luogo, facciamo in mo-do che arrivi qui. E qui i libri che più nessuno ricorda, i libri perduti nel tempo, vivono per sempre, in attesa del giorno in cui potranno tornare nel-le mani di un nuovo lettore, di un nuovo spirito. Noi li vendiamo e li com-priamo, ma in realtà i libri non ci appartengono mai. Ognuno di questi libri è stato il miglior amico di qualcuno. Adesso hanno soltanto noi, Daniel. Pensi di poter mantenere il segreto?»
Il mio sguardo si smarrì nell'immensità di quel luogo, nella sua luce fatata. Annuii e mio padre sorrise.
«E sai qual è la cosa più bella?»
Scossi la testa in silenzio.
«La tradizione vuole che chi viene qui per la prima volta deve scegliere un libro e adottarlo, impegnandosi a conservarlo per sempre, a mantenerlo vivo. È una grande responsabilità, una promessa» spiegò mio padre. «Oggi tocca a te.»
Mi aggirai in quel labirinto che odorava di carta vecchia, polvere e magia per una mezzora. Lasciai che la mia mano sfiorasse il dorso dei libri disposti in lunghe file sugli scaffali, affidando la mia scelta al tatto. Tra ti-
toli ormai illeggibili, scoloriti dal tempo, notai parole in lingue conosciute e in decine d'altre che non riuscivo a identificare. Vagai lungo gallerie e ballatoi riempiti da centinaia, migliaia di volumi che davano l'impressione di sapere di me molto più di quanto io sapessi di loro. Mi balenò in mente il pensiero che dietro ogni copertina si celasse un universo da esplorare e che, fuori di lì, la gente sprecasse il tempo ascoltando partite di calcio e sceneggiati alla radio, paga della propria mediocrità. Non so dire se dipese da queste riflessioni, dal caso o dal suo parente nobile, il destino, ma in quell'istante ebbi la certezza di aver trovato il libro che avrei adottato, o meglio, il libro che avrebbe adottato me. Sporgeva timidamente da un ri-piano, rilegato in pelle color vinaccia, col titolo impresso sul dorso a carat-teri dorati. Accarezzai quelle parole e le lessi in silenzio.

Non conoscevo né il titolo né l'autore, ma non mi importava. Era una decisione irrevocabile, da entrambe le parti. Presi il libro e lo sfogliai con cautela: le sue pagine palpitarono come le ali di una farfalla a cui viene restituita la libertà, sprigionando una nuvola di polvere. Soddisfatto della scelta, tornai sui miei passi ripercorrendo il labirinto con il volume sotto-braccio e un sorriso sulle labbra. Forse l'atmosfera magica di quel luogo mi aveva contagiato, ma ebbi la strana sensazione che quel libro mi avesse at-teso per anni, probabilmente da prima che nascessi.
Quel pomeriggio mi rifugiai in camera mia per fare conoscenza col nuovo amico. In men che non si dica, la storia mi catturò. Era la vicenda di un uomo che cercava il suo vero padre, di cui aveva appreso l'esistenza solo grazie alle parole pronunciate dalla madre in punto di morte. Il racconto di quella ricerca si trasformava in un'odissea fantasmagorica: il protagonista lottava per ritrovare l'infanzia e la gioventù perdute, dalle quali, a poco a poco, emergeva l'ombra di un amore maledetto destinata a perseguitarlo fino all'ultimo dei suoi giorni. La struttura del romanzo mi ricordava una di quelle bambole russe che racchiudono varie riproduzioni di se stesse in miniatura; la narrazione si frammentava in mille storie, come se il racconto fosse entrato in una galleria di specchi e si fosse scisso in una miriade di riflessi, pur mantenendo la sua unità. Il tempo scivolò via come in un sogno. Molte ore più tardi, udii i rintocchi della mezzanotte dal campanile della cattedrale. Pagina dopo pagina, mi lasciai trascinare in un turbine di emozioni sconosciute, in un mondo misterioso e affascinante popolato da personaggi non meno reali dell'aria che respiravo. Mi abbandonai a quel-l'incantesimo fino a quando la brezza dell'alba lambì i vetri della finestra e i miei occhi affaticati si posarono sull'ultima pagina. Solo allora mi sdraiai sul letto, il libro appoggiato sul petto, e ascoltai i suoni della città addor-mentata posarsi sui tetti screziati di porpora. Il sonno e la stanchezza bus-savano alla porta, ma io resistetti. Non volevo abbandonare la magia di quella storia né, per il momento, dire addio ai suoi protagonisti.
Un giorno sentii dire a un cliente della libreria che poche cose impres-sionano un lettore quanto il primo libro capace di toccargli il cuore. L'eco di parole che crediamo dimenticate ci accompagna per tutta la vita ed erige nella nostra memoria un palazzo al quale - non importa quanti altri libri leggeremo, quante cose apprenderemo o dimenticheremo - prima o poi fa-remo ritorno. Per me, quel libro sarà sempre il romanzo che avevo salvato dagli oscuri corridoi del Cimitero dei Libri Dimenticati.

Giorni di cenere
1945-1949
1

Un segreto conta quanto coloro da cui dobbiamo proteggerlo. Il mio primo impulso, appena mi svegliai, fu di correre a confidare al mio miglio-re amico l'esistenza del Cimitero dei Libri Dimenticati. Tomás Aguilar era un mio compagno di scuola che dedicava tutta la sua intelligenza e il suo tempo libero all'invenzione di marchingegni dalle scarse applicazioni prati-che, come il giavellotto aerostatico o la trottola-dinamo. Con chi altri avrei potuto condividere quel segreto? Sognando a occhi aperti, immaginavo Tomás e me, muniti di torcia e bussola, decisi a svelare i misteri di quella catacomba bibliografica. Tuttavia, fedele alla parola data, decisi di ricorre-re a quello che i romanzi polizieschi definivano un diverso modus operan-di. A mezzogiorno raggiunsi mio padre in negozio per chiedergli informa-zioni sul libro e su Julián Carax, convinto che fossero famosi in tutto il mondo. Intendevo procurarmi altre opere dell'autore e leggermele tutte nel giro di una settimana. Perciò mi stupì molto scoprire che mio padre, libraio esperto e buon conoscitore dei cataloghi editoriali, non aveva mai sentito
nominare né L'ombra del vento né Julián Carax. Incuriosito, esaminò la pagina del colophon.
«A quanto pare, si tratta di uno dei duemilacinquecento esemplari pub-blicati nel 1936 a Barcellona dalla casa editrice Cabestany.»
«La conosci?»
«Ha chiuso diversi anni fa. Ma l'edizione originale non è questa, bensì quella uscita a Parigi nel novembre del 1935 per i tipi di Galliano & Neu-val. Qualcosa non quadra.»
«Allora è una traduzione?» chiesi.
«Qui non lo dice. A prima vista non sembrerebbe.»
«È un libro scritto in spagnolo e pubblicato prima in Francia?»
«È già capitato, con i tempi che corrono» affermò mio padre. «Forse Barceló ci può aiutare.»
Gustavo Barceló, proprietario di una libreria cavernosa in calle Fernan-do, era il capo carismatico dei librai antiquari. Teneva sempre in bocca una pipa spenta che effondeva nell'aria aromi orientali e amava definirsi l'ulti-mo dei romantici. Barceló si vantava di essere un lontano discendente di lord Byron, benché fosse originario di Caldas de Montbuy, e forse per sot-tolineare questo fatto vestiva come un dandy dell'Ottocento, sfoggiando foulard di seta, scarpe di vernice bianca e un inutile monocolo che a detta delle malelingue non si toglieva neppure quando andava al cesso. In realtà, il suo unico consanguineo di un certo peso era suo padre, un industriale ar-ricchitosi con mezzi più o meno leciti alla fine del secolo precedente. Mio padre mi disse che Gustavo Barceló avrebbe potuto vivere di rendita e che per lui la libreria era più che altro passione. Amava i libri più della sua vita e, benché lo negasse, se un cliente entrava nel suo negozio e si innamorava di un volume che non poteva permettersi, lui abbassava il prezzo fino a consentirgli di acquistarlo, o glielo regalava addirittura, nel caso lo ritenes-se un vero lettore. Inoltre, Barceló possedeva una memoria da elefante ed era di una pedanteria insopportabile, ma nel suo campo era un'autorità. Quel pomeriggio, dopo aver chiuso il negozio, mio padre mi propose di passare dal caffè Els Quatre Gats, in calle Montsió, dove Barceló e il suo cenacolo si riunivano a dissertare di poeti maledetti, lingue morte e capo-lavori abbandonati al lavorio dei tarli.
Els Quatre Gats si trovava a due passi da casa nostra ed era uno dei posti di Barcellona che amavo di più. Lì, nel 1932, si erano conosciuti i miei ge-nitori e io, almeno in parte, attribuivo la mia esistenza al fascino di quel
vecchio caffè nascosto in un'anonima viuzza. Draghi di pietra vigilavano l'entrata, illuminata da vetusti lampioni a gas. All'interno si respirava l'aria di un'altra epoca. Ragionieri, sognatori e artisti di belle speranze sedevano ai tavoli con i fantasmi di Pablo Picasso, Isaac Albéniz, Federico García Lorca o Salvador Dalí. In quel locale, anche un pezzente poteva sentirsi protagonista della Storia al modico prezzo di un caffè.
«Arriva Sempere, il figliol prodigo» esclamò Barceló vedendo entrare mio padre. «A cosa dobbiamo l'onore?»
«L'onore si deve a mio figlio Daniel, don Gustavo, che ha appena fatto una scoperta interessante.»
«Bene, allora sedetevi con noi. Non possiamo non celebrare questa ef-femeride.»
«Effemeride?» sussurrai a mio padre.
«Barceló usa solo parole sdrucciole» mi rispose a bassa voce. «Fai finta di niente, altrimenti si monta la testa.»
I suoi discepoli ci fecero posto e Barceló, che ci teneva a mostrarsi mu-nifico, insistette per offrirci qualcosa.
«Quanti anni ha l'erede?» chiese Barceló.
«Quasi undici» dichiarai.
Barceló mi lanciò uno sguardo ironico.
«Cioè dieci. Non aumentarti l'età, marmocchio, ci pensa già la vita.»
Ci fu un mormorio di approvazione. Barceló chiamò il cameriere, un uomo talmente vecchio che lo si sarebbe potuto dichiarare monumento sto-rico.
«Per il mio amico Sempere un cognac, di quello buono, e per il figliolet-to, che deve crescere, un frappè. Ah, porti anche degli assaggini di pro-sciutto, ma non come quelli di prima, chiaro? Se vogliamo della gomma ci rivolgiamo alla Pirelli» ruggì il libraio.
Il cameriere si diresse verso il bancone strascicando i piedi. «Come si fa, dico io, a trovare lavoro in questo paese se non mandano in pensione nean-che i morti?» commentò il libraio. «Basta vedere il Cid. Non c'è niente da fare.»
Succhiò la pipa spenta mentre il suo sguardo d'aquila si posava sul libro che tenevo in mano. Nonostante quei modi da istrione, Barceló fiutava una buona preda come un lupo l'odore del sangue.
«Vediamo, cosa mi portate?» disse con finto disinteresse.
Scambiai un'occhiata con mio padre e lui annuì. Senza esitare, diedi il libro a Barceló. Il libraio lo afferrò con mani esperte e le sue dita da piani-
sta scivolarono sulla copertina valutando lo spessore e le condizioni del volume. Poi Barceló guardò la pagina del colophon con scrupolo profes-sionale e un sorriso distaccato per almeno un minuto. Gli astanti lo osser-vavano in religioso silenzio, come in attesa di un miracolo.
«Carax. Interessante» mormorò.
Tesi il braccio per riprendermi il libro. Barceló inarcò le sopracciglia e me lo restituì con un sorriso glaciale.
«Dove l'hai trovato, ragazzino?»
«È un segreto» replicai, sapendo che mio padre stava ridendo sotto i baf-fi.
Barceló aggrottò la fronte e lo guardò.
«Mio caro Sempere, dal momento che la stimo profondamente e in virtù della nostra amicizia fraterna, facciamo duecento pesetas e non parliamone più.»
«L'affare lo deve trattare con mio figlio» affermò mio padre. «Il libro è suo.»
Barceló mi rivolse uno sguardo da predatore.
«Che ne dici, ragazzino? Duecento pesetas sono una bella sommetta per una prima vendita... Sempere, suo figlio le farà concorrenza.»
I presenti risero. Barceló mi guardò compiaciuto e tirò fuori il portafo-glio di pelle. Contò le duecento pesetas, che all'epoca erano un bel gruzzo-lo, e mi tese le banconote. Io mi limitai a scrollare la testa e Barceló si ac-cigliò nuovamente.
«Ti ricordo che la cupidigia è un peccato mortale» aggiunse. «Forza, tre-cento pesetas e ti apri un bel libretto di risparmio. Alla tua età bisogna co-minciare a pensare al futuro.»
Scrollai di nuovo la testa e Barceló lanciò un'occhiata di fuoco a mio pa-dre attraverso il monocolo.
«Non mi guardi così» disse lui. «Io sono qui solo in veste di accompa-gnatore.»
Barceló emise un profondo sospiro e mi scrutò.
«Allora, bamboccio, ti dispiacerebbe dirmi cosa vuoi?»
«Voglio sapere chi è Julián Carax e dove posso trovare gli altri libri che ha scritto.»
Barceló si rimise in tasca il portafoglio e riconsiderò il suo avversario.
«Caspita, abbiamo qui un professore. Sempere, cosa dà da mangiare al pargolo?» disse.
Il libraio si chinò su di me e per un attimo scorsi nel suo sguardo un ri-
spetto che prima non c'era.
«Facciamo un patto» mi disse. «Domani, che è domenica, passa dalla biblioteca dell'università e chiedi di me. Porta il libro, così lo potrò esami-nare, e ti racconterò quello che so di Julián Carax. Quid pro quo.»
«Quid pro che?»
«Latino, ragazzo. Non esistono lingue morte ma solo cervelli in letargo. In parole povere, per fare un duro non bastano quattro pesetas, ma mi sei simpatico e ti voglio venire incontro.»
La pedanteria di quell'uomo sarebbe stata in grado di stecchire una mo-sca in volo; d'altra parte, se volevo scoprire qualcosa su Julián Carax do-vevo tenermelo buono. Gli sorrisi cordiale, facendo mostra di apprezzare la sua facondia infarcita di latinorum.
«Ricorda: domani, all'università» sentenziò il libraio. «Porta il libro, o non se ne fa niente.»
«D'accordo.»
La conversazione divenne un mormorio e gli altri bibliofili si misero a discutere di alcuni documenti trovati nei sotterranei dell'Escorial, secondo cui Miguel de Cervantes era lo pseudonimo letterario di una virago toleda-na. Barceló non diede il suo contributo alla disquisizione e si limitò a os-servarmi da dietro il suo monocolo con un sorrisetto. O forse stava solo os-servando il libro che tenevo tra le mani.
2

Quella domenica, sulla città gravava una cappa di afa che aveva fatto sa-lire le colonnine dei termometri. A metà pomeriggio, con una temperatura che sfiorava i trenta gradi, imboccai calle Canuda, con il libro sottobraccio e la fronte imperlata di sudore. L'università era - ed è tuttora - uno dei tanti luoghi della città in cui le lancette del tempo si sono fermate al dicianno-vesimo secolo. Dal patio una scalinata in pietra conduceva a un reticolo di corridoi e sale di lettura, dove invenzioni come il telefono, la fretta o l'oro-logio da polso sembravano anacronismi futuristici. Il custode, o forse solo una statua in uniforme, nel vedermi non batté ciglio. Raggiunsi il primo piano e benedissi le pale fruscianti di un ventilatore che dava sollievo ai lettori appisolati su libri e giornali.
Trovai Gustavo Barceló davanti alle arcate di una loggia affacciata sul giardino interno. Nonostante il clima quasi tropicale, il libraio era vestito con l'eleganza ricercata di sempre e il suo monocolo luccicava nella pe-
nombra come una moneta in fondo a un pozzo. Accanto a lui c'era una donna con un abito di un tessuto bianco lucido, che mi sembrò un angelo scolpito nella nebbia. Udendo il suono dei miei passi, Barceló si voltò e mi fece cenno di raggiungerlo.
«Daniel, dico bene?» chiese. «Hai portato il libro?»
Assentii un paio di volte e mi accomodai sulla sedia che Barceló mi in-dicava, accanto a lui e alla sua misteriosa accompagnatrice. Per un paio di minuti il libraio si limitò a sorridere serenamente, incurante della mia pre-senza. Dopo un po' rinunciai alla speranza di essere presentato alla signora vestita di bianco. Barceló si comportava come se lei non esistesse e nessu-no di noi due potesse vederla. La scrutai con la coda dell'occhio, timoroso di incrociare il suo sguardo. La pelle del viso e delle braccia era diafana e il volto affilato, dai lineamenti decisi, era incorniciato da una folta chioma di capelli corvini, lucenti come pietre umide. Doveva avere una ventina d'anni, ma qualcosa nel suo portamento e nella sua espressione, rassegnata come i rami di un salice piangente, faceva pensare a un essere senza età che godeva dell'eterna gioventù dei manichini dei negozi. Stavo contem-plando quel collo di cigno quando mi accorsi che Barceló mi fissava.
«Allora, mi dici dove hai trovato il libro?» chiese.
«Lo farei, ma ho promesso a mio padre di mantenere il segreto» risposi.
«Ah, capisco. Sempere e i suoi misteri» disse Barceló. «In ogni caso, posso benissimo immaginarlo. Hai avuto una bella fortuna, ragazzo. È quel che si dice trovare un ago in un pagliaio. Posso?»
Gli porsi il libro e Barceló lo prese tra le mani con grande delicatezza.
«L'hai letto, immagino.»
«Sì, signore.»
«Ti invidio. Ho sempre pensato che il momento giusto per leggere un li-bro di Carax fosse quando si ha il cuore puro e tutta la vita davanti. Sapevi che questo è l'ultimo romanzo che ha scritto?»
Scossi la testa in silenzio.
«Sai quante copie come questa ci sono sul mercato?»
«Migliaia, immagino.»
«Nessuna» precisò Barceló. «Eccetto la tua. Tutte le altre sono state bru-ciate.»
«Bruciate?»
Barceló mi sorrise senza rispondere sfogliando il libro e accarezzando le pagine quasi fossero di una seta preziosissima. La donna in bianco si voltò lentamente. Le labbra erano socchiuse in un sorriso timido e incerto men-
tre i suoi occhi, con le pupille bianche come il marmo, vagavano nel vuoto. Era cieca.
«Non conosci mia nipote Clara, vero?» chiese Barceló.
Feci un cenno di diniego, incapace di distogliere lo sguardo da quella creatura con gli occhi bianchi, gli occhi più tristi che avessi mai visto.
«In realtà, è Clara la vera esperta di Julián Carax, per questo l'ho portata con me» disse Barceló. «Anzi, pensandoci bene, credo che con il vostro permesso mi ritirerò nell'altra sala per esaminare meglio il volume mentre voi parlate delle vostre faccende. D'accordo?»
Lo guardai attonito, ma quel vecchio pirata mi diede una pacca sulle spalle e si eclissò con il libro sottobraccio.
«Gli hai fatto una buona impressione, sai?» disse la voce alle mie spalle.
Mi girai e vidi il dolce sorriso della nipote del libraio, il suo sguardo perduto nel vuoto. Aveva una voce flebile, fragile come il cristallo ed ebbi quasi paura di rispondere.
«Lo zio mi ha detto che ti ha offerto una bella somma per il libro di Ca-rax, e che tu hai rifiutato» aggiunse Clara. «Ti sei guadagnato il suo rispet-to.»
«Sembra proprio di sì» sospirai.
Clara sorrideva, la testa leggermente piegata, mentre le sue dita gioche-rellavano con un anello di zaffiri.
«Quanti anni hai?» domandò.
«Quasi undici» risposi. «E lei?»
Clara trovò divertente il mio candore.
«Quasi il doppio, anche se non è il caso che tu mi dia del lei.»
«Sembra più giovane» dissi, cercando di rimediare alla mia impertinen-za.
«Mi fiderò di te, allora, dato che non conosco il mio aspetto» replicò, sempre con quel sorriso spento. «Ma se sembro più giovane, a maggior ra-gione devi darmi del tu.»
«Come preferisce, signorina Clara.»
Osservai le mani aperte come ali sul grembo, la vita sottile tra le pieghe dell'abito, la curva delle spalle, l'estremo pallore del collo e il disegno delle labbra. Avrei voluto toccarle. Non avevo mai avuto la possibilità di osser-vare una donna tanto da vicino senza che lei mi vedesse.
«Cosa stai guardando?» chiese Clara con una punta di malizia.
«Suo zio dice che è un'esperta di Julián Carax» improvvisai, schiaren-domi la gola.
«Mio zio sarebbe capace di dire qualunque cosa pur di passare un po' di tempo da solo con un libro che lo affascina» ribatté Clara. «Ma tu ti starai chiedendo come può un cieco essere un esperto di libri, se non può legger-li.»
«Veramente non ci avevo pensato.»
«Te la cavi bene a mentire, considerando che non hai ancora undici anni. Sta' attento o diventerai come mio zio.»
Il timore di un'ennesima gaffe mi convinse a rimanere in silenzio.
«Su, avvicinati» disse lei.
«Come?»
«Avvicinati. Non aver paura, non ti mangio.»
Mi alzai dalla sedia e mi avvicinai a Clara, che tese la mano destra muo-vendola nell'aria. Titubante le porsi la mia. Lei la prese con la sua sinistra e, in silenzio, mi tese la sua destra. Allora capii e la guidai verso il mio vi-so: aveva un tocco deciso e delicato allo stesso tempo. Le sue dita esplora-rono le mie guance e gli zigomi. Rimasi immobile e trattenni il respiro mentre Clara decifrava i miei lineamenti, sorridendo compiaciuta e muo-vendo impercettibilmente le labbra. I suoi polpastrelli mi sfiorarono la fronte, i capelli e le palpebre, indugiando sulla bocca, seguendo la piega delle labbra con l'indice e l'anulare. Le sue dita profumavano di cannella. Il mio cuore batteva all'impazzata e ringraziavo la provvidenza per l'assenza di testimoni poiché la vampa che mi bruciava le guance avrebbe potuto ac-cendere un sigaro a un metro di distanza.
3

In quel pomeriggio afoso, Clara Barceló mi rubò il cuore, il respiro e il sonno. Le sue mani, nella magica penombra di quella loggia, impressero sulla mia pelle il marchio di una maledizione che mi avrebbe perseguitato per anni. Mentre la contemplavo imbambolato, la nipote del libraio mi rac-contò la sua storia e di come si era imbattuta, anche lei per caso, nelle pa-gine di Julián Carax. Era accaduto in un paese della Provenza. Allo scop-pio della guerra civile il padre di Clara, un noto avvocato legato al governo del presidente Companys, aveva mandato la moglie e la figlia dalla sorella che viveva in Francia. Qualcuno disse che era un eccesso di prudenza, per-ché si era convinti che a Barcellona non sarebbe successo niente e che in Spagna, culla della civiltà cristiana, la barbarie fosse una prerogativa degli anarchici, i quali, con le loro biciclette e coi calzini bucati, non sarebbero
arrivati molto lontano. Le nazioni non si guardano allo specchio, diceva sempre il padre di Clara, meno che mai quando covano una guerra. L'av-vocato conosceva bene la Storia e sapeva che il futuro si legge nelle strade, nelle fabbriche e nelle caserme molto più chiaramente che sulle pagine dei giornali. Per mesi scrisse alla famiglia tutte le settimane, all'inizio dal suo studio di calle Diputación, poi senza indicare il mittente e infine di nasco-sto, da una cella del castello di Montjuïc dove, come accadde a molti, nes-suno lo vide entrare e da cui non uscì più.
La madre di Clara leggeva le lettere ad alta voce, inghiottendo le lacrime e saltando intere frasi, che la figlia intuiva ugualmente. Più tardi, verso mezzanotte, Clara convinceva la cugina Claudette a rileggerle le lettere del padre. Era così che Clara leggeva, prendendo in prestito gli occhi altrui. Nessuno la vide mai versare una sola lacrima, né quando smisero di rice-vere le lettere dell'avvocato né quando le notizie sulla guerra fecero temere il peggio.
«Mio padre era consapevole di ciò che sarebbe accaduto» disse Clara. «Rimase accanto agli amici pensando che fosse suo dovere e fu ucciso perché si dimostrò leale con chi, nel momento cruciale, lo tradì. Non fidar-ti mai di nessuno, Daniel, soprattutto delle persone che ammiri. Sono loro a pugnalarti alle spalle.»
Mentre Clara pronunciava queste parole con una durezza forgiata da an-ni di sofferenze segrete, io mi smarrivo nel suo sguardo di porcellana, in quegli occhi che non avevano più lacrime e la ascoltavo parlare di cose che non potevo capire. Clara descriveva persone, ambienti e oggetti che non aveva mai visto con una precisione e una ricchezza di dettagli degne di un pittore fiammingo. Era un linguaggio sfumato, un'impalpabile tela di ri-cordi intessuta del timbro delle voci e delle cadenze di passi. Mi spiegò che negli anni di esilio in Francia, lei e sua cugina Claudette avevano un precettore, un cinquantenne amante del buon vino che aveva ambizioni let-terarie e si vantava di saper recitare a memoria l'Eneide di Virgilio, in lati-no e senza accento. Le due ragazze lo chiamavano Monsieur Roquefort per via dell'afrore che emanava, nonostante i bagni di colonia e il profumo con cui si aspergeva il corpo massiccio. Monsieur Roquefort, a dispetto di al-cune convinzioni bizzarre (tra cui l'incrollabile certezza che i salumi, e so-prattutto il sanguinaccio che Clara e sua madre ricevevano dai parenti spa-gnoli, fossero un toccasana per la circolazione e la gotta), era un uomo raf-finato. Sin dagli anni della gioventù si recava a Parigi una volta al mese al-
lo scopo di ampliare il proprio orizzonte culturale sfogliando le ultime no-vità letterarie o visitando musei e, si mormorava, anche per godersi una notte di meritato svago tra le braccia di una ninfa, da lui ribattezzata Madame Bovary benché si chiamasse Hortense e fosse oltremodo pelosa. Durante quelle escursioni culturali, Monsieur Roquefort andava a curio-sare su una bancarella di libri usati, di fronte a Notre-Dame dove, un po-meriggio del 1929, gli capitò fra le mani il romanzo di un autore scono-sciuto, un certo Julián Carax. Monsieur Roquefort acquistò il libro, più che altro per il titolo e perché aveva l'abitudine di dedicarsi a letture poco im-pegnative durante il viaggio di ritorno in treno. Il romanzo si intitolava La casa rossa e in quarta di copertina c'era un'immagine sfocata dell'autore, forse una fotografia o uno schizzo a carboncino. Dallo scarno profilo bio-grafico si evinceva che Julián Carax aveva ventisette anni, era nato a Bar-cellona all'inizio del secolo e si era trasferito a Parigi, e che scriveva in francese e si guadagnava da vivere suonando il piano in una casa di tolle-ranza. La presentazione, nello stile ampolloso dell'epoca, annunciava l'ec-cezionale opera prima di uno scrittore proteiforme, una sicura promessa per il futuro delle lettere europee, senza possibilità di confronto con altri artisti viventi. Infine, il riassunto evocava atmosfere vagamente sinistre e personaggi da romanzo d'appendice, il che agli occhi di Monsieur Roque-fort era una nota di merito perché, dopo i classici, le sue letture preferite erano i romanzi a tinte forti.
La casa rossa era la storia di un individuo misterioso che rubava bambo-le da negozi di giocattoli e musei per poi strappar loro gli occhi e portarle nel suo rifugio, una serra abbandonata sulle rive della Senna. Una notte si era introdotto nella sontuosa residenza di un magnate di avenue Foix - ar-ricchitosi con attività illecite durante la rivoluzione industriale - per di-struggere la sua collezione di bambole. La figlia del proprietario, una si-gnorina della buona società parigina, colta e raffinata, si era innamorata del ladro. Durante la loro storia d'amore, costellata di episodi scabrosi, l'eroina scopriva le ragioni che inducevano l'enigmatico protagonista, di cui non si conosceva il nome, ad accecare le bambole. Non solo: venuta a conoscenza di un orribile segreto sul proprio padre e sulla sua collezione di bambole di porcellana, soccombeva in un finale da tragedia gotica.
Monsieur Roquefort, maratoneta delle discussioni letterarie e orgoglioso titolare di una voluminosa raccolta di lettere di rifiuto firmate da tutti gli editori di Parigi a cui inviava le proprie opere in versi o in prosa, riconob-
be il nome della modesta casa editrice che aveva pubblicato il romanzo, conosciuta, semmai, per i suoi libri di cucina, di ricamo e altre arti dome-stiche. Il proprietario della bancarella di libri usati gli disse che il romanzo era appena uscito e che aveva ricevuto solo un paio di recensioni su quoti-diani di provincia, apparse nella colonna vicina ai necrologi. I critici lo a-vevano stroncato in poche righe, consigliando all'esordiente Carax di te-nersi ben stretto il suo impiego di pianista, perché come scrittore era nega-to. Monsieur Roquefort, che era un sentimentale, decise di investire mezzo franco e di portarsi via il romanzo di Carax insieme a una preziosa edizio-ne del sublime Gustave Flaubert, di cui si sentiva l'erede incompreso.
Il treno per Lione era strapieno e Monsieur Roquefort fu costretto a di-videre lo scompartimento di seconda classe con una coppia di suore che, appena il convoglio uscì dalla gare d'Austerlitz, cominciarono a lanciargli occhiate di riprovazione e a bisbigliare. Per sottrarsi a quello scrutinio Monsieur Roquefort decise di prendere dalla borsa il romanzo di Carax e di trincerarsi dietro le sue pagine. Con sua grande sorpresa, cento chilome-tri dopo si accorse di aver dimenticato le religiose, gli scossoni del treno e il paesaggio che scorreva al di là del finestrino come un brutto sogno dei fratelli Lumiére. Lesse tutta la notte, incurante del russare delle suore e del susseguirsi di stazioni immerse nella nebbia. Quando, all'alba, girò l'ultima pagina, Monsieur Roquefort si accorse di avere gli occhi pieni di lacrime e il cuore colmo di invidia e di stupore.
Il giorno dopo telefonò alla casa editrice di Parigi per chiedere informa-zioni sull'autore. Dovette insistere a lungo prima di ottenere una risposta sgarbata da una signorina con una voce affannata. Il signor Carax, disse l'impiegata, non aveva lasciato nessun recapito e, comunque, non aveva più alcun rapporto con quell'editore anche perché La casa rossa aveva venduto esattamente settantasette copie, acquistate con ogni probabilità dalle signorine di facili costumi e dai clienti del locale dove l'autore strim-pellava notturni e polonaises. Gli esemplari invenduti erano stati mandati al macero e trasformati in messali, blocchetti per contravvenzioni e bi-glietti della lotteria. La scarsa fortuna del misterioso scrittore destò la sim-patia di Monsieur Roquefort, il quale, nei dieci anni successivi, durante ogni suo viaggio a Parigi avrebbe girato le librerie dell'usato in cerca di al-tre opere di Julián Carax. Non ne trovò neanche una. Quasi nessuno cono-sceva l'autore, e chi lo aveva sentito nominare sapeva poco o nulla. Secon-
do alcuni Carax aveva pubblicato qualche altro romanzo, sempre presso case editrici minori e con tirature molto basse. Quei libri, se davvero esi-stevano, erano introvabili. Un giorno, un libraio gli disse che aveva avuto per le mani un romanzo di Julián Carax intitolato Il ladro delle cattedrali, ma era stato molto tempo prima e non ne era proprio sicuro. Alla fine del 1935, a Monsieur Roquefort giunse notizia dell'uscita di un nuovo roman-zo di Julián Carax, L'ombra del vento, pubblicato da una piccola casa edi-trice di Parigi. Scrisse all'editore per farsene inviare diverse copie ma non ricevette risposta. L'anno successivo, all'inizio dell'estate, il suo vecchio amico della bancarella sulle rive della Senna gli chiese se era ancora inte-ressato a Carax. Monsieur Roquefort rispose che lui non si arrendeva mai. Era diventata una questione d'onore: per quanto il mondo si fosse intestar-dito a seppellire Carax nell'oblio, lui avrebbe fatto di tutto per riesumarlo. L'amico gli raccontò che qualche settimana prima era circolata una strana diceria su Carax, secondo cui finalmente la sorte arrideva allo scrittore. Doveva sposarsi con una signora benestante e dopo anni di silenzio era u-scito un nuovo romanzo che aveva ottenuto una recensione favorevole su "Le Monde". Ma proprio quando sembrava che la fortuna girasse dalla sua parte Carax era stato sfidato a duello nel cimitero del Père Lachaise. I det-tagli non erano chiari; si sapeva solo che il duello era avvenuto all'alba del giorno in cui Carax doveva sposarsi, e che lo sposo non si era mai presen-tato in chiesa.
Si facevano le congetture più diverse: alcuni dicevano che Carax era morto in duello ed era stato sepolto in una tomba anonima; altri, più otti-misti, lo immaginavano implicato in qualche affare losco che lo aveva co-stretto ad abbandonare la sua promessa sull'altare e a fuggire da Parigi per far ritorno a Barcellona. La tomba senza nome non fu mai trovata e qual-che tempo dopo circolò un'altra versione: Julián Carax, perseguitato dalla sfortuna, era morto in miseria nella sua città natale e le ragazze del bordel-lo dove suonava il piano avevano fatto una colletta per pagargli una sepol-tura decorosa. Ma quando i soldi erano arrivati a Barcellona, il cadavere era già stato sepolto in una fossa comune, accanto ai corpi di mendicanti o di sconosciuti ripescati dalle acque del porto o morti di freddo sulle scale del metrò.
Non fosse che per testardaggine, Monsieur Roquefort non dimenticò Ju-lián Carax. Undici anni dopo avere scoperto La casa rossa, decise di pre-
stare il romanzo alle sue giovani allieve, sperando che quello strano libro le conquistasse alla lettura. Clara e Claudette erano due quindicenni in pie-na tempesta ormonale, sensibili alle lusinghe del mondo che le chiamava dalle finestre della stanza in cui studiavano. Malgrado gli sforzi del loro precettore, fino ad allora si erano mostrate immuni al fascino dei classici, alle favole di Esopo e ai versi immortali di Dante Alighieri. Monsieur Ro-quefort, temendo che la madre di Clara, il giorno in cui avesse capito che i suoi insegnamenti erano solo serviti a creare due analfabete con la testa piena di sciocchezze lo avrebbe licenziato seduta stante, decise di prestar loro il romanzo di Carax dicendo che si trattava di una storia d'amore, di quelle che facevano piangere, il che era vero solo in parte.
4
«Quel libro fu una rivelazione» mi disse Clara. «Per me la lettura era sempre stata un obbligo, una specie di obolo da versare a maestri e tutori. Ignoravo il piacere che può dare la parola scritta, il piacere di penetrare nei segreti dell'anima, di abbandonarsi all'immaginazione, alla bellezza e al mistero dell'invenzione letteraria. Tutte queste scoperte le devo a quel ro-manzo. Hai mai baciato una ragazza, Daniel?»
Mi mancò il respiro.
«Be', sei ancora molto giovane. Ma si prova la stessa sensazione, il bri-vido della prima volta è indimenticabile. Viviamo in un mondo di ombre, Daniel, e la fantasia è un bene raro. Quel libro mi ha insegnato che la lettu-ra può farmi vivere con maggiore intensità, che può restituirmi la vista. Ecco perché un romanzo considerato insignificante dai più ha cambiato la mia vita.»
Ormai ero inebetito, succube del fascino di quella creatura irresistibile. Desiderai che Clara non smettesse più di parlare, di essere catturato dalle spire della sua voce e che suo zio non tornasse più, per non spezzare l'in-cantesimo di quell'istante.
«Ho cercato per anni altri libri di Julián Carax» continuò Clara. «Anda-vo nelle biblioteche, nelle librerie, nelle scuole, sempre invano. Nessuno aveva sentito parlare dell'autore o dei suoi libri. Non potevo crederci. Un giorno Monsieur Roquefort venne a sapere che un tale girava librerie e bi-blioteche in cerca delle opere di Julián Carax, e, se le trovava, le acqui-stava, le rubava o se ne impossessava per poi bruciarle. Nessuno sapeva chi fosse o perché lo facesse. Un altro mistero andava ad aggiungersi ai
molti che già circondavano la figura di Carax. Qualche tempo dopo, mia madre decise di tornare in Spagna perché era malata e Barcellona era la sua casa, il suo mondo. Io nutrivo la segreta speranza di poter scoprire qualcosa su Carax, dal momento che era nato qui ed era qui che era sparito all'inizio della guerra. Invece, pur potendo contare sull'aiuto di mio zio, non sono venuta a capo di nulla. Anche le ricerche di mia madre ebbero lo stesso esito. Al suo ritorno non trovò più la Barcellona che aveva lasciato: era diventata una città tetra, e ogni angolo, ogni strada le ricordavano mio padre. Come se non stesse già soffrendo abbastanza, mia madre si rivolse a un tale perché scoprisse come era morto. Dopo mesi di ricerche, l'investi-gatore riuscì solo a recuperare un orologio da polso rotto appartenuto a mio padre e a scoprire il nome dell'uomo che lo aveva ucciso nei fossati del castello di Montjuïc. Si chiamava Fumero, Javier Fumero. Ci dissero che costui - e non era l'unico - aveva iniziato la carriera come pistolero al soldo degli anarchici della FAI e aveva flirtato con libertari, comunisti e fascisti, vendendo i suoi servigi al miglior offerente. Dopo la caduta di Barcellona, era passato dalla parte dei vincitori ed era entrato nel corpo di polizia. Oggi è un ispettore conosciuto e pluridecorato. Di mio padre, in-vece, non si ricorda nessuno. Come puoi immaginare, mia madre si spense nel giro di pochi mesi. I medici dissero che il cuore non aveva retto e credo che per una volta avessero ragione. Dopo la morte di mia madre mi trasfe-rii dallo zio Gustavo, l'unico parente che avevo a Barcellona. Io lo adora-vo, perché quando veniva a trovarci mi regalava sempre dei libri. In questi anni è stato la mia famiglia e il mio migliore amico. Anche se può sembra-re arrogante, è buono come il pane. Mi legge qualcosa tutte le sere, anche se casca dal sonno.»
«Se vuole, potrei leggerle qualcosa anch'io» proposi, pentendomi subito della mia audacia. Per Clara la mia compagnia sarebbe stata solo un fasti-dio, o una buffa novità di cui ridere con le amiche.
«Grazie, Daniel» rispose lei. «Ne sarei felice.»
«Quando vuole, allora.»
Assentì lentamente, cercandomi col suo sorriso.
«Purtroppo non possiedo più quella copia de La casa rossa» disse. «Monsieur Roquefort non ha voluto separarsene. Potrei farti un riassunto ma sarebbe come descrivere una cattedrale dicendo che è un ammasso di pietre che culminano in una guglia.»
«Lo racconterebbe molto meglio di così, ne sono certo.» Le donne capi-scono subito quando un uomo si è perdutamente innamorato di loro, so-
prattutto se il maschio in questione è un minorenne un po' tonto. C'erano tutte le premesse perché Clara Barceló mi mandasse a quel paese, ma mi illusi che la sua cecità mi garantisse un certo margine di sicurezza e che il mio riprovevole sentimento, la patetica devozione per una donna che aveva il doppio dei miei anni e mi superava in intelligenza e statura, sarebbe pas-sato inosservato. Chissà cosa aveva trovato in me per offrirmi la sua amici-zia: forse un pallido riflesso di se stessa, forse un'eco della sua solitudine. Nei miei sogni di adolescente, lei e io saremmo sempre stati due amanti che fuggivano in sella a un libro, pronti a dileguarsi in un mondo immagi-nario fatto di illusioni di seconda mano.
Barceló, con un sorriso sornione sulle labbra, ricomparve solo due ore dopo, due ore che a me erano sembrate due minuti. Mi restituì il libro am-miccando.
«Controllalo bene, giovanotto, non vorrei che poi mi accusassi di averlo sostituito con un altro.»
«Mi fido di lei.»
«Ma bravo! Alla mia ultima vittima, un turista americano convinto che la fabada fosse un piatto inventato da Hemingway per le feste di san Fer-mín, ho rifilato un esemplare di Fuenteovejuna firmato da Lope de Vega con una penna a sfera, pensa un po'. Sappi che nel nostro lavoro non puoi fidarti neanche degli indici.»
Quando uscimmo per strada era già sera. Si era alzato un venticello fre-sco e Barceló si tolse il soprabito per posarlo sulle spalle di Clara. Prima di accomiatarmi, rinnovai con studiata indifferenza la proposta di andare da loro il giorno seguente per leggere alcuni capitoli di L'ombra del vento a Clara. Barceló mi guardò di sottecchi e fece una breve risata.
«Non perdi tempo, ragazzo» borbottò tra i denti, in tono di approvazio-ne.
«Be', se domani non è possibile, passerò un altro giorno o...»
«Chi deve decidere è Clara» disse il libraio. «Abbiamo già sette gatti e due pappagalli. Che differenza può fare una bestia in più o in meno?»
«Allora ti aspetto domani sera verso le sette» concluse Clara. «Sai dove abitiamo?»
5
C'è stato un tempo, quando ero bambino, forse perché ero cresciuto in
mezzo a libri e librai, in cui volevo diventare uno scrittore e vivere come il protagonista di un melodramma. Queste fantasie infantili erano ispirate da uno straordinario manufatto esposto in un negozio di calle Anselmo Clavé, proprio dietro al palazzo del Governo Militare. L'oggetto della mia adora-zione, una magnifica stilografica nera decorata da un tripudio di fregi, splendeva al centro della vetrina come un gioiello della corona. Il pennino, un delirio barocco in oro e argento finemente incisi che brillava come il fa-ro di Alessandria, era un prodigio in sé. Quando uscivo a passeggio con mio padre non avevo pace finché non mi portava a vedere la penna, appar-tenuta, a suo dire, nientemeno che a un imperatore. Io ero sicuro che con una tale meraviglia si potesse scrivere qualsiasi cosa, da un romanzo a u-n'enciclopedia, e anche lettere che non avrebbero avuto bisogno del servi-zio postale. Ero convinto che qualunque messaggio scritto con quella pen-na sarebbe arrivato a destinazione, anche nel luogo misterioso dove, se-condo mio padre, si trovava la mamma.
Un giorno decidemmo di entrare nel negozio e scoprimmo che si trattava della regina delle stilografiche, una Montblanc Meinsterstück a serie limi-tata, appartenuta, così asseriva il negoziante, nientemeno che a Victor Hu-go. Da quel pennino d'oro, ci informò, era scaturito il manoscritto de I mi-serabili.
«Proprio come la Vichy catalana sgorga dalla sorgente di Caldas» ag-giunse.
Ci disse di averla acquistata da un collezionista venuto da Parigi, dopo essersi accertato che fosse autentica.
«E quale sarebbe, di grazia, il prezzo di questa fonte miracolosa?» chiese mio padre.
Udendo la cifra impallidì, ma ormai io mi ero perdutamente innamorato. Il negoziante, forse pensando di avere di fronte due scienziati, snocciolò una serie di dati incomprensibili sulle leghe di metalli preziosi e le lacche dell'Estremo Oriente e poi passò a esporci una teoria rivoluzionaria su em-boli e vasi comunicanti, tutti elementi dell'inarrivabile arte teutonica che consentiva a quel miracolo della tecnologia di imporre la sua supremazia grafica. Va detto però che il negoziante, benché mio padre e io avessimo un aspetto da poveracci, caricò di inchiostro la penna perché potessi trac-ciare il mio nome su una pergamena e inaugurare una carriera letteraria non meno brillante di quella di Victor Hugo. Quindi, dopo averla lucidata con un panno, l'uomo adagiò la regina delle stilografiche sul suo trono d'o-nore.
«Magari un altro giorno» mormorò mio padre.
Usciti dal negozio, mi disse che non potevamo permettercela. Le entrate della libreria erano appena sufficienti per tirare avanti e pagare la retta del mia scuola. La stilografica Montblanc del venerabile Victor Hugo era de-stinata ad attendere. Non dissi nulla, ma il mio volto dovette tradire una profonda delusione.
«Faremo così» propose mio padre. «Quando inizierai a scrivere, torne-remo qui e la compreremo.»
«E se nel frattempo la vendono?»
«Nessuno la comprerà, stai tranquillo. Ma se dovesse succedere, chiede-remo a don Federico di farcene una uguale. Sai che quell'uomo ha le mani d'oro, no?»
Don Federico era l'orologiaio del quartiere, un cliente occasionale della libreria e una delle persone più gentili ed educate dell'emisfero occidenta-le. La sua fama di abile artigiano si estendeva dalla Ribera fino al mercato del Ninot. A dire il vero godeva anche di un altro tipo di reputazione, assai meno favorevole, dovuta alle sue malcelate predilezioni erotiche per aitanti giovanotti del sottoproletariato e a una certa tendenza a vestirsi come E-strellita Castro.
«E se don Federico avesse tutt'altro per la testa che fabbricarmi una pen-na? E se poi non fosse capace?» domandai.
Mio padre aggrottò la fronte, forse temendo che le maldicenze della gen-te fossero giunte alle mie orecchie innocenti.
«Don Federico si intende un po' di tutti i prodotti tedeschi e se vuole ti costruisce anche una Volkswagen. E poi, sarei curioso di sapere se ai tem-pi di Victor Hugo esistevano già le penne stilografiche. Ci sono un sacco di furbi in giro.»
Le obiezioni di mio padre - per quanto giustificate dal punto di vista sto-rico - mi lasciavano del tutto indifferente. Tuttavia, benché credessi a occhi chiusi nella leggenda della penna, non mi opposi all'idea che don Federico ne realizzasse una copia per me. Avevo tutto il tempo per emulare Victor Hugo. Del resto, come aveva predetto mio padre, la penna Montblanc ri-mase per anni nella vetrina del negozio, e noi andavamo a guardarla ogni sabato mattina.
«C'è ancora» esclamavo stupito.
«Ti sta aspettando» diceva mio padre. «È come se sapesse che un giorno sarà tua e la userai per scrivere un capolavoro.»
«Io voglio scrivere una lettera alla mamma, così non si sentirà sola.»
Mio padre rispose impassibile: «La mamma non è sola, Daniel. È con Dio e sa che noi le siamo vicini, anche se non possiamo vederla».
Era la stessa teoria di padre Vicente, un anziano gesuita che insegnava nella mia scuola e spiegava ogni mistero dell'universo - dal funzionamento del grammofono al mal di denti - citando i versetti del Vangelo secondo Matteo, ma in bocca a mio padre una simile affermazione era poco credibi-le.
«Perché Dio vuole che stia con lui?»
«Non lo so, ma se un giorno lo incontriamo glielo chiederemo.»
Alla fine abbandonai l'idea della lettera e, già che c'ero, ritenni fosse giunto il momento di metter mano al capolavoro. In mancanza della stilo-grafica, mio padre mi prestò una matita Staedtler numero due con cui scri-bacchiavo su un quaderno. Protagonista della mia storia era, guarda caso, una prodigiosa penna stilografica straordinariamente simile a quella del negozio in cui viveva l'anima tormentata del precedente proprietario, uno scrittore morto di fame e di freddo. Finita nelle mani di un principiante, la penna riversava sulla carta l'ultima opera dello scrittore, quella che non era riuscito a completare da vivo. Non ricordo da dove avevo preso quell'idea, ma fu la più brillante della mia vita. Senonché, i tentativi di darle forma si rivelarono disastrosi. Ero vittima di un'anemia creativa: il mio stile e le mie metafore ricordavano troppo le pubblicità dei sali per pediluvi che leggevo alle fermate dei tram. Io incolpavo la matita e agognavo la penna che mi avrebbe trasformato in un grande scrittore. Mio padre seguiva le mie fatiche con un misto di orgoglio e di sollecitudine.
«Come va la tua storia, Daniel?»
«Non lo so. Se avessi la penna sarebbe tutto diverso.»
Lui diceva che ragionavo come un letterato in erba.
«Tu continua a scrivere, non perdere la fiducia. Quando avrai quasi fini-to la tua opera prima io ti comprerò la penna.»
«Me lo prometti?»
Lui mi rispondeva con un sorriso. Per sua fortuna, le mie aspirazioni let-terarie ebbero vita breve e si limitarono a vaghe velleità, anche perché sco-prii il meccano e la gran varietà di giocattoli di latta in vendita al mercati-no de Los Encantes, a prezzi più consoni al nostro bilancio familiare. La passione infantile è un'amante infedele e capricciosa, e ben presto nel mio cuore ci fu posto solo per le costruzioni e le barchette a molla. Smisi di chiedere a mio padre di portarmi a vedere la penna di Victor Hugo, e lui smise di menzionarla. Ma di quel periodo mi è rimasta impressa un'imma-
gine di mio padre: un uomo magro, con un vecchio vestito troppo largo e un cappello usato comprato in calle Condal per sette pesetas, che non po-teva permettersi di regalare a suo figlio una penna tanto portentosa quanto inutile.
Quella sera mio padre mi aspettava seduto in sala da pranzo, con la sua solita aria un po' preoccupata.
«Cominciavo a pensare che ti fossi perso» disse. «Ti ha chiamato Tomás Aguilar. Oggi dovevate vedervi, te lo sei dimenticato?»
«Barceló è un gran chiacchierone» mi giustificai. «Non sapevo come dirgli che dovevo andare.»
«A volte è noioso, ma è un'ottima persona. Avrai fame. Merceditas ci ha portato un po' della minestra che aveva preparato per sua madre. È proprio una brava ragazza.»
Ci sedemmo a mangiare l'elemosina di Merceditas, figlia della vicina del terzo piano. A detta di tutti, sarebbe diventata suora e santa, ma io in più di un'occasione l'avevo vista asfissiare di baci un marinaio dalle mani svelte che ogni tanto la accompagnava fino al portone.
«Ti vedo meditabondo» disse mio padre.
«Sarà l'umidità che dilata il cervello, come sostiene Barceló.»
«Non credo. Cosa c'è, Daniel?»
«Niente. Stavo solo pensando.»
«A cosa?»
«Alla guerra.»
Mio padre assentì e continuò a mangiare in silenzio. Era un uomo riser-vato, e benché vivesse di ricordi non parlava quasi mai del passato. Io ero cresciuto con la convinzione che il quieto grigiore del dopoguerra, la mise-ria, i rancori inespressi, fossero normali come l'avvicendarsi delle stagioni. Ero anche convinto che la malinconia che trasudava dai muri della città fe-rita fosse espressione della sua anima. Una delle tante insidie dell'infanzia è che non è necessario capire per soffrire. Ma quando arriva l'età della ra-gione, le ferite non possono essere sanate. Quella sera d'estate, nel crepu-scolo infido di Barcellona, avevo ripensato alle parole di Clara sulla scom-parsa di suo padre. Nel mio piccolo mondo, la morte era una mano anoni-ma e imprevedibile, un venditore a domicilio che si portava via madri, mendicanti e vicini novantenni come in una lotteria infernale. Faticavo ad accettare l'idea che camminasse al mio fianco, con il volto di un uomo e un cuore avvelenato dall'odio, che indossasse una divisa o un impermeabile, facesse la coda per entrare al cinema, frequentasse i bar e al mattino pas-
seggiasse coi figli nel parco della Ciudadela mentre di pomeriggio faceva sparire una persona nelle celle del castello di Montjuïc o la gettava notte-tempo in una fossa comune. Mi venne da pensare che, forse, il mio univer-so altro non era che una facciata di cartapesta. In quegli anni immobili, an-che la fine dell'infanzia, come i treni delle ferrovie nazionali, arrivava quando arrivava.
Mangiammo quella minestra di avanzi con un po' di pane, mentre dalle finestre spalancate dei vicini arrivava il brusio melenso delle commedie radiofoniche.
«Allora, com'è andata con don Gustavo?»
«Ho conosciuto sua nipote Clara.»
«La cieca? Dicono che sia molto bella.»
«Può darsi. Non ci ho fatto caso.»
«Buon per te.»
«Domani, dopo la scuola, dovrei passare da loro per leggerle qualcosa e farle un po' di compagnia. Se mi dai il permesso.»
Mio padre mi guardò con l'aria di chi si domanda se è lui a invecchiare prima del tempo o se è il suo bambino a crescere troppo in fretta. Decisi di cambiare discorso, e l'unico argomento che mi venne in mente fu quello su cui avevo rimuginato tornando a casa.
«È vero che durante la guerra portavano della gente al castello di Mon-tjuïc e poi non se ne sapeva più nulla?»
«Te l'ha detto Barceló?» domandò serio mio padre.
«No, Tomás Aguilar. Ogni tanto a scuola racconta delle strane storie.»
Mio padre annuì lentamente.
«In tempo di guerra accadono cose orribili, Daniel, molto difficili da spiegare. A volte è meglio non rivangare il passato.»
Sospirò e finì la minestra di malavoglia. Io lo osservavo in silenzio.
«Prima di morire, tua madre mi ha fatto promettere che non ti avrei mai parlato della guerra. Voleva proteggerti.»
Non sapevo cosa dire. Lo vidi alzare gli occhi al cielo come se cercasse qualcosa nell'aria, uno sguardo o, chissà, un silenzio di mia madre a con-ferma delle sue parole.
«Forse ho sbagliato a farle quella promessa. Non so.»
«Non importa, papà.»
«Sì che importa, Daniel. Tutto cambia dopo una guerra. Ed è vero che molta gente è entrata in quel castello e non ne è più uscita.»
Per un attimo i nostri sguardi si incontrarono. Poco dopo, mio padre si alzò da tavola e andò nella sua stanza, ferito da un oblio durato troppo a lungo. Sparecchiai e lavai i piatti nel piccolo acquaio di marmo della cuci-na. Ritornai in sala, spensi la luce e mi sedetti sulla vecchia poltrona di mio padre mentre una brezza leggera agitava le tende. Non avevo sonno e non avevo voglia di andare a letto. Mi affacciai al balcone e guardai verso i lampioni di Puerta del Ángel. C'era qualcuno, una figura immobile in un rettangolo d'ombra. Il lucore della brace di una sigaretta si rifletteva nei suoi occhi. Indossava un abito scuro e teneva una mano infilata nella tasca della giacca; nell'altra aveva la sigaretta, che disegnava ragnatele di fumo bluastro intorno al suo profilo. Mi osservava, il volto cancellato dal river-bero dei lampioni. Rimase fermo per quasi un minuto, in piedi, fumando, lo sguardo fisso su di me. Poi, appena le campane della cattedrale batte-rono la mezzanotte, piegò leggermente la testa accennando a un saluto che lasciava intuire un sorriso invisibile. Avrei voluto ricambiare il gesto, ma ero paralizzato dalla paura. Mentre l'uomo si allontanava, vidi che zoppi-cava leggermente. Un velo di sudore freddo mi coprì la fronte e mi mancò il respiro. Avevo letto una descrizione di quella scena in L'ombra del ven-to: il protagonista si affacciava al balcone tutte le notti a mezzanotte, e si accorgeva di essere osservato da uno sconosciuto che fumava al buio, con gli occhi ardenti come braci. L'uomo restava lì un po', con la mano destra infilata nella tasca della giacca nera, e poi si allontanava zoppicando. Nella scena a cui avevo appena assistito, lo strano personaggio poteva essere un nottambulo qualsiasi, qualcuno senza volto né identità. Nel romanzo di Ca-rax, quello sconosciuto era il diavolo.
6
Un sonno ristoratore e la prospettiva di rivedere Clara nel pomeriggio mi convinsero che ciò che avevo visto era stata solo una coincidenza. Forse, quella fantasticheria era un'avvisaglia della tanto attesa metamorfosi che, sostenevano le nostre vicine, avrebbe fatto di me, se non un buon partito, di certo un bel giovanotto. Alle sette in punto, con i miei abiti migliori e cosparso della colonia Varón Dandy rubata a mio padre, mi presentai a ca-sa di don Gustavo Barceló, dando avvio a una carriera di lettore a domici-lio e cicisbeo. Il libraio e la nipote abitavano al primo piano di un palazzo di plaza Real. Venni ricevuto da una cameriera in cuffia e grembiulino, un po' arcigna, che mi fece una riverenza e disse, con un tono affettato e un
tremendo accento di Cáceres:
«Lei dev'essere il signorino Daniel. Io sono Bernarda, per servirla.»
Ostentando un'impeccabile professionalità, la domestica mi fece strada. L'appartamento, che occupava l'intero piano del palazzo, era un susseguirsi di corridoi, saloni e verande, e a me, abituato alla modestia della mia casa, fece l'effetto di un Escorial in miniatura. Era evidente che don Gustavo, ol-tre che libri, incunaboli e ogni tipo di edizioni rare, collezionava statue, quadri e pale d'altare, e anche piante e animali. Seguii Bernarda lungo una loggia piena di piante frondose e di fiori tropicali, una vera e propria serra, dalle cui vetrate filtrava una luce dorata. Nell'aria fluttuavano le languide note di un pianoforte. Bernarda avanzava tra il fitto fogliame muovendo le braccia da scaricatore di porto a mo' di machete. Io la seguivo e mi guar-davo intorno: vidi una mezza dozzina di gatti e due enormi pappagalli dai colori vistosi che, mi spiegò la domestica, Barceló aveva chiamato rispet-tivamente Ortega e Gasset. Clara mi stava aspettando in un salone, al limi-tare di quella foresta urbana. L'oggetto della mia passione indossava un a-bito ampio di cotone turchese e sedeva davanti a un piano, sotto la luce fioca di un lampadario. Clara non andava a tempo e sbagliava metà delle note, ma a me la sua serenata parve splendida. Con la schiena diritta, la te-sta leggermente piegata e un vago sorriso sulle labbra, sembrava una vi-sione celestiale. Non fu necessario dire né fare nulla per annunciarmi: gli effluvi dell'acqua di colonia anticiparono le mie intenzioni. Clara smise di suonare e mi sorrise imbarazzata.
«Per un attimo ho creduto che fossi lo zio» disse. «Mi ha proibito di suonare Mompou, dice che ne faccio scempio.»
L'unico Mompou di mia conoscenza era un prete emaciato che soffriva di acidità di stomaco e ci insegnava fisica e chimica, perciò l'associazione mi sembrò grottesca e perlomeno improbabile.
«Secondo me suoni benissimo» affermai.
«Ma no. Mio zio è un melomane e mi ha trovato un maestro di musica nella speranza che possa migliorare. È un giovane compositore molto promettente. Si chiama Adrián Neri, ha studiato a Parigi e a Vienna e at-tualmente sta componendo una sinfonia per l'orchestra Ciudad de Barcelo-na, dato che suo zio è nel consiglio direttivo. È un genio.»
«Lo zio o il nipote?»
«Non pensare male, Daniel. Vedrai che ti piacerà.»
"Sì, come il mal di pancia."
«Ti va di fare merenda?» propose Clara. «Bernarda sa fare dei biscotti di
cannella squisiti.»
Mangiammo come due pascià, facendo piazza pulita di tutto il ben di Dio che la domestica aveva preparato. Non sapevo come ci si doveva comportare in quelle circostanze, ma Clara, che sembrava leggermi nel pensiero, mi propose di cominciare subito a leggere L'ombra del vento. Pertanto, cercando di imitare le voci degli attori che su Radio Nacional, subito dopo l'Angelus, declamavano gli slogan patriottici, mi lanciai per la seconda volta in un'appassionata lettura del romanzo. La mia voce, dap-prima un po' contratta, si fece sempre più sicura. Dimenticai che stavo re-citando e venni nuovamente catturato dal racconto, cogliendo cadenze ed espressioni fluide come melodie, toni, pause e allusioni che mi erano sfug-giti la prima volta. Era come se il romanzo mi apparisse sotto una nuova luce, simile al plastico di un edificio che si può osservare da differenti an-golature. Lessi cinque capitoli, finché mi si seccò la gola e quattro o cin-que pendole suonarono come se volessero rammentarmi che si stava fa-cendo tardi. Chiusi il libro e guardai Clara che mi sorrideva serena.
«Ricorda vagamente La casa rossa» commentò. «Ma la storia è meno tetra.»
«Non ti illudere» dissi. «È solo l'inizio. Poi le cose si complicano.»
«Devi andare, vero?» chiese Clara.
«Temo di sì. Fosse per me resterei, ma...»
«Se non hai altri impegni, puoi tornare domani» suggerì Clara. «Ma non vorrei abusare della tua...»
«Alle sei?» proposi. «Così abbiamo più tempo.»
Quell'incontro nella sala da musica dell'appartamento di plaza Real, av-venuto nell'estate del 1945, fu la prima di una lunga serie di visite che con-tinuarono anche negli anni successivi. Dopo qualche settimana, la mia pre-senza nell'appartamento dei Barceló divenne quotidiana, a eccezione del martedì e del giovedì, quando Clara prendeva lezioni di musica da quel ta-le, Adrián Neri. Trascorrevo ore in quella casa, e imparai a conoscere ogni stanza, ogni corridoio e ogni pianta della foresta di don Gustavo. L'ombra del vento ci tenne occupati per due settimane, ma non fu difficile trovare qualcosa da leggere a Clara. Barceló possedeva una biblioteca favolosa e, in mancanza di altri romanzi di Julián Carax, ci dedicammo a classici mi-nori e frivolezze d'autore. Certi pomeriggi preferivamo chiacchierare o u-scire a fare una passeggiata nella piazza o fino alla cattedrale. Clara adora-va sedersi ad ascoltare il mormorio della gente nel chiostro e l'eco dei passi nelle viuzze lastricate. Mi chiedeva di descriverle le facciate degli edifici,
le persone, le automobili, i negozi, i lampioni e le vetrine. Spesso mi pren-deva a braccetto e io la guidavo per la nostra Barcellona segreta, quella che solo lei e io potevamo vedere. Finivamo sempre per fare tappa in una latte-ria di calle Petritxol, davanti a un dolce di crema o a una cioccolata con panna. Capitava spesso che fossimo oggetto della curiosità della gente e più di un cameriere l'aveva chiamata "tua sorella maggiore", ma io non da-vo peso né alle spiritosaggini né alle insinuazioni. A volte, non so se per civetteria o morbosità, Clara mi faceva delle confidenze bizzarre. Mi parlò varie volte di un individuo con la voce roca che ogni tanto la avvicinava quando era fuori da sola. Lo sconosciuto le rivolgeva domande su don Gu-stavo e persino su di me. Una volta le aveva anche accarezzato il collo. Per me questo genere di confidenze era un vero e proprio martirio. Un giorno, Clara mi disse che aveva chiesto a quell'uomo se poteva toccargli il viso. Lui era rimasto in silenzio, un silenzio che Clara aveva interpretato come un assenso. Ma, appena l'aveva sfiorato, lo sconosciuto l'aveva bloccata, il che non le aveva impedito di sentire sotto le dita qualcosa di simile al cuoio.
«Era come se avesse una maschera di pelle» mi diceva.
«Che immaginazione fertile, Clara.»
Lei giurava e spergiurava che era vero e io finivo per crederle, tormen-tandomi al pensiero di quel presunto sconosciuto che le accarezzava il lun-go collo mentre io non avrei mai osato farlo. Se solo avessi riflettuto, avrei capito che quella dedizione assoluta era un'inesauribile fonte di pena; ma forse era proprio perché soffrivo tanto che la adoravo sempre di più, schia-vo dell'eterna perversione che spinge la vittima nelle braccia del carnefice. Per tutta l'estate pensai con angoscia al giorno in cui sarei dovuto tornare a scuola e non avrei più potuto dedicare il mio tempo a Clara.
Bernarda, che malgrado l'aspetto severo aveva un gran senso materno, a furia di vedermi finì per affezionarsi a me e, a modo suo, decise di adot-tarmi.
«Si capisce lontano un miglio che quel ragazzo ha perso la mamma» di-ceva a Barceló. «Mi fa tanta pena, poverino.»
Era arrivata a Barcellona poco dopo la guerra, per fuggire dalla miseria e da un padre che la riempiva di botte dandole dell'idiota, quando non la tra-scinava nella porcilaia, ubriaco fradicio, e la palpeggiava finché lei, terro-rizzata, scoppiava in un pianto dirotto e lui la lasciava andare, gridando che era una stupida bigotta come sua madre. Barceló l'aveva vista dietro il
banco di un fruttivendolo al mercato del Borne e, senza pensarci due volte, le aveva offerto un lavoro come domestica.
«Succederà come in Pigmalione» disse. «Lei sarà la mia Eliza e io il suo professor Higgins.»
Bernarda, che placava la sua sete di letture sfogliando riviste illustrate, lo guardò storto.
«Sarò povera e ignorante, ma sono una donna onesta» replicò.
Barceló non era esattamente George Bernard Shaw ma, pur fallendo nel-l'intento di dotare la sua pupilla della favella e del fascino di Miguel Azañ-a, era riuscito a insegnarle le buone maniere e un linguaggio da signorina di provincia. Aveva ventotto anni, ma il suo sguardo ne dimostrava una decina di più. Era molto religiosa e aveva una devozione maniacale per la Madonna di Lourdes. Ogni mattina andava alla messa delle otto nella chie-sa di Santa María del Mar e si confessava tre volte alla settimana. Don Gu-stavo, che si dichiarava agnostico (ossia, secondo Bernarda, affetto da una malattia respiratoria, come l'asma, ma da ricchi), riteneva matematicamen-te impossibile che la domestica avesse bisogno di tutte quelle assoluzioni.
«Sei buona come il pane, Bernarda» diceva, indignato. «Chi vede il pec-cato dappertutto è malato nell'anima e, per parlare fuori dai denti, ha anche problemi intestinali. Tutti i santi iberici, infatti, soffrivano di stitichezza cronica.»
Nell'udire siffatte bestemmie, Bernarda si faceva cinque volte il segno della croce. Poi, prima di addormentarsi, recitava una preghiera in più per il signor Barceló: era un uomo dal cuore d'oro, ma a forza di leggere gli era andato in pappa il cervello, come a Sancho Panza. Di tanto in tanto usciva con qualche giovanotto che invariabilmente la picchiava, le rubava i suoi pochi risparmi e prima o poi la piantava. A quel punto Bernarda si chiude-va nella sua stanza a piangere per giorni interi, minacciando di uccidersi con il veleno per topi o bevendo una bottiglia di candeggina. Barceló, una volta che le aveva provate tutte per convincerla a uscire, si spaventava e chiamava il fabbro perché aprisse la porta della stanza e il suo medico cu-rante perché somministrasse a Berriarda un forte sedativo. Quando, due giorni dopo, la poveretta si svegliava, il libraio le regalava rose, cioccolati-ni, un vestito nuovo, e la portava al cinema a vedere Cary Grant, che se-condo lei, dopo José Antonio Primo de Rivera, era l'uomo più bello del mondo.
«Ho sentito dire che Cary Grant è dell'altra sponda» mormorava lei, mangiando un cioccolatino. «Sarà vero?»
«Sciocchezze» sentenziava Barceló. «I troppo furbi, al pari dei babbei, sono rosi dall'invidia.»
«Come parla bene il signore. Si capisce che è andato all'università del sorbetto.»
«Sorbona» la correggeva bonariamente Barceló.
Era difficile non voler bene a Bernarda. Senza che nessuno glielo avesse chiesto, cucinava e cuciva per me. Mi teneva in ordine i vestiti, mi lucida-va le scarpe, mi tagliava i capelli, mi comprava vitamine e dentifricio. Un giorno mi regalò persino una medaglietta e una boccetta di vetro piena di acqua di Lourdes: una sua sorella che viveva a San Adrián del Besós c'era andata in pellegrinaggio in autobus. A volte, mentre mi ispezionava i ca-pelli alla ricerca di pidocchi o di altri parassiti, mi parlava a bassa voce.
«La signorina Clara è una ragazza come poche e potessi morire in questo momento se mi venisse in mente di criticarla, ma sarebbe meglio che il si-gnorino non si facesse troppe illusioni, non so se mi sono spiegata.»
«Sta' tranquilla, Bernarda, siamo solo amici.»
«Meglio così.»
A sostegno della sua tesi, Bernarda mi raccontava la trama di un radio-dramma in cui a un ragazzo, indebitamente innamorato della sua insegnan-te, in virtù di un inesorabile maleficio erano caduti denti e capelli mentre il viso e le mani gli si erano ricoperti di macchie vergognose, una specie di lebbra del libidinoso.
«La lussuria è uno dei sette vizi capitali» concludeva Bernarda. «Dia ret-ta a me.»
Don Gustavo, pur concedendosi qualche sarcasmo, vedeva di buon oc-chio la mia amicizia con Clara e il mio ruolo di chaperon. Io attribuivo la sua tolleranza al fatto che probabilmente mi considerava inoffensivo. Ogni tanto lasciava cadere un'offerta vantaggiosa per il romanzo di Carax. Mi diceva di aver chiesto il parere di altri librai antiquari, i quali con-cordavano sul fatto che un Carax poteva valere una fortuna, soprattutto in Francia. Io rifiutavo e lui si limitava a sorridere con l'aria di chi ottiene sempre quello che vuole. Mi aveva dato una copia delle chiavi dell'appar-tamento perché potessi entrare e uscire senza dipendere dalla sua presenza o da quella di Bernarda. Con mio padre, invece, non tutto filava così liscio. Col passare degli anni aveva superato la sua innata riluttanza ad affrontare gli argomenti spinosi e uno dei primi effetti di questo cambiamento fu l'e-splicita disapprovazione del mio rapporto con Clara.
«Dovresti uscire con ragazzi della tua età, come Tomás Aguilar, non con
una donna in età da marito.»
«Che importanza ha l'età, se siamo solo amici?»
Quello che più mi ferì fu l'allusione a Tomás, perché da mesi non anda-vamo in giro insieme, mentre prima eravamo inseparabili. Mio padre mi rivolse un'occhiata di biasimo.
«Daniel, tu non sai niente delle donne, e quella si diverte a giocare con te come il gatto col topo.»
«Sei tu che non sai niente delle donne» risposi indignato. «E meno che mai di Clara.»
Di solito i nostri battibecchi non trascendevano lo scambio di occhiate e di rimproveri. Quando non ero a scuola o con Clara, aiutavo mio padre in negozio: riordinavo volumi, consegnavo le ordinazioni, sbrigavo commis-sioni o servivo i clienti abituali. Mio padre si lamentava del fatto che non mettevo abbastanza impegno né passione nel lavoro; io replicavo che ci passavo la vita, in quella libreria. Le sere in cui non riuscivo a prendere sonno, rimpiangevo l'intimità del nostro piccolo universo, quello degli anni successivi alla morte di mia madre, gli anni della penna di Victor Hugo e dei trenini di latta. Li ricordavo come un'epoca triste e pacifica, che aveva cominciato a svanire il giorno in cui mi aveva portato al Cimitero dei Libri Dimenticati. Quando mio padre scoprì che avevo regalato il libro di Carax a Clara mi fece una sfuriata.
«Mi hai deluso, Daniel» disse. «Quando hai scelto quel libro conoscevi le regole. Sapevi che era un oggetto speciale e ti sei impegnato ad adottarlo e a conservarlo per tutta la vita.»
«Avevo dieci anni, papà, ed era un gioco. Una cosa da bambini.»
Mio padre mi guardò come se lo avessi pugnalato.
«Adesso ne hai quattordici e non solo sei ancora un bambino, ma un bambino presuntuoso che si crede un uomo. La vita ti punirà, Daniel.»
Io preferivo credere che mio padre fosse risentito perché passavo molto tempo dai Barceló, in un mondo di agi che lui poteva a malapena immagi-nare. Pensavo gli dispiacesse che la domestica di don Gustavo mi facesse da madre e che si sentisse offeso perché glielo avevo permesso. A volte, mentre ero nel retrobottega a preparare dei pacchi da consegnare, mi era capitato di sentire qualche cliente scherzare con mio padre.
«Sempere, si deve trovare una brava ragazza, soprattutto adesso che ab-bondano le vedove nel fiore degli anni, insomma, mi capisce. Una donna come si deve ti cambia la vita, amico mio, e ti fa ringiovanire di vent'anni. Quel che non riesce a un bel paio di tette...»
Mio padre faceva lo gnorri, ma io trovavo ogni giorno più sensati quei consigli. Una volta, durante una delle nostre cene, sempre più simili a un silenzioso duello di sguardi, decisi di affrontare l'argomento. Mio padre era un bell'uomo, elegante e curato, e mi risultava che più di una donna nel quartiere gli avesse messo gli occhi addosso.
«Per te è stato facile trovare una sostituta della mamma» disse con ama-rezza. «Ma per me non è così e, soprattutto, non ho intenzione di cercarla.»
Col tempo, le allusioni di mio padre e di Bernarda, e persino di Barceló, ottennero il loro scopo: una voce interiore mi diceva che mi ero cacciato in una situazione senza uscita e che per Clara sarei sempre stato un ragazzino più giovane di lei di dieci anni. Ormai mi era quasi intollerabile starle ac-canto, sopportare il tocco leggero delle sue dita o prenderla a braccetto quando uscivamo a passeggio. Arrivò il momento in cui solo starle vicino mi causava una sorta di dolore fisico. Tutti se n'erano accorti, e nessuno meglio di Clara.
«Daniel, dobbiamo parlare» mi diceva. «Forse non sono stata corretta con te...»
Non le permettevo mai di continuare. Adducendo qualche pretesto, usci-vo dalla stanza e scappavo. Mi sentivo come uno che si è lanciato in una corsa contro il tempo e capivo che il mondo illusorio che avevo costruito intorno a Clara si stava sgretolando, e che quella fase della mia vita si sta-va concludendo. Non potevo immaginare neppure lontanamente che i miei guai erano appena cominciati.

Miseria e compagnia
1950-1952
Il giorno del mio sedicesimo compleanno misi in atto il piano più scon-siderato che avessi mai concepito nel corso della mia breve esistenza. A mio rischio e pericolo, decisi di organizzare una cena di compleanno e di invitare Barceló, Bernarda e Clara. Mio padre tentò di dissuadermi.
«È il mio compleanno» ribattei. «Lavoro per te tutti i santi giorni. Alme-no per una volta, fammi contento.»
«Fai come credi.»
Nei mesi precedenti, la mia ambigua amicizia con Clara si era ulterior-mente complicata. Ormai non leggevo quasi più per lei, e lei evitava in tut-ti i modi di rimanere da sola con me. Quando andavo a trovarla, o mi im-battevo nello zio che fingeva di leggere il giornale o si materializzava Ber-
narda, indaffarata e inquisitoria. Altre volte, invece, era con una o più ami-che, signorine vereconde che io chiamavo le sorelle Anisetta. Armate di messale, vegliavano sulla virtù di Clara bersagliando il sottoscritto di oc-chiate torve che la dicevano lunga sull'inopportunità della mia presenza in quella casa, una vergogna per Clara e per il mondo. Ma la presenza più fa-stidiosa era quella del maestro Neri, con la sua maledetta sinfonia ancora incompiuta. Era un bellimbusto di San Gervasio che si atteggiava a novello Mozart ma a me, imbrillantinato com'era, ricordava piuttosto Carlos Gar-del. Inoltre, mi sembrava che del genio avesse solo il brutto carattere. Adu-lava spudoratamente don Gustavo e faceva il cascamorto con Bernarda in cucina, mentre lei ridacchiava perché le regalava dei confetti o le toccava il sedere. In poche parole, lo detestavo cordialmente e l'antipatia era recipro-ca. Neri arrivava con le sue partiture e i suoi modi arroganti e mi trattava come fossi un inserviente, ricorrendo a ogni tipo di scusa per liberarsi di me.
«Non hai dei compiti da fare, ragazzino?»
«E lei, maestro, non doveva terminare una sinfonia?»
Per una ragione o per l'altra queste presenze avevano sempre la meglio. Sconfitto, battevo in ritirata, a capo chino, desiderando di avere la parlan-tina di don Gustavo per dire il fatto suo a quel presuntuoso.
Il giorno del compleanno, mio padre comprò dal nostro fornaio il dolce migliore e apparecchiò la tavola con le posate d'argento e il servizio buo-no. Accese delle candele e preparò quelli che supponeva fossero i miei piatti preferiti. Per tutto il pomeriggio non scambiammo una sola parola. Verso sera, lui si ritirò in camera, indossò il suo abito più elegante e ricom-parve con un pacchetto che appoggiò sul tavolino del soggiorno. Si sedette a tavola, si versò un bicchiere di vino bianco e attese. L'invito era per le ot-to e mezzo, ma un'ora più tardi stavamo ancora aspettando gli ospiti. Mio padre mi osservava con profonda tristezza, senza dire nulla. Io ero furi-bondo.
«Sarai soddisfatto» dissi. «Non era quel che volevi?»
«No.»
Bernarda arrivò verso le dieci con una faccia da funerale e un messaggio della signorina Clara: mi faceva tanti auguri, ma purtroppo non poteva par-tecipare alla mia cena di compleanno. Il signor Barceló era fuori città per impegni di lavoro e Clara aveva dovuto cambiare l'orario della lezione di musica con il maestro Neri. Lei era passata perché era la sua serata libera.
«Clara non può venire perché ha una lezione di musica?» chiesi incredu-lo.
Bernarda abbassò gli occhi. Mi tese un pacchettino, mi diede un bacio sulle guance e le venne da piangere.
«Se non le piace, può cambiarlo» disse.
Rimasi solo con mio padre, a fissare il servizio buono, le posate d'argen-to e le candele che si consumavano in silenzio.
«Mi dispiace, Daniel» mormorò mio padre.
Assentii scrollando le spalle.
«Non apri il tuo regalo?» mi chiese.
Gli risposi sbattendo la porta di casa. Corsi giù per le scale e nella strada fredda e deserta, appena rischiarata dalla luce azzurrina dei lampioni, mi accorsi di trattenere a stento le lacrime, lacrime di rabbia. Avevo il cuore gonfio d'ira. Mi misi a camminare e non mi accorsi dello sconosciuto che mi osservava, immobile, dalla Puerta del Ángel. Era vestito di scuro, tene-va la mano destra infilata nella tasca della giacca e i suoi occhi brillavano nel tenue bagliore della sigaretta. Zoppicando leggermente, mi seguì.
Dopo aver girovagato per un po' mi ritrovai ai piedi del monumento a Cristoforo Colombo, e allora andai a sedermi sui gradini che si tuffavano nell'acqua scura del porto, accanto al molo dei battelli turistici, le golon-drinas. Qualcuno aveva organizzato un'escursione notturna e dalla proces-sione di luci giungeva un'eco di musica e risate. Mi ricordai di quando mio padre e io andavamo fino al frangiflutti per guardare dal mare il cimitero sulla collina di Montjuïc, la sconfinata città dei morti. A volte salutavo la mamma con la mano, convinto che abitasse ancora lì e ci vedesse passare; mio padre mi imitava. Erano anni, ormai, che non salivamo insieme su una golondrina, ma sapevo che lui, ogni tanto, la prendeva da solo.
«È la notte ideale per i rimorsi, Daniel» disse una voce nell'oscurità. «U-na sigaretta?»
Mi alzai di scatto, scosso da un brivido. Una mano usciva dalle tenebre e mi tendeva una sigaretta.
«Chi è lei?»
Lo sconosciuto fece un passo avanti senza però mostrare il volto. Una nuvola di fumo azzurro si levava dalla sigaretta. Riconobbi l'abito nero e la mano infilata nella tasca della giacca. I suoi occhi luccicavano come perli-ne di vetro.
«Un amico» disse. «O almeno ci terrei a esserlo. Sigaretta?»
«Non fumo.»
«Fai bene, ma purtroppo non ho altro da offrirti, Daniel.»
Parlava con una voce roca e una pronuncia strascicata. Era un suono fio-co e remoto, come i dischi a settantotto giri collezionati da Barceló.
«Come sa il mio nome?»
«So molte cose di te. Il nome è quello meno importante.»
«Che altro sa?»
«Potrei farti arrossire di vergogna, ma non ne ho né il tempo né la vo-glia. Sappi solo che possiedi un oggetto che mi interessa. E per averlo sono disposto a pagare bene.»
«Ho l'impressione che mi abbia preso per qualcun altro.»
«Io non sbaglio mai persona. Su altre cose posso aver commesso degli errori, lo ammetto, ma non ho mai sbagliato persona. Quanto vuoi?»
«Per cosa?»
«L'ombra del vento.»
«Perché dovrei averlo io?»
«Non fare il furbo, Daniel. È solo una questione di prezzo. So bene che il libro è nelle tue mani. La gente parla e io ascolto.»
«Be', deve aver capito male. Non possiedo quel libro, e se anche l'avessi non lo venderei.»
«La tua coerenza è ammirevole, soprattutto in un mondo di baciapile e leccaculo, ma non vale la pena di fare la commedia con me. Quanto vuoi? Cinquemila pesetas? Io non do importanza al denaro. Il prezzo lo stabilisci tu.»
«Gliel'ho già detto: non è in vendita e non lo possiedo» risposi. «Glielo ripeto, si è sbagliato.»
Lo sconosciuto rimase in silenzio, immobile, avvolto nel fumo di una si-garetta che sembrava interminabile. I suoi abiti non emanavano odore di tabacco, ma piuttosto di carta bruciata, carta di buona qualità, come quella che si usa per i libri.
«Forse a sbagliarti sei tu» obiettò.
«Mi sta minacciando?»
«Può darsi.»
Deglutii. A dispetto della mia spavalderia, ero terrorizzato.
«Posso almeno sapere perché le interessa tanto quel libro?»
«Sono fatti miei.»
«Anche miei, dal momento che mi sta minacciando perché le venda un oggetto che non possiedo.»
«Mi sei simpatico, Daniel. Hai del fegato e sembri un tipo sveglio. Cin-
quemila? Potresti comprarti molti libri, dei bei libri, non come quella por-cheria che ti ostini a tener nascosta. Avanti, cinquemila pesetas e amici come prima.»
«Lei e io non siamo amici.»
«Sì, invece, ma non te ne sei ancora reso conto. Non è colpa tua, con tut-ti i grattacapi che hai. La tua amica Clara, ad esempio. Chi non perderebbe la testa per una donna così?»
Mi sentii gelare.
«Cosa ne sa lei di Clara?»
«Ne so molto più di te, oserei dire, e penso che ti converrebbe dimenti-carla, benché sia certo che non lo farai. Anch'io ho avuto sedici anni...»
Mi invase un'angosciosa certezza. Era lui lo sconosciuto che avvicinava Clara per strada. Allora era vero, lei non mi aveva mentito. L'uomo senza nome fece un passo avanti. Io indietreggiai: non avevo mai avuto tanta paura in vita mia.
«Il libro non ce l'ha Clara, tanto vale che lo sappia. E non si azzardi mai più a toccarla.»
«Non mi importa nulla della tua amica, Daniel, e anche per te un giorno sarà così. Io voglio il libro e preferisco ottenerlo con le buone, senza fare del male a nessuno. Mi spiego?»
A corto di idee, mentii da vero vigliacco.
«Il libro ce l'ha un certo Adrián Neri, un musicista. Il nome le dice qual-cosa?»
«Mai sentito, ed è quanto di peggio si possa dire di un musicista. Sicuro di non essertelo inventato?»
«Magari.»
«Allora, dal momento che siete in contatto, non avrai difficoltà a fartelo restituire. Questo genere di cose, tra amici, si risolve facilmente. O preferi-sci che lo chieda a Clara?»
Scossi nervosamente la testa.
«Parlerò con Neri, ma dubito che me lo restituirà. Non sono neanche si-curo che ce l'abbia ancora» dissi. «Ma perché vuole quel libro? Non mi di-rà che è solo per leggerlo.»
«No, lo conosco a memoria.»
«È un collezionista?»
«Diciamo di sì.»
«Possiede altri libri di Carax?»
«Un tempo ne avevo. Sono un esperto di Julián Carax. Giro il mondo in
cerca dei suoi romanzi.»
«E cosa se ne fa se non li legge?»
Lo sconosciuto emise un rantolo sordo. Solo dopo qualche secondo mi accorsi che stava ridendo.
«L'unica cosa che si deve fare, Daniel» rispose.
Tirò fuori una scatola di cerini dalla tasca, ne prese uno e lo accese. La fiamma gli illuminò il volto. Rimasi pietrificato. Era privo del naso, delle labbra e delle palpebre. Il suo viso era una maschera di cuoio scuro e spes-so, una faccia divorata dal fuoco. Era quella la ruvida maschera di pelle che Clara aveva sfiorato con le dita.
«Bruciarli» sussurrò, con la voce e lo sguardo carichi di odio.
Un soffio di vento spense il cerino e il suo viso sparì nell'oscurità.
«Ci rivedremo, Daniel. Io non dimentico mai un volto e credo che da stanotte questo valga anche per te» disse con molta tranquillità. «Sono cer-to che prenderai la decisione giusta per il tuo bene, e per quello della tua amica Clara, e chiarirai la faccenda con quel Neri, che dal nome dev'essere uno spocchioso. Al tuo posto, non mi fiderei di lui.»
Senza aggiungere altro, lo sconosciuto si girò e, sogghignando, si dile-guò nel buio del porto.
8

Una coltre di nubi minacciose si stava avvicinando rapidamente. Avrei voluto mettermi a correre per non farmi sorprendere dal temporale, ma le parole di quell'individuo mi rimbombavano nella mente e rallentavano i miei movimenti. Guardai il cielo: la bufera si insinuava tra le nubi come una chiazza di sangue, oscurando la luna e stendendo un manto di tenebre sui tetti e sulle facciate delle case. Tentai di camminare più in fretta, ma l'angoscia aveva reso le mie gambe pesanti come il piombo. Mi riparai sot-to la tettoia di un'edicola, intenzionato a mettere ordine nei miei pensieri. Dal porto arrivò il fragore di un tuono, simile al ruggito di un drago, e la terra tremò sotto i miei piedi. Un attimo dopo, sui marciapiedi pieni di pozzanghere i lampioni si spensero tremolando come candele. In giro non c'era anima viva; si sentiva solo il gorgogliare delle canalette di scolo che riversavano nelle fognature un'acqua putrida. La notte era nera come la pe-ce, la pioggia un sudario. "Chi non perderebbe la testa per una donna così?" Risalii di corsa la rambla con un solo pensiero in mente: Clara.

Bernarda aveva detto che Barceló era fuori città per affari e lei di solito
trascorreva la notte del suo giorno libero in casa di sua zia Reme e delle cugine a San Adrián del Besós. Dunque Clara era sola nel grande apparta-mento di plaza Real, alla mercé di un individuo senza volto che si aggirava per la città deserta con chissà quali propositi. Mentre correvo verso plaza Real, non riuscivo a togliermi dalla testa l'idea che regalando il libro di Ca-rax a Clara l'avevo messa in pericolo. Arrivai nella piazza bagnato fradi-cio. Sotto i portici di calle Fernando, ombre furtive scivolavano lungo i muri. Mendicanti. Il portone era chiuso. Cercai le chiavi che Barceló mi aveva dato e che tenevo insieme a quelle di casa mia. Uno dei vagabondi si avvicinò per chiedermi se gli lasciavo passare la notte nell'atrio. Gli chiusi la porta in faccia prima ancora che potesse terminare la frase.
La rampa delle scale era un pozzo d'ombra, rischiarato a tratti dal baglio-re dei lampi. Avanzai a tentoni e rischiai di inciampare nel primo gradino. Afferrai saldamente il corrimano e raggiunsi il pianerottolo. Tastai i muri di marmo freddo, gli stipiti dell'uscio massiccio e il batacchio di ottone; poi, individuata la toppa della serratura, introdussi la chiave. La porta si spalancò. Mi accolsero un riflesso di luce azzurrina e una gradevole folata di aria tiepida. La stanza di Bernarda si trovava sul retro dell'appartamento, accanto alla cucina. Mi avviai in quella direzione, pur sapendo che la do-mestica non c'era. Bussai alla porta e, dato che nessuno rispondeva, mi permisi di aprirla. Era una stanza semplice, con un grande letto, un arma-dio di legno scuro con gli specchi fumé e un comodino su cui Bernarda a-veva schierato un battaglione di beati, madonne e immagini sacre. Richiusi la porta della stanza, mi girai e credetti di morire d'infarto: una decina di occhi azzurri e rossastri avanzavano verso di me dal fondo del corridoio. Erano i gatti di Barceló, che mi conoscevano e tolleravano la mia presenza. Un attimo dopo ero circondato da un coro di miagolii sommessi. Avendo constatato che i miei abiti fradici non emettevano nessun calore, i felini si allontanarono.
La stanza di Clara si trovava sul lato opposto dell'appartamento, di fian-co alla biblioteca e alla sala da musica. I passi felpati dei gatti mi seguiro-no lungo il corridoio. Nella penombra squarciata dai lampi, l'appartamento dei Barceló appariva sinistro, ben diverso dall'accogliente rifugio che or-mai consideravo la mia seconda casa. Raggiunsi le stanze che si affaccia-vano sulla piazza e mi ritrovai nella serra dei Barceló. Mentre mi aprivo un varco tra il fogliame, mi assalì un dubbio angoscioso: se lo sconosciuto senza volto fosse riuscito a introdursi nell'appartamento, la serra sarebbe
stata il luogo ideale per tendermi un agguato. Mi parve di cogliere nell'aria quel suo odore di carta bruciata: no, era un aroma di tabacco. Fui colto dal panico. In quella casa nessuno fumava e la pipa di Barceló, sempre spenta, era solo un gingillo.
In effetti, nella sala da musica aleggiavano volute di fumo. Il coperchio del pianoforte era sollevato. Attraversai la stanza e aprii la porta della bi-blioteca. Il chiarore che filtrava dal pergolato fu un sollievo. Le pareti, tap-pezzate di scaffali colmi di libri, formavano un ovale al cui centro troneg-giavano un tavolo da lettura e due poltrone da generale di divisione. Sape-vo che Clara teneva il romanzo di Carax in una vetrinetta accanto all'arco del pergolato. Mi avvicinai senza far rumore. Ero intenzionato a prendere il volume per consegnarlo a quel pazzo, così non ne avrei più sentito parla-re. Nessuno si sarebbe accorto che mancava, eccetto il sottoscritto.
Il libro di Julián Carax mi aspettava, come sempre, all'estremità di un ri-piano. Lo strinsi al petto, come se abbracciassi un vecchio amico che ero stato sul punto di tradire. Sono un giuda, pensai. Me ne sarei andato alla chetichella così come ero entrato. Avrei portato via il libro e sarei scom-parso per sempre dalla vita di Clara Barceló. Uscii dalla biblioteca e guar-dai verso la stanza di Clara, in fondo al corridoio. La immaginai a letto, addormentata. Immaginai di accarezzarle il lungo collo e di esplorare con la punta delle dita quel corpo che aveva turbato la mia giovane esistenza. Me ne stavo andando, rassegnato a lasciarmi alle spalle sei anni di chime-re, quando udii un mormorio: una voce profonda sussurrava e rideva nella stanza di Clara. Mi avvicinai pian piano e afferrai il pomolo dell'uscio con le mani che tremavano. Non potevo più tornare indietro: mi feci coraggio e spalancai la porta.
9
Clara giaceva nuda sulle lenzuola candide. Le mani del maestro Neri le accarezzavano le labbra, il collo e il seno. I suoi occhi inanimati fissavano il soffitto e il suo corpo accoglieva avido gli affondi del professore di mu-sica. Le dita che sei anni prima avevano esplorato il mio viso nella penom-bra della biblioteca universitaria ora afferravano le natiche del maestro, madide di sudore, conficcandogli le unghie nella carne con un desiderio disperato, animalesco. Ero annichilito. Li osservai per forse mezzo minuto fino a quando lo sguardo di Neri, dapprima incredulo, poi furioso, si posò su di me. Si fermò, ansimando. Clara, interdetta, si strinse al corpo del-
l'amante con un movimento sinuoso.
«Cosa c'è?» gemette. «Perché ti sei fermato?»
Gli occhi di Adrián Neri ardevano di rabbia.
«Aspetta» mormorò. «Torno subito.»
Neri scese dal letto e si avventò contro di me. Non me ne accorsi neppu-re. Non riuscivo a distogliere lo sguardo da Clara, sudata e ansimante, le costole visibili sotto la pelle e i seni tremanti di piacere. Il professore di musica mi agguantò per il collo e mi portò fuori dalla stanza di peso. Per quanto mi dimenassi, non riuscivo a liberarmi dalla stretta di Neri, che mi trascinava lungo i corridoi come fossi un sacco di stracci.
«Ti spacco le ossa, disgraziato» sibilò.
Aprì la porta e mi scaraventò sul pianerottolo. Il libro di Carax mi cadde dalle mani. Lui lo raccolse e me lo gettò in faccia.
«Se ti vedo ancora da queste parti o se vengo a sapere che hai avvicinato Clara per strada, giuro che ti spedisco in ospedale. Ti spacco la faccia e me ne infischio della tua età» disse. «È chiaro?»
Mi rialzai a fatica, con uno strappo nella giacca e l'orgoglio a brandelli.
«Come hai fatto a entrare?»
Non risposi. Neri sospirò, scuotendo la testa.
«Su, dammi le chiavi» ringhiò.
«Che chiavi?»
Bastò un manrovescio per farmi finire al tappeto. Mi rialzai con la bocca sanguinante e un ronzio all'orecchio sinistro, fastidioso come il fischio di un vigile urbano. Mi toccai il viso e mi accorsi di avere un labbro rotto. All'anulare del professore di musica brillava un anello con sigillo, mac-chiato di sangue.
«Le chiavi, ti ho detto.»
«Vada a farsi fottere.»
Il cazzotto mi centrò all'addome. Mi accasciai come un pupazzo rotto, scivolando lungo la parete. Neri mi tirò su prendendomi per i capelli, mi frugò nelle tasche e si impossessò delle chiavi. Io caddi a terra, reggendo-mi lo stomaco con le mani e piagnucolando per il dolore o forse per la rab-bia.
«Dica a Clara che...»
Mi sbatté la porta in faccia e mi ritrovai al buio. Cercai il libro nell'oscu-rità e tenendolo ben stretto discesi le scale rasentando i muri. Una volta fuori sputai sangue e respirai profondamente. Il freddo e il vento della not-te penetrarono attraverso i miei vestiti inzuppati. Il taglio sul labbro bru-
ciava.
«Si sente bene?» mi chiese una voce.
Era il vagabondo a cui avevo negato il mio aiuto poco prima. Lo rassicu-rai, vergognandomi da morire. Poi feci per andarmene.
«Aspetti almeno che spiova» suggerì il vagabondo.
Mi prese per un braccio e mi condusse nell'angolo del portico dove tene-va un fagotto e un sacco pieno di abiti vecchi e sporchi.
«Ho del vino. Non è cattivo. Ne beva un sorso, la riscalderà. E servirà a disinfettare quella ferita.»
Bevvi un sorso dalla bottiglia che mi tendeva. Sapeva di gasolio misto ad aceto, ma il calore dell'alcol mi calmò i nervi e lo stomaco. Qualche goccia cadde sulla ferita e io riuscii a vedere le stelle nella notte più cupa della mia vita.
«Buono, vero?» sorrise il barbone. «Coraggio, ne beva un altro sorso, che questo intruglio resuscita i morti.»
«No, grazie. Tenga» mormorai.
L'uomo bevve a garganella. Sembrava un impiegato ministeriale che non si fosse cambiato d'abito da almeno quindici anni. Mi tese la mano e io gliela strinsi.
«Fermín Romero de Torres, attualmente disoccupato. Molto piacere.»
«Daniel Sempere, idiota integrale. Il piacere è mio.»
«Non si sottovaluti. In una notte come questa le cose sembrano peggiori di quel che sono. Guardi me, nonostante tutto sono ottimista. Sono convin-to che il regime abbia i giorni contati e, in base agli indizi di cui dispongo, ritengo che gli americani non tarderanno a liberarci e a rispedire Franco a Melilla, dove aprirà un chiosco di bibite. Così potrò riavere il mio lavoro, la mia reputazione e il mio onore.»
«Di cosa si occupava?»
«Servizi segreti. Spionaggio di alto livello» dichiarò Fermín Romero de Torres. «Le posso solo dire che ero l'uomo di Maciá all'Avana.»
Un altro pazzo. Le notti di Barcellona ne offrivano un vasto campiona-rio. Per non parlare degli idioti come me.
«Senta, quel taglio è proprio brutto. L'hanno conciata per le feste, eh?»
Mi sfiorai le labbra che sanguinavano ancora.
«C'entra una donna?» chiese. «Poteva risparmiarselo. In questo paese, creda a me che ho girato il mondo, sono tutte frigide e bigotte. Proprio co-sì. Se penso alla mulatta che ho lasciato a Cuba... Una cosa da non creder-ci. Da non crederci. Nei Caraibi la femmina ti conquista a passo di danza,
ti si incolla addosso e ti sussurra: "Ay papito, fammi godere, fammi gode-re" e a un vero uomo, col sangue che gli bolle nelle vene, non resta che...»
Mi parve che Fermín Romero de Torres, o comunque si chiamasse, de-siderasse un degno interlocutore almeno quanto un bagno caldo, un piatto di salsiccia con lenticchie e degli abiti puliti. Gli diedi retta per un po', a-spettando che il dolore si calmasse. Non mi costò molta fatica, perché quel poveruomo aveva solo bisogno di qualcuno che facesse finta di ascoltarlo. Si apprestava a raccontarmi i dettagli tecnici di un piano per sequestrare la moglie di Franco quando notai che il temporale si spostava lentamente verso nord.
«Si sta facendo tardi» dissi rialzandomi.
Fermín Romero de Torres annuì tristemente e mi aiutò a tirarmi su, spazzolando via dai miei abiti inzuppati una polvere inesistente.
«Sarà per un'altra volta» concluse. «Sono troppo loquace. Comincio a parlare e... senta, a proposito del sequestro, che rimanga tra noi, eh?»
«Non si preoccupi. Sarò una tomba. E grazie per il vino.»
Mi avviai in direzione delle ramblas e dall'ingresso della piazza mi vol-tai a guardare le finestre buie dei Barceló. Avrei voluto odiare Clara, ma non ne ero capace. Il vero odio è un sentimento che si impara col tempo.
Giurai a me stesso che non l'avrei mai più rivista né nominata, che l'avrei cancellata dai miei ricordi. Stranamente, ero sereno. La furia che mi aveva spinto a uscire di casa in piena notte era svanita. Temetti che si sarebbe ri-presentata, ancora più violenta, il giorno successivo; temetti di soccombe-re, vittima della gelosia e della vergogna, quando le esperienze vissute quella notte si fossero sedimentate nel mio cuore. Mancavano poche ore all'alba e mi rimaneva ancora una cosa da fare, prima di tornare a casa con la coscienza tranquilla.
Calle Arco del Teatro era una fenditura nella penombra. Un rivolo d'ac-qua sporca scorreva nel bel mezzo della via penetrando nel cuore del Raval con la lentezza di un corteo funebre. Ritrovai il vecchio portone di legno e la facciata barocca dove, sei anni prima, mi aveva portato mio padre. Mi riparai dalla pioggia sotto il portone che puzzava di piscio e legno umido. Il Cimitero dei Libri Dimenticati emanava più che mai un odore di morte. Non ricordavo il batacchio raffigurante il volto di un diavoletto; lo afferrai per le corna e bussai tre volte. All'interno risuonò l'eco dei colpi. Bussai al-tre sei volte, più forte, fino a quando sentii una fitta alla mano. Trascorsero vari minuti e cominciai a pensare che in quel luogo non abitasse più nes-
suno. Mi rannicchiai contro la porta e presi il libro di Carax dalla giacca. Lo aprii e rilessi le prime righe:
Quell'estate piovve tutti i giorni, e anche se molti sostenevano che era una punizione divina perché in paese avevano aperto un casinò di fianco alla chiesa, io sapevo che la colpa era mia e soltanto mia, per-ché avevo imparato a mentire e le mie labbra conservavano ancora le ultime parole di mia madre: non ho mai amato l'uomo che ho sposato, ma un altro. Mi hanno ingannata dicendomi che era caduto in guerra. Cercalo e digli che sono morta pensando a lui, perché è lui il tuo vero padre.
Sorrisi al ricordo della lettura febbrile di quella lontana notte d'estate. Chiusi il libro e mi disposi a bussare per la terza e ultima volta. Non avevo ancora sfiorato il batacchio che il portone si aprì quanto bastava per mo-strare il profilo del guardiano, illuminato da una lanterna a olio.
«Salve» sussurrai. «Isaac, vero?»
Lui mi osservò impassibile. Il chiarore della lanterna metteva in risalto i suoi lineamenti spigolosi e gli conferiva un'indubbia somiglianza col dia-voletto del batacchio.
«Lei è Sempere figlio» disse.
«Ha un'eccellente memoria.»
«E lei non ha nessuna decenza. Lo sa che ore sono?»
Il suo sguardo acuto aveva già individuato la presenza di un libro sotto la mia giacca. Mi fece un cenno interrogativo. Glielo mostrai.
«Carax» disse. «Le persone che in questa città sanno chi è o hanno letto questo romanzo non arrivano a dieci.»
«Ma una di loro si sta dando da fare per bruciarlo. Non riesco a immagi-nare un nascondiglio più sicuro di questo.»
«Questo è un cimitero, non una cassaforte.»
«Proprio così. Il libro deve essere sepolto dove nessuno lo può trovare.»
Isaac si guardò intorno e mi fece segno di sgusciare dentro. L'atrio, buio come l'altra volta, odorava di cera bruciata e di umidità. Si udiva un goc-ciolio intermittente. Isaac mi chiese di reggere il lume mentre lui pescava dalla sua palandrana un mazzo di chiavi che avrebbe suscitato l'invidia di un secondino. Senza la minima incertezza, trovò quella giusta e la intro-dusse in un chiavistello protetto da una corazza trasparente piena di relais e ruote dentate che sembrava un enorme carillon. L'ingranaggio, quasi fosse
un robot, schioccò rumorosamente e mise in moto una serie di leve che diedero vita a un incredibile balletto meccanico, bloccando il portone con un tramaglio di sbarre d'acciaio che si incastravano in una serie di orifizi del muro.
«Neanche fosse il Banco de España» commentai. «Sembra un'invenzio-ne uscita dai libri di Jules Vernes.»
«Di Kafka» precisò Isaac, mentre riprendeva il lume e si dirigeva verso l'interno dell'edificio. «Quando si renderà conto che i libri fanno compa-gnia ma portano solo miseria e deciderà di svaligiare una banca o di fon-darne una, che è lo stesso, venga a trovarmi e le spiegherò un paio di cose su chiavistelli e serrature.»
Lo seguii lungo il corridoio affrescato con angeli e figure mitologiche. La lanterna proiettava una debole luce rossastra. Isaac zoppicava un po', e la sua palandrana di flanella sfilacciata aveva l'aspetto di un drappo funera-rio. Mi venne da pensare che quel personaggio, una via di mezzo tra Ca-ronte e il bibliotecario di Alessandria, si sarebbe trovato a proprio agio tra le pagine di un libro di Julián Carax.
«Cosa sa di Carax?» domandai.
Isaac si fermò in fondo al corridoio e mi guardò con aria indifferente.
«Non molto. So quello che mi hanno raccontato.»
«Chi?»
«Una persona che l'ha conosciuto bene. O almeno così credeva.»
Sentii una fitta di curiosità.
«Quando è successo?»
«Quando avevo ancora tutti i capelli. Lei era in fasce e, a dire il vero, non mi sembra che abbia fatto molti progressi. Si guardi: sta tremando come una foglia» disse.
«Ho i vestiti bagnati e qui dentro fa molto freddo.»
«La prossima volta mi avvisi, così accenderò il riscaldamento per poterla ricevere con tutti gli onori, visto che è tanto cagionevole. Venga, andiamo nel mio ufficio. Lì c'è una stufa. Le darò qualcosa da mettersi addosso mentre le si asciugano i vestiti. E anche un po' di mercurocromo e di acqua ossigenata, dato che sembra appena uscito dal commissariato di Vía Laye-tana.»
«Non si disturbi, davvero.»
«Nessun disturbo. Lo faccio per me, non per lei. Qui dentro sono io a imporre le regole, e gli unici morti sono i libri. Ci mancherebbe solo che si pigliasse una polmonite e mi toccasse chiamare l'obitorio. Del libro ci oc-
cuperemo più tardi. In trentotto anni non ne ho ancora visto uno che si metta a correre.»
«Non sa quanto le sono grato...»
«Non dica sciocchezze. Se l'ho fatta entrare è perché ho grande stima di suo padre, sennò l'avrei lasciata sulla porta. Abbia la cortesia di seguirmi. Se fa il bravo, può darsi che le racconti quello che so del suo amico Ca-rax.»
Fu allora, mentre credeva che non potessi vederlo, che scorsi sulle sue labbra un sorriso da furfante: Isaac si divertiva a interpretare il suo ruolo di cerbero. Anch'io sorrisi. Ormai non avevo più dubbi: il volto da diavoletto del batacchio era il suo.
10
Isaac mi mise sulle spalle un paio di coperte leggere e mi offrì una be-vanda fumante che sapeva di cioccolata e ratafià.
«Mi stava dicendo di Carax...»
«Non c'è molto da dire. La prima persona che me ne parlò fu Toni Cabe-stany, l'editore. È stato vent'anni fa, quando ancora esisteva la casa editri-ce. Ogni volta che tornava da un viaggio a Londra, a Parigi o a Vienna, Cabestany mi veniva a trovare per fare quattro chiacchiere. Eravamo rima-sti vedovi tutti e due e lui si lamentava del fatto che ormai eravamo sposati coi libri, io con quelli vecchi e lui con quelli contabili. Eravamo buoni a-mici. Una volta mi raccontò che aveva appena acquistato per quattro soldi i diritti dei romanzi di un certo Julián Carax, un barcellonese che viveva a Parigi. Credo che fosse il 1928 o il 1929. A quanto pare, Carax di notte suonava il piano in un bordello di infima categoria a Pigalle e di giorno scriveva romanzi in una soffitta di Saint Germain. Parigi è l'unica città al mondo in cui morire di fame è ancora considerata un'arte. In Francia, Ca-rax aveva pubblicato un paio di romanzi che dal punto di vista commercia-le erano stati un fallimento. A Parigi era un illustre sconosciuto, ma Cabe-stany era tirchio.»
«Carax scriveva in spagnolo o in francese?»
«Chi lo sa, probabilmente in entrambe le lingue. Sua madre era francese, insegnante di musica, credo, e lui viveva a Parigi da quando aveva dician-nove o vent'anni. La casa editrice riceveva i manoscritti in spagnolo; che fossero una traduzione o l'originale non faceva differenza. La lingua prefe-rita da Cabestany era quella dei soldi, il resto aveva poca importanza. Si
era illuso di poter piazzare qualche migliaio di copie sul mercato spagno-lo.»
«E invece?»
Isaac aggrottò la fronte e mi versò un'altra tazza di quella bevanda cor-roborante.
«La casa rossa, quello che ha venduto di più, deve aver sfiorato le no-vanta copie.»
«E continuò a pubblicare Carax anche se ci perdeva?»
«Proprio così, e non so spiegarmi il perché. Cabestany non era quel che si dice un romantico. Ma ogni uomo custodisce dei segreti... Tra il 1928 e il 1936 gli pubblicò otto romanzi. In realtà Cabestany faceva i soldi con i catechismi e una collana di feuilleton per signorine che avevano come pro-tagonista Violeta LaFleur, un'eroina di provincia, e che si vendevano nelle edicole. I libri di Carax li pubblicava per il puro piacere di farlo e per con-futare le teorie di Darwin.»
«Che ne è stato del signor Cabestany?»
Isaac sospirò alzando gli occhi al cielo.
«L'età ha presentato il conto anche a lui. Si ammalò ed ebbe qualche problema economico. Nel 1936, il figlio maggiore gli subentrò nella dire-zione della casa editrice, ma era uno di quelli che non sono neanche capaci di leggere l'etichetta delle mutande. L'impresa fallì in meno di un anno. Per fortuna, a Cabestany fu risparmiato di vedere i suoi eredi che distruggeva-no il frutto di una vita di lavoro e la guerra che devastava il paese. L'ha uc-ciso un'embolia la notte di Ognissanti, mentre fumava un Cohiba e teneva sulle ginocchia una ragazza di venticinque anni. Il figlio era fatto di tutt'al-tra pasta, tronfio come sanno esserlo solo gli imbecilli. Anzitutto, cercò di vendere lo stock dei libri in catalogo, l'eredità di suo padre, per trasformar-li in cellulosa o qualcosa di simile. Un amico, anche lui pieno di sé, con una villa a Caldetas e una Bugatti, lo aveva convinto che i fotoromanzi e il Mein Kampf si sarebbero venduti come il pane e che avrebbe avuto biso-gno di grandi quantità di cellulosa per soddisfare le richieste.»
«E poi?»
«Non ebbe il tempo di realizzare quel progetto. Un giorno si presentò un tale che gli fece una proposta molto generosa. Voleva comprare tutti i ro-manzi di Julián Carax ancora invenduti e si offriva di pagarli il triplo del loro valore.»
«Non mi dica altro. Per bruciarli» mormorai.
Isaac sorrise, sorpreso.
«Sì. Allora non è vero che non sapeva niente.»
«Chi era quella persona?»
«Un certo Aubert o Coubert, non ricordo bene.»
«Laín Coubert?»
«Lo conosce?»
«È il nome di un personaggio di L'ombra del vento, l'ultimo romanzo di Carax.»
Isaac si accigliò.
«Nel romanzo, Laín Coubert è il nome usato dal diavolo» dissi.
«Un tantino teatrale, direi. Ma chiunque egli fosse, non si può negare che avesse un senso dell'umorismo notevole» affermò Isaac.
Ricordando il mio recente incontro con lo sconosciuto, non riuscii a tro-vargli alcuna qualità, ma non volli contraddire Isaac.
«Quel tale, Coubert, o comunque si chiamasse, aveva il viso bruciato, sfigurato?» chiesi.
Isaac mi lanciò uno sguardo tra l'ironico e il preoccupato.
«Non ne ho la più pallida idea. La persona che mi ha riferito la storia non l'ha mai visto e ne è venuta a conoscenza perché Cabestany figlio, il giorno dopo, lo ha raccontato alla sua segretaria. Non ho mai sentito parla-re di facce bruciate. Quel tipo sembra davvero uscito dalle pagine di un romanzo d'appendice.»
Scrollai la testa per sdrammatizzare.
«Com'è andata a finire? Il figlio dell'editore ha venduto i libri a Cou-bert?» domandai.
«Quell'idiota tronfio voleva fare il furbo. Chiese più soldi di quelli che Coubert gli aveva offerto e l'altro non accettò. Qualche giorno più tardi, di notte, il deposito della casa editrice Cabestany a Pueblo Nuevo bruciò fino alle fondamenta. E gratis.»
«Cos'è successo ai libri di Carax? Sono andati tutti perduti?»
«Quasi tutti. Per fortuna, la segretaria di Cabestany, quando seppe della proposta, ebbe un presentimento e, di sua iniziativa, portò via dal deposito un esemplare di ogni romanzo di Carax. Era lei che teneva i contatti con lo scrittore e, nel corso degli anni, fra loro era nata una sorta di amicizia. Si chiamava Nuria e forse era l'unica persona della casa editrice, se non di tutta Barcellona, a leggere i romanzi di Carax. Nuria è attratta dalle cause perse. Da bambina portava a casa animali abbandonati. Poi si è messa ad adottare scrittori maledetti, forse perché suo padre avrebbe desiderato di-ventarlo e non ci è mai riuscito.»
«Ne parla come se la conoscesse bene.»
Isaac addolcì il suo ghigno da diavoletto.
«Più di quanto lei stessa creda. È mia figlia.»
Ero sempre più stupito.
«A quanto so, Carax tornò a Barcellona nel 1936. C'è chi sostiene che sia morto qui. Aveva ancora parenti in città? Qualcuno che possa darmi sue notizie?» chiesi.
«Temo di no. I genitori di Carax si erano separati parecchi anni prima, credo. La madre era partita per l'America del Sud e là si era risposata. Con il padre, che io sappia, non aveva contatti da quando era andato a Parigi.»
«Perché?»
«E che ne so? Alla gente piace complicarsi la vita, come se non fosse già abbastanza complicata.»
«Sa se è ancora vivo?»
«Me lo auguro, era più giovane di me. Ma io ormai esco poco e non leg-go più i necrologi da anni, perché quelli che conosci muoiono come mo-sche e ci si rimane male. A dire il vero Carax era il cognome della madre, il padre si chiamava Fortuny. Di lui so solo che aveva una cappelleria nella Ronda de san Antonio e che non andava d'accordo col figlio.»
«Non potrebbe darsi, allora, che una volta tornato a Barcellona Carax si sia messo in contatto con sua figlia Nuria, dato che tra loro c'era una certa amicizia e lui non era in buoni rapporti col padre?»
Isaac fece una risata amara.
«Forse sono la persona meno indicata per risponderle. A un padre certe cose non si confidano. So che una volta, nel '32 o nel '33, Nuria andò a Pa-rigi per conto di Cabestany e fu ospite di Julián Carax per un paio di setti-mane. Questo l'ho saputo da Cabestany, perché lei mi disse che aveva al-loggiato in un hotel. All'epoca mia figlia era nubile e io avevo il sospetto che Carax si fosse preso una sbandata per lei. Nuria è il tipo di donna di cui ci si innamora a prima vista.»
«Intende dire che erano amanti?»
«Le piacciono i romanzi d'appendice, eh? Non mi sono mai intromesso nella vita privata di Nuria perché, a dire il vero, neppure la mia è immaco-lata. Se un giorno anche lei avrà una figlia, benedizione che non auguro a nessuno, in quanto è matematicamente certo che prima o poi le spezzerà il cuore, insomma, cosa stavo dicendo, sì, che se un giorno avrà una figlia, comincerà, senza rendersene conto, a dividere gli uomini in due categorie: i potenziali amanti e tutti gli altri. Chi lo nega, mente sapendo di mentire.
Io avevo l'impressione che Carax appartenesse al primo gruppo, pertanto, che fosse un genio o un povero disgraziato, io l'ho sempre considerato un mascalzone.»
«Può essersi sbagliato.»
«Non si offenda, ma lei è ancora troppo giovane e in fatto di donne ha tanta esperienza quanta ne ho io a preparare panellets.»
«Anche questo è vero» convenni. «Che fine hanno fatto i libri che sua figlia ha preso dal deposito?»
«Sono qui.»
«Qui?»
«Da dove crede sia saltato fuori il libro che ha scelto quando è venuto con suo padre?»
«Non capisco.»
«Be', è molto semplice. Una notte, poco dopo l'incendio del deposito di Cabestany, mia figlia Nuria venne qui. Era molto nervosa, diceva che quel tale, Coubert, la stava seguendo per impossessarsi dei libri e distruggerli. Nuria aveva pensato di nascondere qui i romanzi di Carax. Entrò nel salo-ne e sparì nel labirinto come se volesse seppellire un tesoro. Non le chiesi dove li aveva nascosti e lei non me lo disse. Prima di andarsene mi promi-se che, non appena avesse rintracciato Carax, sarebbe tornata a riprendersi i libri. Ebbi l'impressione che fosse ancora innamorata di quell'uomo, e le domandai solo se lo aveva visto di recente, se aveva avuto sue notizie. Mi rispose che non sapeva più nulla da mesi, in pratica da quando le aveva spedito da Parigi le correzioni del manoscritto dell'ultimo romanzo. Non so se fosse sincera, ma so per certo che da quel giorno Nuria non ebbe più no-tizie di Carax e che i libri rimasero qui, a far polvere.»
«Pensa che sua figlia sarebbe disposta a parlare con me di questa sto-ria?»
«Mah, se si tratta di parlare mia figlia è sempre disponibile. Mi chiedo se potrà raccontarle più di quanto non le abbia già detto il sottoscritto. È passato molto tempo. Le confesso che i nostri rapporti sono piuttosto fred-di. Ci vediamo una volta al mese e pranziamo qui vicino. Anni fa si è spo-sata con un bravo ragazzo, un giornalista, un po' sventato, a dire il vero, di quelli che si mettono sempre nei guai per la politica, ma molto generoso. Si è sposata con il rito civile, senza invitare nessuno. Io l'ho saputo un me-se dopo. Il marito si chiama Miquel. Suppongo che non sia orgogliosa di suo padre, e non la biasimo. Adesso è molto cambiata, pensi che ha addi-rittura imparato a lavorare a maglia e non si veste più come Simone de Be-
auvoir. Non mi stupirei se uno di questi giorni venissi a sapere che sono diventato nonno. Lei lavora in casa, traduce dal francese e dall'italiano. Chissà da chi ha ereditato questo talento, da me no di sicuro. Ecco, le scri-vo l'indirizzo, ma forse non le conviene dire che la mando io.»
Isaac scarabocchiò qualche parola su un pezzo di giornale e me lo tese.
«La ringrazio. Chissà, magari ricorda qualcosa...»
Isaac sorrise mesto.
«Da bambina ricordava tutto. Tutto. Poi i figli crescono e non si sa più cosa pensano e cosa provano. Forse è giusto che sia così. Non le parli di quello che le ho raccontato, d'accordo?»
«Non si preoccupi. Secondo lei, pensa ancora a Carax?»
«Come faccio a saperlo? Non so neanche se era veramente innamorata. È un segreto così intimo che non si confida a nessuno, e Nuria adesso è una donna sposata. Alla sua età, Daniel, io avevo una fidanzatina che si chiamava Teresita Boadas e cuciva grembiuli per le telerie Santamaría di calle Comercio. Aveva sedici anni, due meno di me, ed è stata il mio pri-mo amore. Non mi guardi così, so bene che voi giovani non riuscite a cre-dere che anche i vecchi hanno conosciuto l'amore. Il padre di Teresita ven-deva ghiaccio al mercato del Borne ed era muto dalla nascita. Non può immaginare la mia paura il giorno in cui gli chiesi la mano della figlia e lui mi fissò negli occhi per cinque lunghissimi minuti, con un punteruolo in mano. Stavo risparmiando da due anni per comprare gli anelli quando Te-resita si ammalò. Un'infezione che aveva preso al lavoro, a quanto pare. Sei mesi dopo morì di tubercolosi. Ricordo ancora i mugolii del muto du-rante il funerale al cimitero di Pueblo Nuevo.»
Isaac tacque. Io non mi azzardavo neppure a respirare. Un attimo dopo alzò gli occhi e mi sorrise.
«Stiamo parlando di cinquantacinque anni fa. Ma a essere sincero, non passa giorno senza che pensi a Teresita, alle nostre passeggiate fra i ruderi dell'Esposizione Universale del 1888 e a come mi canzonava quando le re-citavo le poesie che componevo nel retrobottega della drogheria di mio zio Leopoldo. Mi ricordo persino il viso di una zingara che ci lesse la mano sulla spiaggia del Bogatell e ci disse che non ci saremmo mai separati. In un certo senso, era la verità. Cosa posso dirle? Sì, credo che Nuria pensi ancora a quell'uomo e non potrò mai perdonare Carax per questo. Lei è troppo giovane per sapere che queste sofferenze lasciano un segno in-delebile. Se vuole il mio parere, penso che Carax fosse un seduttore e che si sia portato il cuore di mia figlia nella tomba o all'inferno. Le chiedo solo
un favore: se riuscirà a parlare con Nuria o a vederla, mi faccia sapere co-me sta, se è felice. E se ha perdonato suo padre.»
Poco prima dell'alba, reggendo il lume a olio, mi addentrai per la secon-da volta nei labirinti del Cimitero dei Libri Dimenticati. Immaginavo la fi-glia di Isaac che camminava lungo gli stessi corridoi senza fine, mossa dal-la mia identica volontà: salvare il libro. All'inizio credetti di poter ricordare il percorso compiuto la mattina in cui mio padre, tenendomi per mano, mi aveva accompagnato in quel luogo misterioso, ma ben presto dovetti accet-tare l'idea che era impossibile orientarsi in quell'intreccio di corridoi. Per ben tre volte mi ostinai a seguire lo stesso cammino, certo di averlo memo-rizzato, e mi ritrovai al punto di partenza, dove c'era ad attendermi Isaac, sorridente.
«Pensa di tornare a riprenderselo, prima o poi?» chiese.
«Certo.»
«Allora potrebbe ricorrere a un piccolo trucco.»
«Un trucco?»
«Ragazzo mio, lei mi sembra un po' duro di comprendonio. Pensi al Mi-notauro.»
Ci misi un po' a capire il suggerimento. Isaac prese dalla tasca un vec-chio temperino e me lo porse.
«Faccia una tacca ogni volta che imbocca un corridoio, un segno che so-lo lei possa riconoscere. È un legno vecchio e talmente pieno di graffi e di incisioni che se ne accorgerebbe solo chi sa quel che cerca.»
Seguii il suo consiglio e ripartii verso il cuore del labirinto. Ogni volta che cambiavo direzione incidevo una c e una x sugli spigoli degli scaffali situati alla confluenza dei corridoi. Venti minuti dopo, nelle viscere dell'e-dificio, individuai il luogo in cui avrei seppellito il romanzo. Sulla mia de-stra avevo notato una lunga fila di volumi sull'alienazione dei beni, redatti dall'insigne Jovellanos, i quali, a mio parere, avrebbero sviato i sospetti delle menti più contorte. Ne spostai alcuni ed esaminai i libri della seconda fila. Su un letto di polvere riposavano diverse commedie di Moratín men-tre una preziosa edizione di Curial e Güelfa se ne stava accanto al Tracta-tus Logico Politicus di Spinoza. Alla fine infilai il libro di Carax tra un bollettino di sentenze giudiziarie e alcuni romanzi di Juan Valera, un'anto-logia poetica del Siglo de Oro che decisi di portarmi via. Mi accomiatai dal romanzo con un cenno d'intesa, quindi ricollocai sullo scaffale le opere di Jovellanos, murando il libro dietro quella prosa granitica.
Tornai sui miei passi seguendo le tacche che avevo inciso. Ma mentre avanzavo nella penombra, fui assalito dallo sconforto. Se infatti, per puro caso, io avevo scoperto tutto un mondo in un unico libro, tra gli innumere-voli conservati in quella necropoli, altre decine di migliaia sarebbero finiti nel dimenticatoio. Ebbi la sensazione di essere circondato da milioni di pagine abbandonate, da anime e mondi senza padrone che si inabissavano in un gorgo tenebroso mentre fuori di lì il genere umano, tanto più smemo-rato quanto più convinto di essere saggio, scivolava verso un inconsapevo-le oblio.
Tornai a casa all'alba. Aprii la porta in silenzio ed entrai senza accendere la luce. Dall'ingresso vidi la sala da pranzo con la tavola imbandita per la mia cena di compleanno. La torta, intatta, aspettava ancora di essere taglia-ta, il servizio buono di essere usato. Mio padre era seduto in poltrona e guardava la finestra. Era sveglio, indossava ancora il suo abito elegante e teneva fra le dita una sigaretta da cui si levavano pigri anelli di fumo. Era-no anni che non lo vedevo fumare.
«Buongiorno» sussurrò, mentre spegneva la sigaretta in un posacenere pieno di lunghi mozziconi.
Lo guardai senza rispondergli. I suoi occhi erano velati di tristezza.
«Clara ha telefonato varie volte ieri sera, un paio d'ore dopo che eri usci-to» disse. «Sembrava preoccupata. Ha lasciato detto di richiamare, a qual-siasi ora.»
«Non ho intenzione di chiamarla né di rivederla» affermai.
Mio padre si limitò ad annuire in silenzio. Mi lasciai cadere su una sedia e guardai il pavimento.
«Dove sei stato?»
«In giro.»
«Mi hai fatto morire di paura.»
Nella sua voce non c'era nessun tono di rimprovero, ma solo una pro-fonda stanchezza.
«Lo so e mi dispiace» risposi.
«Cosa ti sei fatto al viso?»
«Sono scivolato sul marciapiede bagnato e sono caduto.»
«Quel marciapiede doveva avere un destro potente. Dobbiamo metterci un po' di pomata.»
«Non è niente. Non mi fa male» mentii. «Voglio solo dormire. Non mi reggo in piedi.»
«Prima di andare a letto apri almeno il tuo regalo» disse mio padre.
Mi indicò l'elegante confezione che la sera prima aveva appoggiato sul tavolino della sala da pranzo. Esitai, poi, a un suo cenno, afferrai il pac-chetto, lo soppesai e lo porsi a mio padre senza neanche aprirlo.
«Sarà meglio che tu lo restituisca. Non merito regali.»
«Si regala qualcosa per il piacere di farlo, non perché qualcuno lo meriti o meno» disse mio padre. «E ormai non posso più restituirlo. Aprilo.»
Scartai l'accurata confezione nella luce pallida del mattino. Era un astuc-cio di legno intagliato, con bordi dorati. Si aprì con un suono squisito, da meccanismo di orologeria. All'interno dell'astuccio, foderato di velluto blu, c'era la Montblanc Meinsterstück di Victor Hugo, in tutta la sua bellezza. La presi e la contemplai in controluce. Sulla pinza d'oro del cappuccio era stato inciso:
Daniel Sempere, 1953
Guardai mio padre a bocca aperta. Credo di non averlo mai visto così fe-lice. Si alzò dalla poltrona e mi abbracciò. Non riuscii a dire niente, e affi-dai al silenzio la mia emozione.
Forma e sostanza
1953
11
Quell'anno, l'autunno ricoprì Barcellona con un manto di foglie secche che formavano mulinelli nelle strade. Il ricordo della notte del mio com-pleanno mi aveva indurito il cuore o, più semplicemente, la vita aveva concesso una tregua alle mie ambasce per indurmi a maturare. Io stesso ero sorpreso del fatto che non pensavo quasi più a Clara Barceló, a Julián Ca-rax o a quell'arrogante senza volto che puzzava di carta bruciata e usava il nome di un personaggio di un libro. A novembre era passato un mese sen-za che fossi più andato in plaza Real a guardare le finestre di Clara. Il me-rito, devo confessarlo, non fu del tutto mio. In libreria c'era molto lavoro e mio padre e io eravamo in difficoltà.
«Di questo passo saremo costretti a prendere qualcuno che ci aiuti a cer-care i libri per i clienti» rifletteva mio padre. «Dovrebbe essere una perso-na speciale, un po' poeta, un po' detective, con poche pretese economiche e
disposto a compiere missioni impossibili.»
«Credo di conoscere il candidato adatto» dissi.
Trovai Fermín Romero de Torres al solito posto, sotto i portici di calle Fernando. Stava rimettendo insieme la prima pagina della "Hoja del Lu-nes" con pezzi di giornale raccolti dalla spazzatura. L'articolo di fondo par-lava di opere pubbliche e sviluppo.
«Perdiana! Un'altra diga?» lo sentii esclamare. «Questi fascisti ci tra-sformeranno in un paese di beghine e di batraci.»
«Buongiorno» sussurrai. «Si ricorda di me?»
Il vagabondo alzò lo sguardo e fece un gran sorriso.
«Chi si vede! Cosa mi racconta di bello, amico mio? Accetta un sorso di vino, vero?»
«Oggi offro io» dissi. «Ha fame?»
«Be', non direi di no a un buon piatto di frutti di mare, ma sono disposto a prendere in considerazione altre proposte.»
Mentre ci dirigevamo verso la libreria, Fermín Romero de Torres mi fe-ce un resoconto dettagliato dei suoi spostamenti delle ultime settimane, volti a eludere la sorveglianza delle forze di sicurezza dello Stato, incarna-te, nella fattispecie, da un certo ispettore Fumero col quale sembrava avere parecchi conti in sospeso.
«Fumero?» chiesi stupito. Era il nome del soldato che aveva ucciso il padre di Clara Barceló nel castello di Montjuïc all'inizio della guerra.
L'ometto assentì sbiancando. Aveva l'aria affamata, era sporco e puzzava come uno che vive da mesi per strada. Non aveva la minima idea di dove lo stavo portando, e colsi nel suo sguardo un lampo di inquietudine, un'an-sia crescente che si sforzava di dissimulare parlando senza sosta. Giunti davanti al negozio, mi guardò preoccupato.
«Coraggio, entri. Questa è la libreria di mio padre, glielo voglio presen-tare.»
Il vagabondo trasalì.
«No, no, non sono presentabile, questo è un esercizio di un certo livello; la farei vergognare...»
Mio padre comparve sulla porta, valutò il barbone con un'occhiata e mi guardò con la coda dell'occhio.
«Papà, questo è Fermín Romero de Torres.»
«Ai suoi ordini» disse, timoroso, il barbone.
Mio padre gli sorrise tendendogli la mano. L'altro non osava stringer-
gliela, mortificato per il proprio aspetto.
«È meglio che me ne vada» balbettò.
Mio padre lo prese gentilmente per un braccio.
«Niente affatto, mio figlio mi ha detto che avrebbe pranzato con noi.»
Il barbone ci fissò sbigottito.
«Perché nel frattempo non viene di sopra e si fa un bel bagno caldo?» disse mio padre. «Poi, se crede, andremo al ristorante Can Solé.»
Fermín Romero de Torres farfugliò alcune parole incomprensibili. Mio padre, senza smettere di sorridergli, lo fece salire in casa, trascinandolo quasi su per le scale, mentre io chiudevo il negozio. Dopo molte trattative, riuscimmo a togliergli i suoi stracci e a farlo entrare nella vasca da bagno. Il poverino tremava come un pollo spennato e così, nudo, sembrava uscito da una foto di guerra. Aveva dei segni profondi sui polsi e sulle caviglie, e il torace e la schiena erano solcati da spaventose cicatrici. Mio padre e io ci scambiammo uno sguardo inorridito.
Il barbone si lasciò lavare come un bambino. Mentre cercavo degli abiti puliti nel baule, sentivo mio padre che gli parlava. Trovai un vestito smes-so, una vecchia camicia e un po' di biancheria. Di quel che indossava il mendicante non si potevano riutilizzare neppure le scarpe, così ne scelsi un paio che mio padre non metteva quasi mai perché gli erano strette. Raccol-si i suoi stracci e li avvolsi in un vecchio giornale, compreso un paio di mutande che per colore e consistenza ricordavano un prosciutto stagionato, e li buttai nel secchio dell'immondizia. Quando tornai in bagno, mio padre stava radendo Fermín Romero de Torres nella vasca. Pallido e profumato di sapone, l'uomo dimostrava vent'anni di meno. A quanto pareva, avevano già fatto amicizia. Fermín Romero de Torres, forse per effetto dei sali da bagno, era partito in quarta.
«Mi creda, signor Sempere, se il destino non mi avesse assegnato un ruolo nell'ambito dello spionaggio internazionale, la mia vocazione, dico sul serio, sarebbero state le lettere. Sin da bambino ho sentito il richiamo della poesia e ho desiderato essere un Sofocle o un Virgilio, perché le tra-gedie e le lingue antiche mi fanno venire la pelle d'oca, ma mio padre, che Dio l'abbia in gloria, era un uomo di vedute ristrette e sognava che uno dei suoi figli entrasse nella Guardia Civil, e nessuna delle mie sette sorelle sa-rebbe mai stata accettata nella Benemerita, malgrado la fitta peluria che hanno sempre avuto le donne della mia famiglia, una caratteristica eredita-ta dalla nonna materna. Sul letto di morte, mio padre mi fece giurare che se non avessi indossato il tricorno, sarei almeno diventato un funzionario sta-
tale, rinunciando a ogni velleità letteraria. Io sono un tipo all'antica e a un padre, anche se è un asino, bisogna obbedire, lei mi capisce. In ogni caso, non pensi che negli anni dell'avventura abbia trascurato di coltivare l'intel-letto. Ho letto un bel po' e le potrei citare a memoria interi brani di La vida es sueño.»
«Faccia il bravo, indossi questi vestiti e stia tranquillo che qui nessuno mette in discussione la sua sconfinata cultura» dissi io, accorrendo in aiuto di mio padre.
Lo sguardo di Fermín Romero de Torres trasudava gratitudine. Uscì dal-la vasca da bagno e mio padre lo avvolse in un asciugamano. Lui rideva, godendosi il contatto del telo pulito sulla pelle. Lo aiutai a infilarsi gli abi-ti, di qualche taglia più grandi della sua. Mio padre si tolse la cintura e me la porse perché gliela infilassi ai pantaloni.
«È un figurino» diceva mio padre. «Vero, Daniel?»
«Sembra quasi un divo del cinema.»
«Lasci perdere, non sono più quello di una volta. Ho perso la mia mu-scolatura erculea in prigione e da allora...»
«Be', in ogni caso ha un bell'aspetto e assomiglia a Charles Boyer» re-plicò mio padre. «E adesso vorrei farle una proposta.»
«Per lei, signor Sempere, sono disposto anche a uccidere. Basta che mi dica il nome dell'interessato e lo elimino senza farlo soffrire.»
«Non sarà necessario. Volevo proporle di lavorare con noi. Si tratta di rintracciare libri rari per i nostri clienti. È un lavoro da archeologo della letteratura, per così dire, e richiede una buona conoscenza dei classici e delle regole del mercato nero. Non posso pagarla molto, per il momento, ma mangerà con noi e, finché non le troveremo una buona pensione, potrà rimanere a casa nostra, se è d'accordo.»
Il mendicante, incredulo, guardò prima mio padre e poi me.
«Cosa ne pensa?» chiese mio padre. «Si unisce alla squadra?»
Fermín Romero de Torres scoppiò a piangere.
Col suo primo stipendio, Fermín Romero de Torres si comprò un cappel-lo da divo del cinema e un paio di galosce e volle invitare mio padre e me a mangiare uno stufato di coda di toro, specialità del lunedì di un ristorante a pochi passi da plaza Monumental. Mio padre gli aveva trovato una stan-za in una pensione di calle Joaquín Costa dove, grazie all'amicizia della nostra vicina Merceditas con la padrona, Fermín Romero de Torres evitò di compilare il modulo con le generalità e così poté stare lontano dalle
grinfie dell'ispettore Fumero e dei suoi sgherri. Ogni tanto ripensavo alle terribili cicatrici che gli coprivano il corpo ed ero tentato di fargli delle domande, sospettando che c'entrasse l'ispettore Fumero, ma qualcosa nel suo sguardo mi induceva a lasciar perdere. Prima o poi ce lo avrebbe rac-contato lui stesso. Tutte le mattine alle sette, Fermín ci aspettava sulla por-ta della libreria, vestito di tutto punto e con un sorriso smagliante, disposto a lavorare dodici ore, o anche di più, senza un attimo di sosta. Gli era ve-nuta una passione sfrenata per il cioccolato e i dolci di pastasfoglia che uguagliava il suo entusiasmo per i grandi della tragedia greca, e aveva messo su qualche chilo. Era sempre perfettamente sbarbato, si pettinava i capelli all'indietro con la brillantina e si era fatto crescere dei baffetti alla moda. Trenta giorni dopo essere uscito dalla nostra vasca da bagno, l'ex mendicante era irriconoscibile. Ma la vera sorpresa fu vederlo sul campo di battaglia. Quando mi aveva parlato dei suoi trascorsi di spia avevo cre-duto che vaneggiasse e invece il suo istinto da detective era infallibile. Af-fidate a lui, le richieste più insolite venivano evase in pochi giorni, addirit-tura in qualche ora. Non c'era titolo che non conoscesse, né astuzia a cui non ricorresse per avere un libro a un buon prezzo. Grazie alle sue doti di imbonitore, riusciva a intrufolarsi nelle biblioteche private di duchesse del-l'avenida Pearson o di parvenus del circolo dell'equitazione, presentandosi ogni volta sotto mentite spoglie e ottenendo che gli regalassero i libri o glieli vendessero per due soldi.
La sua trasformazione da vagabondo a cittadino esemplare sembrava un miracolo, uno di quegli apologhi a cui i curati delle parrocchie povere ri-corrono per dimostrare l'infinita misericordia del Signore, ma che sono troppo perfetti per essere veri, come le pubblicità delle lozioni per capelli affisse sui tram. Una domenica, alle due del mattino, tre mesi e mezzo do-po che Fermín aveva cominciato a lavorare in libreria, in casa nostra squil-lò il telefono: era la proprietaria della pensione in cui alloggiava. Ci disse che il signor Fermín Romero de Torres si era barricato nella sua stanza e gridava come un ossesso, prendendo a pugni le pareti e minacciando di uc-cidersi tagliandosi la gola con un coccio di bottiglia se qualcuno avesse tentato di entrare.
«Non chiami la polizia, per favore. Arriviamo subito.»
Corremmo in calle Joaquín Costa. Era una notte fredda e tetra, spazzata da un vento gelido. Passammo di fronte alla Casa de la Misericordia e alla Casa de la Piedad, ignorando le squallide proposte che provenivano dai portici bui, nell'odore di sterco e di carbone. All'angolo con calle Ferlandi-
na imboccammo Joaquín Costa, poco più di una fenditura tra due file di alveari anneriti nell'oscurità del Raval. Il figlio maggiore della proprietaria della pensione ci aspettava in strada.
«Avete chiamato la polizia?» chiese mio padre.
«Non ancora.»
Ci precipitammo su per le scale, sporche e mal illuminate dalla luce gial-lastra delle lampadine che pendevano da un filo consumato. La pensione si trovava al secondo piano. Doña Encarna, vedova di un caporale della Guardia Civil, ci aspettava sulla porta, avvolta in una vestaglia celeste e con la testa piena di bigodini.
«Signor Sempere, la mia è una casa rispettabile, di un certo livello. I clienti non mi mancano e non c'è ragione per cui io debba tollerare simili sceneggiate» disse, mentre ci precedeva lungo un corridoio umido che puzzava di ammoniaca.
«La capisco benissimo» mormorò mio padre.
Dalla stanza in fondo arrivavano le urla strazianti di Fermín Romero de Torres e dalle porte socchiuse facevano capolino i volti scarni e spaventati degli ospiti, facce da pensione e da minestrina in brodo.
«Andate a dormire, cazzo, questo non è uno spettacolo di varietà» gridò doña Encarna.
Quando fummo davanti alla porta di Fermín, mio padre bussò piano.
«Fermín? È lì? Sono Sempere.»
Un ululato mi fece rabbrividire. Persino doña Encarna perse il suo a-plomb da governante e si posò le mani sul cuore, celato sotto l'adipe di un seno prorompente.
Mio padre bussò ancora una volta.
«Fermín? Su, mi apra.»
Fermín lanciò un altro ululato, scagliandosi contro le pareti della stanza e gridando frasi oscene fino a perdere la voce. Mio padre sospirò.
«Ha la chiave della stanza?»
«Naturalmente.»
«Me la dia.»
Doña Encarna esitò. I visi terrei degli altri inquilini si erano nuovamente affacciati in corridoio. Quelle urla disumane si dovevano sentire fin dal vi-cino edificio dello Stato maggiore dell'esercito.
«Daniel, corri a cercare il dottor Baró, che abita qui accanto, al 12 di Riera Alta.»
«Non sarebbe meglio chiamare un prete?» suggerì doña Encarna. «Mi sa
che questo qui è posseduto dal demonio.»
«No. Ci vuole un medico. Coraggio, Daniel, sbrigati. E lei mi faccia il favore di darmi questa benedetta chiave.»
Il dottor Baró era uno scapolo insonne che di notte leggeva Zola e guar-dava immagini di signorine poco vestite per vincere il tedio. Era un cliente abituale della libreria e si definiva un cavasangue, ma azzeccava più dia-gnosi lui di molti luminari con lo studio in calle Muntaner. La sua clientela era composta soprattutto da vecchie prostitute del quartiere e poveri di-sgraziati che a volte non lo potevano pagare, ma che lui curava lo stesso. Secondo lui il mondo era una cloaca e aspettava solo che il Barcellona vin-cesse il campionato, una buona volta, per morire in pace. Mi aprì la porta in vestaglia, un po' brillo, con una sigaretta spenta tra le labbra.
«Cosa c'è, Daniel?»
«Mi manda mio padre. È un'emergenza.»
Quando arrivammo alla pensione trovammo doña Encarna singhiozzan-te, il resto degli inquilini pallidi come cenci e mio padre che teneva tra le braccia Fermín Romero de Torres in un angolo della camera. Fermín, completamente nudo, piangeva e tremava. Aveva sfasciato la stanza e im-brattato le pareti di sangue, o forse di escrementi. Il dottor Baró capì la si-tuazione al volo e, con un gesto, indicò a mio padre che bisognava stende-re Fermín sul letto. Li aiutò il figlio di doña Encarna, la cui massima aspi-razione era fare il pugile. Fermín gemeva e si contorceva come se una be-stia feroce gli stesse divorando le viscere.
«Ma cos'ha quel poveruomo, Sant'Iddio? Cos'ha?» piagnucolava doña Encarna sulla soglia, scuotendo la testa.
Il dottore gli prese il polso, esaminò le pupille con una pila e senza pro-ferire parola preparò un'iniezione, aspirando il liquido da una fiala che a-veva preso dalla valigetta.
«Reggetelo. Questo lo farà dormire. Daniel, aiutaci.»
Tra tutti e quattro riuscimmo a immobilizzare Fermín, che quando sentì la puntura dell'ago nella coscia fu scosso da una convulsione. I muscoli gli si tesero come cavi d'acciaio ma qualche secondo dopo lo sguardo gli si annebbiò e lui ricadde sul letto.
«Badi di non esagerare con le dosi, dottore. È così mingherlino che può ucciderlo» disse doña Encarna.
«Stia tranquilla. Sta solo dormendo» la rassicurò il medico, mentre esa-minava le cicatrici che ricoprivano il corpo ossuto di Fermín.
Lo vidi scuotere la testa in silenzio.
«Fills de puta» mormorò.
«Che cicatrici sono?» domandai. «Di tagli?»
Il dottor Baró scosse di nuovo la testa senza alzare lo sguardo. Cercò una coperta tra le macerie della stanza e la stese sul paziente.
«Ustioni. Quest'uomo è stato torturato» spiegò. «Sono cicatrici provoca-te da una fiamma ossidrica.»
Fermín dormì per due giorni. Quando si svegliò non ricordava più nulla, solo che aveva avuto la sensazione di essere rinchiuso in una cella buia. Chiese perdono in ginocchio a doña Encarna. Le promise di imbiancare le pareti della pensione e, poiché la sapeva molto devota, di far celebrare die-ci messe a suo futuro suffragio nella chiesa di Belén.
«Pensi piuttosto a rimettersi in sesto e a non farmi più prendere certi spaventi, sono troppo vecchia per queste cose.»
Mio padre pagò i danni e pregò doña Encarna di dare una seconda op-portunità a Fermín. Lei acconsentì di buon grado: la maggior parte dei suoi inquilini erano dei poveri disgraziati, persone sole al mondo, come lei. Una volta passata la paura, gli si affezionò ancora di più e gli fece promettere che avrebbe preso le pastiglie prescritte dal dottor Baró.
«Per lei, doña Encarna, ingoierei anche un mattone.»
Col tempo, tutti fingemmo di aver dimenticato l'accaduto, ma da allora smisi di prendere alla leggera le voci che circolavano sull'ispettore Fume-ro. Dopo quell'episodio, per non lasciare solo Fermín, lo portavamo quasi tutte le domeniche a far merenda al caffè Novedades, e poi andavamo al cinema Fémina, all'angolo tra calle Diputación e paseo de Gracia. Una del-le maschere era amico di mio padre e ci lasciava entrare in sala dall'uscita di sicurezza della platea a metà cinegiornale, giusto quando il Generalísi-mo tagliava l'ennesimo nastro per inaugurare una diga, il che mandava in bestia Fermín.
«È una vergogna» diceva indignato.
«Non le piace il cinema, Fermín?»
«In tutta confidenza, penso che la settima arte sia una gran fregatura, uno specchietto per le allodole che rincretinisce la plebe ignorante, peggio del calcio e delle corride. Il cinematografo è stato inventato per intrattenere masse di analfabeti e, a cinquant'anni dalla sua nascita, non è cambiato molto.»
Tutta la sua ostilità svanì il giorno in cui scoprì Carole Lombard.
«Che davanzale, Gesù, Giuseppe e Maria, che davanzale!» esclamò, nel
bel mezzo della proiezione. «Quelle non sono tette, sono due caravelle!»
«Zitto, sporcaccione, o chiamo il responsabile» borbottò una voce da confessionale un paio di file dietro di noi. «Svergognato. Che paese di por-ci.»
«Forse è meglio abbassare la voce, Fermín» suggerii.
Ma Fermín Romero de Torres non mi ascoltava, perso nei soavi meandri di quella portentosa scollatura, il sorriso ebete e lo sguardo rapito dalla magia del tecnicolor. Più tardi, mentre camminavamo lungo il paseo de Gracia, notai che il nostro detective era ancora in trance.
«Ho l'impressione che dovremmo trovarle una donna» dissi. «Una donna le allieterebbe la vita.»
Fermín Romero de Torres, col pensiero ancora rivolto a quelle deliziose conferme della legge di gravità, emise un sospiro.
«Parla per esperienza, Daniel?» chiese con aria innocente.
Mi limitai a sorridere, mentre mio padre mi osservava con la coda del-l'occhio.
Da quel giorno, Fermín Romero de Torres diventò un fanatico del cine-ma. Mio padre, invece, preferiva trascorrere la domenica in casa a leggere. Fermín comprava enormi quantità di cioccolatini e si sedeva a rimpinzarsi nella diciassettesima fila, in attesa che apparisse la diva di turno. Se ne in-fischiava della trama e parlava a ruota libera fino a quando una dama pro-sperosa non appariva sullo schermo.
«Ho riflettuto su quanto mi ha suggerito l'altro giorno, insomma, di cer-carmi una donna» disse Fermín Romero de Torres. «Credo abbia ragione. Alla pensione c'è un nuovo inquilino, un ex seminarista andaluso, un tipo spiritoso, che ogni tanto rimorchia dei gran pezzi di figliola. Caspita, come è migliorata la razza. Non so davvero come faccia, perché lui non è un granché, magari le intontisce a forza di padrenostri. La sua stanza è accan-to alla mia, e a giudicare da quel che sento il frate dev'essere un artista. Sa-rà il fascino della tonaca. A lei come piacciono le donne, Daniel?»
«Non sono un grande esperto in materia.»
«Nessuno lo è, neanche Freud; le donne per prime non lo sono, ma è come con la corrente elettrica: non c'è bisogno di prendere la scossa per capire come funziona. Coraggio, mi dica, come le piacciono? Secondo me, una donna dev'essere bene in carne, ma lei mi sembra uno che preferisce le magre. Per carità, rispetto i suoi gusti, non mi fraintenda.»
«Se devo essere sincero, non ho molta esperienza. Anzi, non ne ho affat-to.»
Fermín Romero de Torres mi osservò con attenzione, incuriosito dalla mia dichiarazione di ascetismo.
«Pensavo che quella notte... sa, le botte...»
«Se il vero dolore consistesse in uno schiaffo...»
Fermín sembrò leggermi nel pensiero e mi sorrise solidale.
«Non se la prenda. Il bello delle donne è scoprirle. La prima volta è il massimo: uno non sa cos'è la vita fino a quando non spoglia una donna per la prima volta. Bottone dopo bottone, come se sbucciasse una caldarrosta in una notte d'inverno. Ahhh...»
Pochi secondi dopo, Veronica Lake compariva sullo schermo e Fermín era già catapultato in un'altra dimensione. A un certo punto, approfittando di una scena in cui la diva riposava, decise di andare al bar del cinema per procurarsi altre vettovaglie. Dopo aver patito a lungo la fame, non riusciva più a trattenersi ma, grazie al suo metabolismo accelerato, aveva ancora un'aria sparuta e denutrita da dopoguerra. Rimasto da solo, guardai distrat-tamente la scena sullo schermo. Mentirei se dicessi che pensavo a Clara; in realtà, pensavo al suo corpo nudo, lucido di sudore e fremente di piacere sotto quello del professore di musica. Distolsi lo sguardo dallo schermo e solo allora notai lo spettatore che era appena entrato. Lo vidi avanzare fino al centro della platea, sei file più avanti, e prendere posto. I cinema sono pieni di gente sola, pensai. Sola come me.
Mi sforzai di concentrarmi sul film. Il protagonista, un cinico detective dal cuore tenero, spiegava a un personaggio secondario che le donne come Veronica Lake erano la rovina dei veri uomini ma che, nonostante ciò, era impossibile non amarle disperatamente e non morire per loro, vittime dei loro tradimenti e della loro perfidia.
Fermín Romero de Torres, che stava diventando un critico acuto, defini-va questo genere di trama "la favola della mantide religiosa", fantasie mi-sogine per impiegati stitici o per beghine annoiate che sognavano di darsi al vizio e di vivere un'esistenza da cortigiane. Sorrisi al pensiero dei com-menti a piè di pagina che il mio amico critico non avrebbe certo lesinato se non fosse andato a rifornirsi di dolciumi. Ma poi vidi che lo spettatore se-duto sei file più avanti si era girato e mi fissava. Il fascio di luce del proiet-tore, che rischiarava la platea a tratti, mi permise di riconoscere l'uomo senza volto, Coubert. I suoi occhi privi di palpebre rilucevano come l'ac-ciaio e il suo sorriso senza labbra si dissolveva nell'oscurità. Una morsa gelida mi strinse il cuore. La musica di duecento violini irruppe sullo schermo, si udirono degli spari, delle grida, poi l'immagine sfumò. Per un
attimo, la sala rimase nell'oscurità più assoluta e il solo rumore che avvertii fu il pulsare delle mie tempie. Quando lo schermo si illuminò di nuovo, l'uomo senza volto era scomparso. Mi girai e vidi una figura che si allonta-nava lungo il corridoio della platea, incrociando Fermín Romero de Torres che rientrava dal suo safari gastronomico. Lui individuò la nostra fila, si riaccomodò al suo posto e mi offrì una pralina, scrutandomi perplesso.
«Daniel, è più pallido delle chiappe di una suora. Si sente bene?»
Un odore indefinibile ristagnava nella sala.
«Che strano olezzo» osservò Fermín Romero de Torres. «Di scoreggia rancida, di notaio o di procuratore.»
«No, è odore di carta bruciata.»
«Prenda una Sugus al limone e vedrà che le passano tutti i mali.»
«Non mi va.»
«Be', la tenga, può darsi che le torni utile.»
Misi la caramella nella tasca della giacca e guardai distratto il resto del film, insensibile al fascino letale di Veronica Lake e alla sorte delle sue vittime. Fermín Romero de Torres, invece, era completamente preso dallo spettacolo e dai suoi dolciumi. Quando si riaccesero le luci, mi parve di emergere da un brutto sogno. Per un attimo pensai che la presenza di quel-l'uomo in platea fosse stata un'allucinazione, una beffa della memoria, ma l'occhiata che mi aveva rivolto era stata sufficiente a farmi arrivare il mes-saggio. Non si era dimenticato di me, e nemmeno del nostro patto.
12
L'arrivo di Fermín portò con sé una serie di vantaggi, tra cui il fatto che avevo molto più tempo a disposizione. Quando non era sulle tracce di qualche volume esotico, escogitava espedienti per incrementare le vendite nel quartiere, lucidava l'insegna e le vetrine, passava un panno inumidito con alcol sul dorso dei libri per renderli belli lustri. Ne approfittai per inve-stire il mio tempo libero in due attività che negli ultimi anni avevo trascu-rato: riflettere sul mistero di Carax e, soprattutto, passare più tempo col mio amico Tomás Aguilar, che mi mancava molto.
Tomás era un ragazzo serio e riservato che tutti temevano per il suo a-spetto minaccioso. Aveva la struttura fisica del lottatore, due spalle da gla-diatore e uno sguardo duro. Ci eravamo conosciuti diversi anni prima alla scuola dei gesuiti di Caspe la prima settimana di lezione. Suo padre era venuto a prenderlo in compagnia di una bambina antipatica che altri non
era se non la sorella di Tomás. Mi lasciai scappare una battuta infelice su di lei e Tomás mi scaricò addosso una grandine di pugni che mi lasciarono dolorante per settimane. Tomás Aguilar era il doppio di me, più forte e più determinato. In quella lotta da cortile, attorniato da un circolo di mocciosi assetati di sangue, perdetti un dente e acquisii un nuovo senso delle pro-porzioni. Mi rifiutai di rivelare ai preti e a mio padre il nome di chi mi a-veva conciato così, tacendo anche il fatto che il genitore del mio avversario incitava il figlio insieme ai nostri compagni di scuola.
«È stata colpa mia» dissi, per chiudere l'argomento.
Tre settimane più tardi, Tomás mi raggiunse durante l'intervallo. Io me la stavo facendo sotto dalla paura. Adesso mi dà il resto, pensai. Bofonchiò qualcosa, ma a un tratto mi resi conto che voleva solo chiedermi scusa per-ché si era trattato di un combattimento impari.
«Sono io che ti devo chiedere scusa, non avrei dovuto offendere tua so-rella» replicai. «Volevo farlo, l'altro giorno, ma tu mi sei saltato addosso prima che potessi aprire bocca.»
Tomás, mortificato, abbassò gli occhi. Guardai quel gigante timido che vagava per le aule e i corridoi della scuola come un'anima in pena. Tutti i ragazzi - io per primo - avevano paura di lui, con il risultato che nessuno gli rivolgeva la parola né osava guardarlo in faccia. Mi chiese se volevo di-ventare suo amico, porgendomi la mano. La sua stretta era così vigorosa da far male, ma sopportai il dolore. Quel pomeriggio, Tomás mi invitò a fare merenda a casa sua e mi mostrò una strana collezione di marchingegni, co-struiti con pezzi di scarto e rottami che teneva ammucchiati in un angolo della stanza.
«Li ho fatti io» mi spiegò orgoglioso.
Non riuscivo a capire di che aggeggi si trattasse né a cosa servissero, ma mi limitai ad assentire con aria ammirata. Sembrava quasi che quel ragaz-zone solitario si fosse costruito degli amici di latta, in mancanza di amici in carne e ossa. Io ero la prima persona a cui li presentava. Erano il suo se-greto. Io gli parlai di mia madre e di quanto mi mancava. Quando la mia voce si incrinò per l'emozione, Tomás mi abbracciò in silenzio. Avevamo dieci anni. Da quel giorno, Tomás Aguilar divenne il mio migliore amico, e io il suo.
Malgrado il suo aspetto aggressivo, che intimoriva gli altri ragazzi, To-más era un bonaccione. Balbettava un po', soprattutto quando non parlava con sua madre, sua sorella o con me, il che non avveniva quasi mai. Le in-venzioni bizzarre e i congegni meccanici erano la sua passione, e ben pre-
sto scoprii che effettuava autopsie su ogni tipo di oggetto, dai grammofoni alle calcolatrici, per carpirne i segreti. Quando non eravamo insieme e non lavorava con suo padre, Tomás si chiudeva nella sua stanza per dedicarsi al suo unico passatempo. Era tanto intelligente quanto privo di senso pratico: del mondo reale lo interessavano solo alcuni aspetti particolari, come la sincronia dei semafori della Gran Vía, i misteri delle fontane luminose di Montjuïc o i robot del luna park del Tibidabo.
Tomás lavorava tutti i pomeriggi nell'ufficio del padre e ogni tanto face-va un salto da noi in libreria. Mio padre si mostrava sempre interessato alle sue invenzioni e gli regalava manuali di meccanica o biografie di ingegne-ri, come Eiffel o Edison, che erano i suoi idoli. Tomás si era affezionato a mio padre, e stava progettando per lui, con risultati modesti, un sistema au-tomatico per archiviare schede bibliografiche, utilizzando i pezzi di un vecchio ventilatore. Ci lavorava da quattro anni, ma mio padre fingeva di entusiasmarsi per ogni minimo progresso, affinché Tomás non si perdesse d'animo. All'inizio mi ero chiesto come lo avrebbe accolto Fermín.
«Lei dev'essere l'amico inventore di Daniel. Sono molto contento di co-noscerla. Fermín Romero de Torres, consulente bibliografico della libreria Sempere, per servirla.»
«Tomás Aguilar» balbettò il mio amico, stringendo la mano a Fermín.
«Faccia attenzione, la sua non è una mano, bensì una pressa idraulica, e io devo conservare intatte le mie dita da violinista per lavorare.»
Tomás, balbettando delle scuse, lo liberò dalla morsa.
«A proposito, qual è la sua opinione sul teorema di Fermat?» chiese Fermín massaggiandosi le dita.
Qualche istante più tardi, i due discutevano animatamente di matematica arcana, e per me era come se parlassero in cinese. Fermín gli dava sempre del lei o lo chiamava dottore, fingendo di non accorgersi della balbuzie di Tomás. Lui, per ricambiare l'infinita pazienza di Fermín, gli regalava sca-tole di cioccolatini svizzeri incartati in immagini di laghi alpini azzurrissi-mi, di mucche che pascolavano su prati verde smeraldo e di orologi a cucù.
«Il suo amico Tomás ha molto talento, ma è privo di buon senso e gli manca un po' di faccia tosta, requisito fondamentale per fare carriera» af-fermava Fermín Romero de Torres. «Gli scienziati sono così. Prenda don Alberto Einstein: si è dato un gran daffare a inventare formule prodigiose e la prima che ha trovato un'applicazione pratica è servita per costruire la bomba atomica, per di più senza il suo permesso. Consideri poi che il suo amico, con quella faccia da pugile, non sarà ben accetto nei circoli acca-
demici, perché a questo mondo gli ultimi a morire sono i pregiudizi.»
Deciso a salvare Tomás dall'incomprensione e dalla solitudine, Fermín cercava di stimolare le sue latenti capacità oratorie e di far emergere il suo lato socievole.
«L'uomo, da scimmia qual è, è un animale sociale e considera il cliente-lismo, il nepotismo, gli intrallazzi e il pettegolezzo modelli intrinseci di comportamento etico» ragionava. «Sono leggi della biologia.»
«Non le pare di esagerare?»
«Com'è ingenuo, Daniel.»
Tomás aveva ereditato l'aria da duro di suo padre, un amministratore di proprietà immobiliari che aveva un ufficio in calle Pelayo, di fianco ai ma-gazzini El Siglo. Il signor Aguilar apparteneva alla categoria privilegiata di coloro che hanno sempre ragione. Uomo tutto d'un pezzo, era convinto, fra l'altro, che il figlio fosse un pusillanime, nonché un ritardato mentale. Per rimediare a queste deplorevoli tare, assumeva insegnanti privati di ogni ti-po affinché facessero del suo primogenito una persona normale. "Voglio che tratti mio figlio come se fosse un idiota, d'accordo?" lo avevo sentito dire in più di un'occasione. I professori tentavano di tutto, arrivando persi-no a supplicarlo, ma Tomás li interpellava solo in latino, lingua che parla-va con la scioltezza di un papa e senza balbettare. Presto o tardi, i suoi in-segnanti a domicilio si licenziavano per la disperazione o per il timore che il ragazzo fosse posseduto dal demonio e li maledicesse in aramaico. L'ul-tima speranza rimasta al signor Aguilar era il servizio militare, unica vera scuola di vita.
Tomás aveva una sorella più grande di noi di un anno, Beatriz. Dovevo a lei la nostra amicizia, perché, se non l'avessi notata quel lontano pomerig-gio insieme al padre che la teneva per mano e non avessi fatto quella battu-ta di pessimo gusto, il mio amico non mi avrebbe preso a botte e io non a-vrei mai avuto il coraggio di rivolgergli la parola. Bea Aguilar era il ritrat-to della madre e la luce degli occhi del padre. Aveva la carnagione lattea, i capelli rossi e indossava sempre costosi abiti di seta o di lanetta. Aveva il fisico di un'indossatrice e camminava tutta impettita, piena di sé e convinta di essere la principessa delle favole che amava raccontarsi. I suoi occhi e-rano verdazzurri ma lei si ostinava a definirli "color di smeraldo e zaffiro". Malgrado avesse frequentato le scuole delle suore teresiane, o forse pro-prio per questo, quando il padre non la vedeva Bea si scolava bicchieri di liquore d'anice, indossava calze di seta e si truccava come le vamp del ci-nema che turbavano i sogni del mio amico Fermín. Io non la potevo vedere
e lei ricambiava la mia manifesta ostilità con sguardi languidi e sprezzanti. Il suo fidanzato, che stava facendo il servizio militare con il grado di sotto-tenente a Murcia, era un falangista imbrillantinato che rispondeva al nome di Pablo Cascos Buendía, discendente di una nobile famiglia proprietaria di numerosi cantieri navali in Galizia. Il sottotenente Cascos Buendía, che era spesso in licenza grazie a uno zio nel Governo Militare, aveva l'abitudine di propinarci tirate sulla superiorità genetica e spirituale della razza spagnola e sull'imminente tramonto dell'Impero bolscevico.
«Marx è morto» affermava in tono solenne.
«Nel 1883, per la precisione» aggiungevo io.
«Tu taci, disgraziato, o ti spacco il muso e ti mando a La Rioja.»
Più di una volta avevo colto il lieve sorriso di Bea mentre ascoltava le scempiaggini del fidanzato. A quel punto, lei cercava il mio sguardo e mi fissava. Io le sorridevo con la falsa cordialità di un nemico che ha firmato un armistizio e guardavo altrove. Sarei morto piuttosto che ammetterlo, ma in fondo quella ragazza mi faceva paura.

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