lunedì 16 gennaio 2012

Italo Calvino, Le città invisibili. L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.

A me e a Pavese, Calvino portava da leggere i suoi racconti. Erano scritti a mano, in una calligrafìa minuta, arrotondata e fitta di cancellature. Ci sembravano molto belli. Vi si scorgevano paesaggi festosi, immersi in una luce solare; a volte le vicende erano vicende di guerra, di morte e di sangue, ma nulla sembrava offuscare l’alta luce del giorno; e non un’ombra scendeva mai su quei boschi verdi, frondosi, popolati di ragazzi, di animali e di uccelli. Il suo stile era, fin dall’inizio, lineare e limpido; divenne più tardi, nel corso degli anni, un puro cristallo. In quello stile fresco e trasparente, la realtà appariva screziata, variegata, e colorata di mille colori; e sembrava un miracolo quella festosità, quella luce solare, in un’epoca in cui lo scrivere era abitualmente severo, accigliato e parsimonioso e nel mondo che tentavamo di raccontare non regnava che nebbia, pioggia e cenere.
Natalia Ginzburg in ricordo di Italo Calvino


L’ultima volta che ho visto Calvino vivo, è stato in una stanza dell’ospedale di Siena, il giorno dopo che l’avevano operato alla testa. Aveva la testa fasciata, le braccia nude fuori dal lenzuolo, abbronzate e forti, ed era assopito. Il suo viso era pieno e calmo, il respiro tranquillo e sano. Non aveva, nel viso, segni di sofferenza. Ho pensato che presto sarebbe guarito, si sarebbe alzato da quel letto. Nei giorni successivi, i giornali riportavano frasi che aveva detto quando s’era svegliato. Aveva guardato i tubi delle sue fleboclisi, e aveva detto: “Sembro un lampadario”. Era entrata la figlia e gli aveva detto: “Tu sei la tartaruga”. Uno dei medici gli aveva fatto qualche domanda e poi gli aveva chiesto:
“Chi sono io?” Aveva detto: “Un commissario di polizia”. Per coloro che gli volevano bene, quelle frasi erano un dono prezioso, il segno che era sempre lui, che niente era cambiato nella sua persona, che nella sua mente ruotavano ancora delle tartarughe, dei lampadari, dei commissari di polizia.
Natalia Ginzburg ricorda Italo Calvino


Il primo libro sarebbe meglio non averlo mai scritto. Finché il primo libro non è scritto, si possiede quella libertà di cominciare che si può usare una sola volta nella vita, il primo libro già ti definisce mentre tu in realtà sei ancora lontano dall'esser definito; e questa definizione poi dovrai portartela dietro per la vita, cercando di darne conferma o approfondimento o correzione o smentita, ma mai più riuscendo a prescinderne.
Italo Calvino

Parti dal poco, basta una piccola idea, ma netta e precisa, che s’accampi sulla pagina.
Su quella bava di ragno potrai sviluppare la ragnatela delle parole.
Italo Calvino


Io cammino per un bosco di larici
ed ogni mio passo è storia.
Io penso, io amo, io agisco
e questo è storia,
forse non farò cose importanti,
ma la storia è fatta
di piccoli gesti
e di tutte le cose
che farò prima di morire
saranno pezzetti di storia
e tutti i pensieri di adesso
faranno la storia di domani.
 Italo Calvino


Le nostre distanze un po’ s’accorciavano un po’ s’allungavano ma ormai era chiaro che l’uno non avrebbe mai raggiunto l’altro né mai l’altro l’uno. Di giocare a rincorrerci avevamo perso ogni gusto, e del resto non eravamo più bambini, ma ormai non ci restava altro da fare.
Italo Calvino,  Giochi senza fine


E per quanto m'ingegnassi a mettere parole tra me e le cose, non mi riusciva di trovarne d'adatte a rivestirle; perché tutte le mie parole erano dure e appena scheggiate: e il dirle era come posare tante pietre.
Italo Calvino, Fiume asciutto

- Mare come arrivo, - dico, poi tolgo la bocca dalla fossetta e ci poso l'orecchio per sentire l'eco.
Non si sente che il suo respiro e, lontano e sepolto, il suo cuore.
- Cuore come treno, - dico.
Italo Calvino, Amore lontano da casa


Io credo questo: le fiabe sono vere. Sono, prese tutte insieme, nella loro sempre ripetuta e sempre varia casistica di vicende umane, una spiegazione generale della vita, nata in tempi remoti e serbata nel lento ruminio delle coscienze contadine fino a noi; sono il catalogo dei destini che possono darsi a un uomo e a una donna.
 Italo Calvino, Le fiabe italiane


Le cose che la letteratura può ricercare e insegnare sono poche ma insostituibili:
il modo di guardare il prossimo e se stessi, di porre in relazione fatti personali e fatti generali, di attribuire valore a piccole cose o a grandi, di considerare i propri limiti e vizi e gli altrui, di trovare le proporzioni della vita, e il posto dell’amore in essa, e la sua forza e il suo ritmo, e il posto della morte, il modo di pensarci o non pensarci; la letteratura può insegnare la durezza, la pietà, la tristezza, l’ironia, l’umorismo e tante altre di queste cose necessarie e difficili.
Italo Calvino, il midollo del leone


Quello che veramente ognuno di noi è ed ha, è il passato; quello che siamo e abbiamo è il catalogo delle possibilità non fallite, delle prove pronte a ripetersi. Non esiste un presente, procediamo ciechi verso il fuori e il dopo, sviluppando un programma stabilito con materiali che ci fabbrichiamo sempre uguali. Non tendiamo a nessun futuro, non c'è niente che ci aspetta, siamo chiusi tra gli ingranaggi d'una memoria che non prevede altro lavoro che il ricordare se stessa.
Italo Calvino, Ti con zero


«Vorrei capire.»
«Cosa?»
«Tutto, tutto questo.» Accennai intorno.
«Capirai quando avrai dimenticato quello che capivi prima.»
Italo Calvino

La vita d'una persona consiste in un insieme d'avvenimenti di cui l'ultimo potrebbe anche cambiare il senso di tutto l'insieme, non perché conti di più dei precedenti ma perché inclusi in una vita gli avvenimenti si dispongono in un ordine che non è cronologico, ma risponde a un'architettura interna.
Italo Calvino


Poi c’è anche questo fatto dell’anonimato,
del poter sentirsi in mezzo alla folla ad osservare tutti,
scomparendoci dentro, quasi sentendosi invisibili.
Italo Calvino

Troppo presto, per me; o troppo tardi:
i sogni sognati troppo a lungo, io ero impreparato a viverli.
Italo Calvino.


L'occhio non vede cose ma figure di cose che significano altre cose.
Italo Calvino



Si conobbero. Lui conobbe lei e se stesso, perché in verità non s’era mai saputo.
E lei conobbe lui e se stessa, perché pur essendosi saputa sempre, mai s’era potuta riconoscere così.
Italo Calvino

Non credo a niente che sia facile, rapido, spontaneo, improvvisato, approssimativo.
Credo alla forza di ciò che è lento, calmo, ostinato, senza fanatismi né entusiasmi.
Non credo a nessuna liberazione, né individuale, né collettiva che si ottenga senza il costo d’un’autodisciplina, di un’autocostruzione, d’uno sforzo. Se a qualcuno questo mio modo di pensare potrà sembrare stalinista, ebbene, allora non avrò difficoltà ad ammettere che in questo senso un po’ stalinista lo sono ancora.
Italo Calvino


Ci sono quelli che si condannano al grigiore della vita più mediocre perché hanno avuto un dolore, una sfortuna; ma ci sono anche quelli che lo fanno perché hanno avuto più fortuna di quella che si sentivano di reggere.
Italo Calvino.


E inventerà scherzi e smorfie così nuove da ubriacarsi di risate, tutto per smaltire la nebbia di solitudine che gli si condensa nel petto le sere come quella.
Italo Calvino


Italo Calvino
Se alzi un muro, pensa a cosa lasci fuori.


Perché ogni scelta ha un rovescio cioè una rinuncia,
e così non c’è differenza tra l’atto di scegliere e l’atto di rinunciare.
Italo Calvino


Ciascuno di noi è ricco in proporzione al numero di cose di cui può fare a meno.
H. D. Thoreau


Un Paese che distrugge la sua scuola non lo fa mai solo per soldi, perché le risorse mancano, o i costi sono eccessivi. Un Paese che demolisce l'istruzione è già governato da quelli che dalla diffusione del sapere hanno solo da perdere.
Italo Calvino


Un Paese che distrugge la sua scuola
non lo fa mai solo per soldi,
perché le risorse mancano,
o i costi sono eccessivi.
Un Paese che demolisce l'istruzione
è già governato da quelli che
dalla diffusione del sapere
hanno solo da temere.
Italo Calvino



In un’epoca e in un paese in cui tutti si fanno in quattro per proclamare opinioni o giudizi, il signor Palomar ha preso l’abitudine di MORDERSI LA LINGUA TRE VOLTE PRIMA DI FARE QUALSIASI AFFERMAZIONE. Se al terzo morso di lingua è ancora convinto della cosa che stava per dire, la dice; se no sta zitto. Di fatto, passa settimane e mesi interi in SILENZIO.
Italo Calvino

Comunicare è condividere.
E qualsiasi cosa condivisa raddoppia il piacere.
Italo Calvino

Quei due, così come sono, sono reciprocamente necessari.
Ecco, questo modo d’essere è l’amore.
Italo Calvino

Quando due hanno dormito insieme è un’altra cosa, ci si ritrova al mattino a riaffiorare entrambi dallo stesso sonno, si è pari.
Italo Calvino, Racconti



Alle volte uno si crede incompleto ed è soltanto giovane
Italo Calvino


L'occhio non vede cose ma figure di cose che significano altre cose
Italo Calvino

Il passo tra la realtà che viene fotografata in quanto ci appare bella e la realtà che ci appare bella in quanto è stata fotografata, è brevissimo.
Basta che cominciate a dire di qualcosa: “Ah che bello, bisognerebbe proprio fotografarlo!” e già siete sul terreno di chi pensa che tutto ciò che non è fotografato è perduto, che è come se non fosse esistito, e che quindi per vivere veramente bisogna fotografare quanto più si può, e per fotografare quanto più si può bisogna: o vivere in modo quanto più fotografabile possibile, oppure considerare fotografabile ogni momento della propria vita. La prima via porta alla stupidità, la seconda alla pazzia.
Italo Calvino


Un figlio di Re mangiava a tavola. Tagliando la ricotta, si ferì un dito e una goccia di sangue andò sulla ricotta. Disse a sua madre: "Mamma, vorrei una donna bianca come il latte e rossa come il sangue." "Eh, figlio mio, chi è bianca non è rossa, e chi è rossa non è bianca. Ma cerca pure se la trovi"
L'amore delle tre melograne, di Italo Calvino, Fiabe Italiane


Prendete la vita con leggerezza,
che leggerezza non è superficialità,
ma planare sulle cose dall’alto,
non avere macigni sul cuore.
La leggerezza per me si associa con la precisione e la determinazione, 
non con la vaghezza e l’abbandono al caso.
Paul Valéry ha detto: 
*Il faut etre léger comme l’oiseau, 
et non comme la plume.»
*Si deve essere leggeri come l’uccello che vola, 
e non come la piuma.
Italo Calvino, Lezioni americane: Leggerezza

Poi ho deciso che la luna andava lasciata tutta a Leopardi. Perché il miracolo di Leopardi è stato di togliere al linguaggio ogni peso fino a farlo assomigliare alla luce lunare.
Italo Calvino, “Lezioni americane” (Leggerezza)



“Poi, l'informatica. E’ vero che il software non potrebbe esercitare i poteri della sua leggerezza se non mediante la pesantezza dell’hardware; ma è il software che comanda, che agisce sul mondo esterno e sulle macchine, le quali esistono solo in funzione del software, si evolvono in modo d'elaborare programmi sempre più complessi. La seconda rivoluzione industriale non si presenta come la prima con immagini schiaccianti quali presse di laminatoi o colate d'acciaio, ma come i bits d'un flusso d'informazione che corre sui circuiti sotto forma d'impulsi elettronici. 
Le macchine di ferro ci sono sempre, ma obbediscono ai bits senza peso.”
Italo Calvino, “Lezioni americane” (Leggerezza), 1988



La VITA DI UNA PERSONA consiste in un INSIEME DI AVVENIMENTI di cui l'ULTIMO POTREBBE ANCHE CAMBIARE IL SENSO DI TUTTO L'INSIEME.
Italo Calvino


"Italo Calvino era noto per essere uno di poche parole.
Una volta Jorge Luis Borges ormai cieco, avvertito della sua presenza durante un incontro con alcuni amici a Siviglia rispose: «L'ho riconosciuto dal silenzio»".





Italo Calvino, 15 ottobre 1923 - 19 settembre 1985
Gli scienziati hanno scoperto che la forte attrazione tra un uomo e una donna dipende dall'odore.
L'olfatto è il senso che più ci aiuta nell'individuare il partner più adatto a noi.
Bisogna leggere il racconto di Italo Calvino "Il nome, il naso" per avere l’idea di quale gloria misteriosa e quale senso di commiato suscita l’aver ascoltato la voce di un profumo che non si riesce più a ritrovare.
«Di lei io non sapevo nulla ma mi pareva di sapere tutto in quel profumo, e avrei voluto un mondo senza nomi, in cui quel profumo solo sarebbe bastato per nome e per tutte le parole che poteva dirmi». Conoscere un odore è una condanna: «passo tra pelle e pelle cercando quella pelle perduta che non somiglia a nessun’altra pelle». Tutto il mondo passa dal naso, è una legge dell’evoluzione; ma che tortura che solo uno sia l’odore giusto .



II piano eversivo fascista è certo un pericolo, ma più insidiosa c concreta, perché già in atto, è l'instaurazione di un antistato che convìva stabilmente con la nostra democrazia corrodendo i vertici del potere con il ricatto, con le stragi e con i regolamenti di conti. La mafia convisse con l'Italia liberale e convive con quella democratica; il pericolo oggi è che la trama nera, tramontata l'illusione del golpe per le mutate condizioni interazionali, si stabilizzi come un fenomeno di criminalità politica statica sul tipo della mafia e del gangsterismo.
Italo Calvino, scrittore


Oggi un'educazione classica come quella di Leopardi è impensabile, e soprattutto la biblioteca del conte Monaldo è esplosa. I vecchi titoli sono stati decimati ma i nuovi sono moltiplicati proliferando in tutte le letterature e le culture moderne. Non resta che inventarci ognuno una biblioteca ideale dei nostri classici; e direi che essa dovrebbe comprendere per metà libri che abbiamo letto e che hanno contato per noi, e per metà libri che ci proponiamo di leggere e presupponiamo possano contare. Lasciando una sezione di posti vuoti per le sorprese, le scoperte occasionali.
M'accorgo che Leopardi è il solo nome della letteratura italiana che ho citato. Effetto dell'esplosione della biblioteca. Ora dovrei riscrivere tutto l'articolo facendo risultar ben chiaro che i classici servono a capire chi siamo e dove siamo arrivati e perciò gli italiani sono indispensabili proprio per confrontarli agli stranieri e gli stranieri sono indispensabili proprio per confrontarli agli italiani. Poi dovrei riscriverlo ancora una volta perché non si creda che i classici vanno letti perché "servono" a qualcosa. La sola ragione che si può addurre è che leggere i classici è meglio che non leggere i classici. E se qualcuno obietta che non val la pena di far tanta fatica, citerò Cioran (non un classico, almeno per ora, ma un pensatore contemporaneo che solo ora si comincia a tradurre in Italia): «Mentre veniva preparata la cicuta, Socrate stava imparando un'aria sul flauto. "A cosa ti servirà?" gli fu chiesto. "A sapere quest'aria prima di morire."»
Italo Calvino, Perché leggere i classici


Vengo subito al dunque: in un'epoca di parole generiche e astratte, parole buone per tutti gli usi, parole che servono a non pensare e a non dire, una peste del linguaggio che dilaga dal pubblico al privato, Montale è stato il poeta dell'esattezza, della scelta lessicale motivata, della sicurezza terminologica intesa a catturare l'unicità dell'esperienza.
Italo Calvino, Lo scoglio di Montale, in Perché leggere i classici


Duro destino è l'avere un destino. L'uomo predestinato avanza e i suoi passi non possono portarlo che là, al punto d'arrivo che le stelle hanno fissato per lui, o ai successivi punti d'arrivo, fausti e infausti, nel caso che gli astri gli abbiano decretato, come a Ruggiero, un matrimonio d'amore, una discendenza gloriosa, e pure ahimè una fine prematura. Ma tra il punto in cui egli si trova ora e l'adempiersi del destino possono succedere tante mai vicende, tanti ostacoli frapporsi, tante volontà entrare in campo a contrastare il volere degli astri: la strada che il predestinato deve percorrere può essere non una linea retta ma un interminabile labirinto. Sappiamo bene che tutti gli ostacoli saranno vani, che tutte le volontà estranee saranno sconfitte, ma ci resta il dubbio se ciò che veramente conta sia il lontano punto d'arrivo, il traguardo finale fissato dalle stelle, oppure siano il labirinto interminabile, gli ostacoli, gli errori, le peripezie che dànno forma all'esistenza.
Italo Calvino, Orlando furioso di Ludovico Ariosto



Resta fuori chi crede di poter vincere labirinti sfuggendo alla loro difficoltà; ed è dunque una richiesta poco pertinente quella che si fa alla letteratura, dato un labirinto, di fornire essa stessa la chiave per uscirne. Quel che la letteratura può fare è definire l’atteggiamento migliore per trovare la via d’uscita, anche se questa via d’uscita non sarà altro che il passaggio da un labirinto all’altro. È la sfida al labirinto che vogliamo salvare, è una letteratura della sfida al labirinto che vogliamo enucleare e distinguere dalla letteratura della resa al labirinto".
Italo Calvino, Sfida al labirinto, “Il Menabò”, 1962


"Io credo questo: le fiabe sono vere. Sono, prese tutte insieme, nella loro sempre ripetuta e sempre varia casistica di vicende umane, una spiegazione generale della vita, nata in tempi remoti e serbata nel lento ruminio delle coscienze contadine fino a noi; sono il catalogo dei destini che possono darsi a un uomo e a una donna, soprattutto per la parte di vita che appunto è il farsi d’un destino: la giovinezza, dalla nascita che sovente porta in sé un auspicio o una condanna, al distacco dalla casa, alle prove per diventare adulto e poi maturo, per confermarsi come essere umano. E in questo sommario disegno, tutto: la drastica divisione dei viventi in re e poveri, ma la loro parità sostanziale; la persecuzione dell’innocente e il suo riscatto come termini d’una dialettica interna ad ogni vita; l’amore incontrato prima di conoscerlo e poi subito sofferto come bene perduto; la comune sorte di soggiacere a incantesimi, cioè d’essere determinato da forze complesse e sconosciute, e lo sforzo per liberarsi e autodeterminarsi inteso come un dovere elementare, insieme a quello di liberare gli altri, anzi il non potersi liberare da soli, il liberarsi liberando; la fedeltà a un impegno e la purezza di cuore come virtù basilari che portano alla salvezza e al trionfo; la bellezza come segno di grazia, ma che può essere nascosta sotto spoglie d’umile bruttezza come un corpo di rana; e soprattutto la sostanza unitaria del tutto, uomini bestie piante cose, l’infinita possibilità di metamorfosi di ciò che esiste."
Italo Calvino


Sperare è la pena di chi non sa rinunciare.
Italo Calvino



«Parti dal poco, basta una piccola idea, ma netta e precisa, che s’accampi sulla pagina.
Su quella bava di ragno potrai sviluppare la ragnatela delle parole».
Italo Calvino





La verità è che i tuoi sorrisi tristi a me piacciono,
perché a te stanno bene, perché li sai trattare,
li sai adoperare e mettere in fila senza che rompano le righe.
Italo Calvino




«Penso che l’autoironia sia l’aspetto decisivo dell’umorismo: sapere che in qualsiasi momento potrei dire il contrario di quello che dico, riuscire a mettere continuamente in discussione le proprie opinioni, è questa a  mio avviso la condizione prima dell’intelligenza».
Italo Calvino, “Sono nato in America”, Interviste 1951-1985

- Vorrei capire.
- Cosa?
- Tutto, tutto questo -. Accennai intorno.
- Capirai quando avrai dimenticato quello che capivi prima. […]
Per una frazione di secondo tra la perdita di tutto quel che sapevo prima e l'acquisto di tutto quel che avrei saputo dopo, riuscii ad abbracciare in un sol pensiero il mondo delle cose com'erano e quello delle cose come avrebbero potuto essere, e m'accorsi che un solo sistema comprendeva tutto. Il mondo degli uccelli, dei mostri, della bellezza d'Or era lo stesso di quello in cui ero sempre vissuto e che nessuno di noi aveva capito fino in fondo.
Italo Calvino - “Ti con zero" in: ’L'origine degli uccelli’



Ormai, da quel suo passato vero o ipotetico, lui è escluso; non può fermarsi; deve proseguire fino a un’altra città dove lo aspetta un altro suo passato, o qualcosa che forse era stato un suo possibile futuro e ora è il presente di qualcun altro. I futuri non realizzati sono solo rami del passato: rami secchi.
Italo Calvino


Di una città non apprezzi le sette o settantasette meraviglie, ma la risposta che dà ad una tua domanda
Italo Calvino

La città ti appare come un tutto in cui nessun desiderio va perduto e di cui tu fai parte, e poichè essa gode tutto quello che tu non godi, a te non resta che abitare questo desiderio ed esserne contento.
Italo Calvino. Le città invisibili.


È delle città come dei sogni: tutto l'immaginabile può essere sognato ma anche il sogno più inatteso è un rebus che nasconde un desiderio, oppure il suo rovescio, una paura. Le città come i sogni sono costruite di desideri e di paure, anche se il filo del loro discorso è segreto, le loro regole assurde, le prospettive ingannevoli, e ogni cosa ne nasconde un'altra. […]
- Anche le città credono d'essere opera della mente o del caso, ma né l'una né l'altra bastano a tener su le loro mura. D'una città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda.
Italo Calvino. Le città invisibili.

Da una parte all’altra la città sembra continui in prospettiva moltiplicando il suo repertorio di immagini: invece non ha spessore, consiste solo in un dritto e in un rovescio, come un foglio di carta, con una figura di qua e una di là, che non possono guardarsi nè staccarsi.
Italo Calvino. Le città invisibili.


Lo sguardo percorre le vie come pagine scritte: la città dice tutto quello che devi pensare, ti fa ripetere il suo discorso, e mentre credi di visitarla, non fai che registrare i nomi con cui essa definisce se stessa e tutte le sue parti.
Italo Calvino. Le città invisibili.


Arrivando a ogni nuova città il viaggiatore ritrova un suo passato che non sapeva più d’avere: l’estraneità di ciò che non sei più o non possiedi più t’aspetta al varco nei luoghi estranei e non posseduti.
Italo Calvino, Le città invisibili.


Era un periodo che non m'importava niente di niente, quando venni a stabilirmi in questa città. Stabilirmi non è la parola giusta. Di stabilità non avevo alcun desiderio; volevo che intorno a me tutto restasse fluido, provvisorio, e solo così mi pareva di salvare una mia stabilità interiore, che però non avrei saputo spiegare in che cosa consistesse.
Italo Calvino, Le città invisibili.


La città ti appare come un tutto in cui nessun desiderio va perduto e di cui tu fai parte, e poichè essa gode tutto quello che tu non godi, a te non resta che abitare questo desiderio ed esserne contento.
Italo Calvino. Le città invisibili.



Riconoscente la Luna ha dato alla città di Lalage un privilegio più raro: crescere in leggerezza.
Italo Calvino, Le città invisibili



“- Le tue città non esistono. Forse non sono mai esistite.
Per certo non esisteranno più. Perchè ti trastulli con favole consolanti?
Perchè menti all’imperatore dei tartari, straniero?
Polo sapeva secondare l’umor nero del sovrano.
- Sì, l’impero è malato e, quel che è peggio, cerca d’assuefarsi alle sue piaghe.
Il fine delle mie esplorazioni è questo: scrutando le tracce di felicità che ancora s’intravvedono, ne misuro la penuria. Se vuoi sapere quanto buio hai intorno, devi aguzzare lo sguardo sulle fioche luci lontane.”
Italo Calvino. Le città invisibili.


«Partendosi di là e andando tre giornate verso levante, l'uomo si trova a Diomira, città con sessanta cupole d'argento, statue in bronzo di tutti gli dei, vie lastricate in stagno, un teatro di cristallo, un gallo d'oro che canta ogni mattina su una torre.
Tutte queste bellezze il viaggiatore già conosce per averle viste anche in altre città.
Ma la proprietà di questa è che chi vi arriva una sera di settembre, quando le giornate s'accorciano e le lampade multicolori s'accendono tutte insieme sulle porte delle friggitorie, e da una terrazza una voce di donna grida: uh!, viene da invidiare quelli che ora pensano d'aver già vissuto una sera uguale a questa e d'esser stati quella volta felici.»
Italo Calvino, Le città invisibili / Le città e la memoria 1, Diomira.


«All’uomo che cavalcava lungamente per terreni selvatici viene desiderio d’una città.
Finalmente giunge a Isidora, città dove i palazzi hanno scale a chiocciola incrostate di chiocciole marine, dove si fabbricano a regola d’arte cannocchiali e violini, dove quando il forestiero è incerto tra due donne ne incontra sempre una terza, dove le lotte dei galli degenerano in risse sanguinose tra gli scommettitori.
A tutte queste cose egli pensava quando desiderava una città.
Isidora è dunque la città dei suoi sogni: con una differenza.
La città sognata conteneva lui giovane; a Isidora arriva in tarda età.
Nella piazza c’è il muretto dei vecchi che guardano passare la gioventú; lui è seduto in fila con loro.
I desideri sono già ricordi.»
Italo Calvino, Le città invisibili / Le città e la memoria 2, Isidora.


«Se volete credermi, bene. Ora dirò come è fatta Ottavia, città-ragnatela.
C’è un precipizio in mezzo a due montagne scoscese: la città è sul vuoto, legata alle due creste con funi e catene e passerelle. Si cammina sulle traversine di legno, attenti a non mettere il piede negli intervalli, o ci si aggrappa alle maglie di canapa.
Sotto non c’è niente per centinaia e centinaia di metri: qualche nuvola scorre; s’ intravede piú in basso il fondo del burrone. Questa è la base della città: una rete che serve da passaggio e da sostegno.
Tutto il resto, invece d’elevarsi sopra, sta appeso sotto: scale di corda, amache, case fatte a sacco, attaccapanni, terrazzi come navicelle, otri d’acqua, becchi del gas, girarrosti, cesti appesi a spaghi, montacarichi, docce, trapezi e anelli per i giochi, teleferiche, lampadari, vasi con piante dal fogliame pendulo.
Sospesa sull’abisso, la vita degli abitanti d’Ottavia è meno incerta che in altre città.
Sanno che piú di tanto la rete non regge.»
Italo Calvino, Le città invisibili / Le città sottili 5, Ottavia.


Pensai:“Si arriva a un momento nella vita in cui tra la gente che si è conosciuta i morti sono più dei vivi. E la mente si rifiuta d'accettare altre fisionomie, altre espressioni: su tutte le facce nuove che incontra, imprime i vecchi calchi, per ognuna trova la maschera che s'adatta di più”.
 Italo Calvino, Le città invisibili

«Le immagini della memoria, una volta fissate con le parole, si cancellano», disse Polo.
«Forse Venezia ho paura di perderla tutta in una volta, se ne parlo.
O forse, parlando d'altre città, l'ho già perduta a poco a poco.»
 Italo Calvino, Le città invisibili, 1972


«Già il Gran Kan stava sfogliando nel suo atlante le carte della città che minacciano negli incubi e nelle maledizioni: Enoch, Babilonia, Yahoo, Butua, Brave New World.
Dice: – Tutto è inutile, se l’ultimo approdo non può essere che la città infernale, ed è là in fondo che, in una spirale sempre piú stretta, ci risucchia la corrente.
E Polo: – L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non ve- derlo piú. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.»
Italo Calvino, Le città invisibili




"Inutilmente, magnanimo Kublai, tenterò di descriverti la città di Zaira dagli alti bastioni. Potrei dirtidi quanti gradini sono le vie fatte a scale, di che sestogli archi dei porticati, di quali lamine di zinco sono ricoperti i tetti; ma so già che sarebbe come non dirti nulla. Non di questo è fatta la città, ma di relazio-ni tra le misure del suo spazio e gli avvenimenti del suo passato: la distanza dal suolo d’un lampione e i piedi penzolanti d’un usurpatore impiccato; il filo te-so dal lampione alla ringhiera di fronte e festoni cheimpavesavano il percorso del corteo nuziale della regina; l’altezza di quella ringhiera e il salto dell’adultero che la scavalca all’alba; l’inclinazione d’una grondaia e l’incedervi d’un gatto che s’infila nella stessa finestra;la linea di tiro della nave cannoniera apparsa all’im-provviso dietro il capo e la bomba che distrugge la grondaia; gli strappi delle reti da pesca e i tre vecchi che seduti sul molo a rammendare le reti si raccontano per la centesima volta la storia della cannoniera del-l’usurpatore, che si dice fosse un figlio adulterino della regina, abbandonato in fasce lì sul molo. Di quest’on-da che rifluisce dai ricordi la città s’imbeve come una spugna e si dilata. Una descrizione di Zaira quale è oggi dovrebbe contenere tutto il passato di Zaira. Ma la città non dice il suo passato, lo contiene come le linee d’una mano, scritto negli spigoli delle vie, nelle griglie delle finestre, negli scorrimano delle scale, nel-le antenne dei parafulmini, nelle aste delle bandiere,ogni segmento rigato a sua volta di graffi, seghettature, intagli, svirgole".
Italo Calvino, Le città invisibili



«Il fine delle mie esplorazioni è questo: scrutando le tracce di felicità che ancora si intravvedono, ne misuro la penuria. Se vuoi sapere quanto buio hai intorno, devi aguzzare lo sguardo sulle fioche luci lontane».
Italo Calvino, Le città invisibili


- Che senso ha il vostro costruire? domanda.
- Qual è il fine d'una città in costruzione se non una città?
Dov'è il piano che seguite, il progetto?
- Te lo mostreremo appena termina la giornata;
ora non possiamo interrompere, - rispondono.
Il lavoro cessa al tramonto. Scende la notte sul cantiere.
E’ una notte stellata. - Ecco il progetto, dicono.
Italo Calvino, Le città invisibili


È delle città come dei sogni: tutto l’immaginabile può essere sognato ma anche il sogno più inatteso è un rebus che nasconde un desiderio, oppure il suo rovescio, una paura. Le città come i sogni sono costruite di desideri e di paure, anche se il filo del loro discorso è segreto, le loro regole assurde, le prospettive ingannevoli, e ogni cosa ne nasconde un’altra.
Italo Calvino, Le città invisibili (1972)


Valdrada: Lo specchio ora accresce il valore delle cose, ora lo nega. Non tutto quel che sembra valere sopra lo specchio resiste se specchiato. Le due città gemelle non sono uguali, perché nulla di ciò che esiste o avviene a Valdrada è simmetrico: a ogni viso o gesto rispondono dallo specchio un viso o gesto inverso punto per punto. Le due Valdrade vivono l’una per l’altra, guardandosi negli occhi di continuo, ma non si amano.
Italo Calvino, Le città invisibili





L’altrove è uno specchio in negativo.
Il viaggiatore riconosce il poco che è suo,
scoprendo il molto che non ha avuto e non avrà.
Italo Calvino. “Le città invisibili”


Perseo riesce a padroneggiare quel volto tremendo tenendolo nascosto, come prima l’aveva vinto guardandolo nello specchio. È sempre in un rifiuto della visione diretta che sta la forza di Perseo, ma non in un rifiuto della realtà del mondo di mostri in cui gli è toccato di vivere, una realtà che egli porta con sé, che assume come proprio fardello.
Italo Calvino, La leggerezza


"Kublai era un attento giocatore di scacchi; seguendo i gesti di Marco osservava che certi pezzi implicavano o escludevano la vicinanza d'altri pezzi si spostavano secondo certe linee. Trascurando la varietà di forme degli oggetti, ne definiva il modo di disporsi gli uni rispetto agli altri sul pavimento di maiolica. Pensò: «Se ogni città è come un partita a scacchi, il giorno in cui arriverò a conoscerne le regole possiederò finalmente il mio impero, anche se mai riuscirò a conoscere tutte le città che contiene».
In fondo, era inutile che Marco per parlargli delle sue città ricorresse a tante cianfrusaglie: bastava una scacchiera coi suoi pezzi dalle forme esattamente classificabili. A ogni pezzo si poteva volta a volta attribuire un significato appropriato: un cavallo poteva rappresentare tanto un vero cavallo quanto un corteo di carrozze, un esercito in marcia, un monumento equestre; e una regina poteva essere una dama affacciata al balcone, una fontana, una chiesa dalla cupola cuspidata, una pianta di mele cotogne.
Tornando dalla sua ultima missione Marco Polo trovò il Kan che lo attendeva seduto davanti a una scacchiera. Con un gesto lo invitò a sedersi di fronte a lui e a descrivergli col solo aiuto degli scacchi le città che aveva visitato. Il veneziano non si perse d'animo. Gli scacchi del Gran Kan erano grandi pezzi d'avorio levigato: disponendo sulla scacchiera torri incombenti e cavalli ombrosi, addensando sciami di pedine, tracciando viali diritti o obliqui come l'incedere della regina, Marco ricreava le prospettive e gli spazi di città bianche e nere nelle notti di luna.
Al contemplare questi paesaggi essenziali, Kublai rifletteva sull'ordine invisibile che regge le città, sulle regole cui risponde il loro sorgere e prender forma e prosperare e adattarsi alle stagioni e intristire e cadere in rovina. Alle volte gli sembrava d'essere sul punto di scoprire un sistema coerente e armonioso che sottostava alle infinite difformità e disarmonie, ma nessun modello reggeva il confronto con quello del gioco degli scacchi. Forse, anziché scervellarsi a evocare col magro ausilio dei pezzi d'avorio visioni comunque destinate all'oblio, bastava giocare una partita secondo le regole, e contemplare ogni successivo stato della scacchiera come una delle innumerevoli forme che il sistema delle forme mette insieme e distrugge.
Ormai Kublai Kan non aveva più bisogno di mandare Marco Polo in spedizioni lontane: lo tratteneva a giocare interminabili partite a scacchi. La conoscenza dell'impero era nascosta nel disegno tracciato dai salti spigolosi del cavallo, dai varchi diagonali che s'aprono alle incursioni dell'alfiere, dal passo strascicato e guardingo del re e dell'umile pedone, dalle alternative inesorabili d'ogni partita.
Il Gran Kan cercava d'immedesimarsi nel gioco: ma adesso era il perché del gioco a sfuggirli. Il fine d'ogni partita è una vincita o una perdita: ma di cosa? Qual era la vera posta? Allo scacco matto, sotto il piede del re sbalzato via dalla mano del vincitore, resta un quadrato nero o bianco. A forza di scorporare le sue conquiste per ridurle all'essenza, Kublai era arrivato all'operazione estrema: la conquista definitiva, di cui i multiformi tesori dell'impero non erano che involucri illusori, si riduceva a un tassello di legno piallato: il nulla."
Italo Calvino, Le città invisibili



"L’atlante del Gran Kan contiene anche le carte delle terre promesse visitate nel pensiero ma non ancora scoperte o fondate: la Nuova Atlantide, Utopia, la Città del Sole, Oceana, Tamoé, Armonia, New-Lanark, Icaria.
Chiese a Marco Kublai: – Tu che esplori intorno e vedi i segni, saprai dirmi verso quali di questi futuri ci spingono i venti propizi.
- Per questi porti non saprei tracciare la rotta sulla carta né fissare la data dell’approdo. Alle volte mi basta uno scorcio che s’apre nel bel mezzo d’un paesaggio incongruo, un affiorare di luci nella nebbia, il dialogo di due passanti che s’incontrano nel viavai, per pensare che partendo di li metterò assieme pezzo a pezzo la città perfetta, fatta di frammenti mescolati col resto, d’istanti separati da intervalli, di segnali che uno manda e non sa chi li raccoglie. Se ti dico che la città cui tende il mio viaggio è discontinua nello spazio e nel tempo, ora più rada ora più densa, tu non devi credere che si possa smettere di cercarla. Forse mentre noi parliamo sta affiorando sparsa entro i confini del tuo impero; puoi rintracciarla, ma a quel modo che t’ho detto.
Già il Gran Kan stava sfogliando nel suo atlante le carte della città che minacciano negli incubi e nelle maledizioni: Enoch, Babilonia, Yahoo, Butua, Brave New World.
Dice: – Tutto è inutile, se l’ultimo approdo non può essere che la città infernale, ed è là in fondo che, in una spirale sempre più stretta, ci risucchia la corrente.
E Polo: – L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio."
Brano tratto da Italo Calvino, Le città invisibili


Marco Polo descrive un ponte, pietra per pietra.
"Ma qual è la pietra che sostiene il ponte?" - chiede Kublai Kan.
"Il ponte non è sostenuto da questa o quella pietra, - risponde Marco - ma dalla linea dell'arco che esse formano."
Kublai Kan rimane silenzioso, riflettendo. Poi soggiunge:
"Perché mi parli delle pietre? E' solo dell'arco che m'importa."
Polo risponde: "Senza pietre non c'è arco."
Italo Calvino




Come stabilire il momento esatto in cui comincia una storia?
Tutto è sempre cominciato già prima. La prima riga della prima pagina di ogni romanzo rimanda a qualcosa che è già successo fuori del libro. Oppure la vera storia è quella che comincia dieci pagine più avanti e tutto ciò che precede è solo un prologo
Italo Calvino


Chi è ciascuno di noi se non una COMBINATORIA D'ESPERIENZE, d'INFORMAZIONI, di LETTURE, d'IMMAGINAZIONI? OGNI VITA E' UN'ENCICLOPEDIA, una BIBLIOTECA, un inventario d'oggetti, un campionario di stili, dove TUTTO PUO' ESSERE CONTINUAMENTE RIMESCOLATO e RIORDINATO IN TUTTI I MODI POSSIBILI.
Italo Calvino



Si conobbero. Lui conobbe lei e se stesso, perché in verità non s’era mai saputo. E lei conobbe lui e se stessa, perché pur essendosi saputa sempre, mai s’era potuta riconoscere così.
Italo Calvino


Pamela - sospirò il visconte - nessun altro linguaggio abbiamo per parlarci se non questo. Ogni incontro di due esseri al mondo è uno sbranarsi. Vieni con me, io ho la conoscenza di questo male e sarai più sicura che con chiunque altro; perché io faccio del male come tutti lo fanno; ma, a differenza degli altri, io ho la mano sicura.
Italo Calvino



Viaggiando si può realizzare che le differenze sono andate scomparendo: tutte le città tendono ad assomigliarsi l'una all'altra, i posti hanno mutato le loro forme e ordinamenti. Una polvere senza forma ha potuto invadere i continenti.
Italo Calvino


"Viviamo in un paese dove si verificano sempre le cause e non gli effetti"
Italo Calvino
Scritto (1923 -1985)


"O Pamela, questo è il bene dell'essere dimezzato: il capire d'ogni persona e cosa al mondo la pena che ognuno e ognuna ha per la propria incompletezzaIo ero intero e non capivo, e mi muovevo sordo e incomunicabile tra i dolori e le ferite seminati dovunque, là dove meno da intero uno osa credere. Non io solo, Pamela, sono un essere spaccato e divelto, ma tu pure e tutti. Ecco ora io ho una fraternità che prima, da intero, non conoscevo: quella con tutte le mutilazioni e le mancanze del mondo. Se verrai con me, Pamela, imparerai a soffrire dei mali di ciascuno e a curare i tuoi curando i loro".
Italo Calvino


Arrivando a ogni nuova città il viaggiatore ritrova un suo passato che non sapeva più d'avere: l'estraneità di ciò che non sei più o non possiedi più t'aspetta al varco nei luoghi estranei e non posseduti.  
Italo Calvino


Chi vuole guardare bene la terra deve tenersi alla distanza necessaria
Italo Calvino


Il mondo è così complicato, aggrovigliato e sovraccarico che per vederci un po' chiaro è necessario sfoltire, sfoltire.
Italo Calvino


L'origine di tutti i peccati è il senso d'inferiorità, detto altresì ambizione
Italo Calvino


Tutti abbiamo una ferita segreta per riscattare la quale combattiamo.
Italo Calvino


L'inconscio è l'oceano dell'indicibile, di tutto ciò che è stato espulso dalla terra del linguaggio, rimosso come risultato di un'antica proibizione.
Italo Calvino


L'inconscio è il mare del non dicibile, dell'espulso fuori dai confini del linguaggio, del rimosso in seguito ad antiche proibizioni
Italo Calvino da Cibernetica e fantasmi, in Saggi


Ma ogni momento della mia vita porta con sé un'accumulazione di fatti nuovi e ognuno di questi fatti nuovi porta con sé le sue conseguenze,cosicché più cerco di tornare al momento zero da cui sono partito più me ne allontano.
Italo Calvino



“Nella mia esperienza la spinta a scrivere è sempre legata alla mancanza di qualcosa che si vorrebbe conoscere e possedere, qualcosa che ci sfugge. E siccome conosco bene questo tipo di spinta, mi sembra di poterla riconoscere anche nei grandi scrittori le cui voci sembrano giungerci dalla cima d’una esperienza assoluta. Quello che essi ci trasmettono è il senso dell’approccio all’esperienza, più che il senso dell’esperienza raggiunta; il loro segreto è il saper conservare intatta la forza del desiderio.


In un certo senso, credo che sempre scriviamo di qualcosa che non sappiamo: scriviamo per rendere possibile al mondo non scritto di esprimersi attraverso di noi. Nel momento in cui la mia attenzione si sposta dall'ordine regolare delle righe scritte e segue la mobile complessità che nessuna frase può contenere o esaurire, mi sento vicino a capire che dall’altro lato delle parole c’è qualcosa che cerca d’uscire dal silenzio, di significare attraverso il linguaggio, come battendo colpi su un muro di prigione”.
Italo Calvino, Mondo scritto e mondo non scritto



Penso che la lettura non sia paragonabile con nessun altro mezzo d’apprendimento e di comunicazione, perché la lettura ha un suo ritmo che è governato dalla volontà del lettore; la lettura apre spazi di interrogazione e di meditazione e di esame critico, insomma di libertà; la lettura è un rapporto con noi stessi e non solo col libro, col nostro mondo interiore attraverso il mondo che il libro ci apre. Forse il tempo che potrà essere destinato alla lettura sarà sempre più occupato da altre cose; questo è vero già oggi, ma forse era ancora più vero in passato per la maggior parte degli esseri umani. Comunque sia, chi ha bisogno di leggere, chi ha piacere di leggere (e leggere è certamente un bisogno-piacere) continuerà a ricorrere ai libri, a quelli del passato e a quelli del futuro.
Italo Calvino - da una conferenza tenuta alla Fiera del Libro di Buenos Aires nel 1984 (Il libro, i libri)


"Scrivere è sempre nascondere qualcosa in modo che venga poi scoperto".
Italo Calvino

La parola collega la traccia visibile alla cosa invisibile, alla cosa assente, alla cosa desiderata o temuta, come un fragile ponte di fortuna gettato sul vuoto.
Italo Calvino, Lezioni americane



Mi sembra che il linguaggio venga sempre usato in modo approssimativo, casuale, sbadato e ne provo un fastidio intollerabile. Non si creda che questa mia reazione corrisponda a un'intolleranza per il prossimo: il fastidio peggiore lo provo sentendo parlare me stesso. Per questo cerco di parlare il meno possibile, e se preferisco scrivere è perché scrivendo posso correggere ogni frase tante volte quanto è necessario non dico a essere soddisfatto delle mie parole, ma almeno a eliminare le ragioni d'insoddisfazione di cui posso rendermi conto.
Italo Calvino, Lezioni americane

Certo la letteratura non sarebbe mai esistita se una parte degli esseri umani non fosse stata incline ad una forte introversione, ad una scontentezza per il mondo com’è, a un dimenticarsi delle ore e dei giorni fissando lo sguardo sull’immobilità delle parole mute.
Italo Calvino, Lezioni americane

Oggi siamo bombardati da una tale quantità d’immagini da non saper più distinguere l’esperienza diretta da ciò che abbiamo visto per pochi secondi alla televisione. La memoria è ricoperta da strati di frantumi d’immagini come un deposito di spazzatura, dove è sempre più difficile che una figura tra le tante riesca ad acquistare rilievo.
Italo Calvino, Lezioni americane. Visibilità.


"Chi siamo noi ? Chi è ciascuno di noi se non una combinatoria d’esperienze, d’informazioni, di letture, d’immaginazioni? Ogni vita è un’enciclopedia, una biblioteca, un inventario d’oggetti, un campionario di stili, dove tutto può essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili. Magari fosse possibile un’opera concepita al di fuori del self, un’opera che ci permettesse d’uscire dalla prospettiva limitata da un Io individuale… per far parlare ciò che non ha parola, l’uccello che si posa sulla grondaia, l’albero in primavera e l’albero in autunno, la pietra, il cemento, la plastica… Non era forse questo il punto d’arrivo cui tendeva Lucrezio nell’identificarsi con la natura comune a tutte le cose?"
Italo Calvino, Lezioni americane. Molteplicità

Italo Calvino, Lezioni americane, La molteplicità.
«Sono giunto al termine di questa mia apologia del romanzo come grande rete. Qualcuno potrà obiettare che più l’opera tende alla moltiplicazione dei possibili più s’allontana da quell’unicum che è il self di chi scrive, la sincerità interiore, la scoperta della propria verità. Al contrario, rispondo, chi siamo noi, chi è ciascuno di noi se non una combinatoria d’esperienze, d’informazioni, di letture, d’immaginazioni? Ogni vita è un’enciclopedia, una biblioteca, un inventario d’oggetti, un campionario di stili, dove tutto può essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili.
Ma forse la risposta che mi sta più a cuore dare è un’altra: magari fosse possibile un’opera concepita al di fuori del self, un’opera che ci permettesse d’uscire dalla prospettiva limitata d’un io individuale, non solo per entrare in altri io simili al nostro, ma per far parlare ciò che non ha parola, l’uccello che si posa sulla grondaia, l’albero in primavera e l’albero in autunno, la pietra, il cemento, la plastica…
Non era forse questo il punto d’arrivo cui tendeva Ovidio nel raccontare la continuità delle forme, il punto d’arrivo cui tendeva Lucrezio nell’identificarsi con la natura comune a tutte le cose?»
Italo Calvino, Lezioni americane, La molteplicità
brano tratto da "Lezioni americane"


Alle volte mi sembra che un’epidemia pestilenziale abbia colpito l’umanità nella facoltà che più la caratterizza, cioè l’uso della parola, una peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a livellare l’espressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare le punte espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze.
Non m’interessa qui chiedermi se le origini di quest’epidemia siano da ricercare nella politica, nell’ideologia, nell’uniformità burocratica, nell’omogeneizzazione dei mass-media, nella diffusione scolastica della media cultura. Quel che mi interessa sono le possibilità di salute. La letteratura (e forse solo la letteratura)6 può creare degli anticorpi che contrastino l’espandersi della peste del linguaggio.
Italo Calvino, Lezioni americane, Garzanti, Milano, 1988, p. 58
brano tratto da "Lezioni americane," Esattezza"



Il cosmo può essere cercato anche all'interno d'ognuno di noi, come caos indifferenziato, come molteplicità potenziale. Il sonno appartiene a una cosmicità antropologica come sapeva bene chi ha cominciato una delle più grandi imprese della narrativa d'ogni tempo con queste parole: "Longtemps je me suis couché de bonne heure"[Per molto tempo, mi sono coricato presto la sera]. Non solo, ma basta sfogliare la Recherche per vedere quante volte l'addormentarsi e il risvegliarsi, questi due momenti su cui Proust ha innumerevoli cose da dirci, figurano in apertura di un capitolo o d'un volume, come il bellissimo attacco del risveglio all'inizio della Prisonnière. Ma fermandoci all'inizio dell'opera, "Longtemps je me suis couché de bonne heure", il punto che più interessa il nostro discorso è pochi paragrafi/ capoversi più avanti:
"Un homme qui dort tient en cercle autour de lui le fil des heures, l'ordre des années et des mondes. Il les consulte d'instinct en s'éveillant et y lit en une seconde le point de la terre qu'il occupe, le temps qui s'est écoulé jousqu'à son reveil; mais leurs rangs peuvent se meler, se rompre" [Un uomo che dorme tiene intorno a sé in cerchio il filo delle ore, gli ordini degli anni e dei mondi. Li consulta istintivamente svegliandosi e vi legge in un attimo il punto della terra ch'egli occupa, il tempo trascorso fino al suo risveglio; ma i loro giri possono confondersi, spezzarsi].
Dove vediamo che la molteplicità delle storie possibili si rovescia nella molteplicità del vissuto possibile, l'unicità del racconto che inizia diventa l'unicità delle giornate che ci tocca di vivere, decisa al risveglio, nel distacco dall'indeterminatezza del sonno. Siamo partiti dalle Muse di Omero, custodi della memoria, ed ecco che il poema della memoria del nostro secolo, la Recherche, fa appello all'oblio, per ritrovare a partire da esso i fili del ricordo.
Italo Calvino, Lezioni americane


"Ogni giorno [...] per un processo ormai automatico, centinaia di migliaia di nostri concittadini traducono mentalmente con la velocità di macchine elettroniche la lingua italiana in un’antilingua inesistente. Avvocati e funzionari, gabinetti ministeriali e consigli d’amministrazione, redazioni di giornali e di telegiornali scrivono parlano pensano nell’antilingua.
Caratteristica principale dell’antilingua è quella che definirei il «terrore semantico», cioè la fuga di fronte a ogni vocabolo che abbia di per se stesso un significato, come se «fiasco» «stufa» «carbone» fossero parole oscene, come se «andare» «trovare» «sapere» indicassero azioni turpi. Nell’antilingua i significati sono costantemente allontanati, relegati in fondo a una prospettiva di vocaboli che di per se stessi non vogliono dire niente o vogliono dire qualcosa di vago e sfuggente. Abbiamo una linea esilissima, composta da nomi legati da preposizioni, da una copula o da pochi verbi svuotati della loto forza [...]. Chi parla l’antilingua ha sempre paura di mostrare familiarità e interesse per le cose di cui parla, crede di dover sottintendere: «io parlo di queste cose per caso, ma la mia «funzione» è ben più in alto delle cose che dico e che faccio, la mia «funzione» è più in alto di tutto, anche di me stesso ».
La motivazione psicologica dell’antilingua è la mancanza d’un vero rapporto con la vita, ossia in fondo l’odio per se stessi. La lingua invece vive solo d’un rapporto con la vita che diventa comunicazione, d’una pienezza esistenziale che diventa espressione. Perciò dove trionfa l’antilingua – l’italiano di chi non sa dire ho «fatto», ma deve dire «ho effettuato» – la lingua viene uccisa. "
Italo Calvino


Narrazione e comprensione.
Siamo la capacità di raccontarci. Nessun animale lo fa, non vive la traiettoria della sua vita fin dall’inizio; parte da ora, dalla fine. La capacità di narrare e di narrarsi è presente già nel bambino di tre - quattro anni, attraverso monologhi (il narrare "privato"). Quindi ha basi culturalmente assai radicate. Forse attorno ai primi fuochi i primi esseri umani cominciarono a balbettare le loro storie. E cominciò a formarsi la mente umana. Il monologo deve essere considerato, malgrado l’apparenza, come una varietà di dialogo, è un dialogo interiorizzato, tra l’anima e il suo corpo. A narrare si è in due. Se l’uno può esporre il proprio racconto, è perché l’altro è disposto ad ascoltarlo. Se non c’è nessuno, raccontiamo a noi stessi. Il secondo tuttavia è tutt’altro che passivo. Con le sue aspettative determina ciò che viene detto nella mente. Perciò narrazione come costruzione della nostra esperienza, come veicolo per il ricordo, narrazione come sequenza di eventi, stati mentali, situazioni che coinvolge gli esseri umani come personaggi o come attori. Quel meccanismo psicologico importante poiché la narrazione ha valenze conoscitive ed emotive. Vi è un’attitudine o predisposizione a organizzare l’esperienza in forma narrativa. Per ricostruire la realtà dandogli un significato. Ogni individuo sente il bisogno di definirsi come soggettività dotata di scopi e intenzionalità e ricostruisce gli avvenimenti della propria vita in modo tale che siano in linea con questa idea di Sé. Nasce così la coscienza umana, che fa finta di capirci qualcosa. “Quando mi stacco dal mondo scritto per ritrovare il mio posto nell’altro, in quello che usiamo chiamare il mondo, fatto di tre dimensioni, cinque sensi, popolato da miliardi di nostri simili, questo equivale per me ogni volta a ripetere il trauma della nascita, a dar forma di realtà intelligibile a un insieme di sensazioni confuse, a scegliere una strategia per affrontare l’inaspettato senza essere distrutto”.
Italo Calvino, Mondo scritto e Mondo non scritto






“Amo soprattutto Stendhal perché solo in lui tensione morale individuale, tensione storica, slancio della vita sono una cosa sola, lineare tensione romanzesca.
Amo Puskin perché è limpidezza, ironia e serietà.
Amo Hemingway perché è matter of fact, understatement, volontà di felicità, tristezza.
Amo Stevenson perché pare che voli.
Amo Cechov perché non va più in là di dove va.
Amo Conrad perché naviga l’abisso e non ci affonda.
Amo Tolstoj perché alle volte mi pare d’essere lì lì per capire come fa e invece niente.
Amo Manzoni perché fino a poco fa l’odiavo.
Amo Chesterton perché voleva essere il Voltaire cattolico e io volevo essere il Chesterton comunista.
Amo Flaubert perché dopo di lui non si può più pensare di fare come lui.
Amo Poe dello Scarabeo d’oro.
Amo Twain di Huckleberry Finn.
Amo Kipling dei Libri della Giungla.
Amo Nievo perché l’ho riletto tante volte divertendomi come la prima.
Amo Jane Austen perché non la leggo mai ma sono contento che ci sia.
Amo Gogol perché deforma con nettezza, cattiveria e misura.
Amo Dostoevskij perché deforma con coerenza, furore e senza misura.
Amo Balzac perché è visionario.
Amo Kafka perché è realista.
Amo Maupassant perché è superficiale.
Amo la Mansfield perché è intelligente.
Amo Fitzgerald perché è insoddisfatto.
Amo Radiguet perché la giovinezza non torna più.
Amo Svevo perché bisognerà pur invecchiare.
Amo…”
Italo Calvino - Durante un’intervista a L’Europeo del 1980.


All'uomo che cavalca lungamente per terreni selvatici viene desiderio d’una città. Finalmente giunge a Isidora, città dove i palazzi hanno scale a chiocciola incrostate di chiocciole marine, dove si fabbricano a regola d’arte cannocchiali e violini, dove quando il forestiero è incerto tra due donne ne incontra sempre una terza, dove le lotte dei galli degenerano in risse sanguinose tra gli scommettitori. A tutte queste cose egli pensava quando desiderava una città. Isidora è dunque la città dei suoi sogni: con una differenza. La città sognata conteneva lui giovane; a Isidora arriva in tarda età. Nella piazza c’è il muretto dei vecchi che guardano passare la gioventù; lui è seduto in fila con loro.
I desideri sono già ricordi.
Italo Calvino



La città ti appartiene come un tutto in cui nessun desiderio va perduto e di cui tu fai parte, e poiché essa gode tutto quello che tu non godi, a te non resta che abitare questo desiderio ed esserne contento. 
Italo Calvino


Già dalla mia giovinezza ho scelto come motto l’antica massima latina Festina lente, affrettati lentamente. Forse più che le parole e il concetto è stata la suggestione degli emblemi ad attrarmi. Ricorderete quello del grande editore umanista veneziano, Aldo Manuzio che su ogni frontespizio simboleggiava il Festina lente in un delfino che guizza sinuoso attorno a un’àncora. L’intensità e la costanza del lavoro intellettuale sono rappresentate in quell’elegante marchio grafico
Italo Calvino, Lezioni Americane, Rapidità


Σπεῦδε βραδέως.
Speude bradeōs.
"Affrettati lentamente!" – Nell’originale: "Σπεῦδε βραδέως• ἀσφαλὴς γάρ ἐστ᾿ ἀμείνων ἢ θρασὺς στρατηλάτης.", "Affrettati lentamente! Un condottiero prudente è meglio di uno temerario.".
La traduzione latina "Festina lente!" era secondo Svetonio una delle massime preferite dell’imperatore romano Augusto ("Divus Augustus" 25, 4).



IL BARONE RAMPANTE è un romanzo di ITALO CALVINO scritto nel 1957, secondo capitolo della trilogia araldica I NOSTRI ANTENATI, insieme a IL VISCONTE DIMEZZATO (1952) e IL CAVALIERE INESISTENTE (1959). “Il narratore ripercorre la lunga vicenda del fratello, Cosimo di Rondò, vissuto nella seconda metà del XVIII secolo a Ombrosa, in Liguria. Cosimo, per sfuggire a una punizione inflittagli dai suoi educatori, decide di salire su un albero per non ridiscendere mai più. Cosimo si costruisce un mondo aereo dove diversi personaggi della cultura e della politica (Napoleone compreso) lo vanno a trovare, testimoniandogli la loro ammirazione. Vive anche una tormentata storia d'amore con la volubile Viola. Cosimo muore vecchio, senza mai discendere in terra: ammalato, in punto di morte, si aggrappa alla fune di una mongolfiera e scompare mentre attraversa, così appeso, il mare.




Il Barone rampante, oltre ad aver evitato la società vivendo al di sopra, fra gli alberi, ha evitato perfino la morte: giunto alla vecchiaia, Calvino non lo fa morire, ma solo scomparire per un altro mondo aereo, si aggrappa alla mongolfiera con un balzo da ventenne, e... semplicemente scompare, vola via, non muore!!! La trovo una bellissima trovata.


....mi sento vicino a capire che dall’altro lato delle parole c’è qualcosa che cerca d’uscire dal silenzio, di significare attraverso il linguaggio, come battendo colpi su un muro di prigione.
Italo Calvino


Il suo paesaggio cambiò. Se aveva vissuto a Parigi come un estraneo e a Roma come un ospite, ora la sua vera casa era la pineta di Roccamare, presso Castiglione della Pescaia. In qualche modo, ripeteva il paesaggio ligure. Anche qui, tutto era limitato: una striscia di sabbia chiusa tra due promontori, una pineta, una macchia, un piccolo giardino dove tutto sembrava miniutarizzato. Scriveva nel cuore della casa, in alto, in uno studiolo raggiunto da una scala pericolosissima, come in un pollaio aereo o in una colombaia. Sotto i suoi piedi, la moglie parlava con le amiche o con la domestica, entravano i fornitori, arrivavano gli amici; e lui continuava a scrivere, immerso nel rumore dell'esistenza, vegliando sulla casa come una cicogna. Non diceva mai di no alle cosa. Ma si era ormai allontanato profondamente dalla realtà, chiuso nel suo mondo di ombre leggere. Sulle soglie tra lui e la vita, tra lui e gli altri, aveva disposto la moglie, che doveva riferirgli tutto: che volti avessero gli altri uomini, cosa accadesse nella pineta, che ombre gettassero gli alberi, che odori attraversavano il prato, che sapori avevano i cibi, che suoni la musica. Lassù in alto, come un'ape riceveva il miele che la moglie aveva raccolto, e lo depositava nella delicatissima arnia della sua mente. (…)
Poi sulla pineta scesero, troppo rapidamente gli ultimi anni. Volgendo le spalle a qualsiasi idea generale, Calvino si accontentava di contemplare un'onda, un ciuffo d'erba nel giardino, un uccello che cantava (…) L'ultima estate fu difficile. Scriveva le sue Lezioni americane: un libro bellissimo, l'Ars poetica della nostra fine di secolo, dove la letteratura antica e moderna si riflettono in un limpido specchio. Non era di buon umore: non usciva più di casa, chiuso nell'alta colombaia, non faceva il bagno. Pensava di perdere tempo: era uno scrittore, doveva dar forma alle decine di racconti che gli gremivano il capo, non riflettere sulla letteratura. Ai primi del settembre 1985 le Lezioni erano quasi finite: ma, per lui appartenevano già ad un tempo passato. In quegli ultimi giorni lo vidi due volte; e fu tenero, affettuoso, divertente, quasi felice. (…) Poi non ci fu più niente. Ci fu la caduta al suolo, la cosa dell'autoambulanza fino a Siena, l'orribile ospedale dove avevo conosciuto altre morti, i visi stravolti dei medici, l'operazione inutile, i discorsi inutili, le attese inutili, il capo bendato, la piccola tomba sul mare di Castiglione. Una mattina i medici ci dissero, per consolarci, che tutto era andato benissimo. Quella di Italo era una malformazione cerebrale congenita. Avrebbe dovuto morire a venticinque o trenta anni al più tardi. Quanto tempo aveva guadagnato; quanti libri aveva scritto, col suo passo da marinaio-contadino che si inoltrava nei gerbidi. Come era stato accorto nel sottrarre tempo - l'unica ricchezza che importa - alle divinità che si prendono gioco di noi. E mi dissi che nemmeno lui, forse, sapeva di essere così fragile. Aveva eluso la propria fragilità colla pazienza, il lavoro, la discrezione e quella terribile maga, che trasforma ogni fragilità in forza, ogni forza in fragilità: la letteratura.
Non sogno mai. Due anni più tardi, Italo mi apparve in sogno. Aveva ancora la fronte bendata, ma il sorriso era quello, luminosissimo, dell'ultima sera. Mi diceva: «Sai, è stato tutto uno sbaglio. I medici non hanno capito. Non sono morto».
Pietro Citati in ricordo di Italo Calvino




"Stai per cominciare a leggere il nuovo romanzo Se una notte d'inverno un viaggiatore di Italo Calvino. Rilassati. Raccogliti. Allontana da te ogni altro pensiero. Lascia che il mondo che ti circonda sfumi nell'indistinto. La porta è meglio chiuderla; di là c'è sempre la televisione accesa. Dillo subito, agli altri: «No, non voglio vedere la televisione!» Alza la voce, se no non ti sentono: «Sto leggendo! Non voglio essere disturbato!» Forse non ti hanno sentito, con tutto quel chiasso; dillo più forte, grida: «Sto cominciando a leggere il nuovo romanzo di Italo Calvino! » O se non vuoi non dirlo; speriamo che ti lascino in pace.
Prendi la posizione più comoda: seduto, sdraiato, raggomitolato, coricato. Coricato sulla schiena, su un fianco, sulla pancia. In poltrona, sul divano, sulla sedia a dondolo, sulla sedia a sdraio, sul pouf. Sull'amaca, se hai un'amaca. Sul letto, naturalmente, o dentro il letto. Puoi anche metterti a testa in giù, in posizione yoga. Col libro capovolto, si capisce.
Certo, la posizione ideale per leggere non si riesce a trovarla. Una volta si leggeva in piedi, di fronte a un leggio. Si era abituati a stare fermi in piedi. Ci si riposava così quando si era stanchi d'andare a cavallo. A cavallo nessuno ha mai pensato di leggere; eppure ora l'idea di leggere stando in arcioni, il libro posato sulla criniera del cavallo, magari appeso alle orecchie del cavallo con un finimento speciale, ti sembra attraente. Coi piedi nelle staffe si dovrebbe stare molto comodi per leggere; tenere i piedi sollevati è la prima condizione per godere della lettura.
Bene, cosa aspetti? Distendi le gambe, allunga pure i piedi su un cuscino, su due cuscini, sui braccioli del divano, sugli orecchioni della poltrona, sul tavolino da tè, sulla scrivania, sul pianoforte, sul mappamondo. Togliti le scarpe, prima. Se vuoi tenere i piedi sollevati; se no, rimettitele. Adesso non restare lì con le scarpe in una mano e il libro nell'altra.
Regola la luce in modo che non ti stanchi la vista. Fallo adesso, perché appena sarai sprofondato nella lettura non ci sarà più verso di smuoverti. Fa' in modo che la pagina non resti in ombra, un addensarsi di lettere nere su sfondo grigio, uniformi come un branco di topi; ma sta' attento che non le batta addosso una luce troppo forte e non si rifletta sul bianco crudele della carta rosicchiando le ombre dei caratteri come in un mezzogiorno del Sud. Cerca di prevedere ora tutto ciò che può evitarti d'interrompere la lettura. Le sigarette a portata di mano, se fumi, il portacenere. Che c'è ancora? Devi far pipì? Bene, saprai tu.
Non che t'aspetti qualcosa di particolare da questo libro in particolare. Sei uno che per principio non s'aspetta più niente da niente. Ci sono tanti, più giovani di te o meno giovani, che vivono in attesa d'esperienze straordinarie; dai libri, dalle persone, dai viaggi, dagli avvenimenti, da quello che il domani tiene in serbo. Tu no. Tu sai che il meglio che ci si può aspettare è di evitare il peggio. Questa è la conclusione a cui sei arrivato, nella vita personale come nelle questioni generali e addirittura mondiali. E coi libri? Ecco, proprio perché lo hai escluso in ogni altro campo, credi che sia giusto concederti ancora questo piacere giovanile dell'aspettativa in un settore ben circoscritto come quello dei libri, dove può andarti male o andarti bene, ma il rischio della delusione non è grave.
Dunque, hai visto su un giornale che è uscito Se una notte d'inverno un viaggiatore, nuovo libro di Italo Calvino, che non ne pubblicava da vari anni. Sei passato in libreria e hai comprato il volume. Hai fatto bene.
Già nella vetrina della libreria hai individuato la copertina col titolo che cercavi. Seguendo questa traccia visiva ti sei fatto largo nel negozio attraverso il fitto sbarramento dei Libri Che Non Hai letto che ti guardavano accigliati dai banchi e dagli scaffali cercando d'intimidirti. Ma tu sai che non devi lasciarti mettere in soggezione, che tra loro s'estendono per ettari ed ettari i Libri Che Puoi Fare A Meno Di Leggere, i Libri Fatti Per Altri Usi Che La Lettura, i Libri Già Letti Senza Nemmeno Bisogno D'Aprirli In Quanto Appartenenti Alla Categoria Del Già Letto Prima Ancora D'Essere Stato Scritto. E così superi la prima cinta dei baluardi e ti piomba addosso la fanteria dei Libri Che Se Tu Avessi Più Vite Da Vivere Certamente Anche Questi Li Leggeresti Volentieri Ma Purtroppo I Giorni Che Hai Da Vivere Sono Quelli Che Sono. Con rapida mossa li scavalchi e ti porti in mezzo alle falangi dei Libri Che Hai Intenzione Di Leggere Ma Prima Ne Dovresti Leggere Degli Altri, dei Libri Troppo Cari Che Potresti Aspettare A Comprarli Quando Saranno Rivenduti A Metà Prezzo, dei Libri Idem Come Sopra Quando Verranno Ristampati Nei Tascabili, dei Libri Che Potresti Domandare A Qualcuno Se Te Li Presta, dei Libri Che Tutti Hanno Letto Dunque È Quasi Come Se Li Avessi Letti Anche Tu. Sventando questi assalti, ti porti sotto le torri del fortilizio, dove fanno resistenza
i Libri Che Da Tanto Tempo Hai in Programma Di Leggere,
i Libri Che Da Anni Cercavi Senza Trovarli,
i Libri Che Riguardano Qualcosa Di Cui Ti Occupi In Questo Momento,
i Libri Che Vuoi Avere Per Tenerli A Portata Di Mano In Ogni Evenienza,
i Libri Che Potresti Mettere Da Parte Per Leggerli Magari Quest'Estate,
i Libri Che Ti Mancano Per Affiancarli Ad Altri Libri Ne! Tuo Scaffale,
i Libri Che Ti Ispirano Una Curiosità Improvvisa, Frenetica E Non Chiaramente Giustificabile.
Ecco che ti è stato possibile ridurre il numero illimitato di forze in campo a un insieme certo molto grande ma comunque calcolabile in un numero finito, anche se questo relativo sollievo ti viene insidiato dalle imboscate dei Libri Letti Tanto Tempo Fa Che Sarebbe Ora Di Rileggerli e dei Libri Che Hai Sempre Fatto Finta D'Averli Letti Mentre Sarebbe Ora Ti Decidessi A Leggerli Davvero.
Ti liberi con rapidi zig zag e penetri d'un balzo nella cittadella delle Novità Il Cui Autore O Argomento Ti Attrae. Anche all'interno di questa roccaforte puoi praticare delle brecce tra le schiere dei difensori dividendole in Novità D'Autori O Argomenti Non Nuovi (per te o in assoluto) e Novità D'Autori O Argomenti Completamente Sconosciuti (almeno a te) e definire l'attrattiva che esse esercitano su di te in base ai tuoi desideri e bisogni di nuovo e di non nuovo (del nuovo che cerchi nel non nuovo e del non nuovo che cerchi nel nuovo).
Tutto questo per dire che, percorsi rapidamente con lo sguardo i titoli dei volumi esposti nella libreria, hai diretto i tuoi passi verso una pila di Se una notte d'inverno un viaggiatore freschi di stampa, ne hai afferrato una copia e l'hai portata alla cassa perché venisse stabilito il tuo diritto di proprietà su di essa.
Hai gettato ancora un'occhiata smarrita ai libri intorno (o meglio: erano i libri che ti guardavano con l'aria smarrita dei cani che dalle gabbie del canile municipale vedono un loro ex compagno allontanarsi al guinzaglio del padrone venuto a riscattarlo), e sei uscito.
E uno speciale piacere che ti dà il libro appena pubblicato, non è solo un libro che porti con te ma la sua novità, che potrebbe essere anche solo quella dell'oggetto uscito ora dalla fabbrica, la bellezza dell'asino di cui anche i libri s'adornano, che dura finché la copertina non comincia a ingiallire, un velo di smog a depositarsi sul taglio, il dorso a sdrucirsi agli angoli, nel rapido autunno delle biblioteche. No, tu speri sempre d'imbatterti nella novità vera, che essendo stata novità una volta continui a esserlo per sempre. Avendo letto il libro appena uscito, ti approprierai di questa novità dal primo istante, senza dover poi inseguirla, rincorrerla. Sarà questa la volta buona? Non si sa mai. Vediamo come comincia.
Forse è già in libreria che hai cominciato a sfogliare il libro. O non hai potuto perché era avviluppato nel suo bozzolo di cellophane? Ora sei in autobus, in piedi, tra la gente, appeso per un braccio a una maniglia, e cominci a svolgere il pacchetto con la mano libera, con gesti un po' da scimmia, una scimmia che vuole sbucciare una banana e nello stesso tempo tenersi aggrappata al ramo. Guarda che stai dando gomitate ai vicini; chiedi scusa, almeno.
O forse il libraio non ha impacchettato il volume; te l'ha dato in un sacchetto. Questo semplifica le cose. Sei al volante della tua macchina, fermo a un semaforo, tiri fuori il libro dal sacchetto, strappi l'involucro trasparente, ti metti a leggere le prime righe. Ti piove addosso una tempesta di strombettii; c'è il verde; stai ostruendo il traffico.
Sei al tuo tavolo di lavoro, tieni il libro posato come per caso tra le carte d'ufficio, a un certo momento sposti un dossier e ti trovi il libro sotto gli occhi, lo apri con aria distratta, appoggi i gomiti sul tavolo, appoggi le tempie alle mani piegate a pugno, sembra che tu sia concentrato nell'esame d'una pratica e invece stai esplorando le prime pagine del romanzo. A poco a poco adagi la schiena contro la spalliera, sollevi il libro all'altezza del naso, inclini la sedia in equilibrio sulle gambe posteriori, apri un cassetto laterale della scrivania per posarci i piedi, la posizione dei piedi durante la lettura è della massima importanza, allunghi le gambe sul piano del tavolo, sopra le pratiche inevase.
Ma non ti sembra una mancanza di rispetto? Di rispetto, s'intende, non verso il tuo lavoro (nessuno pretende di giudicare il tuo rendimento professionale; ammettiamo che le tue mansioni siano regolarmente inserite nel sistema delle attività improduttive che occupa tanta parte dell'economia nazionale e mondiale), ma verso il libro. Peggio ancora se invece tu appartieni - per forza o per amore - al numero di quelli per i quali lavorare vuol dire lavorare sul serio, compiere - intenzionalmente o senza farlo apposta - qualcosa di necessario o almeno di non inutile per gli altri oltre che per sé: allora il libro che ti sei portato dietro sul luogo di lavoro come una specie d'amuleto o talismano t'espone a tentazioni intermittenti, pochi secondi per volta sottratti
all'oggetto principale della tua attenzione, sia esso un perforatore di schede elettroniche, i fornelli d'una cucina, le leve di comando d'un bulldozer, un paziente steso con le budella all'aria sul tavolo operatorio.
Insomma, è preferibile tu tenga a freno l'impazienza e aspetti ad aprire il libro quando sei a casa. Ora sì. Sei nella tua stanza, tranquillo, apri il libro alla prima pagina, no, all'ultima, per prima cosa vuoi vedere quant'è lungo. Non è troppo lungo, per fortuna. I romanzi lunghi scritti oggi forse sono un controsenso: la dimensione del tempo è andata in frantumi, non possiamo vivere o pensare se non spezzoni di tempo che s'allontanano ognuno lungo una sua traiettoria e subito spariscono. La continuità del tempo possiamo ritrovarla solo nei romanzi dì quell'epoca in cui il tempo non appariva più come fermo e non ancora come esploso, un'epoca che è durata su per giù cent'anni, e poi basta.
Rigiri il libro tra le mani, scorri le frasi del retro-copertina, del risvolto, frasi generiche, che non dicono molto. Meglio così, non c'è un discorso che pretenda di sovrapporsi indiscretamente al discorso che il libro dovrà comunicare lui direttamente, a ciò che dovrai tu spremere dal libro, poco o tanto che sia. Certo, anche questo girare intorno al libro, leggerci intorno prima di leggerci dentro, fa parte del piacere del libro nuovo, ma come tutti i piaceri preliminari ha una sua durata ottimale se si vuole che serva a spingere verso il piacere più consistente della consumazione dell'atto, cioè della lettura del libro.
Ecco dunque ora sei pronto ad attaccare le prime righe della prima pagina. Ti prepari a riconoscere l'inconfondibile accento dell'autore. No. Non lo riconosci affatto. Ma, a pensarci bene, chi ha mai detto che questo autore ha un accento inconfondibile? Anzi, si sa che è un autore che cambia molto da libro a libro. E proprio in questi cambiamenti si riconosce che è lui. Qui però sembra che non c'entri proprio niente con tutto il resto che ha scritto, almeno a quanto tu ricordi. È una delusione? Vediamo. Magari in principio provi un po' di disorientamento, come quando ti si presenta una persona che dal nome tu identificavi con una certa faccia, e cerchi di far collimare i lineamenti che vedi con quelli che ricordi, e non va. Ma poi prosegui e t'accorgi che il libro si fa leggere comunque, indipendentemente da quel che t'aspettavi dall'autore, è il libro in sé che t'incuriosisce, anzi a pensarci bene preferisci che sia così, trovarti di fronte a qualcosa che ancora non sai bene cos'è".
Italo Calvino, Se una notte d'inverno un viaggiatore.
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L’antilingua burocratese fa sì che un brigadiere che ascolta le parole di un interrogato – semplici, inequivocabili, empatiche, dirette – le restituisca al pubblico (nel suo caso, in un verbale) farraginose, eufemistiche, mediate e costruite.
Ecco che ogni espressione, senza contare la perdita di espressività, prossemica ecc. di chi ha parlato, viene smantellata a favore di un’altra espressione utile ad un linguaggio interno, un patto tra pochi (qualunque collega del brigadiere avrebbe capito il verbale) fuori dalla lingua, o, per citare Francis Ponge, estranea al linguaggio delle cose.
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Le cose, in questa antilingua burocratese, sono perdute. La sostanza di esse è nascosta, vilipesa, ridotta ad orpello. La forma dell’antilingua annulla il messaggio che diviene criptico e lunare, tuttavia chiarissimo al magistero tecnico di una esigua comunità. La comunicazione col mondo viene abolita. Per sempre.

Così abbiamo biologi che parlano a biologi, brigadieri che parlano a brigadieri, avvocati verso altri avvocati, così gli ingegneri, allo stesso modo i cooperanti di qualche onlus nei confronti dei loro simili.
Poco male, si dirà. Un biologo deve conoscere gli elementi che servono alla sua ricerca, parlerà più chiaro solo nel caso dovesse officiare un convegno di divulgazione generale (ma ci riuscirà, essendo abituato ad un certo tipo di linguaggio?). Così varrà per gli avvocati, gli ingegneri ecc.
Posto che in un mondo ideale, democratico e libero, tutti dovrebbero capire tutti, il problema diviene impellente quando a parlare con la loro antilingua sono i politici e i media. In questo caso, sinonimici.
L’antilingua, e il suo terrore semantico, serve al potere di politici e media per non discorrere della sostanza delle cose. Alcune volte è un processo voluto, progettato, dolosamente messo in atto per la conservazione del potere. Vale per qualunque regime, che sia democratico, fintamente democratico, o dichiaratamente massimalista (se non dittatoriale).
Altre volte, nei casi peggiori, l’antilingua è talmente radicata nella società in cui si vive che l’essere umano è convinto di dover parlare come coloro che vede o sente parlare.
In Italia, oltre che in politica e nei media, il peso soffocante dell’antilingua si sconta nello sport nazionale: il calcio. Espressioni come “aggredire gli spazi”, “verticalizzare”, “disimpegno”, sono ormai patrimonio nazionale dell’antilingua del calcio. Tuttavia, esiste una corposa casistica di fenomeni antilinguistici per qualsiasi sport, proprio perché l’antilingua è veicolata dai media. Che la usano per sancire e irrobustire la loro credibilità. Una credibilità solo percepita da chi ascolta, ma mai veramente compresa fino in fondo – sarà capitato a tutti di sentire da qualcuno che quel determinato personaggio televisivo è bravo senza che se ne spieghino i reali meriti.
L’antilingua burocratese della politica, allo stesso modo, è somministrata dai media, risuona nelle situazioni domestiche, nei luoghi di lavoro, diviene cemento culturale di ogni nazione. E acquista ancor più autorevolezza per il modo in cui sono impostate le democrazie rappresentative – se quel politico che ho votato parla così, un motivo vi sarà.
Senza dimenticare che c’è stato un tempo, almeno un paio di anni fa, in cui il mito della tecnica in politica aveva fatto convergere l’antilingua burocratese e i burocrati della tecnocrazia in un allaccio senza soluzione di continuità. Tanto che nella vita di tutti i giorni si sentiva discorrere di deficit, PIL e spread con la stessa spontaneità con cui la nonna insegnava ai nipoti la bontà del miele.
Di seguito, abbiamo provato a enumerare alcune espressioni (undici, per dovere di testata) che da anni sentiamo utilizzare dai
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 media, e che, giocoforza, abbiamo preso ad utilizzare quando discorriamo di politica.

1.Trovare la quadra

Per significare il cristallino e semplice “risolvere un problema”. Espressione mutuata dalla geometria classica, si applica con una certa disinvoltura ogni qual volta vi è una crisi di carattere decisionale. Quando si delibera, allora, vuol dire che si è trovata la quadra. Inoltre il termine quadra non esiste in italiano nazionale, esiste quadrato, quadrare, ma non quadra.

2.Non è un pericoloso comunista

È un eufemismo per dare forza e credibilità a quel che si dice. Si utilizza questa perifrasi, quando si inserisce, in un ragionamento, un concetto vagamente eccentrico (o di carattere legalitario ed etico) rispetto al pensiero unico. Espressione che sottende un fanatismo razzistico nei confronti di chi è stato o è comunista; è abusata da chi cerca di proteggersi al cospetto di probabili accuse di estremismo ideologico che gli verranno mosse. Come se tutti i comunisti della Terra fossero stati irragionevoli. Ora sappiamo che nel Paese di Sacharovpotrebbe essere giusto, ma in Italia l’assunto è falso avendo contezza di numerosi comunisti che, col loro esempio, hanno portato un valore aggiunto al sistema Italia.

3.Cambiamento

Sostantivo utilizzato da qualunque forza politica per promettere una diversità di visione o alcune misure straordinarie che verranno prese. La ripetitività ha comportato un impoverimento di questo nobile anelito, assimilabile ad una presa di coscienza rivoluzionaria, rendendolo nullo e svuotandolo di significato. Ormai chi pronuncia la parola cambiamento ha già perso la sua credibilità.

4.Alimentare le polemiche

Pericolosamente vicina al sogno del Potere che assassina il dissenso. Chi alimenta le polemiche è di per sé polemico, quindi è di per sé poco credibile anche laddove esprima concetti interessanti e ragionevoli. In epoca di larghe intese, e emergenze quotidiane costruite strumentalmente, alimentare polemiche significa condannare il Paese all’immobilismo. L’espressione ha in sé una matrice di cripto-fascismo.

5.Contraddittorio

Simile ad “alimentare le polemiche”. Nella logica della gretta par condicio, deve esserci spazio per tutti. Paradossalmente ad un concetto intelligente se ne deve contrapporre uno idiota.
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6.Quote rosa

Espressione diventata legge (la legge Golfo-Mosca regola la presenza delle donne negli organi sociali delle aziende quotate e pubbliche)Scaturita dalla corrente culturale femminista, ha trasformato la sacrosanta battaglia dell’uguaglianza delle donne in slogan e realtà che producono l’effetto contrario di egalitarismo di genere che appiattisce la qualità delle risorse umane. Se una donna è stupida deve comunque “esserci” per legge. Tuttavia, fino ad ora, se un uomo era stupido era presente per via della legge del più forte. Forse si è raggiunta, con le quote rosa, la tutela della stupidità per ambo i sessi.

7.Logica bipartisan

Anch’esso eufemismo puro per nascondere, sovente, gli accordi più o meno segreti di due o più fazioni politiche. Le decisioni che mettono d’accordo tutti sono bipartisan. Ergo, nella logica dell’antilingua, sono giuste.

8.Garantismo

Termine utilizzato ad hoc contro i processi giudiziari o le valutazioni etiche e morali che investono la politica. Spesso richiamato a sproposito, in barba ai meccanismi tecnici o alle percezioni del senso comune che riguardano tutti i cittadini che non siano politici, evidenzia con forza l’appartenenza ad una razza padrona che, quasi ingenuamente, si giudica non giudicabile. Autodichia ad libitum.

9.Tasche degli italiani

Espressione populistica che gioca sulla paura delle tasse che tutti i cittadini, soprattutto in epoche di crisi economiche, temono di dover pagare.

10.Anarco insurrezionalisti

È la panacea di tutti i mali. Il potere costituito ha spesso utilizzato questa espressione per scaricare la colpa di attentati o stragi verso un’entità che nell’immaginario collettivo è rappresentata come una cellula eversiva che irrazionalmente attacca le Istituzioni. Il male non è vestito mai con giacca e cravatta.

11.Crisi istituzionale

In un Paese come l’Italia, dove le Istituzioni sono fragili e/o assenti, lo spauracchio della crisi istituzionale è brandito come vessillo contro le spinte di un pensiero diverso da quello imposto dai maggiori organi politici, eletti e d’informazione. La quiete sopra, sotto e al di là della tempesta.

http://www.lundici.it/2014/03/lost-in-translation/






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