« Passavamo sulla terra leggeri come acqua, disse Antonio Setzu, come acqua che scorre, salta, giù dalla conca piena della fonte, scivola e serpeggia fra muschi e felci, fino alle radici delle sughere e dei mandorli o scende scivolando sulle pietre, per i monti e i colli fino al piano, dai torrenti al fiume, a farsi lenta verso le paludi e il mare, chiamata in vapore dal sole a diventare nube dominata dai venti e pioggia benedetta. A parte la follia di ucciderci l'un l'altro per motivi irrilevanti, eravamo felici. »
Sergio Atzeni, Passavamo sulla terra leggeri.
Atzeni racconta al lettore tante piccole storie che attribuisce all'azione millenaria dei Custodi del tempo, epici sacerdoti della memoria secolare.
Incipit.
Non sapevo nulla della vita. Antonio Setzu raccontò la storia e quel che seppi era troppo, era pesante, immaginarlo e pensarlo mi metteva paura dell’uomo, del mondo e della morte.
Dimenticai per trentaquattro anni. Ora ricordo, parola per parola.
Nella lingua fra i fiumi. Cento e cento case di canne, paglia e fango. L’alta zicura di limo e tronchi al limite dell’acqua, trecentotrentatré scalini per arrivare all’altare dove pulsava il cuore del capro, leggevamo la parola, interrogavamo il cielo e pronunciavamo oracoli.
Nulla è tanto ordinato e perfetto quanto immotivato e misterioso come il cielo e la volta stellata che studiavamo ogni notte immersi in calcoli sulle distanze, le orbite, i cicli.
Distoglievamo il popolo dalle false certezze. Il numero spiega e aggiunge mistero, come la memoria.
Il contadino chiedeva: «Avremo un buon raccolto, quest’anno?». Sapendo la casualità della pioggia e del secco, le stagioni consuete e le infinite varianti, rispondevamo: «Oltre i fiumi, in terre non lontane, la notte incombe a mezzogiorno, forse sono nuvole di pioggia, forse nugoli di cavallette».
Era difficile sbagliare. Il pastore chiedeva: «Quanti agnelli venderò per la festa della luna nel mese delle mandorle aspre?». Conoscendo il mistero della generazione e quello del gelo rispondevamo:
«Il cuore della terra è nero, forse gli agnelli saranno quanti le pecore, forse meno, forse nessuno. Quanti sono i tuoi montoni?». Chiedendo numeri educavamo a contare. Il mercante chiedeva: «Nella stagione del risveglio il barbaro giungerà a depredare o il re guiderà i guerrieri a depredare il barbaro?».
Rispondevamo: «Chi può leggere nella mente del re? Glorioso è il destino del guerriero, felice il destino del mercante. Ma non tutti i mercanti arrivano a vecchiaia». Era difficile sbagliare. Il ricco figlio del padrone di capre chiedeva: «Il guerriero accetterà, per dare in moglie la bella figlia, tredici capre pregne e tre cavalle o invece riterrà offensiva l’offerta e vorrà spaccarmi il cuore innamorato con una pietra levigata?». Era difficile sbagliare: «Chi non tenta non rischia. Chi non tenta non ottiene».
[...] Sellerio aveva pubblicato il suo romanzo d’esordio, Apologo del giudice bandito (1986), che racconta di un processo alle locuste che avevano invaso l’isola nel 1492. [...] era uscito, sempre per Sellerio, Il figlio di Bakunìn (1991), ambientato a Carbonia negli anni del fascismo e, per Mondadori, nel gennaio del 1995, Il quinto passo è l’addio. Poco dopo la sua morte Mondadori ha pubblicato l’ultimo manoscritto che Atzeni aveva mandato al suo editor Antonio Franchini: Passavamo sulla terra leggeri, storia della Sardegna dai primi uomini che l’hanno abitata fino al momento in cui “i sardi riconoscevano il dominio straniero”, cioè fino a quando l’isola passa alla corona di Aragona, considerato “il giorno della perdita della libertà sulla nostra terra”. Passavamo sulla terra leggeri racconta la storia dell’isola dei “s’ard, che nell’antica lingua significa danzatori delle stelle”. La storia dell’isola in cui vivevamo, che, in quegli anni, sembrava molto lontana dal mondo, dalla storia e dalle storie importanti. [...] Atzeni è morto in quello stesso 1995; era il 6 settembre, mancavano pochi giorni ancora e i giorni d’estate in Sardegna sarebbero finiti, sarebbe tornato a Torino. La immagino calda e grigia, quella giornata, il vento forte, esattamente come questa.
Immagino lui nel mezzo di questa stessa mia inquietudine all’idea di ripartire, pensando alla vita divisa, che non è più altrove, né qui, ma ovunque. Il mare era mosso, un’onda più alta delle altre, più grande e forte, l’ha inghiottito, più indietro stavano gli amici, la donna che amava. Era sull’isola di San Pietro, a sudovest dell’isola di Sardegna.
"Trecento falchi femmina lasciarono i nidi e volarono fino all’isola di roccia dinanzi alla costa del meridione occidentale, lungo il viaggio cantarono un lungo canto che soltanto chi capiva la lingua dei falchi comprese, giunti alle Colonne si lasciarono cadere in mare come pietre e morirono affogati. Da allora i falchi custodiscono quel luogo, lo reputano sacro”. (Passavamo sulla terra leggeri)
Si definiva “sardo, italiano, europeo”, mischiava le lingue come in quegli anni ancora in Italia non si usava e come già invece facevano gli scrittori postcoloniali, cioè quelli che scrivevano in contesti linguistici segnati dalla compresenza di una lingua locale e di una lingua imparata da un altro popolo che aveva dominato la loro terra. Come Patrick Chamoiseau, creolo delle isole caraibiche, che Atzeni traduceva.
Da tutte le sue storie emerge l’immagine, inedita e rivoluzionaria, di una Sardegna meticcia, lontana da ogni idea di purezza identitaria e linguistica, in cui il mare è frontiera che crea INCONTRI e non confine che separa, che isola.
"Dimenticavamo le distanza fra le stelle e comprendevamo d’essere al centro di un mare che si faceva di giorno in giorno più popolato. Non potevamo fermare il ciclo dell’uomo, nessuno può fermarlo. Dovevamo incontrare gli altri uomini, per crescere. L’incontro ha un costo, pagarlo è inevitabile”. (Passavamo sulla terra leggeri)
http://www.internazionale.it/weekend/2015/09/20/sergio-atzeni-sardegna
[...] I passi che seguono mostrano con quale prospettiva Atzeni abbia ricreato sulla pagina quella che riconosceva come la sua nazione, la Sardegna, sulla cui storia verte ossessivamente tutta la sua scrittura; dai “S’Ard” della mitizzata preistoria nuragica, “leggeri” tra paesaggi edenici e violenza fratricida (disamistade) (a), ai loro discendenti, rappresentati ai nostri giorni come l’esito di un’ininterrotta filiera di innesti etnici (b) (c):
(a) “Passavamo sulla terra leggeri come acqua, disse Antonio Setzu, come acqua che scorre, salta, giù dalla conca piena della fonte, scivola e serpeggia fra muschi e felci, fino alle radici delle sughere e dei mandorli o scende scivolando sulle pietre, per i monti e i colli fino al piano, dai torrenti al fiume, a farsi lenta verso le paludi e il mare, chiamata in vapore dal sole a diventare nube dominate dai venti e pioggia benedetta. A parte la follia di ucciderci l’un l’altro per motivi irrilevanti, eravamo felici.”
(Passavamo sulla terra leggeri [1996], Ilisso, 2000, p.8);
(b) “[…] scoprendo di essere di stirpe ebrea marrana, oltre che sarda e genovese con sfumature arabe e catalane, ho immaginato che il sangue degli antichi erranti perseguitati vivesse in me facendomi apparire la diversità dagli altri come abituale e perciò non spaventandomi della solitudine che ne veniva, di rado mitigata da amici sempre esclusi dalla comunità perché diversi: scemi, figli di donne non sposate e di bagassa, istrangios e eversori.” (Passavamo, p.46)
(c) “La nave bianca si allontana e dietro un dente alto e bianco di calcare sparisce l’antica fortezza vedetta dei Fenici, l’avamposto d’Europa al respiro dell’Africa e d’Oriente alle porte d’Occidente, popolato da una scura genia parente di Annibale, adocchiato da predoni scalzi, battuto da tutti i venti, abitato da tutti i profumi e i fetori e da ogni genere d’ingegno e vizio e da qualche virtù, come ovunque siano uomini. Ruggero conosce i venti, i profumi, i predoni. Si crede principe di antica stirpe, è figlio di un fabbro e di una bruscia, è ignobile e folle come un muflone.”
(Il quinto passo è l’addio [1995], Ilisso, 2001, p.73).
Sergio Atzeni è stato il cantore di una Sardegna che, alle soglie del terzo millennio, si scopre isola esposta ai venti e agli approdi, luogo di aggregazioni multietniche, quasi a contraddire, oltre alle l’opposizione posta a suo tempo da Lucien Febvre tra una Sicilia isola-crocevia e una Sardegna isola-fortezza (La terre et l’évolution humaine, 1922), una visione stereotipica ben radicata nel sentire comune, locale e nazionale. La sua Sardegna è invece crocevia di popoli e culture, segnata nell’impossibilità manifesta di rifiutare l’incontro-scontro con gli altri. È il credo di cui si fa portavoce il narratore e custode della memoria locale di Passavamo sulla terra leggeri, Antonio Setzu, nel raccontare l’inizio dei mille anni di dominazione romana sull’isola:
“Dimenticavamo le distanze fra le stelle e comprendevamo d’essere al centro di un mare che si faceva di giorno in giorno più popolato. Non potevamo fermare il ciclo dell’uomo, nessuno può fermarlo. Dovevamo incontrare gli altri uomini, per crescere. L’incontro ha un costo, pagarlo è inevitabile”. (Passavamo, p.78).
[...] Fu scoperto come narratore da Elvira Sellerio, alla quale aveva inviato alla cieca il manoscritto di un breve romanzo storico sulle lotte di potere nella Cagliari di fine Quattrocento, accolto con il titolo Apologo del giudice bandito nella raffinata collana “La memoria” (1986), e continuò a lavorare con l’editrice palermitana per il secondo romanzo, Il figlio di Bakunìn, che attraversa per scorci la storia del Novecento dal punto di vista dei minatori del Sulcis-Iglesiente (1991). Quando nel 1995 l’amaro romanzo generazionale Il quinto passo è l’addio andò alle stampe nella collana “Scrittori italiani” di Mondadori, il nome di Atzeni circolava ormai tra i lettori più attenti. L’ultima estate, prima di lasciare Torino per le vacanze in Sardegna, aveva inviato a Segrate il dattiloscritto del romanzo epico Passavamo sulla terra leggeri (1996), e aveva scritto alla Sellerio di aver terminato un racconto che le avrebbe spedito al rientro, a settembre: è Bellas mariposas, il monologo tutto d’un fiato di una dodicenne di periferia, che narra in un personalissimo italiano regionale e gergale una memorabile giornata estiva (1996).
[...] Per chi l’ha conosciuto leggendone i libri, il ritratto di Atzeni sfuma in quello dell’alter ego Ruggero Gunale, protagonista de Il quinto passo è l’addio. È l’immagine di un trentacinquenne disilluso, sconfitto nella lotta di amore e odio con la città che infine abbandona, e che ricorda senza ripiegamenti intimistici né nostalgie i “passi” della sua esistenza. Un rappresentante della generazione che ha creduto di cambiare il mondo e ne è stata invece cambiata, la cui storia è quella degli “sbandati, i fuori dal mondo che rifiutavano sia la guerriglia urbana che il ritorno nei ranghi, i figli dei fiori, i poeti, i rimbambiti, i pazzi, gli spaventati dalla velocità della storia e della tecnica e dall’assoluta assenza di guidatore, e quelli […] che non sapevano che fare di se stessi e cercavano motivi per vivere, rimasugli di una generazione che ha tentato di cambiare il mondo perché sapeva che fa schifo, ma non sapeva che lo schifo ha costruito in millenni strutture solidissime di resistenza, le ha costruite con piramidi di sacrificati, le ha costruite anche nelle nostre anime” (Il quinto passo, p.189).
[...] Nessuno aveva elevato a poesia l’indolenza del cagliaritano, il gusto cittadino della beffa, l’ironia, la battuta pronta. Né dato dignità letteraria alla città come “alveare di voci” (Passavamo, p.97), in cui, contro le tentazioni puriste, si intrecciano italiano standard, regionale e popolare, parlata locale, gerghi, slang, altre varietà del sardo, dialetti, lingue straniere, lasciando così risuonare la pluralità vitale di quel mondo. Atzeni esalta l’apertura della città sul mare e la sua storia di accoglienza e commistione con i non-isolani come simbolo di un nuovo modello identitario sardo, dinamico e non statico, aperto e non difensivo, inclusivo e non esclusivo. Ambientazione privilegiata ma non unica – le si affiancano il Sulcis, la Barbagia, la Marmilla, Arbarè – Cagliari, porto di mare, luogo di incroci multietnici, “non è che confine fra l’isola e il mondo” (Periferia, quel luogo senza memoria, 1986, in Scritti giornalistici, p.292). [...]
Eppure la Kar Ale – Cagliè – Cagliari – Kasteddu atzeniana non è una quinta scenografica di bellezza e armonia. La città è esplorata nella sua topografia sociale tutt’altro che pacificata, e in specie nelle contrapposizioni tra centro e periferie. Come nella Cagliè quattrocentesca il Castello dei nobili spagnoli si oppone ai quartieri popolari, così nel Novecento i palazzi borghesi si chiudono ai gaggi e grezzi di periferia, secondo un processo di esclusione simboleggiato dalle barriere, ben sorvegliate, che fino ai primi anni Ottanta isolano la roccaforte dell’alta borghesia, lo stabilimento balneare del Lido, dal resto della spiaggia cittadina (Il quinto passo, pp.179-193). In più occasioni lo scrittore ribadì la propria appartenenza, ideologica più che effettiva, alla periferia dei quartieri di Is Mirrionis, San Michele, Sant’Arennera. A Is Mirrionis abitò da bambino, in una casa popolare, ci bazzicò da ragazzo, e da quegli ambienti trasse ispirazione per alcune scene de Il quinto passo e per Bellas mariposas, nella consapevolezza che si può essere universali solo a partire da ciò che si conosce e si vive. Quando la mariposa Cate mette in pausa il monologo e si rivolge direttamente a chi trascriverà la storia, qualificandolo come “unu barabba de Santu Mikeli” (p.117) [...]
http://www.leparoleelecose.it/?p=7524
“Cominciavo a intuire che la storia narrata era la storia delle donne e degli uomini che hanno vissuto prima di noi nell'isola dei danzatori, madri e padri forse a noi simili per dolcezza e sorrisi o per la follia che non sappiamo dove nasca."
Sergio Atzeni, Passavamo sulla terra leggeri.
Atzeni racconta al lettore tante piccole storie che attribuisce all'azione millenaria dei Custodi del tempo, epici sacerdoti della memoria secolare.
Incipit.
Non sapevo nulla della vita. Antonio Setzu raccontò la storia e quel che seppi era troppo, era pesante, immaginarlo e pensarlo mi metteva paura dell’uomo, del mondo e della morte.
Dimenticai per trentaquattro anni. Ora ricordo, parola per parola.
Nella lingua fra i fiumi. Cento e cento case di canne, paglia e fango. L’alta zicura di limo e tronchi al limite dell’acqua, trecentotrentatré scalini per arrivare all’altare dove pulsava il cuore del capro, leggevamo la parola, interrogavamo il cielo e pronunciavamo oracoli.
Nulla è tanto ordinato e perfetto quanto immotivato e misterioso come il cielo e la volta stellata che studiavamo ogni notte immersi in calcoli sulle distanze, le orbite, i cicli.
Distoglievamo il popolo dalle false certezze. Il numero spiega e aggiunge mistero, come la memoria.
Il contadino chiedeva: «Avremo un buon raccolto, quest’anno?». Sapendo la casualità della pioggia e del secco, le stagioni consuete e le infinite varianti, rispondevamo: «Oltre i fiumi, in terre non lontane, la notte incombe a mezzogiorno, forse sono nuvole di pioggia, forse nugoli di cavallette».
Era difficile sbagliare. Il pastore chiedeva: «Quanti agnelli venderò per la festa della luna nel mese delle mandorle aspre?». Conoscendo il mistero della generazione e quello del gelo rispondevamo:
«Il cuore della terra è nero, forse gli agnelli saranno quanti le pecore, forse meno, forse nessuno. Quanti sono i tuoi montoni?». Chiedendo numeri educavamo a contare. Il mercante chiedeva: «Nella stagione del risveglio il barbaro giungerà a depredare o il re guiderà i guerrieri a depredare il barbaro?».
Rispondevamo: «Chi può leggere nella mente del re? Glorioso è il destino del guerriero, felice il destino del mercante. Ma non tutti i mercanti arrivano a vecchiaia». Era difficile sbagliare. Il ricco figlio del padrone di capre chiedeva: «Il guerriero accetterà, per dare in moglie la bella figlia, tredici capre pregne e tre cavalle o invece riterrà offensiva l’offerta e vorrà spaccarmi il cuore innamorato con una pietra levigata?». Era difficile sbagliare: «Chi non tenta non rischia. Chi non tenta non ottiene».
[...] Sellerio aveva pubblicato il suo romanzo d’esordio, Apologo del giudice bandito (1986), che racconta di un processo alle locuste che avevano invaso l’isola nel 1492. [...] era uscito, sempre per Sellerio, Il figlio di Bakunìn (1991), ambientato a Carbonia negli anni del fascismo e, per Mondadori, nel gennaio del 1995, Il quinto passo è l’addio. Poco dopo la sua morte Mondadori ha pubblicato l’ultimo manoscritto che Atzeni aveva mandato al suo editor Antonio Franchini: Passavamo sulla terra leggeri, storia della Sardegna dai primi uomini che l’hanno abitata fino al momento in cui “i sardi riconoscevano il dominio straniero”, cioè fino a quando l’isola passa alla corona di Aragona, considerato “il giorno della perdita della libertà sulla nostra terra”. Passavamo sulla terra leggeri racconta la storia dell’isola dei “s’ard, che nell’antica lingua significa danzatori delle stelle”. La storia dell’isola in cui vivevamo, che, in quegli anni, sembrava molto lontana dal mondo, dalla storia e dalle storie importanti. [...] Atzeni è morto in quello stesso 1995; era il 6 settembre, mancavano pochi giorni ancora e i giorni d’estate in Sardegna sarebbero finiti, sarebbe tornato a Torino. La immagino calda e grigia, quella giornata, il vento forte, esattamente come questa.
Immagino lui nel mezzo di questa stessa mia inquietudine all’idea di ripartire, pensando alla vita divisa, che non è più altrove, né qui, ma ovunque. Il mare era mosso, un’onda più alta delle altre, più grande e forte, l’ha inghiottito, più indietro stavano gli amici, la donna che amava. Era sull’isola di San Pietro, a sudovest dell’isola di Sardegna.
"Trecento falchi femmina lasciarono i nidi e volarono fino all’isola di roccia dinanzi alla costa del meridione occidentale, lungo il viaggio cantarono un lungo canto che soltanto chi capiva la lingua dei falchi comprese, giunti alle Colonne si lasciarono cadere in mare come pietre e morirono affogati. Da allora i falchi custodiscono quel luogo, lo reputano sacro”. (Passavamo sulla terra leggeri)
Si definiva “sardo, italiano, europeo”, mischiava le lingue come in quegli anni ancora in Italia non si usava e come già invece facevano gli scrittori postcoloniali, cioè quelli che scrivevano in contesti linguistici segnati dalla compresenza di una lingua locale e di una lingua imparata da un altro popolo che aveva dominato la loro terra. Come Patrick Chamoiseau, creolo delle isole caraibiche, che Atzeni traduceva.
Da tutte le sue storie emerge l’immagine, inedita e rivoluzionaria, di una Sardegna meticcia, lontana da ogni idea di purezza identitaria e linguistica, in cui il mare è frontiera che crea INCONTRI e non confine che separa, che isola.
"Dimenticavamo le distanza fra le stelle e comprendevamo d’essere al centro di un mare che si faceva di giorno in giorno più popolato. Non potevamo fermare il ciclo dell’uomo, nessuno può fermarlo. Dovevamo incontrare gli altri uomini, per crescere. L’incontro ha un costo, pagarlo è inevitabile”. (Passavamo sulla terra leggeri)
http://www.internazionale.it/weekend/2015/09/20/sergio-atzeni-sardegna
[...] I passi che seguono mostrano con quale prospettiva Atzeni abbia ricreato sulla pagina quella che riconosceva come la sua nazione, la Sardegna, sulla cui storia verte ossessivamente tutta la sua scrittura; dai “S’Ard” della mitizzata preistoria nuragica, “leggeri” tra paesaggi edenici e violenza fratricida (disamistade) (a), ai loro discendenti, rappresentati ai nostri giorni come l’esito di un’ininterrotta filiera di innesti etnici (b) (c):
(a) “Passavamo sulla terra leggeri come acqua, disse Antonio Setzu, come acqua che scorre, salta, giù dalla conca piena della fonte, scivola e serpeggia fra muschi e felci, fino alle radici delle sughere e dei mandorli o scende scivolando sulle pietre, per i monti e i colli fino al piano, dai torrenti al fiume, a farsi lenta verso le paludi e il mare, chiamata in vapore dal sole a diventare nube dominate dai venti e pioggia benedetta. A parte la follia di ucciderci l’un l’altro per motivi irrilevanti, eravamo felici.”
(Passavamo sulla terra leggeri [1996], Ilisso, 2000, p.8);
(b) “[…] scoprendo di essere di stirpe ebrea marrana, oltre che sarda e genovese con sfumature arabe e catalane, ho immaginato che il sangue degli antichi erranti perseguitati vivesse in me facendomi apparire la diversità dagli altri come abituale e perciò non spaventandomi della solitudine che ne veniva, di rado mitigata da amici sempre esclusi dalla comunità perché diversi: scemi, figli di donne non sposate e di bagassa, istrangios e eversori.” (Passavamo, p.46)
(c) “La nave bianca si allontana e dietro un dente alto e bianco di calcare sparisce l’antica fortezza vedetta dei Fenici, l’avamposto d’Europa al respiro dell’Africa e d’Oriente alle porte d’Occidente, popolato da una scura genia parente di Annibale, adocchiato da predoni scalzi, battuto da tutti i venti, abitato da tutti i profumi e i fetori e da ogni genere d’ingegno e vizio e da qualche virtù, come ovunque siano uomini. Ruggero conosce i venti, i profumi, i predoni. Si crede principe di antica stirpe, è figlio di un fabbro e di una bruscia, è ignobile e folle come un muflone.”
(Il quinto passo è l’addio [1995], Ilisso, 2001, p.73).
Sergio Atzeni è stato il cantore di una Sardegna che, alle soglie del terzo millennio, si scopre isola esposta ai venti e agli approdi, luogo di aggregazioni multietniche, quasi a contraddire, oltre alle l’opposizione posta a suo tempo da Lucien Febvre tra una Sicilia isola-crocevia e una Sardegna isola-fortezza (La terre et l’évolution humaine, 1922), una visione stereotipica ben radicata nel sentire comune, locale e nazionale. La sua Sardegna è invece crocevia di popoli e culture, segnata nell’impossibilità manifesta di rifiutare l’incontro-scontro con gli altri. È il credo di cui si fa portavoce il narratore e custode della memoria locale di Passavamo sulla terra leggeri, Antonio Setzu, nel raccontare l’inizio dei mille anni di dominazione romana sull’isola:
“Dimenticavamo le distanze fra le stelle e comprendevamo d’essere al centro di un mare che si faceva di giorno in giorno più popolato. Non potevamo fermare il ciclo dell’uomo, nessuno può fermarlo. Dovevamo incontrare gli altri uomini, per crescere. L’incontro ha un costo, pagarlo è inevitabile”. (Passavamo, p.78).
[...] Fu scoperto come narratore da Elvira Sellerio, alla quale aveva inviato alla cieca il manoscritto di un breve romanzo storico sulle lotte di potere nella Cagliari di fine Quattrocento, accolto con il titolo Apologo del giudice bandito nella raffinata collana “La memoria” (1986), e continuò a lavorare con l’editrice palermitana per il secondo romanzo, Il figlio di Bakunìn, che attraversa per scorci la storia del Novecento dal punto di vista dei minatori del Sulcis-Iglesiente (1991). Quando nel 1995 l’amaro romanzo generazionale Il quinto passo è l’addio andò alle stampe nella collana “Scrittori italiani” di Mondadori, il nome di Atzeni circolava ormai tra i lettori più attenti. L’ultima estate, prima di lasciare Torino per le vacanze in Sardegna, aveva inviato a Segrate il dattiloscritto del romanzo epico Passavamo sulla terra leggeri (1996), e aveva scritto alla Sellerio di aver terminato un racconto che le avrebbe spedito al rientro, a settembre: è Bellas mariposas, il monologo tutto d’un fiato di una dodicenne di periferia, che narra in un personalissimo italiano regionale e gergale una memorabile giornata estiva (1996).
[...] Per chi l’ha conosciuto leggendone i libri, il ritratto di Atzeni sfuma in quello dell’alter ego Ruggero Gunale, protagonista de Il quinto passo è l’addio. È l’immagine di un trentacinquenne disilluso, sconfitto nella lotta di amore e odio con la città che infine abbandona, e che ricorda senza ripiegamenti intimistici né nostalgie i “passi” della sua esistenza. Un rappresentante della generazione che ha creduto di cambiare il mondo e ne è stata invece cambiata, la cui storia è quella degli “sbandati, i fuori dal mondo che rifiutavano sia la guerriglia urbana che il ritorno nei ranghi, i figli dei fiori, i poeti, i rimbambiti, i pazzi, gli spaventati dalla velocità della storia e della tecnica e dall’assoluta assenza di guidatore, e quelli […] che non sapevano che fare di se stessi e cercavano motivi per vivere, rimasugli di una generazione che ha tentato di cambiare il mondo perché sapeva che fa schifo, ma non sapeva che lo schifo ha costruito in millenni strutture solidissime di resistenza, le ha costruite con piramidi di sacrificati, le ha costruite anche nelle nostre anime” (Il quinto passo, p.189).
[...] Nessuno aveva elevato a poesia l’indolenza del cagliaritano, il gusto cittadino della beffa, l’ironia, la battuta pronta. Né dato dignità letteraria alla città come “alveare di voci” (Passavamo, p.97), in cui, contro le tentazioni puriste, si intrecciano italiano standard, regionale e popolare, parlata locale, gerghi, slang, altre varietà del sardo, dialetti, lingue straniere, lasciando così risuonare la pluralità vitale di quel mondo. Atzeni esalta l’apertura della città sul mare e la sua storia di accoglienza e commistione con i non-isolani come simbolo di un nuovo modello identitario sardo, dinamico e non statico, aperto e non difensivo, inclusivo e non esclusivo. Ambientazione privilegiata ma non unica – le si affiancano il Sulcis, la Barbagia, la Marmilla, Arbarè – Cagliari, porto di mare, luogo di incroci multietnici, “non è che confine fra l’isola e il mondo” (Periferia, quel luogo senza memoria, 1986, in Scritti giornalistici, p.292). [...]
Eppure la Kar Ale – Cagliè – Cagliari – Kasteddu atzeniana non è una quinta scenografica di bellezza e armonia. La città è esplorata nella sua topografia sociale tutt’altro che pacificata, e in specie nelle contrapposizioni tra centro e periferie. Come nella Cagliè quattrocentesca il Castello dei nobili spagnoli si oppone ai quartieri popolari, così nel Novecento i palazzi borghesi si chiudono ai gaggi e grezzi di periferia, secondo un processo di esclusione simboleggiato dalle barriere, ben sorvegliate, che fino ai primi anni Ottanta isolano la roccaforte dell’alta borghesia, lo stabilimento balneare del Lido, dal resto della spiaggia cittadina (Il quinto passo, pp.179-193). In più occasioni lo scrittore ribadì la propria appartenenza, ideologica più che effettiva, alla periferia dei quartieri di Is Mirrionis, San Michele, Sant’Arennera. A Is Mirrionis abitò da bambino, in una casa popolare, ci bazzicò da ragazzo, e da quegli ambienti trasse ispirazione per alcune scene de Il quinto passo e per Bellas mariposas, nella consapevolezza che si può essere universali solo a partire da ciò che si conosce e si vive. Quando la mariposa Cate mette in pausa il monologo e si rivolge direttamente a chi trascriverà la storia, qualificandolo come “unu barabba de Santu Mikeli” (p.117) [...]
http://www.leparoleelecose.it/?p=7524
“Cominciavo a intuire che la storia narrata era la storia delle donne e degli uomini che hanno vissuto prima di noi nell'isola dei danzatori, madri e padri forse a noi simili per dolcezza e sorrisi o per la follia che non sappiamo dove nasca."
Sergio Atzeni, Passavamo sulla terra leggeri, Ilisso, 2003, p. 85
Passavamo sulla terra leggeri come acqua, come acqua che scorre, salta, giù dalla conca piena della fonte, scivola e serpeggia fra muschi e felci, fino alle radici delle sughere e dei mandorli o scende scivolando sulle pietre, per i monti e i colli fino al piano, dai torrenti al fiume, a farsi lenta verso le paludi e il mare,chiamata in vapore dal sole a diventare nube dominata dai venti e pioggia benedetta.
A parte la follia di ucciderci l'un l'altro per motivi irrilevanti, eravamo felici.
Le piane e le paludi erano fertili, i monti ricchi di pascolo e fonti.
Il cibo non mancava neppure negli anni di carestia.
Facevamo un vino colore del sangue, dolce al palato e portatore di sogni allegri.
Nel settimo giorno del mese del vento che piega le querce incontravamo tutte le genti attorno alla fonte sacra e per sette giorni e sette notti mangiavamo, bevevamo, cantavamo e danzavamo in onore di Is.
Cantare, suonare, danzare, coltivare, raccogliere, mungere, intagliare, fondere, uccidere, morire,cantare, suonare, danzare era la nostra vita.
Eravamo felici,a parte la follia di ucciderci l'un l'altro per motivi irrilevanti.
Sergio Atzeni, Passavamo sulla terra leggeri, Ilisso, 2003
Passavamo sulla terra leggeri...non lasciavamo altre tracce che i nuraghi e le navi di bronzo.
Il 6 settembre 1995, scomparve tragicamente Sergio Atzeni.
"Il cibo non mancava neppure negli anni di carestia.
Facevamo un vino colore del sangue, dolce al palato e portatore di sogni allegri.
Nel settimo giorno del mese del vento che piega le querce incontravamo tutte le genti attorno alla fonte sacra e per sette giorni e sette notti mangiavamo, bevevamo, cantavamo e danzavamo in onore di Is... [...]
“Cantavamo, morivamo, danzavamo di padre in figlio, crescendo di numero e di esperienza dell'isola. Eravamo felici.
(pag. 64)”
Sergio Atzeni, Passavamo sulla terra leggeri
“Chiamavamo noi stessi s'ard, che nell'antica lingua significa danzatori delle stelle.
[...]
Non lasciavamo altre tracce che i nuraghe, le navi di bronzo di Urel di Mu e i piccoli uomini cornuti, guardiani dell'isola, che molti fecero imitando Mir. Nessuno sapeva leggere e scrivere. Passavamo sulla terra leggeri come acqua.
(pag. 65)”
Sergio Atzeni, Passavamo sulla terra leggeri
“Mille anni di guerra, disse Antonio Setzu. Questo furono per noi i romani, mille anni di guerra. Non quotidiana, per fortuna. Con pause anche lunghe di pace.
(pag. 97)”
Sergio Atzeni, Passavamo sulla terra leggeri
“Se esiste una parola per dire i sentimenti dei Sardi nei millenni di isolamento tra nuraghe e bronzetti forse è felicità. Passavamo sulla terra leggeri come acqua, come acqua che scorre, salta, giù dalla conca piena della fonte, scivola e serpeggia tra muschi e felci, fino alle radici delle sughere e dei mandorli o scende scivolando sulle pietre, per i monti e i colli fino al piano, dai torrenti al fiume, a farsi lenti verso le paludi e il mare, chiamata in vapore dal sole a diventare nube dominata dai venti e pioggia benedetta” (p. 24).
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Dai mitici S'ard, “danzatori delle stelle” orientali, sino alla sconfitta per mano d'Aragona (1409): tutta la leggenda e la storia del nobile popolo sardo nelle parole di un artista grande e sfortunato come Atzeni, raccontate – nella finzione letteraria – da un bambino cresciuto tenendo tutto in memoria, per trentaquattro anni, erede dei segreti del custode del tempo Antonio Setzu. Sono pagine giocate per brevi frammenti, singhiozzi, bozzetti; epiche e spezzettate, rapsodiche ed elegiache al contempo. Si parte dalle più remote profondità del tempo. Dai giorni in cui un misterioso popolo, esule dalla sua patria, approdò nell'isola che per sempre lo avrebbe ospitato. Ventuno sopravvivemmo, canta Atzeni, “e dovemmo imparare a coltivare i frutti e le erbe, a catturare e mungere le pecore e le capre. (…) Non dimenticammo i numeri. Confondemmo le distanze, forse. La conoscenza si fermò. Smettemmo d'essere sacerdoti” (p. 16). E da quei ventuno la popolazione crebbe sin quando non furono ventuno i villaggi, e per “ogni gente le altre venti erano estranee o nemiche” (p. 16).
“Eravamo gente alta e stando nell'isola siamo diventati piccoli perché tutto trapiantato nelle isole di questo mare diventa più piccolo, più scuro, più gustoso? O gente piccola già in origine? Piccoli di statura, scuri di pelle, abituati a pensare, ragionare, contare, mai concordi fra noi. Così siamo tuttora, fatti salvi gli imbecilli che non mancano e nessuna legge potrà mai limitare” (p. 14).
E quando, moltiplicandosi in numero e valore, le genti dei villaggi si massacravano almeno una volta l'anno, il saggio Umur disse: “Meglio sarebbe avere meno guerrieri e più pastori” (p. 23). Cantare, suonare – scrive Atzeni – coltivare, raccogliere, mungere, intagliare, fondere, uccidere, morire, cantare, suonare danzare era la loro vita. Vennero i Fenici, parlavano una lingua amica e chiedevano cooperazione: ne derivò amicizia. I nuovi ospiti non volevano guerre, erano pochi e la ricchezza era la loro unica passione; fondarono un villaggio, Kar Ale, e prosperarono.
Nel Nord dell'isola – e nella Corsica, che si giurava fosse disabitata – vennero gli Etruschi, in fuga dai Romani. Come i Fenici, portarono nuovi dèi. Ma assieme, portarono l'angoscia e la paura per l'avvento degli aggressivi Figli della Lupa; già Puni e Liguri li avevano messi in guardia. Invano. I Romani conquistarono Karale, fecero tanti schiavi e massacrarono donne e bambini. “Mille anni di guerra, disse Antonio Setzu. Questo furono per noi i Romani. Mille anni di guerra” (p. 52). Non quotidiana. I Sardi furono sul punto di vincerli.
“Apparve Amsicora. Vagava per i villaggi. Diceva di essere della gente di Mu e cresciuto a Roma, per questo aveva nome Romano. Diceva che era il momento di attaccare Karale per espugnarla (…). Tre genti lo raggiunsero” (p. 52). Qualcuno pensava fosse un impostore. Venne comunque sconfitto.
Venne Uomo, ribattezzato Lucifero da qualcuno a Roma, per insegnare la storia di Gesù; e da allora i Sardi si riconobbero nella sua parola. Sempre combatterono contro il morbo nero, la malaria, che falciava la popolazione di Karale.
“Dobbiamo la sopravvivenza in libertà a tutti i barbari che trovi nei libri di storia: goti, burgundi, celti, germani, unni, vandali e tutti i popoli che attaccarono l'impero prima mettendolo in ginocchio poi atterrandolo e infine distruggendolo, dando fine alla nostra guerra millenaria. Facemmo la nostra parte non cedendo il cuore dell'isola” (p. 81).
Romani e Bizantini maledivano le febbri di Karale e le incursioni dei briganti: gli storici savoiardi cercarono di sporcare la storia.
“Tentavano di spezzare il filo che lega la sovranità dei sardi alla terra dei sardi; volevano dimostrare che quella sovranità era stata perduta più e più volte, fin da epoche antichissime; volevano dimostrare ch'eravamo 'terra dell'impero', era l'unico elemento che giustificasse, secondo una distorta concezione del diritto, l'usurpazione savoiarda del titolo di re di Sardegna” (p. 90).
Sostiene Atzeni che tutto finisca con l'avvento degli Aragonesi, quando Karale diventa Caglié, e quando scompare la civiltà fondata sui giudici; da quel momento in avanti, l'indipendenza sarda si colora di un'autonomia che suona come servitù, o si tinge di sconfitta. L'orgoglio e la storia non mutano, e la speranza di restituire linfa e senso alla perduta leggenda del popolo dei danzatori delle stelle non conosce termine.
**
Ultimo romanzo di Sergio Atzeni, concluso nell'agosto del 1995, una manciata di giorni prima della morte dell'artista nel mare dell'isola di San Pietro, “Passavamo sulla terra leggeri” è un congedo doloroso, e toccante: un lascito testamentario di uno scrittore intenso, lirico e massimalista, dedicato e rivolto a tutti gli intellettuali e i letterati isolani, e ai letterati patrioti di tutte le nazioni. Nella mia biblioteca capitolina, andrà idealmente ad affiancare Cambosu (“Miele amaro”) e l'Iliade e l'Odissea in limba sarda. Onore al popolo sardo, e ai suoi poeti. Onore a chi ha combattuto per millenni per rivendicare e ribadire la propria dignità, la propria identità, la propria essenza. Niente è avvenuto invano.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Sergio Atzeni (Capoterra, 1952 – Isola di S. Pietro, 1995), scrittore sardo.
Sergio Atzeni, “Passavamo sulla terra leggeri”, Ilisso, Nuoro, 2003. Collana “Scrittori di Sardegna”, 7. Nota introduttiva di Giovanna Cerina.
Prima edizione: Mondadori, 1996.
Sergio Atzeni, Passavamo sulla terra leggeri
Come un antico aedo, Atzeni regala al lettore una miriade di microstorie che immagina tramandate oralmente dai Custodi del tempo: la storia si mescola al racconto epico, al mito, alla leggenda, per narrare di un popolo antico, i S’ard, “danzatori delle stelle” provenienti dall’Oriente, e approdati in un’isola bellissima, senza nome. Come per magia emerge da una preistoria remotissima il mistero delle origini; si anima la lunga resistenza agli invasori, cui seguono fasi storiche più vicine nel tempo, fino al tramonto della civiltà dei giudici, che segna la fine della libertà. Entro questa trama si svolge “la storia delle donne e degli uomini che hanno vissuto prima di noi nell’isola dei danzatori”. Il titolo evoca, in forma di idillio, l’utopia di un Eden perduto: “Passavamo sulla terra leggeri come acqua … come acqua che scorre, salta, giù dalla conca piena della fonte, scivola e serpeggia fra muschi e felci, fino alle radici delle sughere e dei mandorli”. Una singolare e irrinunciabile esperienza di lettura.
http://www.ilisso.it/prodotto/passavamo-sulla-terra-leggeri-2/
"Passavamo sulla terra leggeri è un romanzo di Sergio Atzeni, pubblicato postumo nel 1996, considerata la sua opera più importante e letta.
È una rievocazione romanzata della storia della Sardegna, resa in forma di resoconto mnemonico orale. Dai tempi lontani in cui dei fuggiaschi arrivarono sull'isola da una non precisata terra a oriente, sino alla sconfitta nella battaglia di Sanluri del 1409, combattuta dal Regno di Arborea, ultimo giudicato superstite, contro i catalano-aragonesi. I protagonisti, veri, inventati o trasformati (fra cui la figura di Mariano che diventa una capra zoppa danzante) detengono il filo della memoria collettiva detenuto dai "Custodi del Tempo". Il penultimo di questi (Antonio Setzu ovvero Antonio il vecchio) è appunto la principale voce narrante del romanzo, colui che racconta in una casa di un paesino chiamato Morgongiori l'intera storia al nuovo custode.
La narrazione miscela riferimenti alla geografia e alla storia dell'isola sovrapposti a un racconto mitico e storicamente non accurato. Ad esempio la cosiddetta "lingua degli antichi" viene reinventata da Atzeni senza l'utilizzo di strumenti etimologici ma solo come invenzione letteraria. La stessa parola s'ard è tradotta come danzatori di stelle.
A poco tempo della pubblicazione, il romanzo è diventato un riferimento culturale letterario e identitario della Sardegna contemporanea".
https://it.wikipedia.org/wiki/Passavamo_sulla_terra_leggeri
«Non so definire la parola felicità. Ovvero: non so che sia la felicità. Credo di avere sperimentato momenti di gioia intensa, da battermi i pugni sul petto, al sole, alla pioggia o al coperto, urlando (a volte vorrei farlo e non si può, sarebbe giudicato segno di disturbo mentale) o da credere di camminare sulle nuvole o da sentire l’anima farsi leggera e volare alta fino a Dio (è capitato di rado). È la felicità? Così breve? Così poca?
[…] Passavamo sulla terra leggeri come acqua, […] come acqua che scorre, salta, giù dalla conca piena della fonte, scivola e serpeggia fra muschi e felci, fino alle radici delle sughere e dei mandorli o scende scivolando sulle pietre, per i monti e i colli fino al piano, dai torrenti al fiume, a farsi lenta verso le paludi e il mare, chiamata in vapore dal sole a diventare nube dominata dai venti e pioggia benedetta. A parte la follia di ucciderci l’un l’altro per motivi irrilevanti, eravamo felici. Le piane e le paludi erano fertili, i monti ricchi di pascolo e fonti. Il cibo non mancava neppurenegli anni di carestia. Facevamo un vino colore del sangue, dolce al palato e portatore di sogni allegri. Nel settimo giorno del mese del vento che piega le querce incontravamo tutte le genti attorno alla fonte sacra e per sette giorni e sette notti mangiavamo, bevevamo, cantavamo e danzavamo in onore di Is. Cantare, suonare, danzare, coltivare, raccogliere, mungere, intagliare, fondere, uccidere, morire, cantare, suonare, danzare era la nostra vita. Eravamo felici, a parte la follia di ucciderci l’un l’altro per motivi irrilevanti. […]
Il destino è segnato? […]
Si poteva uccidere e morire anche senza odio. Per potere bere prima alla fonte. Per una parola interpretata come insulto. Per desiderio spasmodico di un cavallo altrui. Per scommessa. Per caso. Per errore. A quel tempo uccidere e morire non era una tragedia per nessuno eccetto i familiari dell’ucciso che cercavano vendetta. Il fratello di Eloi uccise Umur. Il padre di Umur uccise il padre di Eloi. Il fratello di Eloi uccise il padre di Umur. Il fratello di Umur uccise il fratello di Eloi. Quattro morti in trent’anni. La vendetta non era immediata ma segnata. Chiunque appartenesse alla famiglia di Umur o alla famiglia di Eloi per qualunque vincolo di parentela era segnato dalla vendetta. Sapeva che poteva morire ucciso, sapeva che poteva diventare assassino. Dopo trent’anni i padri del villaggio andarono da Usir, il giudice, gli raccontarono la vicenda. Il giudice convocò i maiores delle famiglie di Umur e di Eloi. Nessuno seppe quel che disse, nel cerchio sacro di Is, nel cavo del monte. Ma da quel momento le due famiglie parvero unite da vincolo di fratellanza. Cantavamo, morivamo, danzavamo di padre in figlio, crescendo di numero e di esperienza dell’isola. Eravamo felici. Chiamavamo noi stessi s’ard, che nell’antica lingua significa danzatori delle stelle. […]
A settentrione dell’isola, sulla costa d’oriente, in un territorio dove non sorgeva nessuno dei nostri villaggi, sbarcarono cento e cento etruschi che fuggivano una potenza di cui da tempo si sentiva pronunciare il nome: i romani. Accogliemmo gli scampati e donammo la terra dov’erano sbarcati. Erano lascivi come i fenici e adoravano un dio dei morti bello come il sole, un dio di fattezze umane che aveva ucciso il padre, aveva copulato con la madre e era stato sbranato in una grotta da otto lupi divini. Sulla costa a settentrione dell’isola, a occidente, in un territorio dove non sorgeva nessuno dei nostri villaggi, sbarcarono cento e cento liguri che fuggivano i romani. Li accogliemmo, donammo quella terra. Adoravano un dio di fattezze umane, un dio uccisore che guidando i guerrieri alla conquista di un regno era stato ucciso dai figli e sbranato. Eravamo incuriositi dal proliferare di dèi ma nessuno ci pareva più grande e saggio del dio tramandato dagli antichi, il creatore che parla nel cielo notturno. Dimenticavamo le distanze fra le stelle e comprendevamo d’essere al centro di un mare che si faceva di giorno in giorno più popolato. Non potevamo fermare il ciclo dell’uomo, nessunopuò fermarlo. Dovevamo incontrare gli altri uomini, per crescere. L’incontro ha un costo, pagarlo è inevitabile. […]
I romani erano famosi da molto prima che potessimo vederne uno in carne e ossa. Ne parlavano gli etruschi, i liguri,i punici. Gli etruschi cominciavano a attraversare l’isola da un capo all’altro comprando formaggio e sale che portavano a settentrione per caricarli su grosse barche e trasbordarli in Corsica dov’erano fuggiti altri di quella gente. Viaggiando, comprando, vendendo, navigando, pregavano notte e giorno cinquecento dèi di evitare un nuovo incontro coi figli del lupo. La Corsica la conoscevamo, avremmo dovuto essere ciechi per non vederla. Per raggiungerla avremmo dovuto attraversare il mare. L’avevamo guardata con curiosità, non aveva mostrato segni di vita umana. Eravamo pochi e quasi tutti lungo la costa occidentale, attorno a Mu e Ar, fra le paludi e il piede dei monti. Prima di immaginare di popolare la Corsica dovevamo popolare la terra dei danzatori. I liguri si mescolarono alle genti di montagna accettando i nostri riti. Alla parola “romano” spergiuravano, urlavano, sputavano, ringhiavano, piangevano. I punici battevano l’isola in cerca di volontari per le guerre e spiegavano che i romani erano uomini come gli altri anche se ottimi guerrieri, non dèi, non lupi armati. Li si poteva uccidere, erano necessari uccisori. Avevamo paura dei romani. Eravamo curiosi di vederne qualcuno. […]
Mille anni di guerra. Questo furono per noi i romani, mille anni di guerra. Due volte giungemmo a un passo dalla morte della libertà. La prima cento anni dopo la comparsa a Karale dei rapati figli della lupa. Urur di Ar diceva: «I romani nel piano all’aperto sono invincibili. Troppo numerosi, bene armati, abili a combatteren e cavalcare. Ma nella foresta e sul monte le centurie devono sciogliersi, se vogliono proseguire. I soldati devono avanzare uno a uno, aprendosi il passo a fatica. Dobbiamo apparire dal nulla, in silenzio. Uccidere e sparire. I romani devono guardare con paura ogni gola, ogni valle, ogni letto di torrente, temendo l’agguato. I villaggi di pianura sono sguarniti quando i romani sono impegnati in guerre oltremare. I maiores balentes a cavalcare e combattere faranno bardanas per razziare quanto serve a sfamare le genti: grano, farina, vino, vitelli, pecore, capre, maiali, conigli, galline, cavalli. Quel che i romani possiedono è frutto della terra dei danzatori». Alle parole Urur fece seguire i fatti. Scelse trecento cavalieri e li guidò, mentre i cartaginesi tenevano impegnati i romani. Saccheggiò trenta villaggi e inviò sulle montagne cento e cento carri di viveri. Arrivò alle porte di Karale. «Non è difficile» disse. «Lo rifaremo». […]
Mille anni di guerra. Questo furono per noi i romani, mille anni di guerra.Non quotidiana, per fortuna. Con pause anche lunghe di pace. […]
Visto l’esito dell’impresa, gli episcopi e lo stratega decisero di trattare coi barbari. L’episcopo più giovane, Antioco, accompagnato da cento cavalieri disarmati, si presentò alla porta di Arbaré e la trovò aperta. «Questo territorio è dell’impero» disse l’episcopo. «La terra su cui hai i piedi» rispose la judikissa «appartiene alla nostra gente da molto prima che Roma nascessee sarà nostra anche quando Roma sarà morta». «Roma è morta» disse Antioco. «Anche la nuova Roma morirà, prima o poi». «Sei cristiana?». «Sono cristiana». «Devi obbedienza al tuo episcopo». «Tu non sei il mio episcopo». «Voi non avete episcopi» disse Antioco «e non avete una città perché questo è soltanto un villaggio anche se fortificato, non avete un re o un principe, appartenete all’imperatore. Siete barbari sulle terre dell’imperatore». «Le terre dell’impero su quest’isola» rispose Aleni «cominciano lontane da questa città. Questa città e i monti, le paludi di settentrione e gli altopiani ci appartengono da prima che il primo imperatore nascesse e ci apparterranno anche quando l’ultimo imperatore morirà. Se fossi un cattivo ospite potrei ucciderti». «Quando tu morirai che sarà della tua gente?» chiese Antioco. «Avranno un giudice». «Tuo figlio?». «No». «Chi?». «Indicherò all’assemblea dei maiores un nome. Più di cinquanta dovranno sceglierlo perché sia il nome del giudice». «Se tu ti dicessi convertita al cristianesimo potrei decidere di restare a Karale, non ho nessun desiderio di tornare nella città di Costantino, e potrei vivere in pace con voi» disse Antioco. «Gli uomini dell’impero non dovranno mettere piede sulle terre dei giudici» rispose Aleni. «D’accordo». «Sarai il mio episcopo». Tornato a Karale l’episcopo Antioco comunicò all’impero che i barbari macarroni si erano convertiti e chiese uomini per costruire difese contro i barbari perché anche se convertiti non smettevano d’essere barbari. […]
Ora sei custode del tempo, disse Antonio Setzu e soggiunse a bassa voce: come coloro che ti hanno preceduto dovrai rimanere cristiano senza discussioni e rispettare leleggi che ci siamo dati nella notte del tempo e abbiamo scritto e modificato durante i giudicati di Mariano e Eleonora. Più malvagi saranno i tempi più l’adesione all’antica legge parrà ribellione o sedizione. Potrai aggiungere spiegazioni nuove dei fatti antichi narrati nella storia che ti è affidata e raccontare avvenimenti memorabili del trentennio della tua custodia, purché con chiarezza e concisione. Noi custodi del tempo, dal giorno della perdita della libertà sulla nostra terra, abbiamo preferito finire la storia a questo punto ».
Sergio Atzeni (Capoterra 1952 – Isola di S. Pietro 1995)
Passavamo sulla terra leggeri, Milano, Mondadori, 1996.
https://caterinasolang.wordpress.com/2014/03/04/passavamo-sulla-terra-leggeri/
Passavamo sulla terra leggeri come acqua, come acqua che scorre, salta, giù dalla conca piena della fonte, scivola e serpeggia fra muschi e felci, fino alle radici delle sughere e dei mandorli o scende scivolando sulle pietre, per i monti e i colli fino al piano, dai torrenti al fiume, a farsi lenta verso le paludi e il mare,chiamata in vapore dal sole a diventare nube dominata dai venti e pioggia benedetta.
A parte la follia di ucciderci l'un l'altro per motivi irrilevanti, eravamo felici.
Le piane e le paludi erano fertili, i monti ricchi di pascolo e fonti.
Il cibo non mancava neppure negli anni di carestia.
Facevamo un vino colore del sangue, dolce al palato e portatore di sogni allegri.
Nel settimo giorno del mese del vento che piega le querce incontravamo tutte le genti attorno alla fonte sacra e per sette giorni e sette notti mangiavamo, bevevamo, cantavamo e danzavamo in onore di Is.
Cantare, suonare, danzare, coltivare, raccogliere, mungere, intagliare, fondere, uccidere, morire,cantare, suonare, danzare era la nostra vita.
Eravamo felici,a parte la follia di ucciderci l'un l'altro per motivi irrilevanti.
Sergio Atzeni, Passavamo sulla terra leggeri, Ilisso, 2003
Passavamo sulla terra leggeri...non lasciavamo altre tracce che i nuraghi e le navi di bronzo.
Il 6 settembre 1995, scomparve tragicamente Sergio Atzeni.
"Il cibo non mancava neppure negli anni di carestia.
Facevamo un vino colore del sangue, dolce al palato e portatore di sogni allegri.
Nel settimo giorno del mese del vento che piega le querce incontravamo tutte le genti attorno alla fonte sacra e per sette giorni e sette notti mangiavamo, bevevamo, cantavamo e danzavamo in onore di Is... [...]
“Cantavamo, morivamo, danzavamo di padre in figlio, crescendo di numero e di esperienza dell'isola. Eravamo felici.
(pag. 64)”
Sergio Atzeni, Passavamo sulla terra leggeri
“Chiamavamo noi stessi s'ard, che nell'antica lingua significa danzatori delle stelle.
[...]
Non lasciavamo altre tracce che i nuraghe, le navi di bronzo di Urel di Mu e i piccoli uomini cornuti, guardiani dell'isola, che molti fecero imitando Mir. Nessuno sapeva leggere e scrivere. Passavamo sulla terra leggeri come acqua.
(pag. 65)”
Sergio Atzeni, Passavamo sulla terra leggeri
“Mille anni di guerra, disse Antonio Setzu. Questo furono per noi i romani, mille anni di guerra. Non quotidiana, per fortuna. Con pause anche lunghe di pace.
(pag. 97)”
Sergio Atzeni, Passavamo sulla terra leggeri
“Se esiste una parola per dire i sentimenti dei Sardi nei millenni di isolamento tra nuraghe e bronzetti forse è felicità. Passavamo sulla terra leggeri come acqua, come acqua che scorre, salta, giù dalla conca piena della fonte, scivola e serpeggia tra muschi e felci, fino alle radici delle sughere e dei mandorli o scende scivolando sulle pietre, per i monti e i colli fino al piano, dai torrenti al fiume, a farsi lenti verso le paludi e il mare, chiamata in vapore dal sole a diventare nube dominata dai venti e pioggia benedetta” (p. 24).
**
Dai mitici S'ard, “danzatori delle stelle” orientali, sino alla sconfitta per mano d'Aragona (1409): tutta la leggenda e la storia del nobile popolo sardo nelle parole di un artista grande e sfortunato come Atzeni, raccontate – nella finzione letteraria – da un bambino cresciuto tenendo tutto in memoria, per trentaquattro anni, erede dei segreti del custode del tempo Antonio Setzu. Sono pagine giocate per brevi frammenti, singhiozzi, bozzetti; epiche e spezzettate, rapsodiche ed elegiache al contempo. Si parte dalle più remote profondità del tempo. Dai giorni in cui un misterioso popolo, esule dalla sua patria, approdò nell'isola che per sempre lo avrebbe ospitato. Ventuno sopravvivemmo, canta Atzeni, “e dovemmo imparare a coltivare i frutti e le erbe, a catturare e mungere le pecore e le capre. (…) Non dimenticammo i numeri. Confondemmo le distanze, forse. La conoscenza si fermò. Smettemmo d'essere sacerdoti” (p. 16). E da quei ventuno la popolazione crebbe sin quando non furono ventuno i villaggi, e per “ogni gente le altre venti erano estranee o nemiche” (p. 16).
“Eravamo gente alta e stando nell'isola siamo diventati piccoli perché tutto trapiantato nelle isole di questo mare diventa più piccolo, più scuro, più gustoso? O gente piccola già in origine? Piccoli di statura, scuri di pelle, abituati a pensare, ragionare, contare, mai concordi fra noi. Così siamo tuttora, fatti salvi gli imbecilli che non mancano e nessuna legge potrà mai limitare” (p. 14).
E quando, moltiplicandosi in numero e valore, le genti dei villaggi si massacravano almeno una volta l'anno, il saggio Umur disse: “Meglio sarebbe avere meno guerrieri e più pastori” (p. 23). Cantare, suonare – scrive Atzeni – coltivare, raccogliere, mungere, intagliare, fondere, uccidere, morire, cantare, suonare danzare era la loro vita. Vennero i Fenici, parlavano una lingua amica e chiedevano cooperazione: ne derivò amicizia. I nuovi ospiti non volevano guerre, erano pochi e la ricchezza era la loro unica passione; fondarono un villaggio, Kar Ale, e prosperarono.
Nel Nord dell'isola – e nella Corsica, che si giurava fosse disabitata – vennero gli Etruschi, in fuga dai Romani. Come i Fenici, portarono nuovi dèi. Ma assieme, portarono l'angoscia e la paura per l'avvento degli aggressivi Figli della Lupa; già Puni e Liguri li avevano messi in guardia. Invano. I Romani conquistarono Karale, fecero tanti schiavi e massacrarono donne e bambini. “Mille anni di guerra, disse Antonio Setzu. Questo furono per noi i Romani. Mille anni di guerra” (p. 52). Non quotidiana. I Sardi furono sul punto di vincerli.
“Apparve Amsicora. Vagava per i villaggi. Diceva di essere della gente di Mu e cresciuto a Roma, per questo aveva nome Romano. Diceva che era il momento di attaccare Karale per espugnarla (…). Tre genti lo raggiunsero” (p. 52). Qualcuno pensava fosse un impostore. Venne comunque sconfitto.
Venne Uomo, ribattezzato Lucifero da qualcuno a Roma, per insegnare la storia di Gesù; e da allora i Sardi si riconobbero nella sua parola. Sempre combatterono contro il morbo nero, la malaria, che falciava la popolazione di Karale.
“Dobbiamo la sopravvivenza in libertà a tutti i barbari che trovi nei libri di storia: goti, burgundi, celti, germani, unni, vandali e tutti i popoli che attaccarono l'impero prima mettendolo in ginocchio poi atterrandolo e infine distruggendolo, dando fine alla nostra guerra millenaria. Facemmo la nostra parte non cedendo il cuore dell'isola” (p. 81).
Romani e Bizantini maledivano le febbri di Karale e le incursioni dei briganti: gli storici savoiardi cercarono di sporcare la storia.
“Tentavano di spezzare il filo che lega la sovranità dei sardi alla terra dei sardi; volevano dimostrare che quella sovranità era stata perduta più e più volte, fin da epoche antichissime; volevano dimostrare ch'eravamo 'terra dell'impero', era l'unico elemento che giustificasse, secondo una distorta concezione del diritto, l'usurpazione savoiarda del titolo di re di Sardegna” (p. 90).
Sostiene Atzeni che tutto finisca con l'avvento degli Aragonesi, quando Karale diventa Caglié, e quando scompare la civiltà fondata sui giudici; da quel momento in avanti, l'indipendenza sarda si colora di un'autonomia che suona come servitù, o si tinge di sconfitta. L'orgoglio e la storia non mutano, e la speranza di restituire linfa e senso alla perduta leggenda del popolo dei danzatori delle stelle non conosce termine.
**
Ultimo romanzo di Sergio Atzeni, concluso nell'agosto del 1995, una manciata di giorni prima della morte dell'artista nel mare dell'isola di San Pietro, “Passavamo sulla terra leggeri” è un congedo doloroso, e toccante: un lascito testamentario di uno scrittore intenso, lirico e massimalista, dedicato e rivolto a tutti gli intellettuali e i letterati isolani, e ai letterati patrioti di tutte le nazioni. Nella mia biblioteca capitolina, andrà idealmente ad affiancare Cambosu (“Miele amaro”) e l'Iliade e l'Odissea in limba sarda. Onore al popolo sardo, e ai suoi poeti. Onore a chi ha combattuto per millenni per rivendicare e ribadire la propria dignità, la propria identità, la propria essenza. Niente è avvenuto invano.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Sergio Atzeni (Capoterra, 1952 – Isola di S. Pietro, 1995), scrittore sardo.
Sergio Atzeni, “Passavamo sulla terra leggeri”, Ilisso, Nuoro, 2003. Collana “Scrittori di Sardegna”, 7. Nota introduttiva di Giovanna Cerina.
Prima edizione: Mondadori, 1996.
Sergio Atzeni, Passavamo sulla terra leggeri
Come un antico aedo, Atzeni regala al lettore una miriade di microstorie che immagina tramandate oralmente dai Custodi del tempo: la storia si mescola al racconto epico, al mito, alla leggenda, per narrare di un popolo antico, i S’ard, “danzatori delle stelle” provenienti dall’Oriente, e approdati in un’isola bellissima, senza nome. Come per magia emerge da una preistoria remotissima il mistero delle origini; si anima la lunga resistenza agli invasori, cui seguono fasi storiche più vicine nel tempo, fino al tramonto della civiltà dei giudici, che segna la fine della libertà. Entro questa trama si svolge “la storia delle donne e degli uomini che hanno vissuto prima di noi nell’isola dei danzatori”. Il titolo evoca, in forma di idillio, l’utopia di un Eden perduto: “Passavamo sulla terra leggeri come acqua … come acqua che scorre, salta, giù dalla conca piena della fonte, scivola e serpeggia fra muschi e felci, fino alle radici delle sughere e dei mandorli”. Una singolare e irrinunciabile esperienza di lettura.
http://www.ilisso.it/prodotto/passavamo-sulla-terra-leggeri-2/
"Passavamo sulla terra leggeri è un romanzo di Sergio Atzeni, pubblicato postumo nel 1996, considerata la sua opera più importante e letta.
È una rievocazione romanzata della storia della Sardegna, resa in forma di resoconto mnemonico orale. Dai tempi lontani in cui dei fuggiaschi arrivarono sull'isola da una non precisata terra a oriente, sino alla sconfitta nella battaglia di Sanluri del 1409, combattuta dal Regno di Arborea, ultimo giudicato superstite, contro i catalano-aragonesi. I protagonisti, veri, inventati o trasformati (fra cui la figura di Mariano che diventa una capra zoppa danzante) detengono il filo della memoria collettiva detenuto dai "Custodi del Tempo". Il penultimo di questi (Antonio Setzu ovvero Antonio il vecchio) è appunto la principale voce narrante del romanzo, colui che racconta in una casa di un paesino chiamato Morgongiori l'intera storia al nuovo custode.
La narrazione miscela riferimenti alla geografia e alla storia dell'isola sovrapposti a un racconto mitico e storicamente non accurato. Ad esempio la cosiddetta "lingua degli antichi" viene reinventata da Atzeni senza l'utilizzo di strumenti etimologici ma solo come invenzione letteraria. La stessa parola s'ard è tradotta come danzatori di stelle.
A poco tempo della pubblicazione, il romanzo è diventato un riferimento culturale letterario e identitario della Sardegna contemporanea".
https://it.wikipedia.org/wiki/Passavamo_sulla_terra_leggeri
«Non so definire la parola felicità. Ovvero: non so che sia la felicità. Credo di avere sperimentato momenti di gioia intensa, da battermi i pugni sul petto, al sole, alla pioggia o al coperto, urlando (a volte vorrei farlo e non si può, sarebbe giudicato segno di disturbo mentale) o da credere di camminare sulle nuvole o da sentire l’anima farsi leggera e volare alta fino a Dio (è capitato di rado). È la felicità? Così breve? Così poca?
[…] Passavamo sulla terra leggeri come acqua, […] come acqua che scorre, salta, giù dalla conca piena della fonte, scivola e serpeggia fra muschi e felci, fino alle radici delle sughere e dei mandorli o scende scivolando sulle pietre, per i monti e i colli fino al piano, dai torrenti al fiume, a farsi lenta verso le paludi e il mare, chiamata in vapore dal sole a diventare nube dominata dai venti e pioggia benedetta. A parte la follia di ucciderci l’un l’altro per motivi irrilevanti, eravamo felici. Le piane e le paludi erano fertili, i monti ricchi di pascolo e fonti. Il cibo non mancava neppurenegli anni di carestia. Facevamo un vino colore del sangue, dolce al palato e portatore di sogni allegri. Nel settimo giorno del mese del vento che piega le querce incontravamo tutte le genti attorno alla fonte sacra e per sette giorni e sette notti mangiavamo, bevevamo, cantavamo e danzavamo in onore di Is. Cantare, suonare, danzare, coltivare, raccogliere, mungere, intagliare, fondere, uccidere, morire, cantare, suonare, danzare era la nostra vita. Eravamo felici, a parte la follia di ucciderci l’un l’altro per motivi irrilevanti. […]
Il destino è segnato? […]
Si poteva uccidere e morire anche senza odio. Per potere bere prima alla fonte. Per una parola interpretata come insulto. Per desiderio spasmodico di un cavallo altrui. Per scommessa. Per caso. Per errore. A quel tempo uccidere e morire non era una tragedia per nessuno eccetto i familiari dell’ucciso che cercavano vendetta. Il fratello di Eloi uccise Umur. Il padre di Umur uccise il padre di Eloi. Il fratello di Eloi uccise il padre di Umur. Il fratello di Umur uccise il fratello di Eloi. Quattro morti in trent’anni. La vendetta non era immediata ma segnata. Chiunque appartenesse alla famiglia di Umur o alla famiglia di Eloi per qualunque vincolo di parentela era segnato dalla vendetta. Sapeva che poteva morire ucciso, sapeva che poteva diventare assassino. Dopo trent’anni i padri del villaggio andarono da Usir, il giudice, gli raccontarono la vicenda. Il giudice convocò i maiores delle famiglie di Umur e di Eloi. Nessuno seppe quel che disse, nel cerchio sacro di Is, nel cavo del monte. Ma da quel momento le due famiglie parvero unite da vincolo di fratellanza. Cantavamo, morivamo, danzavamo di padre in figlio, crescendo di numero e di esperienza dell’isola. Eravamo felici. Chiamavamo noi stessi s’ard, che nell’antica lingua significa danzatori delle stelle. […]
A settentrione dell’isola, sulla costa d’oriente, in un territorio dove non sorgeva nessuno dei nostri villaggi, sbarcarono cento e cento etruschi che fuggivano una potenza di cui da tempo si sentiva pronunciare il nome: i romani. Accogliemmo gli scampati e donammo la terra dov’erano sbarcati. Erano lascivi come i fenici e adoravano un dio dei morti bello come il sole, un dio di fattezze umane che aveva ucciso il padre, aveva copulato con la madre e era stato sbranato in una grotta da otto lupi divini. Sulla costa a settentrione dell’isola, a occidente, in un territorio dove non sorgeva nessuno dei nostri villaggi, sbarcarono cento e cento liguri che fuggivano i romani. Li accogliemmo, donammo quella terra. Adoravano un dio di fattezze umane, un dio uccisore che guidando i guerrieri alla conquista di un regno era stato ucciso dai figli e sbranato. Eravamo incuriositi dal proliferare di dèi ma nessuno ci pareva più grande e saggio del dio tramandato dagli antichi, il creatore che parla nel cielo notturno. Dimenticavamo le distanze fra le stelle e comprendevamo d’essere al centro di un mare che si faceva di giorno in giorno più popolato. Non potevamo fermare il ciclo dell’uomo, nessunopuò fermarlo. Dovevamo incontrare gli altri uomini, per crescere. L’incontro ha un costo, pagarlo è inevitabile. […]
I romani erano famosi da molto prima che potessimo vederne uno in carne e ossa. Ne parlavano gli etruschi, i liguri,i punici. Gli etruschi cominciavano a attraversare l’isola da un capo all’altro comprando formaggio e sale che portavano a settentrione per caricarli su grosse barche e trasbordarli in Corsica dov’erano fuggiti altri di quella gente. Viaggiando, comprando, vendendo, navigando, pregavano notte e giorno cinquecento dèi di evitare un nuovo incontro coi figli del lupo. La Corsica la conoscevamo, avremmo dovuto essere ciechi per non vederla. Per raggiungerla avremmo dovuto attraversare il mare. L’avevamo guardata con curiosità, non aveva mostrato segni di vita umana. Eravamo pochi e quasi tutti lungo la costa occidentale, attorno a Mu e Ar, fra le paludi e il piede dei monti. Prima di immaginare di popolare la Corsica dovevamo popolare la terra dei danzatori. I liguri si mescolarono alle genti di montagna accettando i nostri riti. Alla parola “romano” spergiuravano, urlavano, sputavano, ringhiavano, piangevano. I punici battevano l’isola in cerca di volontari per le guerre e spiegavano che i romani erano uomini come gli altri anche se ottimi guerrieri, non dèi, non lupi armati. Li si poteva uccidere, erano necessari uccisori. Avevamo paura dei romani. Eravamo curiosi di vederne qualcuno. […]
Mille anni di guerra. Questo furono per noi i romani, mille anni di guerra. Due volte giungemmo a un passo dalla morte della libertà. La prima cento anni dopo la comparsa a Karale dei rapati figli della lupa. Urur di Ar diceva: «I romani nel piano all’aperto sono invincibili. Troppo numerosi, bene armati, abili a combatteren e cavalcare. Ma nella foresta e sul monte le centurie devono sciogliersi, se vogliono proseguire. I soldati devono avanzare uno a uno, aprendosi il passo a fatica. Dobbiamo apparire dal nulla, in silenzio. Uccidere e sparire. I romani devono guardare con paura ogni gola, ogni valle, ogni letto di torrente, temendo l’agguato. I villaggi di pianura sono sguarniti quando i romani sono impegnati in guerre oltremare. I maiores balentes a cavalcare e combattere faranno bardanas per razziare quanto serve a sfamare le genti: grano, farina, vino, vitelli, pecore, capre, maiali, conigli, galline, cavalli. Quel che i romani possiedono è frutto della terra dei danzatori». Alle parole Urur fece seguire i fatti. Scelse trecento cavalieri e li guidò, mentre i cartaginesi tenevano impegnati i romani. Saccheggiò trenta villaggi e inviò sulle montagne cento e cento carri di viveri. Arrivò alle porte di Karale. «Non è difficile» disse. «Lo rifaremo». […]
Mille anni di guerra. Questo furono per noi i romani, mille anni di guerra.Non quotidiana, per fortuna. Con pause anche lunghe di pace. […]
Visto l’esito dell’impresa, gli episcopi e lo stratega decisero di trattare coi barbari. L’episcopo più giovane, Antioco, accompagnato da cento cavalieri disarmati, si presentò alla porta di Arbaré e la trovò aperta. «Questo territorio è dell’impero» disse l’episcopo. «La terra su cui hai i piedi» rispose la judikissa «appartiene alla nostra gente da molto prima che Roma nascessee sarà nostra anche quando Roma sarà morta». «Roma è morta» disse Antioco. «Anche la nuova Roma morirà, prima o poi». «Sei cristiana?». «Sono cristiana». «Devi obbedienza al tuo episcopo». «Tu non sei il mio episcopo». «Voi non avete episcopi» disse Antioco «e non avete una città perché questo è soltanto un villaggio anche se fortificato, non avete un re o un principe, appartenete all’imperatore. Siete barbari sulle terre dell’imperatore». «Le terre dell’impero su quest’isola» rispose Aleni «cominciano lontane da questa città. Questa città e i monti, le paludi di settentrione e gli altopiani ci appartengono da prima che il primo imperatore nascesse e ci apparterranno anche quando l’ultimo imperatore morirà. Se fossi un cattivo ospite potrei ucciderti». «Quando tu morirai che sarà della tua gente?» chiese Antioco. «Avranno un giudice». «Tuo figlio?». «No». «Chi?». «Indicherò all’assemblea dei maiores un nome. Più di cinquanta dovranno sceglierlo perché sia il nome del giudice». «Se tu ti dicessi convertita al cristianesimo potrei decidere di restare a Karale, non ho nessun desiderio di tornare nella città di Costantino, e potrei vivere in pace con voi» disse Antioco. «Gli uomini dell’impero non dovranno mettere piede sulle terre dei giudici» rispose Aleni. «D’accordo». «Sarai il mio episcopo». Tornato a Karale l’episcopo Antioco comunicò all’impero che i barbari macarroni si erano convertiti e chiese uomini per costruire difese contro i barbari perché anche se convertiti non smettevano d’essere barbari. […]
Ora sei custode del tempo, disse Antonio Setzu e soggiunse a bassa voce: come coloro che ti hanno preceduto dovrai rimanere cristiano senza discussioni e rispettare leleggi che ci siamo dati nella notte del tempo e abbiamo scritto e modificato durante i giudicati di Mariano e Eleonora. Più malvagi saranno i tempi più l’adesione all’antica legge parrà ribellione o sedizione. Potrai aggiungere spiegazioni nuove dei fatti antichi narrati nella storia che ti è affidata e raccontare avvenimenti memorabili del trentennio della tua custodia, purché con chiarezza e concisione. Noi custodi del tempo, dal giorno della perdita della libertà sulla nostra terra, abbiamo preferito finire la storia a questo punto ».
Sergio Atzeni (Capoterra 1952 – Isola di S. Pietro 1995)
Passavamo sulla terra leggeri, Milano, Mondadori, 1996.
https://caterinasolang.wordpress.com/2014/03/04/passavamo-sulla-terra-leggeri/
antonella mossa (25-10-2007):
Pura poesia. Scelto per caso,ho tentennato prima di leggerlo perchè pensavo fosse triste..ho visto nascere la Sardegna sotto imiei occhi,la sua gente che è la mia gente,le foreste il mare. I riti e le danze. E' stato bello ritrovare il nome antico della mia città in queste pagine, ripercorrerne vicoli e strade in un viaggio a ritroso nel tempo.Bellisssimo libro,dipinto usando le parole come una meravigliosa tavolozza di colori.
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