Quando la Sla entra in famiglia. Cinque storie di sofferenza e affetto
Quattro malati e un familiare raccontano cosa significa convivere con la Sla, dalla diagnosi alla vita di tutti i giorni
Clara Amodeo
Quando i ricercatori inseguono, tra le pieghe della medicina, un modo per curarla, si servono di nomi tecnici: sclerosi laterale amiotrofica, malattia del motoneurone, morbo di Lou Gehrig, malattia di Charcot. Ma quando qualcosa di così grave entra nella vita di persone sane, trasformandole in malati o in familiari dei malati, la retorica cambia: la Sla diventa la Fetente per Fabrizio, la Stronza per Gabriella, la Bastarda per Julius. Nomi bassi e volgari, come quella malattia che tutto toglie (la forza fisica, la voce, la speranza di guarire) lasciando però ai malati la capacità di pensare e la voglia di rapportarsi agli altri. E lasciando ai loro cari un grande vuoto, colmato “solo” dall’affetto per il malato.
Queste storie iniziano tutte con un disturbo difficilmente riconducibile alla Sla:
un piede che cede mostrato all’ortopedico,
un mal di schiena preso per un’ernia,
un «mi sento stanco» pronunciato dopo un’operazione.
«Eppure quell’ernia non mi convinceva – racconta Gabriella, moglie di Giacomo, morto di Sla all’età di 61 anni a Milano – e così ho proposto a mio marito di farsi visitare dal neurologo». Perché questa malattia coinvolge i motoneuroni e non può che essere diagnosticata da uno specialista. Ma quando viene pronunciata la parola “Sla” la prima reazione è sempre la stessa: «Hai visto il film La teoria del tutto? – spiega Julius, malato da 8 anni – Ecco, c'è la scena dove il neurologo comunica a un esterrefatto Stephen Hawking la diagnosi. Poche parole, nessuna speranza di cura e una sentenza di morte senza rimedio. Il neurologo si alza e se ne va, lasciando il giovane Hawking solo in uno stanzone deserto. A me hanno piazzato in mano un opuscolo che spiegava cos'è la Sla con la frase di rito “Le consiglio di sistemare i suoi affari personali”».
Quando la Sla entra nella vita delle persone assume nuovi nomi:
diventa la Fetente per Fabrizio, la Stronza per Gabriella, la Bastarda per Julius
Da qui un calvario che ognuno affronta in maniera personale:
«Il peso della malattia – prosegue Gabriella – ricade anche su chi, come me, ha dovuto assistere impotente alla morte del proprio marito». Giacomo era docente al Politecnico di Milano: parlava ai suoi studenti, girava il mondo, amava disegnare ma la Sla gli ha tolto il fiato, la mobilità, l’uso delle mani. «Al momento la contingenza era fisica, per questo ero impegnata a fornirgli un’assistenza di tipo materiale. Solo dopo la sua morte mi sono resa conto di cosa abbia dovuto sopportare e mi sono quasi sentita in colpa per quello che non sono stata in grado di fare. Avrei voluto stargli più vicina, anche se so che per lui questo sarebbe sembrato solo un modo per commiserarlo».
Julius, fino a otto anni fa manager in una grossa multinazionale a Milano è oggi quasi completamente paralizzato: «Immagina di non poter più camminare, mangiare o bere, parlare con la tua famiglia, abbracciare i tuoi figli, stringere e baciare tua moglie, respirare normalmente, essere dipendente dagli altri per tutto. Via via che la malattia avanza hai bisogno di sempre più macchinari: per muoverti, per nutrirti, per comunicare, per respirare, per dormire. Anche se molti ausili sono coperti dal servizio sanitario, la Sla resta una malattia molto costosa da affrontare in ambito familiare», e lo Stato non è sempre presente.
«Immagina di non poter più camminare, mangiare o bere, parlare con la tua famiglia, abbracciare i tuoi figli, stringere e baciare tua moglie»
Come accade a Michele, 49enne di Enna e malato dal 2008:
«Nessuna istituzione – denuncia – si prende carico del paziente: qui in Sicilia il sistema sanitario nazionale interviene solo in casi di estremo bisogno, mentre si perde sulle problematiche che quotidianamente i malati e le loro famiglie devono affrontare». Un esempio? Michele si nutre tramite Peg, il sondino per la cosiddetta “gastrostomia endoscopica percutanea”. La Asl di Enna gli fornisce flaconi di “cibo” da 1000 ml ciascuno e Stella, sua moglie, gliene somministra uno per notte per non appesantirlo durante il giorno. «Qualche tempo fa – spiega la stessa Stella – la Asl mi fa sapere che il nuovo fornitore passerà a fiale più piccole, da 500 ml ciascuna. Questo significherà che dovrò svegliarmi la notte e sostituire quella vuota con una nuova». Le sue lamentele non sono servite a molto: la risposta della Asl è stata “Cambi orario”.
Tocca dunque fare affidamento sulle reti create da associazioni, locali o nazionali, che organizzano momenti di incontro, di ascolto e di soccorso per i malati e per le loro famiglie. «Ho un gruppo con Aisla (Associazione italiana sclerosi laterale amiotrofica) – spiega Ivana, 63enne malata di Sla di Cuneo – con cui tengo un banchetto a Saluzzo per raccogliere fondi. Faccio poi fisioterapia con altri malati e con loro parlo dei miei problemi, ascolto quelli di ciascuno, insomma mi confronto per trovare soluzioni comuni». Ivana ha scoperto di essere affetta da Sla nel 2001 e solo da poco è sulla sedia a rotelle: prima che ciò accadesse era un’insegnante alla scuola elementare della sua città. «Amo sapere cosa succede a scuola e per questo mi tengo in contatto con le mie colleghe. Spesso usciamo, cosa che faccio anche con le mie sorelle e mio marito: mi concedo lunghe passeggiate, vado al mare, leggo molto. Voglio convivere serenamente con la malattia: lo faccio per me, per non essere compatita, e per i miei familiari, per non gravare troppo su di loro. Non nego che le difficoltà ci siano, ma in fondo a cosa serve scoraggiarsi?».
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