Eric Robertson Dodds. I Greci e l’irrazionale.
“I Greci avevano sempre sentito l’esperienza delle passioni come un fatto misterioso e pauroso in cui sperimentiamo una forza che è in noi, e che ci possiede, anziché venir posseduta da noi. La parola stessa ‹păthos› lo attesta: come il suo equivalente latino ‹passio›, indica qualcosa che «accade» agli uomini, vittime passive. Aristotele paragona l’uomo in stato di passione all’addormentato, al pazzo o all’ubriaco; la ragione, in lui, al pari che in questi, è sospesa. […] Gli eroi di Omero e gli uomini dell’età arcaica interpretavano tali esperienze in termini religiosi, come ‹ate›, come trasmissione del ‹menos›, o come azione diretta di un demone che si serve del corpo e dell’anima umani come di uno strumento. Questa è l’opinione corrente di semplici: «il primitivo, sotto l’influenza di forti passioni, considera se stesso posseduto o malato, che per lui è la stessa cosa». Questo modo di pensare non si era estinto neppure alla fine del V secolo; Giasone, alla fine della ‹Medea›, sa spiegare la condotta della moglie soltanto come azione di un ‹alastor›, il demone creato dalla colpa di sangue inespiata; il coro dell’‹Ippolito› pensa che Fedra sia probabilmente posseduta, e Fedra stessa, in principio, parla del proprio stato come dell’ ‹ate› di un demone.
Ma per il poeta e per i suoi ascoltatori colti, questo linguaggio ormai ha soltanto il valore di un simbolismo tradizionale. Il mondo demoniaco si è ritirato, lasciando soli gli uomini con le loro passioni. È questo che rende cosí dolorosamente commoventi i casi patologici studiati da Euripide; egli ci mostra uomini e donne che affrontano inermi il mistero del male, non piú una cosa estranea che aggredisce dall’esterno la loro ragione, ma parte dell’esser loro, ἦϑος ἀνθρώπῳ δαίμων. Eppure il male, anche se cessa di essere soprannaturale, non diventa meno misterioso e terrificante. Medea sa di lottare non contro un ‹alastor›, ma contro il proprio io irrazionale, il ‹thumos›, e domanda pietà a quell’io come uno schiavo implora il padrone brutale. Invano: gli impulsi dell’azione nascosti nel ‹thumos›, dove né la ragione né la pietà possono raggiungerli. «So quale malvagità sto per compiere, ma il ‹thumos› è piú forte delle mie decisioni; il ‹thumos›, radice delle peggiori azioni dell’uomo». Con queste parole abbandona la scena; quando ritorna, ha condannato i suoi figli a morte e se stessa a una vita di prevalutata infelicità. Medea infatti non soffre di socratiche «illusioni di prospettiva»; la sua aritmetica morale è senza errori, né commette l’errore di confondere la propria passione con uno spirito maligno. Sta in questo la sua suprema tragicità.
ERIC ROBERTSON DODDS (1893 – 1979), “I Greci e l’irrazionale” (1951), presentazione di Arnaldo Momigliano, trad. di Virginia Vacca De Bosis, La Nuova Italia, Firenze 1978 (ristampa anastatica dell’ I ed. 1973), Capitolo VI ‘Razionalismo e reazione nell’età classica’, pp. 222 – 224.
“ The Greek had always felt the experience of passion as something mysterious and frightening, the experience of a force that was in him, possessing him, rather than possessed by him. The very word pathos
testifies to that: like its Latin equivalent passio, it means something that «happens to» a man, something of which he is the passive victim. Aristotle compares the man in a state of passion to men asleep, insane, or drunk: his reason, like theirs, is in suspense. […] Homer’s heroes and the men of the Archaic Age interpreted such experience in religious terms, as ate, as a communication of menos, or as the direct working of a daemon who uses the human mind and body as his instrument. That is the usual view of simple people: «the primitive under the influence of strong passion considers himself as possessed, or ill, which for him is the same thing». That way of thinking was not dead even in the late fifth century. Jason at the end of the Medea can explain his wife's conduct only as the act of an alastor, the daemon created by unatoned bloodguilt; the Chorus of the Hippolytus think that Phaedra may be possessed, and she herself speaks at first of her condition as the ate of a daemon.
But for the poet, and for the educated part of his audience, this language has now only the force of a traditional symbolism. The daemonic world has withdrawn, leaving man alone with his passions. And this is what gives Euripides’ studies of crime their peculiar poignancy: he shows us men and women nakedly confronting the mystery of evil, no longer as an alien thing assailing their reason from without, but as a part of their own being – ἦϑος ἀνθρώπῳ δαίμων. Yet, for ceasing to be supernatural, it is not the less mysterious and terrifying. Medea knows that she is at grips, not with an alastor, but with her own irrational self, her thumos. She entreats that self for mercy, as a slave begs mercy of a brutal master.
But in vain: the springs of action are hidden in the thumos where neither reason nor pity can reach them. «I know what wickedness I am about to do; but the thumos is stronger than my purposes, thumos, the root of man’s worst acts». On these words, she leaves the stage; when she returns, she has condemned her children to death and herself to a lifetime of foreseen unhappiness. For Medea has no Socratic «illusions of perspective»; she makes no mistake in her moral arithmetic, any more than she mistakes her passion for an evil spirit. Therein lies her supreme tragic quality.”
ERIC ROBERTSON DODDS, “The Greeks and the Irrational”, University of California Press, Berkeley 1951 (I ed.), VI ‘Rationalism and Reaction in the Classical Age’, pp. 185 – 186.
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