La repubblica di Venezia, microcosmo delle divisioni religiose d’Europa, risultava sospetta a Roma per il suo spirito di tolleranza: essa, di fatto, si sarebbe mantenuta lontana dalle lotte e dalle persecuzioni religiose, nella logica di non voler fare atti che potessero nuocere al commercio.
In effetti la Serenissima avrebbe utilizzato per la sua ripresa commerciale proprio le minoranze religiose: i mercanti tedeschi protestanti per le sue relazioni con la Germania e i Paesi del Mare del Nord, gli ebrei e i greci per quelle verso l’Impero ottomano.
In effetti la Serenissima avrebbe utilizzato per la sua ripresa commerciale proprio le minoranze religiose: i mercanti tedeschi protestanti per le sue relazioni con la Germania e i Paesi del Mare del Nord, gli ebrei e i greci per quelle verso l’Impero ottomano.
Venezia, città cattolica ma gelosa della propria autonomia nei confronti di Roma, non smise mai di voler regolare autonomamente i propri affari: non esitò infatti a contrastare l’autorità del Papa.
Confinante con i territori pontifici che tagliavano in due la penisola, la città lagunare assunse il ruolo di difensore della libertà della penisola nel corso delle guerre che vedevano opposti il Papa, l’Imperatore, i re di Francia e di Spagna.
La Spagna cattolica risulterà vincitrice di questo scontro – nel 1559 con la Pace di Cateau Cambresis – e in tale contesto provvederà a rinforzare la propria presenza in Italia, in particolare a Milano al nord e a Napoli nel sud della penisola.
Il papato aveva scelto l’alleanza con il re di Spagna e Venezia si trovò così rapidamente circondata dagli Spagnoli e dai suoi alleati, gli Asburgo e il papato. Nella pratica questa triplice alleanza risultava estremamente pericolosa per il commercio veneziano, sul mare così come sulla terraferma.
In effetti gli spagnoli facevano risalire nell’Adriatico (il golfo di Venezia) le loro navi verso i porti di Trieste e di Fiume, porti degli Asburgo imperiali, e cercavano nel contempo di intaccare il monopolio della navigazione di cui godeva la Serenissima nel suo golfo, mentre sulla terraferma Leone X, vietando – a partire dal 15 giugno 1514 – al Duca di Ferrara di lasciar passare lungo il fiume Po il sale e le mercanzie dei Veneziani, toglieva alla Repubblica il suo monopolio, ovvero l’accesso ai mercati lombardi e francesi. Il Pontefice con questa decisione, si impegnava a difendere militarmente il ducato degli Este, nel caso che Venezia avesse cercato di riprendere, “manu militari“, il controllo della navigazione sul fiume.
Due patriarchi e una religione civica.
La Serenissima aveva saputo ritagliarsi una posizione di privilegio nella Cristianità occidentale.
Essa faceva tradizionalmente risalire al V secolo la sua fondazione mentre la regione sarebbe stata anteriormente evangelizzata da San Marco, inviato ad Aquileia dall’apostolo Pietro. Il vescovo di Aquileia – che aveva assunto il titolo orientale di Patriarca nel 568 in occasione delle invasioni longobarde – aveva deciso di rifugiarsi a Grado nella laguna veneta; il dogato dei Veneziani aveva pertanto detenuto una sede patriarcale, per mezzo della quale esso avrebbe creato sei micro-vescovati insulari nella Laguna, fra i quali quello, urbano, di Castello, al fine di rinforzare l’autorità del suo patriarca (827), quando Aquileia avrebbe riassunto la propria sede originale.
In tal modo Venezia si era posta come rivale di Roma, in quanto di fronte alla città di San Pietro essa rappresentava la città dell’evangelista Marco. Roma, di fatto, aveva un vescovo mentre Venezia un Patriarca. [...]
Potere e debolezza della chiesa di Venezia.
I membri del clero non potevano sedere nel Gran Consiglio, l’organo sovrano del Comune.
Venezia praticava la separazione dei poteri, situazione che divenne più evidente il 31 luglio 1411 quando il Consiglio dei Dieci, dotato di pieni poteri in materia di sicurezza interna ed esterna, decise di escludere dalle riunioni del Senato tutti i nobili, i titolari di prelature o di benefici ecclesiastici e i loro familiari, padre, fratelli, zii, nipoti, specie quando venivano trattati argomenti che riguardavano “gli affari del papa, l’obbedienza dovuta al papa o la disobbedienza, ed ogni cosa che possa concernere lo stesso papa”.
Tutti quelli che “non sono attaccati a tali benefici” possono garantire che “il loro giudizio avrà sempre in vista la giustizia, il bene e l’onore della nostra Signoria e del nostro Stato”. Il fatto di detenere un ufficio ecclesiastico o di godere di una rendita proveniente da beni della Chiesa (beneficio) rischiava di nuocere all’imparzialità di giudizio, “allo scrupolo della coscienza e dell’intelligenza”, qualità necessarie alla classe dirigente nel momento in cui deve interessarsi dei rapporti con il Papato.
In effetti, la conquista della regione nord-orientale della penisola italiana che avrebbe costituito la base dello Stato di terraferma, aveva posto nelle mani dei Veneziani ben dodici diocesi, che godevano di grandi risorse: i vescovi di Padova (70.000 ducati d’oro), Brescia (2.500), Verona (3.000), Treviso (1.400), Bergamo (1.200), le rendite dei capitoli, delle parrocchie, di una sessantina di monasteri, importanti priorati, conventi di ordini mendicanti, conventi femminili, con le rendite di giurisdizioni territoriali, le rendite fondiarie, censi, affitti, prodotti di ammende. Questi benefici erano particolarmente concupiti dai nobili veneziani come fonte di nuove entrate così come dallo Stato che, a partire dal 1463, avrebbe messo in essere l’imposta diretta su tutte le entrate.
Nel frattempo il papa non rinunciava a imporre la propria autorità:
nel febbraio 1510 papa Giulio II della Rovere, approfittando della vittoria militare della coalizione europea che aveva contribuito a creare (Lega di Cambrai), privò la Signoria del “diritto di nomina dei vescovi”, vale a dire del diritto di raccomandare al papa i nomi graditi.
Le proteste di Venezia non ebbero successo ma nel 1552 papa Giulio III avrebbe concesso alla Serenissima la designazione di quattro candidati al patriarcato di Aquileia, fra i quali il papa avrebbe compiuto la sua scelta. Le grandi famiglie nobili Grimani, Corner, Pisani e Barbaro – che consideravano le sedi episcopali e patriarcali, i cappelli cardinalizi e le abbazie come parte del loro patrimonio – beneficiavano di importanti appoggi presso la corte di Roma. Queste famiglie cardinalizie si sarebbero allineate così sulle posizioni pontificie. Ma la volontà di indipendenza nei confronti di Roma e della Chiesa avrebbe continuato a dominare all’interno dei Consigli di governo, che – ad esempio in occasione della introduzione dei Tribunali dell’Inquisizione, creati a Roma nel 1542 sotto il nome di “Congregazione del Santo Uffizio per la Repressione delle Eresie” – avrebbero deciso la salvaguardia della sovranità della Repubblica attraverso gli atti dell’Inquisizione validi solo se adottati in presenza di magistrati laici, appositamente creati a tal fine (“i tre Saggi all’eresia”) con il compito di controllare la procedura e gli atti dei monaci.
Allo stesso modo, al Concilio di Trento (1545-1563), riunito per restaurare l’unità dei Cristiani d’Occidente e definire le vie della Riforma cattolica, i prelati veneziani sarebbero stati invitati dal Consiglio dei Dieci “a votare unanimemente contro i decreti che avrebbero potuto ledere la sovranità di Venezia”: in tal modo la Repubblica lagunare avrebbe adottato la stessa linea di condotta delle grandi monarchie (Francia e Spagna), gelose di preservare la loro autorità davanti alle pretese pontificie.
La ricchezza della chiesa, una questione politica.
Meno dell’1% della popolazione (il clero) possedeva ormai poco meno di un quarto delle proprietà dello Stato, ovvero una fortuna superiore ai trenta milioni di ducati in beni immobiliari ed entrate, che ammontavano a circa un milione e mezzo di ducati.
Lo Stato, che voleva prelevare l’imposta diretta (decima) su queste ricchezze, vi sottometteva senza troppe difficoltà il basso clero, ma per i cardinali, prelati, monasteri, ordini mendicanti si trattava di un problema diverso, in quanto gli assoggettati a tale regime denunciavano una violenza che attentava alle libertà ecclesiastiche.
La ricchezza della Chiesa presentava un altro inconveniente in una città mercantile simultaneamente caratterizzata da una forte mobilità sociale e da un mercato fondiario e immobiliare particolarmente ridotto. In effetti durante tutto il Medioevo gli uffici notarili della città erano stati gestiti da preti-notai abili a orientare le ultime volontà dei testatori verso donazioni pie in favore di chiese e di monasteri che accumulavano beni in “mano morta”, in perpetuo.
Venezia cercava, in ogni caso, di mobilitare per fini produttivi queste eredità che, nella pratica, “congelavano” terreni e immobili. Dal 1333 il Gran Consiglio aveva limitato a dieci anni qualsiasi trasmissione di beni a fini religiosi (pie cause), al di là dei quali essi sarebbero dovuti essere rimessi sul mercato per essere venduti. Nel 1536 una legge del Senato veneto riprende questo principio per impedire che “tutti i beni immobili di questa città non siano, attraverso legati e donazioni, accaparrati dai religiosi” e ordina la loro messa in vendita all’asta pubblica nel tempo massimo di due anni. Nel 1605 tale legge venne estesa a tutto lo Stato. I monasteri aggirarono tali disposizioni orientando i testatori verso donazioni in denaro, accumulando, in tal modo, un patrimonio finanziario considerevole, che acconsentiranno a prestare al tasso d’interesse del 4-5% annuo al patriziato urbano.
L’interdetto (1606-1607).
Nell’autunno del 1605 il Consiglio dei Dieci aveva fatto arrestare un canonico, e successivamente un abate, accusati di crimini di diritto comune (l’abate per rapimento a mano armata della sposa di un mercante), mentre la Chiesa richiedeva il rispetto dell’immunità e il papa Paolo V Borghese esigeva la consegna dei due sospetti, che sarebbero stati deferiti presso i tribunali ecclesiastici. Il pontefice accompagnava le sue richieste con minacce non tanto velate: scomunica del Senato della Repubblica e “interdetto” (divieto di qualsiasi attività liturgica) in tutto lo Stato in caso di mancata ottemperanza. Con questa minaccia il sovrano pontefice metteva in causa la sovranità della Repubblica, affermando il suo diritto a giudicare sul territorio veneto.
In tale contesto il Consiglio dei Dieci condannò comunque a morte l’abate, mentre il Gran Consiglio, come replica al papa, elesse nel dicembre 1605 il doge Leonardo Donà e istituì l’ufficio del “Consulente religioso del governo” in teologia e diritto canonico, carica affidata a un “servita” (Ordine dei Servi di Maria ovvero i Serviti), frà Paolo Sarpi, brillante intellettuale e scienziato in matematica, fisica e medicina.
Nell’aprile 1606 Paolo V scaglia le sue censure ma la Repubblica protesta solennemente contro questo “breve” ingiusto, senza valore e illegittimo. Il conflitto diventava ormai aperto e la Sede Apostolica vi avrebbe gettato tutta le sua autorità politica e spirituale, mentre Venezia, per mezzo dei suoi uomini di governo avrebbe resistito.
Frà Paolo Sarpi si limitò alla denuncia etico-politica:
il papa si sbagliava ed era un dovere di ogni cristiano non prestargli obbedienza nel caso specifico. In conseguenza il governo veneziano aveva il dovere di costringere i religiosi dello Stato a proseguire nella loro attività liturgica; quelli che erano di opinione contraria (Cappuccini e Gesuiti) dovevano lasciare lo Stato e quelli che rimanevano sul territorio della Serenissima per predicare l’obbedienza al papa sarebbe stati perseguiti in giustizia.
Il governo veneziano avrebbe scelto di celebrare con uno sfarzo particolare la festa del Corpus Domini, dove le confraternite, mobilitate in processione avrebbero assecondato la propaganda governativa, esibendo carri che mostravano “una chiesa decadente sostenuta dal Doge circondato dai santi Francesco e Domenico” o illustrando il tema “reddite quae sunt Caesaris Cesari et quae sunt Dei Deo” e, ancora più suggestivo, un giovane vestito da doge, in ginocchio davanti a San Marco benedicente. La Repubblica si sarebbe appoggiata anche sui vescovi della Terraferma, tutti derivati dal patriziato veneziano, e sul patriarca d’Aquileia, il cui capitolo aveva affermato “tenere in maggiore considerazione il Doge rispetto al Papa.”
Il re di Francia, Enrico IV di Borbone aveva proposto la sua mediazione per negoziare un compromesso, concluso il 21 aprile 1607: i decreti del Senato e del Gran Consiglio erano stati confermati, Venezia avrebbe mantenuto le sue leggi sulla proprietà ecclesiastica, la Compagnia di Gesù non sarebbe stata richiamata, ma Sarpi e il Doge Donà non avrebbero più ottenuto la restituzione del diritto di nominare i vescovi. Nel 1621, tirando le conclusioni del conflitto, il Segretario di Stato (ministro degli Esteri del papa) deplorava: “La giurisdizione ecclesiastica e il rispetto verso il papa e la sede apostolica, non senza pericoli per tutta la religione cattolica, hanno ricevuto delle gravi ferite, che, invece di un guadagno e di restaurazione, sono state il risultato di mediocri perdite”.
Il contenzioso non risultava completamente risolto, ma Venezia per il futuro si sarebbe astenuta di dare corso a nuovi conflitti poiché, come osservava uno dei suoi, “c’erano ormai troppi patrizi, che sotto la pressione di esigenze economiche, avevano dei legami troppo stretti con la Curia, troppi ‘papalini’, che raggiungono ormai la metà del Senato; per diminuire il loro numero occorrerebbe che lo Stato potesse offrire loro una alternativa alle possibilità offerte dalla Chiesa”.
La politica dei benefici non mancava di attrattiva per una nobiltà che doveva sistemare i suoi numerosi figli.
In occasione dell’interminabile Guerra di Candia (Creta; durata 25 anni) nel 1656, la Repubblica avrebbe soppresso qualche piccolo convento, mettendo in vendita i suoi beni per procurarsi un milione di ducati, inghiottiti dalla guerra turca. Venezia avrebbe poi chiesto a papa Alessandro VII la libera disponibilità di questi beni: questi acconsentirà a condizione del richiamo dei gesuiti nella Repubblica (il Senato avrebbe accettato tale condizione, assegnando alla Compagnia un vasto convento rimasto vacante). Agli inizi del XVIII secolo i Gesuiti, ormai consolidati nella Serenissima, inizieranno a rinnovare la loro sede: essi fanno abbattere la vecchia chiesa dei Crociferi e affidano, nel 1715, all’architetto svizzero Domenico Rossi il compito di ricostruirne una secondo le direttive aderenti alle disposizioni del Concilio di Trento. La chiesa dei Gesuiti verrà dedicata all’Assunzione della Vergine (Santa Maria Assunta), protettrice di Venezia già troneggiante in cima alla cupola della Salute insieme alle insegne del grande ammiraglio della flotta veneta.
Per saperne di più
Lane, Frederic, Storia di Venezia, Einaudi, Torino, 2015;
Del Torre, Giuseppe, Patrizi e Cardinali: Venezia e le istituzioni ecclesiastiche nella prima età moderna, Franco Angeli, Milano, 2010;
Frajese, Vittorio, Sarpi scettico. Stato e Chiesa a Venezia tra Cinque e Seicento, Il Mulino, Bologna, 2007;
Zorzi, Alvise, La Repubblica del Leone. Storia di Venezia, Bompiani, 2001.
Nel XVII scoppia fra la Francia e Venezia una strana guerra: senza eserciti, ma con soldati; senza battaglie, ma con morti; senza generali, ma segnata dal contrapporsi di abili strategie.
Si tratta della "guerra degli #specchi".
Tutto comincia nel 1665, quando il governo di Luigi XIV invia delle spie a #Venezia per reclutare specialisti di dell'arte vetraria, provocando una furiosa reazione delle autorità della Serenissima.
Scopri tutto su #Storica 61 in questi giorni in edicola.
http://www.storiain.net/storia/venezia-e-roma-la-serenissima-contro-il-papato/
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