giovedì 20 febbraio 2014

Pharmakos. Il Pharmakos era un rituale largamente diffuso nelle città greche, ed era la purificazione mediante l'espulsione dalla città di un individuo, che veniva chiamato Pharmakos questo seguiva uno schema di credenza simile all'espulsione del capro espiatorio, che veniva utilizzato nella religione ebraica. Ad Atene, durante le feste del Targhelie, venivano scelte delle persone di aspetto ripugnante, una per gli uomini e un'altra per le donne, addobbati di vestiti ridicoli e infine scacciati fuori dalle mura. Sul significato del rito si era molto discusso e si era pensato che fosse stato un residuo di primitivi sacrifici umani. Secondo altri sarebbe stato un rito simbolico legato alle pratiche agricole fatto per allontanare dalle messi la sfortuna, ma anche le disavventure della comunità. II Pharmacos era colpevole di NULLA, ma il suo compito era quello di essere il rappresentante di ogni sfortuna. Espellendolo dalla città, essa, si liberava di un essere tabù che assumeva le colpe e le maledizioni di tutti. Perciò il Pharmacos era contemporaneamente il delitto e il salvatore, che con il suo sacrificio permetteva alla comunità di ritrovare la propria sicurezza garantendo così la pace nel paese.

Il Pharmakos era un rituale largamente diffuso nelle città greche, ed era la purificazione mediante l'espulsione dalla città di un individuo, che veniva chiamato Pharmakos questo seguiva uno schema di credenza simile all'espulsione del capro espiatorio, che veniva utilizzato nella religione ebraica. Ad Atene, durante le feste del Targhelie, venivano scelte delle persone di aspetto ripugnante, una per gli uomini e un'altra per le donne, addobbati di vestiti ridicoli e infine scacciati fuori dalle mura.
Sul significato del rito si era molto discusso e si era pensato che fosse stato un residuo di primitivi sacrifici umani. Secondo altri sarebbe stato un rito simbolico legato alle pratiche agricole fatto per allontanare dalle messi la sfortuna, ma anche le disavventure della comunità.
II Pharmacos era colpevole di NULLA, ma il suo compito era quello di essere il rappresentante di ogni sfortuna. Espellendolo dalla città, essa, si liberava di un essere tabù che assumeva le colpe e le maledizioni di tutti.
Perciò il Pharmacos era contemporaneamente il delitto e il salvatore, che con il suo sacrificio permetteva alla comunità di ritrovare la propria sicurezza garantendo così la pace nel paese.
http://cronologia.leonardo.it/mondo11c.htm


Pharmakos (greco φαρμακός) era il nome di un rituale largamente diffuso nelle città greche, simile a quello del capro espiatorio, che mirava ad ottenere una purificazione mediante l'espulsione dalla città di un individuo chiamato pharmakos (qualcosa come "il maledetto").
Ne parla, per esempio, il poeta Ipponatte: egli dice che un uomo scelto per la sua bruttezza veniva nutrito a spese della città, poi, un giorno stabilito, era scacciato a frustate; in altri luoghi ogni anno uno sventurato veniva "comprato" e nutrito a spese pubbliche, poi lo si espelleva a sassate dalla città.
Ad Atene, durante le feste Targelie (greco θαργήλια), in onore di Apollo, venivano scelte due persone di aspetto ripugnante, un uomo e una donna, adornate con collane di fichi e infine scacciate fuori dalle mura.

Sul significato del rito si è molto discusso; si è pensato che esso fosse un residuo di primitivi sacrifici umani; secondo altri sarebbe invece un rito legato alle pratiche agricole, posto in atto per allontanare dalle messi la sfortuna e le calamità naturali. In sostanza, si tratta di un rito simbolico destinato a placare l'angoscia per la contaminazione incombente sopra la comunità. Così il gruppo scarica la propria aggressività su un emarginato, scelto per la sua deformità come simbolo del male. Evidentemente egli non è colpevole di nulla, ma il suo compito è proprio quello di essere il rappresentante di ogni forma possibile di sventura: espellendolo, la città si libera di un essere tabù, un intoccabile, un perturbatore della pace, che assume su di sé le colpe e le maledizioni di tutti. Perciò il pharmakos è contemporaneamente il reietto e il salvatore, che con il suo sacrificio permette alla comunità di ritrovare la propria sicurezza e ne garantisce la pace. Non può andare perduta l'associazione con il mito cristiano dell'Agnello di Dio che toglie i peccati dal mondo ("Agnus Dei qui tollis peccata mundi == Agnello di Dio che SOPPORTI i peccati DEL mondo", QUINDI Te ne fai carico) e la stessa crocifissione del Salvatore, diventato egli tale proprio in virtù del sacrificio al quale prende parte.

Walter Burkert e René Girard hanno fornito interpretazioni moderne notevoli del rito del pharmakos. Burkert mostra come le persone erano sacrificate o espulse dopo essere state ben nutrite e, secondo alcune fonti, le loro ceneri erano sparse nell'oceano. Era un rituale di purificazione, una forma di catarsi sociale.[1]

Il Pharmakos è un termine fondamentale anche nel decostruzionismo di Jacques Derrida. Nel suo famoso saggio "La farmacia di Platone" [2], Derrida decostruisce molti testi di Platone, come il Fedro, e rivela l'interconnessione tra la catena significante pharmakeia-pharmakon-pharmakeus e la notevole assenza della parola pharmakos. Così facendo, Derrida attacca il confine tra interno ed esterno, dichiarando che il fuori (pharmakos, parola mai usata da Platone) è sempre-già presente proprio all'interno (pharmakeia-pharmakon-pharmakeus)
Si può dire che, come concetto, pharmakos è collegato ad altri termini di Derrida, come "traccia".
Per alcuni studiosi al rito del pharmakos si ricollega la pratica dell'ostracismo, procedura con cui si esiliava da Atene un uomo politico importante, dopo una votazione in cui si scriveva il suo nome su pezzi di coccio. Però l'ostracismo era un episodio puntuale, contrariamente all'esecuzione o espulsione del pharmakos.


Più tardi il termine Pharmakos si trasformò in pharmakeus, che indica una droga, pozione magica, guaritore, avvelenatore, per estensione un mago o uno stregone.[3] Una variante di questo termine è "pharmakon" (φάρμακον), che significa pianta curativa, veleno o droga. Da questa variante deriva il termine moderno "farmacologia".[4]

L'analisi decostruttiva di Derrida
Nel 1968 la rivista francese Tel Quel pubblicò un lungo saggio di Jacques Derrida, intitolato La farmacia di Platone [5], che poi fu inserito nel suo libro del 1972, La dissémination. Questo libro ha come punto di partenza il Fedro di Platone.

Anche se la catena significante pharmakeia-pharmakon-pharmakeus compare molte volte nei testi di Platone, il filosofo non usa mai un termine strettamente collegato, pharmakos, che significa "capro espiatorio". Secondo Derrida, il fatto che Platone non usi quel termine non indica che la parola è necessariamente assente, o piuttosto, è sempre-già presente come "traccia". Certe forze o tendenze di associazione linguistica uniscono le parole che sono "in pratica presenti" in un testo con tutte le altre parole del sistema lessicale, indipendentemente dal fatto di comparire o meno in tale testo. Derrida evidenzia che la catena testuale non è semplicemente "interna" al lessico di Platone. 

È possibile affermare che tutta la catena significante "farmaceutica" (un altro componente della stessa catena) si manifesti effettivamente nel testo, anche se sempre nascosta nello sfondo, mostrandosi sempre furtivamente. "È sempre nella stanza nascosta, nelle ombre della farmacia, antecedente rispetto alle opposti conscio e inconscio, libertà e costrizione, volontario e involontario, parola e linguaggio, che queste 'operazioni' testuali hanno corso"[6] 

Quello che è in gioco qui è proprio l'idea della dicotomia interno/esterno; se la parola pharmakos che Platone non usa pur risuona all'interno del testo, allora non ci può essere possibilità di chiusura per quanto riguarda il testo. Se l'esterno è sempre-già presente all'interno, in opera all'interno, allora qual è lo status dei concetti "presente" e "assente", "corpo" e "anima", "centro" e "periferia"? Però è importante ricordare che Derrida classifica i farmaci come qualcosa "nello sfondo"; in altre parole, l'"esterno" sempre presente nell'"interno" non diventa mai pura presenza, ma resta nascosto come "traccia", un'allusione, un'"aporia". Con questo insistere tenacemente su questo punto, Derrida evita la trappola di quello che lui chiama "Metafisica della Pura Presenza", o "Logocentrismo"[7]

Nell'antica Atene il rito del pharmakos era usato per espellere e allontanare il male (fuori dal corpo e fuori dalla città). Per raggiungere questo scopo, gli ateniesi mantenevano a spese pubbliche alcuni poveri diavoli. Quando si verificava una calamità, ne sacrificavano uno o più come rituale di purificazione e rimedio curativo. Il pharmakos, il "capro espiatorio", era condotto fuori dalle mura della città e ucciso al fine di purificare l'interno della città. Il male che aveva infettato la città dall'"esterno" è rimosso e restituito all'"esterno", per sempre
Ma, paradossalmente, il rappresentante dell'esterno (il pharmakos) era ciononostante mantenuto nel cuore stesso dell'interno, la città, e anche a spese pubbliche. Per essere cacciato dalla città, il capro espiatorio doveva essere già stato dentro la città

"La cerimonia del pharmakos si svolge sulla linea di confine tra l'"interno" e l'"esterno", e il suo compito è di tracciare e rintracciare incessantemente quella linea".[8] 

Similmente, il pharmakos sta sulla sottile linea rossa tra sacro e maledetto, "...benefico in quanto cura - e per questo temuto e trattato con cura - dannoso in quanto incarna i poteri del male - e per questo, temuto e trattato con cautela".[9] 

Il pharmakos è il guaritore che cura ed è il criminale che è l'incarnazione dei poteri del male. Il pharmakos è come una medicina, pharmakon, nel caso di una malattia specifica, ma, come la maggior parte delle medicine, è allo stesso tempo un veleno, allo stesso tempo un male. Pharmakos, pharmakon: essi sfuggono a entrambi i lati con l'essere e non essere allo stesso tempo su un lato. Tutte e due le parole hanno in sé più di un significato, cioè dei significati confliggenti.

Pharmakos non significa solo capro espiatorio. È un sinonimo di pharmakeus, una parola spesso ripetuta da Platone, che significa "stregone", "mago", perfino "avvelenatore"

Nei dialoghi di Platone, spesso Socrate è rappresentato e definito pharmakeus
Socrate è considerato uno che sa come fare magia con le parole e, in particolare, non con le parole scritte. Le sue parole agiscono come un pharmakon (come una sostanza curativa, o anche un veleno) e trasformano, curano l'anima di chi ascolta. Nel Fedro, Socrate si oppone fermamente agli effetti negativi della scrittura. Socrate paragona la scrittura a un pharmakon, una droga, una pozione: scrivere ripete senza sapere, crea abominevoli simulacri. Qui Socrate trascura deliberatamente l'altro significato della parola: la cura
Socrate suggerisce un pharmakon diverso, una medicina: la dialettica, la forma filosofica del dialogo. Questo, sostiene Socrate, può condurci alla verità dell'eidos, ciò che è identico a se stesso, sempre se stesso, immutabile. Qui Socrate di nuovo trascura l'"altra" lettura della parola pharmakon: il veleno. Socrate agisce come un mago (pharmakos) - lui stesso parla di una voce soprannaturale che parla attraverso di lui - e la sua medicina (pharmakon) più famosa è il discorso, la dialettica e il dialogo che conduce al sapere e alla verità ultima. Ma paradossalmente Socrate diventa anche il più famoso "altro" pharmakos di Atene, il capro espiatorio. Diventa uno straniero, perfino un nemico che avvelena la repubblica e i suoi cittadini
È un abominevole "altro"; non l'altro assoluto, il barbaro, ma l'altro (l'esterno) che è molto vicino, come quei poveri diavoli, che è sempre-già nell'interno. Egli è allo stesso tempo la "cura" e il "veleno" e, proprio come lui, gli ateniesi scelsero di dimenticare uno di quei significati in base alla necessità. E, alla fine, Platone colloca Socrate in quello che per Socrate era il più vile di tutti i veleni: nella scrittura, che sopravvive fino a oggi.

http://it.wikipedia.org/wiki/Pharmakos


Il mio farmacista aveva una targhetta al muro che diceva:
se no ghe fosse Dottore e Farmacia quanti morti de manco ve saria.


Il farmaco nel corpo.
Ogni farmaco ha un suo destino dentro il corpo. Viene metabolizzato in un certo modo, ha particolari bersagli in questo o quell'organo nei quali svolge la sua azione terapeutica e viene eliminato dal corpo in modi diversi. Per esempio, un farmaco usato per la cura dell'ulcera e preso come compresse, arrivato nell'intestino penetra nella parete dell'organo sino a raggiungere i capiIlari ed entra così nel sangue. Questa fase di assorbimento è graduale e raggiunge il massimo dopo 1-2 ore. Una volta nel sangue, il farmaco può raggiungere tutti gli organi e quindi ogni cellula del corpo, ma, in realtà, penetra solo in quelle che all'esterno possiedono particolari "serrature molecolari", i recettori, capaci di agganciarlo.In questo caso, il farmaco blocca le serrature e le rende così inaccessibili a una sostanza che stimola la produzione di acido nello stomaco. Altri farmaci, entrano nella cellula e ne condizionano il funzionamento o la riproduzione come è il caso dei farmaci contro il tumore.
Con il passare del tempo - minuti, ore o giorni a seconda dei casi - il farmaco può essere eliminato localmente da sostanze presenti nelle cellule oppure in altre parti del corpo, in genere il fegato o i reni. Ecco perché - a seconda dei casi - si può misurare la sua dose nel sangue o nelle urine, una pratica che aiuta a capire, in caso di mancata efficacia del farmaco, se questo è dovuto a una quantità troppo bassa assorbita dall'organismo o se un effetto tossico è da mettere in relazione a quantità eccessive. Casi entrambi che permettono al medico di correggere la dose sul singolo malato.

Gli effetti del farmaco
Un farmaco può avere nel corpo numerose conseguenze, apparentemente sconnesse. Viene preso per ottenere un effetto terapeutico, ma può provocarne anche altri, gli effetti indesiderati o sotto la variante più lieve di effetti collaterali o sotto forma di una reazione allergica. In tutti i casi, la distinzione effetto terapeutico/indesiderato è in qualche modo arbitraria perché ciò che è curativo oggi in un malato può rappresentare un inconveniente in un altro così come può darsi che in una circostanza diversa l'inconveniente sia l'effetto cercato. La storia dei farmaci è piena di esempi in cui un effetto indesiderato è stato poi considerato un effetto terapeutico. Per esempio, in caso di allergia si usano gli antistaminici che hanno come effetto collaterale la sonnolenza, ma è proprio per questa ragione che sono usati come sedativi. L'Aspirina non può essere usata nelle persone con malattie della coagulazione perché ostacola la trombosi ma proprio per questa ragione è usata dalle persone con malattie cardiocircolatorie perché riduce il rischio d'infarto dovuto a fenomeni di trombosi.

Le cause degli effetti del farmaco
Effetti terapeutici e indesiderati del medesimo farmaco possono essere legati o avere cause diverse. Per esempio, la sonnolenza o l'instabilità nel camminare causate dall'assunzione di un ansiolitico sono fenomeni collaterali rispetto all'azione di ridurre l'ansia. Entrambi gli effetti sono prodotti dalle medesime azioni biologiche nel cervello. Altre volte non è così. Per esempio l'uso della penicillina è accompagnato in certi casi da diarrea, ma mentre l'azione antibatterica è dovuta direttamente agli effetti del farmaco sui batteri, la diarrea è provocata dall'azione irritante dell'antibiotico sulla parete dell'intestino.
Una forma particolare di effetto indesiderato è l'idiosincrasia che consiste in una reazione abnorme a un farmaco dovuta a motivi genetici, cioè costituzionali. In genere la reazione non ha nulla a che fare con i normali effetti della medicina.
Un altro effetto indesiderato piuttosto comune è costituito dalle reazioni allergiche che possono comparire in teoria con ogni tipo di farmaco anche se alcune medicine le provocano più facilmente, in certe persone. Per esempio, quanti soffrono di una qualche forma di allergia generalmente sono più esposti a questo rischio. Inoltre, le manifestazioni allergiche come prurito e orticaria sono provocate da farmaci in qualche modo simili (penicillina e cefalosporine) mentre è praticamente impossibile trovare persone genericamente "allergiche ai farmaci" nonostante molte ritengano di esserlo.
Naturalmente quanto più importante è l'effetto terapeutico e quanto pochi o poco importanti sono gli effetti indesiderati tanto maggiore è l'utilità pratica del farmaco, una variabile che gli esperti indicano come rapporto beneficio/rischio. Occorre decidere allora, di volta in volta, se siano maggiori i rischi connessi con una certa terapia o i benefici che da quella terapia possono derivare al paziente. Per esempio, la penicillina causa nell'1-5 per cento dei casi reazioni allergiche e ciò ha creato un clima di diffidenza nei confronti di questo farmaco. Tuttavia nessuno pensa di ritirarlo dalla circolazione vista la sua straordinaria efficacia in molte circostanze e la non gravità dei suoi effetti collaterali, tranne pochissimi casi.

Effetti soggettivi dei farmaci
L'effetto complessivo di un farmaco non dipende solo dalle molecole che contiene, ma anche dalla persona che lo prende. Dalla sua età, sesso, stato di salute, dal suo peso e anche dal suo Dna.
I bambini prendono dosi più piccole di farmaco perché oltre a pesare di meno e quindi ad avere una minore quantità di cellule complessive del corpo, hanno un corpo che funziona in parte in modo diverso. In particolare, i loro fegato e reni non sono completamente sviluppati e questo condiziona il metabolismo del farmaco che in genere ne viene rallentato. Ecco perché importa sia il peso che l'età. Per dare un'idea di quanto possa variare la dose secondo l'anagrafe, in caso di shock anafilattico, serve una dose intramuscolo di adrenalina di 0,5 con età dai 12 anni in su, di 0,25 tra 12 e 6 anni, di 0,125 tra 6 anni e 6 mesi mentre sotto quest'età la dose scende a 0,05 mg. La capacità totale di metabolizzare il farmaco si raggiunge a 20 anni: dopo di che inizia a diminuire, tanto più marcatamente quanto più l'età sale. Questo succede almeno per due ragioni.
Con gli anni fegato e reni perdono progressivamente la loro capacità di metabolizzare il farmaco, oltre i 65 anni del 35 per cento e anche più. Inoltre cambia la composizione del corpo perché diminuisce l'acqua e aumentano i grassi, fatto che condiziona l'effetto del farmaco. Per questo gli anziani hanno bisogno di dosi più piccole.
Del resto fegato o reni possono funzionare in modo diverso anche a causa di malattie ed ecco perché una persona con epatite può aver bisogno di dosi più basse di un farmaco per lo stesso effetto.
Ma bisogna fare i conti anche con il sesso. Per esempio, uno studio statunitense ha dimostrato che il 25 per cento circa dei farmaci sono eliminati dal corpo diversamente in base al sesso di appartenenza, in qualche caso più rapidamente nell'uomo, in qualche altro nella donna.

Reazioni diverse allo stesso farmaco
Recenti ricerche hanno dimostrato che la diversità nel metabolismo dei farmaci costituisce la regola e non l'eccezione. Questo rappresenta il principale motivo per cui persone diverse con lo stesso problema possono reagire in modo diverso allo stesso farmaco. Del resto il fatto è facilmente comprensibile considerato che ogni persona ha un proprio Dna, una variante individuale della stessa macchina chimica in grado di condizionare peso, colore degli occhi e statura ma anche di determinare la possibilità di sviluppare allergie piuttosto che di codificare diversamente la risposta individuale ai farmaci. La storia della medicina ci ricorda il caso di una persona che tentò di uccidersi con una quantità di acido acetilsalicilico equivalente a 230 aspirine senza riuscirci, anche se sappiamo che neanche metà di quella dose è da considerare senza rischi per la gran parte delle persone.
Le variazioni del Dna possono agire in più modi, per esempio condizionando il modo in cui il farmaco è assorbito e metabolizzato, la velocità con cui entra nelle cellule o la struttura chimica delle serrature chimiche alle quali si lega per ottenere i suoi effetti. Con tutte queste variazioni ci si potrebbe persino sorprendere che due qualsiasi persone possano prendere una compressa qualsiasi per il mal di testa con lo stesso risultato. Eppure è così nella gran parte dei casi. Per questo bisogna tenere presente due cose.
In primo luogo, la possibilità di una variazione non esclude la ricorrenza prevalente attorno a certi valori. Anche se consideriamo cosa determina la statura umana siamo di fronte a un concorso di variabili ereditarie e chimiche, ma questo non esclude che la statura umana oscilli in media attorno a certi valori così che persone alte mt 1,23 o mt 2,60 sono da considerarsi mere eccezioni.
In secondo luogo, anche per fare i conti con questa variabilità umana qualsiasi farmaco è sottoposto a studi preliminari che studiano come il farmaco viene assorbito ed eliminato o che effetto hanno dosi diverse sulle persone. In caso di sorprese o effetti eterogenei, la sperimentazione del farmaco non procede. Insomma, queste ricerche servono proprio a controllare che la variazione della risposta non vada oltre certi valori.

A che ora si assumono i farmaci?
Il momento della somministrazione del farmaco ne condiziona l'efficacia tanto che ci sono farmacologi specializzati nello studio dei tempi di assunzione, la cronofarmacologia. Per esempio, nella malattia di Addison, che comporta una produzione ridotta di certi ormoni, sono più utili due dosi di cortisone alle 7 del mattino e alle 11 di sera che tre dosi alle ore dei pasti. I danni prodotti nei reni dal cisplatino, che viene usato contro il cancro, possono essere ridotti se il farmaco arriva nel corpo dalle 5 alle 6 del pomeriggio. E anche la tossicità della doxorubicina, un altro antitumorale, può essere ridotta al minimo, se la persona prende il farmaco verso le 6 del mattino. Ma forse la dimostrazione più convincente dell'importanza del momento in cui avviene l'assunzione proviene da esperimenti condotti sui ratti col fenobarbitale, un barbiturico: la mortalità degli animali varia da O a 100 per cento solo cambiando l'ora della somministrazione. Il perché di queste differenze non lo sappiamo ancora e quindi non possiamo che arrenderci di fronte a queste constatazioni e tenerne conto.

Se si dimentica di prendere il farmaco
La questione tocca un aspetto importante visto che - come abbiamo detto - diverse ricerche hanno dimostrato che tra il 40 e il 70 per cento delle persone dimentica una o più volte il farmaco nel corso di una terapia. Il fatto che questo non abbia spesso conseguenze serie non è una buona scusa per non prestare al fatto l'attenzione dovuta.
La prima cosa da tenere presente è che occorre prestare attenzione alle dosi prescritte e alla durata della terapia perché entrambe le cose dipendono dalla natura della malattia e dalle caratteristiche del farmaco. Ciascun farmaco viene eliminato dal corpo entro un certo numero di ore, per esempio 6, 12 o 24 ore e ciò significa che, se ci ricordiamo del farmaco dopo 12 ore mentre andava preso dopo 6, nel frattempo la dose di farmaco presente nel corpo è scesa progressivamente sino a scomparire del tutto. Questo significa che i microbi - nel caso di un antibiotico - sono rimasti senza avversario, che febbre o dolore - nel caso di un antipiretico-analgesico - sono risalti a livelli superiori di prima o che la pressione arteriosa - se pensiamo a un antiipertensivo - può essere risalita a valori superiori.
In tutti i casi è bene evitare di commettere un altro errore, ovvero prendere una dose doppia quando ce ne siamo accorti. In caso di dimenticanza è consigliabile chiedere al medico o al farmacista. Molte volte non succede niente di serio, altre è diverso, per esempio in caso di ipertensione arteriosa o di epilessia. Per i farmaci contro l'ipertensione si può ovviare alla dimenticanza con un controllo della pressione, mentre nel secondo caso è meglio consultare direttamente il medico.

Cos'è l'effetto placebo?
"La somministrazione di un placebo - ha detto qualcuno - sembra far parte delle funzioni biologiche del medico. Funzioni di cui di solito non si parla". L'effetto placebo - parola di origine latina che significa "piacerò", "darò sollievo" - indica l'azione apparentemente "curativa" e il conforto che una terapia può procurare per il fatto stesso che la persona si aspetta un miglioramento dall'intervento medico. E questo in modo indipendente dagli effetti diretti del "prodotto" somministrato e quindi per un fenomeno simile ad "autosuggestione". Si tratta di un fenomeno così importante che è difficile capire quanto di una terapia sia attribuibile a effetti farmacologici e quanto all'effetto placebo. In particolare il placebo è un preparato sotto forma di pillole, compresse o fiale con componenti privi di effetti diretti sull'organismo.I farmacologi più informati prendono molto sul serio l'effetto placebo perché è quello con cui devono fare i conti tutti coloro che sono disposti a giurare sull'effetto curativo di una qualche terapia. Per esempio, quando bisogna studiare l'efficacia di un nuovo farmaco, questo viene messo a confronto o con un composto già in commercio oppure con un preparato apparentemente identico, privo però di effetti farmacologici, il placebo appunto.
Si è osservato che sulla culla del placebo si sono chinati molti personaggi, maghi, stregoni, ciarlatani, ma anche medici, sapienti e scienziati. Persino istituzioni, perché se l'Institutional Review Board - l'organismo Usa che si occupa dell'approvazione dei trial valutando i rischi per i soggetti - ha diminuito le approvazioni di studi clinici che propongono l'uso del placebo, la Food and Drug Administration continua ancora oggi a sostenere l'utilizzo del placebo per testare l'efficacia delle nuove terapie farmacologiche, in particolare di quelle psichiatriche.
Negli anni l'interesse sull'argomento non ha fatto che aumentare e si sono moltiplicati gli articoli: appena due nei 148 anni tra il 1785 e il 1933, 15 nei 7 anni tra il 1945 e il 1952, 44 nel quinquennio 1953-1958 e addirittura 1.500 tra il 1976 e il 1978.
Il fatto che il placebo sia diventato lo standard di riferimento negli studi di nuovi farmaci ha sollevato anche questioni morali e polemiche, dentro e fuori la comunità scientifica. Si è fatto notare che se ci sono cure e farmaci collaudati ed efficaci è sempre immorale privarne un gruppo di malati solo perché serve un confronto tra un farmaco allo studio e un placebo. Un lungo rapporto in proposito è stato pubblicato sul periodico statunitense New England Journal of Medicine nel gennaio del 1995. Anche se in caso di malattie serie e dolorose, ci aspetteremmo sempre un confronto tra il farmaco disponibile e quello nuovo, gli studiosi statunitensi Rothman e Michels nel rapporto intitolato The Continuing Unethical Use of Placebo Controls (l'uso continuo e immorale dei controlli che prendono placebo) dimostrano che, almeno in passato, non è stato sempre così.

I farmaci interagiscono tra loro?
I farmaci interagiscono tra loro nel corpo umano, talvolta anche in modo imprevedibile e con risultati sorprendenti. Da queste interazioni può risultare un'attenuazione o un'esaltazione dell'effetto e per questo è importante segnalare al medico che prescrive una medicina se se ne sta prendendo un'altra. Per esempio, ci sono interazioni tra la pillola contraccettiva e diversi antibiotici perché la decimazione dei batteri operata da questi farmaci riduce l'efficacia contraccettiva della pillola. La cimetidina, per esempio, prolunga l'attività di farmaci come barbiturici, ansiolitici, anticoagulanti e diversi altri. Le reazioni indesiderate possono comparire a distanza di minuti, ore, giorni, o settimane dall'assunzione del farmaco. Per esempio, le reazioni allergiche possono comparire quasi istantaneamente mentre i possibili danni tossici sul sangue e sui reni si avvertono molto più tardi.
Le interazioni dipendono dal fatto che molti farmaci di largo uso hanno lo stesso bersaglio chimico dentro le cellule, agiscono cioè sulle stesse reazioni chimiche così che uno interferisce con l'altro, per esempio prolungandone e intensificandone gli effetti oppure smorzandoli. In ogni caso, le interazioni non dipendono sempre dalla dose o dall'azione del farmaco e quindi non possono essere previsti.
In tutti i casi è bene tenere presente una cosa: prima che il medico faccia una prescrizione è sempre opportuno fargli presente se si stanno prendendo altri farmaci e quali.

Sovradosaggio di un farmaco
In genere, un farmaco preso in dosi sbagliate o eccessive diventa un tossico a conferma che "solo la dose fa il veleno". In particolare, la tossicità da dosi eccessive - o sovradosaggio - è provocata da un'"esasperazione" dei normali effetti del farmaco. Per esempio, a dosi eccessive, l'insulina causa stanchezza, tremori, sudorazione e persino convulsioni, l'eparina può dare pericolose emorragie e i barbiturici sonnolenza e coma. In tutti e tre i casi gli effetti tossici sono collegati all'azione della sostanza, ipoglicemizzante per l'insulina, anticoagulante per l'eparina e ipnotico-sedativa per i barbiturici.
Oltre ai sovradosaggi assoluti, occorre ricordare la possibilità di sovradosaggi relativi di un farmaco, che possono verificarsi quando la persona si cura con farmaci o sostanze con effetti simili, oppure in caso di malattia dell'organo che dovrebbe metabolizzarli, cioè smaltirli. Per esempio, alcol e ipnotici hanno lo stesso effetto sedativo sul sistema nervoso e quindi prendere un ipnotico al termine di una bevuta significa, in pratica, aumentare la dose della sostanza. Recenti studi hanno indicato che molti incidenti stradali sono dovuti all'uso contemporaneo di psicofarmaci e alcol. Un sovradosaggio relativo si verifica anche con malattie del fegato come epatiti o cirrosi, quando l'azione delle bevande alcoliche e dei farmaci metabolizzati dal fegato è più intensa e prolungata.

Cos'è l'adesione alla cura?
Il successo di una terapia non dipende solo dal fatto che il medico abbia scelto il farmaco giusto per un malato in certe condizioni. È decisivo il fatto che il malato aderisca alla cura ovvero che segua fino in fondo le indicazioni fornitegli a parole durante la visita e successivamente indicate sulla ricetta. La mancata adesione dei malati alla cura prescritta - una variabile che in lingua inglese è nota come compliance - rappresenta uno degli errori più comuni commessi da chi ha in mano una ricetta e anche una delle più frequenti ragioni di apparente insuccesso di una terapia. Due esempi sono a questo proposito particolarmente illuminanti.
L'ipertensione è una delle malattie nei confronti della quale i farmaci hanno ottenuto i risultati migliori, ma è anche causa di fallimento per due ragioni. La prima è che la persona ipertesa spesso non si rivolge al medico per la cura del caso. La seconda è che una volta che l'ha ricevuta non la rispetta, per esempio prendendo due pillole anziché quattro o la sospende di propria iniziativa considerando sufficientemente soddisfacente la diminuzione della pressione ottenuta a quel momento.
Un'altra ragione d'insuccesso apparente sono gli antibiotici che prescritti per una settimana o 10 giorni vengono erroneamente sospesi al terzo solamente perché la febbre è scomparsa.
Qualsiasi dubbio va discusso col medico o col farmacista perché se farmaci e cure sono stati prescritti in un determinato modo, ciò significa che hanno bisogno di agire nel tempo e nel corpo in "quel modo". Evidentemente agiscono a quelle condizioni. L'adesione alla cura rappresenta una conditio sine qua non affinché i farmaci ottengano il risultato sperato ed è il prodotto di un rapporto di mutuo rispetto tra medico e malato.

L'adesione alla cura e il medico
Prendere un farmaco non dev'essere un azzardo e quante più informazioni si riescono ad avere da parte del medico al momento della prescrizione, tanto meno si corrono rischi di effetti collaterali o indesiderati e tanto più si è convinti che si sta facendo qualcosa di utile per la propria salute. Del resto, ottenerle è semplice perché il medico e il farmacista sono lì anche per questo. Ecco alcune domande che possono aiutare il malato ad assumere il farmaco con tranquillità, in particolare il malato anziano che in genere prende più farmaci insieme e che anche per questo ha maggiori probabilità di commettere errori:
Di che farmaco si tratta e perché può essermi utile?
Forse è la prima domanda che condiziona l'accettazione di una cura e l'adesione alle indicazioni del medico: si segue più attenti una regola se si è convinti della sua bontà e utilità.
Come e quando devo prenderlo?
In particolare per le persone anziane, può essere utile preparare uno schema molto chiaro dove riassumere a che ora prendere un farmaco e in quale dose. Può anche essere utile associare un farmaco a un'attività o a un particolare momento della giornata (prima o dopo i pasti, al risveglio, prima di addormentarsi, ecc.).
Quanto e per quanto tempo?
Un errore comune è quello di cambiare la dose suggerita dal medico di propria iniziativa così che molte persone prendono due compresse al giorno anziché tre o interrompono la terapia perché stanno meglio. Soprattutto le malattie che richiedono una terapia "cronica" comportano questo rischio. Non solo l'ipertensione, ma anche, per esempio, il diabete o l'epilessia, le malattie di cuore o la depressione.
Come faccio a sapere se il farmaco sta facendo effetto? Si tratta di una domanda semplice ma utile per combattere un disturbo, una malattia. Suggella l'alleanza medico-malato, il primo stratega a tavolino, il secondo osservatore sul campo.
Che devo fare se dimentico una dose?
Si tratta di un'eventualità frequente visto che diverse indagini hanno indicato che tra il 40 e il 70 per cento delle persone dimentica di prendere o più pasticche durante trattamenti prolungati. D'altra parte, considerata la varietà delle cure, il diverso effetto e il differente meccanismo d'azione dei farmaci, questa domanda non ha una sola risposta. Molte volte non succede nulla se ci si dimentica di prendere una compressa, ma ci sono casi in cui saltare una dose può essere pericoloso, come nel caso dell'epilessia.
Possono prendere altre medicine oltre questa? Debbo evitarne qualcuna in particolare?
Il rischio delle interazioni è sempre possibile, con certi farmaci molto probabile. Ecco perché è bene informarsi.
Si può guidare dopo aver preso il farmaco?
Diversi farmaci causano sonnolenza come effetto collaterale. In qualche caso si tratta di una caratteristica nota, per esempio nel caso degli antistaminici, in altri no. Ecco perché è sempre bene informarsi.
In caso di allattamento o durante la gravidanza si può prendere il farmaco?
Nelle due circostanze vale la regola d'oro che meno farmaci si prendono meglio è. È opportuno prenderli solo in caso di effettiva necessità e, comunque, prima di farlo è bene accertarsi che non si corrano rischi. Nel corso della gravidanza, in particolare durante il primo trimestre, il farmaco potrebbe addirittura causare malformazioni nel feto. Durante l'allattamento può succedere che, per la sua composizione chimica, il farmaco si concentri nel latte e che il neonato sia esposto a dosi particolarmente alte e tossiche. O può succedere semplicemente che il farmaco passi nel latte con reazioni più o meno prevedibili. Per esempio, se la madre prende sonniferi mentre allatta, i farmaci possono arrivare nel latte e far dormire anche il neonato, mentre se le sono stati prescritti antibiotici, questi possono causare una reazione allergica nel figlio e niente di simile nella madre.

Le piccole patologie
Si tratta di un'espressione che torna spesso, diverse ragioni. Primo, perché indica malattie o disturbi destinati a durare pochi giorni e che non presentano rischi particolari per la persona. Secondo, perché si tratta di problemi molto comuni come, per esempio, raffreddore, mal di testa, raffreddore da fieno. Si tratta di situazioni nelle quali possiamo fare a meno del medico, anche rivolgendoci semplicemente al farmacista per un consiglio su quale farmaco OTC potrebbe esserci di aiuto.
La durata è un elemento che aiuta molto a distinguere le piccole patologie dalle grandi. Un episodio febbrile di 38 gradi in un adulto che finisce dopo tre giorni è un disturbo non grave che può essere affrontato da soli con l'automedicazione. Una febbre di 37 gradi e mezzo con tosse che dura da 15 giorni richiede l'intervento del medico perché potrebbe segnalare una malattia seria. Allo stesso modo, un episodio di stitichezza che dura da pochi giorni può essere risolto chiedendo l'aiuto del farmacista e con la scelta di un lassativo OTC. Se il disturbo dura più di 7-10 gg non è la stessa cosa e rende indispensabile una visita dal medico di famiglia.

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