sabato 22 febbraio 2014

Samuel Beckett. Aspettando Godot. VLADIMIRO Hai letto la Bibbia? ESTRAGONE La Bibbia… (Pensieroso) Mi par bene di averci dato un’occhiata. VLADIMIRO Te li ricordi i Vangeli? ESTRAGONE Mi ricordo le carte geografiche della Terra Santa. A colori. Erano bellissime. Il Mar Morto era celeste. Mi metteva sete solo a guardarlo. Pensavo sempre: è là che voglio passare la luna di miele. Nuoteremo. Saremo felici. VLADIMIRO Avresti dovuto essere un poeta. ESTRAGONE Lo sono stato (Indica i propri cenci) Si vede, no?"

VI. Non potremmo parlare dei vecchi tempi? (Silenzio).
Di quello che venne dopo? (Silenzio).
Se ci dessimo la mano - in quel nostro modo?
Samuel Beckett, Vai e vieni


Così narrata la triste storia un'ultima volta essi rimasero seduti come mutati in pietra. Dall'unica finestra l'alba non diffondeva luce alcuna. Dalla via suono alcuno di risveglio. O era forse che sepolti in chissà quali pensieri essi non prestavano attenzione? Alla luce del giorno. Ai suoni del risveglio. Quali pensieri, chissà. Pensieri, no, non pensieri. Abissi della mente. Sepolti in chissà quali abissi della mente. Abissi d'incoscienza. Là dove nessuna luce può giungere. Nessun suono. Così rimasero seduti come mutati in pietra. La triste storia narrata un'ultima volta.
Samuel Beckett ~Da "Improvviso dell'Ohio"

Ho sempre tentato. Ho sempre fallito.
Non discutere. Prova ancora.
Fallisci ancora. Fallisci meglio.
Samuel Beckett


Lo spirito non funzionava e non poteva essere ripartito secondo un giudizio di valore.
Non era fatto di bene e di male, ma di luce, penombra e tenebra, di un sopra e di un sotto.
Non avvertiva alcun conflitto tra la sua luce e la sua tenebra.
Aveva bisogno di essere ora nella luce, ora nella penombra, ora nella tenebra. Era tutto.
Samuel Beckett, "Murphy"



Non succede niente, nessuno viene, nessuno va, è terribile.
Samuel Beckett, Aspettando Godot, in S. Beckett, Teatro, Einaudi 2002, pagina 42



Samuel Beckett (1906-1989), “Waiting for Godot/Aspettando Godot” (1952)
“Strada di campagna, con albero.
È sera.”
Così ha inizio “Aspettando Godot”, capolavoro indiscusso del teatro dell'assurdo, nonché opera più celebre di Samuel Beckett, scrittore irlandese di cui ricorre oggi l'anniversario della morte, avvenuta 25 anni fa. La trama della pièce teatrale è facilmente riassumibile in poche righe: due vagabondi, Vladimiro ed Estragone, attendono un certo signor Godot e nell'attesa di questo fantomatico personaggio, i due compiono ripetutamente azioni insensate, discutono, pensano di separarsi, addirittura di suicidarsi, lasciandosi andare a chiacchiere spesso sconnesse e prive di senso. Nel susseguirsi di azioni che ritornano simmetriche e circolari nei due atti che compongono l'opera, vagamente percepiamo lo scorrere delle ore. Il tempo si fa labile, incerto, apparentemente tutto sembra fermo, come sospeso. Il luogo è fisso, una strada di campagna con la sagoma di un albero sullo sfondo, i personaggi sono limitati a cinque individui. Tutto è ridotto all'essenziale. Non fanno eccezione i dialoghi: il linguaggio sintetico, ma allo stesso tempo pregno di incisività, alterna riflessioni profonde a gag da cabaret. Lo humour è cercato e voluto da Beckett per smorzare i toni di una situazione che si è fatta insostenibile. Le pause e i silenzi contribuiscono ad erodere ulteriormente la comunicazione tra i personaggi, già compromessa dall'insensatezza dei loro discorsi. Tuttavia è proprio attraverso questi discorsi privi di senso che emerge distintamente l'assurdità della vita umana. Il dramma è interamente costruito intorno alla condizione dell'attesa, forse vana, poco accade sulla scena spoglia, non avvengono grandi gesta, si inganna il tempo, perseguendo obiettivi immediati (alleviare il disagio delle scarpe strette o calmare la fame) in attesa di qualcuno o qualcosa. Godot assurge infatti a diventare simbolo dell'attesa vista nella sua universalità. Non necessariamente di una persona o di un Dio (la più facile e scontata delle allusioni), altresì di un segno, di una risposta, di un punto di riferimento. Godot diviene metafora di una condizione esistenziale comune a tutti, quella che spinge l'uomo a interrogarsi sulla propria vita monotona, immutabile e priva di riferimenti. Quando, alla fine del 1952, “Aspettando Godot” viene pubblicato e successivamente messo in scena, il 5 gennaio 1953, l'evento segna una svolta radicale nella storia della drammaturgia. Beckett opera una rottura sia dal punto di vista contenutistico che da quello formale, sovvertendo la linearità e consequenzialità narrativa. Mancanza di logicità nella concatenazione degli eventi, linguaggio scarno carico di silenzi e pause, elementi che hanno reso questo testo teatrale uno dei più innovativi del Novecento. (Marina)
Samuel Beckett (1906-1989),  “Waiting for Godot/Aspettando Godot” (1952)


POZZO: Ma la volete finire con le vostre storie di tempo? È grottesco! Quando! Quando! Un giorno, non vi basta, un giorno come tutti gli altri, è diventato muto, un giorno io sono diventato cieco, un giorno diventeremo sordi, un giorno siamo nati, un giorno moriremo, lo stesso giorno, lo stesso istante, non vi basta? (Calmandosi) Partoriscono a cavallo di una tomba, il giorno splende un istante, e poi è di nuovo notte. (Tira la corda) Avanti!
Samuel Beckett, "Aspettando Godot"


VLADIMIRO Hai letto la Bibbia?
ESTRAGONE La Bibbia… (Pensieroso) Mi par bene di averci dato un’occhiata.
VLADIMIRO Te li ricordi i Vangeli?
ESTRAGONE Mi ricordo le carte geografiche della Terra Santa. A colori. Erano bellissime. Il Mar Morto era celeste. Mi metteva sete solo a guardarlo. Pensavo sempre: è là che voglio passare la luna di miele. Nuoteremo. Saremo felici.
VLADIMIRO Avresti dovuto essere un poeta.
ESTRAGONE Lo sono stato (Indica i propri cenci) Si vede, no?"
Samuel Beckett, Aspettando Godot


"VLADIMIRO: Tenendoci per mano saremmo stati tra i primi a buttarci giù dalla Torre Eiffel.
Eravamo in gamba allora. Adesso è troppo tardi. Non ci lascerebbero nemmeno salire."
Samuel Beckett, Da "Aspettando Godot



VLADIMIRO Ho forse dormito mentre gli altri soffrivano? Sto forse dormendo in questo momento? Domani, quando mi sembrerà di svegliarmi, che dirò di questa giornata? Che col mio amico Estragone, in questo luogo, fino al cader della notte, ho aspettato Godot? Che Pozzo è passato col suo facchino e che ci ha parlato? Certamente. Ma in tutto questo quanto ci sarà di vero? (Estragone, dopo essersi invano accanito sulle proprie scarpe, si è di nuovo assopito. Vladimiro lo guarda). Lui non saprà niente. Parlerà dei calci che si è preso e io gli darò una carota. (Pausa). A cavallo di una tomba e una nascita difficile. Dal fondo della fossa, il becchino maneggia personalmente i suoi ferri. Abbiamo il tempo d’invecchiare. L’aria risuona delle nostre grida. (Sta in ascolto). Ma l’abitudine è una grande sordina. (Guarda Estragone). Anche per me c’è un altro che mi sta a guardare, pensando. Dorme, non sa niente, lasciamolo dormire. (Pausa). Non posso più andare avanti. (Pausa). Che cosa ho detto?
Samuel Beckett, Aspettando Godot




"Era strisciata nelle profondità marine fino alla crudele pentola. Per ore, in mezzo ai suoi nemici, aveva respirato segretamente (era dentro una scatola). Era sopravissuta al gatto della Francese ed alle sue ottuse grinfie. ora entrava viva nell'acqua bollente. Così doveva. Portatemi all'aria a respirar tranquillo........(la zia) sollevò dal tavolo l'aragosta. Le restavano circa trenta secondi da vivere. Bè, pensò Belacqua, è una morte veloce, che Dio ci aiuti tutti quanti. Non lo è".
Samuel Beckett, Più pene che pane, Dante e l’aragosta



"Chi mai la storia fino in fondo //
del vecchio potrà raccontare? //
pesare su un piatto l’assenza? //
valutare in piena coscienza //
tutto ciò che viene a mancare? //
dei tanti dolori del mondo //
stimare la somma e la mole? //
rinchiudere il niente in parole?"
Samuel Beckett, "Coda"


Non so più quando sono morto. 
Ho sempre pensato di essere morto da vecchio, verso i novant'anni, e che anni, e che il mio corpo stesse a provarlo, dalla testa ai piedi. Ma questa sera, solo nel mio letto gelato, sento che diventerò ancora più vecchio di quel giorno, quella notte, che il cielo con tutte le sue luci mi cadde addosso, lo stesso cielo che avevo guardato tanto, da quando erravo sulla terra lontana.
Samuel Beckett, Il calmante


«Io vedo solo quello che mi si presenta direttamente di fronte;
vedo solo quello che è vicinissimo a me; quello che vedo meglio, lo vedo male»
 Beckett Samuel, L’Innominabile



Dal sarto.
Un inglese ha ordinato a un sarto francese un paio di pantaloni, che continua a rinviare la consegna. Dopo tre mesi, per rabbonirlo, il sarto mostra il capo d'abbigliamento, cui spiega mancano ormai piccolissime rifiniture.
All'inglese non basta: "E' indecente! In sei giorni Dio ha fatto il mondo. Si, signore il MONDO. E voi in tre mesi non siete stato capace di farmi un paio di pantaloni!".
E il sarto: "Ma Milord! Guardate (fa un gesto di disprezzo con un'espressione disgustata) il mondo... e guardate (fa un gesto amorevole con orgoglio) il mio PANTALONE".
(E' una scena da Finale di partita di Beckett)


«Hamm: Ho conosciuto un pazzo che credeva che la fine del mondo ci fosse già stata. Dipingeva. Gli volevo bene. Andavo a trovarlo, al manicomio. Lo prendevo per la mano e lo tiravo davanti alla finestra. Ma guarda! Là. Tutto quel grano che spunta! E là! Guarda!
Le vele dei pescherecci! Tutta questa bellezza! (Pausa). Lui liberava la mano e tornava nel suo angolo. Spaventato. Aveva visto solo ceneri. (Pausa). Lui solo era sopravvissuto. (Pausa). Dimenticato. (Pausa). Sembra che questi casi non siano… non fossero così…così rari».
Samuel Beckett, Finale di partita


Clov (con angoscia, grattandosi): Ho una pulce.
Hamm: Una pulce? Ci sono ancora delle pulci?
Clov (grattandosi): A meno che non sia una piattola.
Hamm (molto preoccupato): Ma a partire di lì l'umanità potrebbe ricostituirsi!
Per amor del cielo, acchiappala!
Samuel Beckett, Finale di partita


Un giorno sarai cieco. Come me. Sarai seduto in qualche luogo, un piccolo pieno perduto nel vuoto, per sempre, nel buio. Come me. Un giorno dirai a te stesso, Sono stanco, vado a sedermi, e andrai a sederti. Poi dirai a te stesso, Ho fame, ora mi alzo e mi preparo da mangiare. Ma non ti alzerai. Dirai a te stesso, Ho fatto male a sedermi, ma visto che mi sono seduto resterò ancora un poco, poi mi alzerò e mi preparerò da mangiare. Guarderai il muro per un poco, poi dirai a te stesso, Ora chiuderò gli occhi, forse dormirò un poco, dopo andrà meglio, e li chiuderai. E quando li riaprirai il muro non ci sarà più. Intorno a te ci sarà solo il vuoto infinito, tutti i morti di tutti i tempi non basterebbero, risuscitando, a colmarlo, e sarai come un sassolino in mezzo alla steppa. Sì, un giorno saprai cosa vuol dire, sarai come me, solo che tu non avrai nessuno, perché tu non avrai avuto pietà di nessuno e non ci sarà più nessuno di cui avere pietà.”
Samuel Beckett, Finale di partita



Sapere di essere, per quanto debolmente e in modo fallace, al di fuori di me, un tempo mi aveva commosso. Si diventa selvaggi, per forza. A volte c’è da chiedersi se siamo sul pianeta giusto. Anche le parole ci abbandonano, figuriamoci.
Samuel Beckett, Lo sfrattato


È proprio al mattino che bisogna nascondersi.
La gente si sveglia, fresca e ben disposta,
assetata d’ordine, di bellezza e di giustizia,
e pretende la controparte.
Samuel Beckett, Molloy


"Celebrata l'orrenda ricorrenza, come sempre in questi ultimi anni, tranquillamente, alla Taverna. Non un'anima. Rimasto a sedere davanti al fuoco con gli occhi chiusi, a separare il grano dalla pula. Buttata giù qualche annotazione sul rovescio di una busta. Felice di essere di nuovo nella mia tana, nei miei vecchi stracci. Appena mangiato, mi spiace dirlo, tre banane, e solo con difficoltà mi sono astenuto da una quarta."
Samuel Beckett, Da "L'ultimo nastro di Krapp"


Dopo mezzanotte. Mai sentito tanto silenzio. La terra potrebbe essere disabitata.
Samuel Beckett, Da "L'ultimo nastro di Krapp"

"È solo la superficie, sai. Sotto è tutto immobile come una tomba. Non un rumore. Tutto il giorno e tutta la notte, non un rumore."
Samuel Beckett, da "Ceneri"

Il sole splendeva, non avendo altra alternativa, sul niente di nuovo.
Samuel Beckett


L’occhio ritornerà nei luoghi dei suoi tradimenti.
In congedo secolare da dove gelano le lacrime.
Libero per un attimo ancora di versarle calde.
Sulle beate lacrime che furono.
Godendo al contempo del cumulo di minerale bianco..
Che in mancanza di meglio si accumula incessantemente su se stesso.
Che se continua arriverà al firmamento. Alla Luna. A Venere.
Samuel Beckett, Mal visto mal detto.


"Le corsie consistevano in due corridoi che si intersecavano formando una T, o più correttamente una T solo in potenza e decapitata, con le tre estremità che si allargavano come appoggi di grucce, di modo da accogliere le sale di scrittura, lettura e ricreazione, altresì dette di scriterazione, note ai più spiritosi fra i dispensatori di misericordia come sublimatoria. Qui i pazienti venivano incoraggiati a giocare al biliardo, alle freccette, al ping pong e a suonare il piano, oppure a dedicarsi a giochi meno complessi, o semplicemente a dondolarsi senza fare nulla. La maggior parte di loro preferiva dondolarsi senza fare nulla."
Samuel Beckett, da "Murphy"


"Fino a che alla fin fine tu non senta come stiano cominciando a finire le parole. Con ciascuna inane parola un po' più prossima alla fine. E la stessa favola pure. La favola di qualcuno con te nel buio. La favola di qualcuno che affabula di qualcuno con te nel buio. E quanto meglio a conti fatti la fatica persa e il silenzio. E tu come sei sempre stato. Solo."
Samuel Beckett, da "Compagnia"





Caro Axel Kaun,
mi diventa sempre più difficile, per non dire insensato, scrivere nell'inglese «ufficiale».
E sempre più la mia lingua mi appare come un velo che bisogna lacerare per giungere alle cose (o al Nulla) che dietro si nascondono. La grammatica e lo stile: sono divenuti caduchi come un costume da bagno dell'epoca Biedermaier o come l'imperturbabilità di un gentleman. Una larva. Speriamo che venga il tempo, e già è giunto, grazie al cielo, almeno in certi circoli, in cui il miglior uso della lingua sarà con la più alta bravura mal usarla. E poiché non si potrà eliminarla d'un tratto, bisogna almeno nulla trascurare che possa contribuire al suo discredito. Trapanare in essa un buco dopo l'altro, finché ciò che si rannicchia dietro – che sia qualcosa o nulla – cominci a trasudare, non posso rappresentarmi compito più alto per uno scrittore d'oggi.
O deve la letteratura rimanere sola su un vecchio cammino disertato dalla musica e dalla pittura?C'è forse qualcosa di così sacro da paralizzare nella «innaturalità» della parola, che non si troverebbe negli elementi delle altre arti? C'è mai qualche fondamento per cui questa materialità terribilmente arbitraria della superficie della parola non possa essere dissolta, come ad esempio la superficie del suono, inghiottita da enormi pause nere, nella 7ª Sinfonia di Beethoven, che fa sì che per interi movimenti non possiamo nient'altro percepire che un vertiginoso abisso di silenzi tesi a annodare, sul senza fondo, un sentiero di corde sonore?[...] Sul cammino dunque di una desiderabile Letteratura della non-parola, qualsiasi forma di ironia nominalista può davvero essere uno stadio necessario. [...] Un precipite distruggere nomi, in nome della bellezza.
Samuel Beckett




Beckett e Cioran: i due volti opposti e complementari del nichilismo. Quanto il primo sottrae, scarnifica, riduce fino all'indicibile, tanto l'altro sovraccarica, torce, raffina fino all'implosione la parola. Per entrambi la morte di Dio è una mera constatazione, un fatto assodato, il problema è ora ricostruire come l'uomo sia giunto a a partorire quest'idea mostruosa, a distillare questa metanfetamina che ha reso possibile all'Occidente la colonizzazione del mondo, tanto esteriore quanto interiore. Come per Valèry il centro della questione è mera tecnica dell'io, analisi autoptica dell'ego e delle menzogne che ne sorreggono la sopravvivenza: scavare quindi nella possibilità e nelle impossibilità della lingua, significa raffinare gli strumenti chirurgici, adeguare il bisturi della ragione al morto che ci sta di fronte, significa dedicare la propria esistenza ad essere i più implacabili sventratori del proprio cadavere. Il segretario di Joyce e il segretario dei mistici: solo degli sherpa del genio potevano dedicare il loro talento ad un compito così basso e così necessario.





La significazione junghiana di un sogno e la folgorazione di S.Beckett:un episodio significativo, a mio avviso, di grande fascinazione, sull'incontro tra due grandi.
Durante una delle cinque conferenze, condotte da Jung nel 1935, poi pubblicate con il titolo di London Seminars o Tavistock Lectures, egli in risposta ad un quesito sui sogni dei bambini, raccontò un episodio riguardante una bimba di 10 anni, veramente inquietante, che ci richiede lo sforzo di trascendere le nostre categorie spazio-temporali se vogliamo accedere a simili eventi, che, a mio avviso hanno a che fare con il sacro, con l'indicibile, con il misterico, laddove ci troviamo di fronte a quel registro che viola le nostre categorie del quotidiano lasciandoci, a dir poco, smarriti.

Raccontò Jung, che la bimba in questione faceva sogni “straordinariamente mitologici”, egli non aveva, per le ragioni che dirò in appresso, fornito al padre la spiegazione rinviata dal simbolismo di quei sogni, in quanto intuiva una premonizione misterica di morte. La bimba un anno dopo, in effetti morì, Jung disse “Essa non era mai nata del tutto”, cioè la sua era stata “una nascita imperfetta. Il caso della bambina aveva talmente colpito Jung, da parlarne successivamente in maniera approfondita nel saggio “L'archetipo del simbolismo onirico”. A quella conferenza era presente Samuel Beckett, come osservatore, che rimase profondamente turbato da quella storia, perché egli vide come in uno specchio la sua, una sorta di folgorazione che gli fornì la chiave di volta di molte sue condotte inspiegabili, tipo quella di rimanere supino a letto o quella riguardante il bisogno compulsivo di andare a trovare sua madre, con cui aveva un rapporto molto conflittuale, e cioé il segno di “una nascita imperfetta”, riferita da Jung.
Beckett riteneva di avere ricordi prenatali legati alla sua idea fissa del grembo materno, ricordi anche dolorosi legati alla sua nascita, che secondo lui erano all'origine di un processo abortito che aveva determinato una definizione sbagliata e incompleta della sua personalità. Da quel momento interruppe il trattamento analitico intrapreso con W. Bion, per ritornare in Irlanda. L'intervento di Jung alla conferenza segnò non solo la vita personale di Beckett, ma anche la sua produzione di drammaturgo, infatti egli scrisse un radiodramma nel 1956 “Tutti quelli che cadono”, ispirato a quell'esperienza che lo aveva sconvolto ma che era stata anche un'epifania significativa del suo modo d'essere e un altro, “Passi”, dramma composto nel 1975, in cui appare ancor più chiara questa sorta di “folgorazione”, che egli visse all'epoca della vicenda attinente il sogno della bambina narrato da Jung, laddove esso era diventato lo specchio, in cui egli aveva visto riflessa la sua “nascita imperfetta”.


"Tutti quelli che cadono" - "All that fall"
primo radiodramma scritto da Beckett nel '56 per la Bbc

Emergendo dalle cavità più profonde del corpo, la voce rivela il varco che la coscienza si apre attarverso la rete dei falsi valori e delle false credenze, la cui pretesa di razionalità si risolve nella condanna dell'esistenza aii'inautentica ritualità di giorni senza senso, mentre lo sgretolamento del sé costruito in risposta alla domanda esterna porta alla luce autentici brandelli di vita dolorosa. Nel flusso di coscienza, in cui si alternano la parola e il gesto, appare prepotente il desiderio d'amore di tutta una vita che, non potendo coincidere con la realtà vissuta, fa di Maddy Rooney la vittima di un bisogno impossibile da soddisfare.
http://www.klpteatro.it/beckett-concetto-di-corpo-pistilli
http://www.filosofia.it/images/download/argomenti/beckett_concetto_corpo.pdf


TUTTI QUELLI CHE CADONO
TITOLO ORIGINALE: ALL THAT FALL | DATA DI COMPOSIZIONE: LUGLIO – SETTEMBRE 1956 | PRIMA TRASMISSIONE: BBC, 13 FEBBRAIO 1957 | PRIMA EDIZIONE: FABER & FABER, LONDRA, 1956 | EDIZIONI ITALIANE: EINAUDI/GALLIMARD, 1994 – EINAUDI, 2002 – EINAUDI, 2005



L’inaugurazione dell’ippodromo di Leopardstown a sud di Dublino, cui si fa indirettamente riferimento in “Tutti quelli che cadono”. Questo e altri particolari geografici hanno portato gli studiosi a concludere che la vicenda si svolga proprio nella località in cui è nato Beckett.
L’estate del 1956 segna il primo impegno dell’autore in campo radiofonico.
La rete radiofonica inglese BBC era alla ricerca di autori di spicco cui affidare la programmazione di prosa e – tra questi – si era rivolta anche a Samuel Beckett divenuto recentemente celebre grazie ad Aspettando Godot. Beckett colse subito l’occasione per scrivere una storia irlandese piuttosto macabra sfruttando le potenzialità che il nuovo mezzo gli metteva a disposizione e in particolare i rumori. C’è un grande uso di rumori di fondo in Tutti quelli che cadono, versi di animali, cigolii, clangori meccanici e atmosferici. L’idea – piuttosto insolita per l’epoca – fu quella di ricreare in studio i rumori necessari anziché ricorrere a quelli già presenti in archivio e registrati dal vivo. Sembra che il Radiophonic Workshop della BBC nacque proprio in seguito a questa sperimentazione.
Al di là di questo substrato rumoristico, la vicenda di Tutti quelli che cadono (il titolo è ripreso dal Salmo 145) è di impianto convenzionale: la signora Rooney va, come tutti i giorni, alla stazione del piccolo centro irlandese in cui vive (tutto lascia presagire che si tratti proprio di Foxrock, la periferia di Dublino in cui nacque Beckett) per andare a prendere il marito, pendolare, di ritorno dall’ufficio. Ma il treno porta ritardo. Quando finalmente arriva, il signor Rooney (il quale è cieco) afferma di non aver capito il motivo del ritardo del treno su cui stava viaggiando. Ma sul finale, mentre l’anziana coppia di coniugi rincasa sotto un temporale, un ragazzo incontrato lungo la strada rivela che il ritardo del treno è stato causato da un terribile incidente. Un bambino che si trovava sul treno è infatti accidentalmente caduto dal finestrino ed è rimasto schiacciato dai vagoni. Sebbene nulla confermi i sospetti in tal senso, chi ascolta il radiodramma resta con l’idea che la tragedia sia stata in realtà causata arbitrariamente dal signor Rooney per pura cattiveria o per noia.
Alessandro Forlani (in Halley, 2006) sottolinea l’angoscioso climax creato “con tecnica affine a quella dello scrittore o sceneggiatore professionista di racconti del brivido. (…) La verità sul ritardo del treno, della morte di un bambino, cala all’improvviso sulle patetiche senili lagnanze dei coniugi Rooney. Né al pubblico è concesso “respiro”, poiché il racconto finisce qui“.
Knowlson individua in Tutti quelli che cadono uno dei momenti di maggiore “antagonismo” tra Beckett e Dio: i coniugi Rooney che sghignazzano cinicamente dopo aver recitato il passo del salmo che dà il titolo all’opera (“Il Signore sostiene quelli che vacillano / e rialza chiunque è caduto“) rappresentano, secondo il biografo, il simbolo della rabbia di Beckett per la morte del fratello Frank avvenuta due anni prima. Frank, a differenza di Samuel, era un uomo di religione cristiana e di grande fede. Ma durante gli ultimi mesi di vita, Beckett “aveva visto quanto poco aiuto la sua fede sembrava offrirgli e aveva sentito acutamente la sua impotenza e la sua pena.
[...]

http://www.samuelbeckett.it/?page_id=495




“Tutti quelli che cadono” Samuel Beckett.
l radiodramma fu per Samuel Beckett la scoperta di un genere teatrale unico, fatto di sole voci e rumori. Tutti quelli che cadono la pièce radiofonica che scrisse per la BBC nel 1956, è stata riproposta al Teatrofestival Parma 1999 per ricordare lo scrittore a dieci anni dalla morte con un fedele allestimento, essenziale e suggestivo (al buio, solo una radio d’epoca illuminata) curato da Franco Però e interpretato dagli attori del Teatro Stabile di Parma. E’ ancora un’opera legata alle convenzioni tradizionali, ma già contiene i germi di quella riduzione ai minimi termini che caratterizza la personale e continua indagine di Beckett sul mezzo drammatico e che lo condurrà poi allo svuotamento graduale della forma teatrale in una ricerca disperata di quell’essenza che, se esiste, si può rivelare solo nell’immobilità della scena e nella provocazione del silenzio.
Il pretesto narrativo dell’opera, la “trama”, è il cammino della Signora Rooney, vecchia decrepita e sofferente, stanca della vita e sola, che si reca alla stazione per attendere il treno che riporta a casa il marito. Sulla sua strada una serie di incontri e di accidenti ci informano della situazione e ci introducono sempre più il personaggio. La conversazione è semplice, quotidiana, le azioni sono banali ed anche comiche. Ma, in una “scena” costruita coi soli suoni, le azioni sono soprattutto parole, parole che ad un livello di ascolto più attento si rivelano discordanti dal loro senso apparente, perdono la loro univoca superficialità mostrando la frammentarietà e l’incoerenza di un linguaggio che non significa più. Il pubblico è convinto di assistere ad un dramma, forse insolito perché solo da ascoltare, in realtà l’autore vi insinua la tragedia del linguaggio e dell’uomo che con esso rappresenta il mondo e se stesso.
Il tema è affrontato gradualmente. Nella prima parte domina il senso dell’attesa, che per il drammaturgo irlandese è la forma stessa dell’esistenza: è sì l’attesa del rapido delle 12 e 30, ma è anche attesa sempre più impaziente della morte che incalza, di una qualunque fine che permetta di sfuggire ad un presente di sofferenza fisica e interiore e a un processo di decadimento in cui anche “il cervello si disgrega in atomi”.
Affianca e completa quest’idea quella della mancanza. In questo caso obbligata ed esplicitata dal mezzo radiofonico è l’assenza della vista. Agli occhi della signorina Fitte, isolata e accecata dalla sua fede (altra suprema illusione che l’uomo si crea), la Signora Rooney appare come “una grossa macchia pallida”. E’ un primo paradosso grottesco e tragico perché inconsapevolmente chi non vede si avvicina sorprendentemente alla verità, alla percezione che la protagonista ha di sé e della sua esistenza.
Ma cieco è anche lo spettatore perché, costretto a farsi ascoltatore, non è più ingannato dai suoi occhi e può percepire gli uomini spogliati della loro pretesa umanità, ridotti a voci isolate, frasi sconnesse, frammenti di una realtà disgregata. Cieco infine è il vecchio Signor Rooney sceso dal treno inspiegabilmente in ritardo.
Perché il treno ha tardato? Le insistenti domandi della moglie sono quelle della ragione; ma l’esigenza pressante e vitale che deve esserci per forza una spiegazione rimane frustrata. Le risposte del marito sono incomprensibili e inconcludenti. La memoria è inefficace anche a spiegare le cose più semplici, il ragionamento dell’uomo si perde e il linguaggio dimostra finalmente la sua debolezza, aumentando la confusione e l’incertezza: “…Ero seduto su una panchina o una banchina?….Hai mai pensato di uccidere un bambino? Stroncare un disastro sul nascere…Andavamo avanti, o forse indietro o tutte e due le cose, come i dannati di Dante che camminano con la testa voltata sul collo…”. Il tentativo di ricostruire il viaggio non fa che moltiplicare le domande, il discorso di Rooney non riesce a seguire una logica perché questa non può esistere in una realtà in cui gli opposti coincidono, dove nascere e morire diventano la medesima cosa (significativo è l’aneddoto della bambina che si uccise perché non era mai nata).
In un mondo assurdo anche il ricordo della schiavitù del lavoro d’ufficio, di una vita sepolta fra quattro pareti, appare più comoda e rassicurante di un paradiso oltre la morte. Se il presente è un gioco doloroso senza scopo né speranza, allora tutto appare ugualmente inutile ed inevitabile: i fiori cadono, la pioggia cade, le lacrime cadono, cade una palla colorata dalla tasca del Sig. Rooney, un bambino è caduto dal treno…Che sia stato il vecchio? E’ possibile.
Sarebbe una cosa crudele e terribile, o forse no. Forse non ha importanza se è vero che “nascere fu la sua morte”. E’ il paradosso dell’uomo di Beckett, l’uomo moderno sopravvissuto alle catastrofi mondiali e a se stesso, alienato dalla crudeltà dell’esistenza. “Ci sono tante cose terribili.”, dice Clov in Finale di partita, ma Hamm risponde: “No, no, non ce ne sono poi tante”.
Federica Faroldi

https://carolesposito.wordpress.com/2008/04/23/il-signore-sorregge-tutti-quelli-che-cadono-e-rialza-tutti-quelli-che-sono-piegati/





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