Cervello e filosofia: la genesi fenomenologica della coscienza;
BrainFactor intervista Elio Franzini
Elio Franzini è
ordinario di Estetica e preside della Facoltà di Lettere e Filosofia della
Statale di Milano. Nella tradizione della “scuola milanese”, le sue ricerche si
sono inizialmente orientate alla fenomenologia, alla fondazione dell'estetica
fenomenologica, alla fondazione scientifica dell'estetica. Il tema della
creatività artistica nella sua genesi all'interno di alcuni importanti momenti
della filosofia moderna e contemporanea, ha costituito l'oggetto di ricerche in
cui l'analisi degli scritti di Leonardo, Bacone, Vico, Diderot, Batteux, Kant,
Banfi, Bachtin, Lyotard, Valèry, ha individuato un percorso di "interpretazione
della natura" attraverso la poiesis dell'uomo. In questo contesto, ha messo in
luce temi fondamentali fra cui il rapporto fra ragione ed esperienza, arte,
tecnica e scienza e il significato del costruire artistico per l'uomo. La sua
ricerca attuale riprende le precedenti indagini fenomenologiche: i problemi
della sensazione, del sentimento, del senso comune inquadrano il senso
gnoseologico dell’estetica, “il ruolo cioè che essa riveste in una teoria
generale della conoscenza”.
L’estetica incarna, per Franzini, “un modo specifico, precategoriale,
della ragione”, che svela il suo senso manifestando il significato conoscitivo
dell’esperienza sensibile: all’origine del sapere, all’origine della scienza, vi
è un “sentire comune” in cui doxa ed episteme si incontrano. L’analisi del
ruolo della rappresentazione estetico-sensibile nei processi generali della
conoscenza, l'ha condotto a indagare il senso dell’immagine e dell’immaginazione
e dei processi simbolici loro correlati, che conducono a costruire il percorso
costitutivo di una “fenomenologia dell’invisibile”. Ampia la sua produzione
scientifica, fra cui: Fenomenologia. Introduzione tematica al pensiero di
Husserl (1991), L’estetica del Settecento (1995, 2002), Fenomenologia
dell’invisibile. Al di là dell’immagine (2001), La fenomenologia (2002), L’altra
ragione. Sensibilità, immaginazione e forma artistica (2007), I simboli e
l’invisibile. Figure e forme del pensiero simbolico (2008).
Marco
Mozzoni l'ha intervistato sul tema “Cervello e filosofia: la genesi
fenomenologica della coscienza”.
Professor Franzini, viviamo in un periodo particolarmente proficuo
per le neuroscienze, che riescono ad attirare l'attenzione (finanche rispondere
ai gusti...) di un pubblico sempre più vasto di persone, oltre che degli addetti
ai lavori e di chi a vario titolo s'occupa dell'umano. D'altro canto, si assiste
anche a un movimento in direzione contraria: gli uomini di neuroscienza sembrano
(ri)scoprire - a modo loro, metodologicamente parlando - la filosofia, l'arte,
le relazioni sociali, l'etica... con l'ambizione febbrile di “rendere visibili”,
attraverso le moderne tecniche di neuroimmagine, i presunti fondamenti
“materiali” degli innumerevoli aspetti dell'umana esistenza. Secondo Lei, ciò
corrisponde a un reale progresso epistemologico o soltanto a una moda fra le
altre?
Le relazioni tra la filosofia e le neuroscienze sono state variamente
giudicate: se lo studio si riferisce ai rapporti tra mente e cervello, purché
non si ceda alle sirene “causalistiche”, in virtù delle quali una spiegazione
ingloba tutte le altre, non vi è probabilmente nulla da eccepire. Se invece si
cede al potere seduttivo delle parole e delle immagini, si tratta soltanto di
una nuova retorica travestita, destinata a sfumare come molte altre del passato.
In ogni caso il dibattito torna alla luce ovunque la filosofia della scienza,
abbandonando le sue radici logico-matematiche, si rivolge a temi biologici.
Lamettrie e Holbach, nel Settecento, per esempio, già studiavano questi temi,
collaborando con medici e anatomisti. Su queste basi, intorno alle quali la
tradizione è radicata, sta però subentrando quel tarlo che, come insegnava
Leopardi, sempre si accompagna alla morte, cioè la moda, capace di rendere
fragili, volatili, contingenti ed effimere anche le questioni più serie. Con la
moda subentrano i neologismi, che a volte – come nel caso della “neurofilosofia”
– sono leciti, ma che altre volte, quando frammentano la base in tanti rami
diventando “neurofenomenologia”, “neuroestetica”, “neuroetica” e via dicendo,
rischiano di condurci al neurodeliri... I neurologi stessi entreranno in azione
con le opportune contromisure farmacologiche quando vedranno nascere la
neuro-logica... Non è questione di essere riduzionisti o meno – che è
espressione che non significa nulla (ogni scienziato, se vuole ottenere
risultati, deve “ridurre”) – né soltanto quella di introiettare e comprendere
il detto lombardo “ofelee fa il to mestee” (che, come sa bene chi le fa, è più
profondo di quanto non possa apparire: fare ofelle è difficile, ed è difficile
soprattutto farle bene) – ma di comprendere che le discipline e i saperi debbono
dialogare. Il dialogo tuttavia deve avvenire su piani ben precisi, consapevoli
delle differenze metodologiche e delle specificità degli orizzonti fenomenici
presi in esame. Molti fenomeni non possono venire “obiettivati” – e ridotti a
catene di cause – in quanto la loro genesi è “motivazionale” e si sviluppa su
piani dove le scienze matematiche, mediche o biologiche non hanno proprio nulla
da dire o da scoprire. Era la conclusione cui era giunto Freud stesso con
Leonardo, mettendo in guardia dal trattare l’argomento con un atteggiamento che
non fosse quello del gioco o del semplice “caso clinico” da osservare, senza
cioè voler trarre dal suo particolare conclusioni universali. Senza dubbio la
Gioconda è un oggetto geometrico che un fisico, un chimico, un geometra possono
“inquadrare”, ma non spiegare nella stratificazione storica, culturale,
motivazionale dei piani che incidono nella sua ricezione.
Veniamo subito all'arte: cosa ne pensa della corrente di ricerca che
si riconosce sotto la bandiera della cosiddetta “neuroestetica”?
Ricerche che generano nessi di spiegazione “riducono” e ricerche che portano
l’arte sul piano del cervello mi appaiono quanto meno una perdita di tempo per
gli uni e per gli altri se non hanno scopi terapeutici. Abbiamo per esempio già
passato la moda della relazione tra arte e follia, prima che si dimostrasse che
non esiste alcun nesso causale, che vi sono artisti sani e geniali e artisti
folli e mediocri. Si è spesso osservato, per limitarsi alla cosiddetta
“neuroestetica”, che il problema è antico solo perché la parola “estetica” è
legata all’aisthesis o perché la fruizione è connessa a dinamiche corporee.
Trarre da questa banale osservazione conclusioni “fondanti” è l’errore, o forse
l’equivoco, in cui, a fine Ottocento, sono caduti grandi psicofisiologci – da
Fechner a Helmhotz – progenitori di molte attuali ricerche, con l’unica
giustificazione che il loro sano positivismo, che esplorava entusiasta orizzonti
nuovi, non pretendeva di avere quella densità avvolgente che percorre molte
raffinatezze contemporanee, che vogliono trovare la madre di tutti i saperi,
mischiando confusamente categoriale e precategoriale, e inconsapevolmente
costruendo una metafisica assai meno sofisticata di quelle tradizionali. Non mi
soffermo a questo proposito sugli scritti di Semir Zeki, senza dubbio
interessanti per un neurologo, ma del tutto inutili per un filosofo: affermare
che la funzione dell’arte corrisponde a un’estensione delle funzioni cerebrali
tese ad acquisire conoscenza del mondo significa porsi sul piano di un
“funzionalismo generalizzato” che può essere applicato a ogni campo dell’umano
fare e sapere.
Semir Zeki sostiene che i più grandi artisti in fondo non erano che
“neurologi inconsapevoli”, certo non per sminuirne il ruolo, anzi sembra proprio
per aggiungere valore alle loro intuizioni estetiche...
Le sue premesse – che le arti visive debbano obbedire alle leggi del cervello
visivo, sia nella fruizione sia nella creazione; che le arti visive siano
un'estensione del cervello visivo che ha la funzione di acquisire nuove
conoscenze; che gli artisti siano in un certo senso dei neurologi che studiano
le capacità del cervello visivo con tecniche peculiari – potrebbero essere tutte
quante relativizzate o contraddette: sono “vere”, certo, ma non comportano alcun
accrescimento cognitivo sul senso complesso del fatto artistico e dei fenomeni
fruitivi, pur avendo interesse per il neurologo, in particolare là dove si
studiano, come in Maffei, le relazioni fra la neurofisiologia della visione e la
nostra esperienza del colore nelle immagini fisse della pittura o in quelle in
movimento di cinema e televisione. Lo statuto epistemologico della cosiddetta
neuroestetica – e neurofilosofie affini – appare ancora molto indeterminato,
incerto nelle finalità, miope nel riconoscere i propri padri, ingrato nel
misconoscere i debiti nei confronti di orizzonti psicologici, che appaiono
ignoti anche là (come sarebbe per esempio con Arnheim) molto potrebbero
insegnare sui medesimi campi di indagine.
Oggi si parla tanto anche di “neuroni specchio”, cui sembra non ci si
possa più astenere nelle “spiegazioni in luce scientifica” delle manifestazioni
emotive, dell'empatia, della predisposizione alla socialità, dello sviluppo del
linguaggio, che sono poi le caratteristiche peculiari dell'umano...
Uguale rispetto e sospetto meritano le interessanti le osservazioni di
Rizzolatti sui neuroni a specchio: passare da una descrizione della loro
attività a una generalizzazione, che implica spiegazioni empatiche di valore
universale, comporta quegli errori metodologici e fenomenologici che poco fa si
sottolineavano (ridurre a un neurone l’empatia è esattamente come ridurre
l’amore a uno spermatozoo: si può farlo, ma si rischia di dimenticare migliaia
di anni di cultura sull’argomento…). Le affermazioni di Vittorio Gallese, in
virtù delle quali la risposta della mente al capolavoro artistico è mediata da
una sorta di profonda immedesimazione (cognitiva, emotiva e motoria) con l’opera
d’arte, un’immedesimazione resa possibile dal meccanismo dei neuroni specchio
che ci consentirebbe di vivere, rispecchiandole appunto, le emozioni e le
sensazioni corporee vissute dai protagonisti raffigurati nelle opere d’arte,
dicono qualcosa che, usando altri termini, è molto antica, e che già Diderot o
Lamettrie affermavano. Si tratta, semplicemente, di non portarne i risultati su
un piano di universalità quantitativa, incapace di afferrare la specificità
qualitativa dei fenomeni artistici e dei processi fruitivi che implicano. Ciò è
sostenuto peraltro, in un contributo ancora inedito, e con molta lucidità, da
Gallese stesso, il quale ben chiarisce che i neuroni non conoscono l'altro, né
esperiscono l'opera d'arte, ma solo qualche sale e qualche altro elemento
chimico. Siamo dunque noi ad avere un rapporto col mondo, non i nostri neuroni.
Le neuroscienze devono allora semplicemente chiarire come la struttura
dell'esperienza messa in luce dalla ricerca fenomenologica si traduce in
complessi neuronali dal momento che i neuroni a specchio sparano anche quando
non vi è alcuna esperienza dell'altro, per esempio quando un braccio meccanico,
che non ha certo percezione dell’alterità, prende una tazzina e ce la porge.
Ritornando per un momento all'arte, se un'opera viene presa in
considerazione anche come strumento di indagine scientifica, che male
c'è?
Se un’opera d’arte diviene un originale strumento d’indagine scientifica e un
eccellente manuale su cui scoprire la bellezza del nostro cervello, nulla da
obiettare. Ma se questo induce a ridurre a ciò la complessità simbolica
dell’opera, allora bisogna denunciare gli errori di metodo o, meglio, di “stile”
della ricerca. La ricerca estetica filosofica, appunto, usa un altro stile, che
guarda diversamente gli oggetti della propria indagine, descrivendo e non
“spiegando”. Le opere e l’empatia con il loro senso sono processi “simbolici”
che vanno analizzati cogliendo il valore complesso di una struttura di rinvio
che ha nel cervello un indubbio riferimento – e primario – ma che non può essere
spiegata con i meccanismi della neurologia. Il Discorso sul funzionamento
meccanico dello spirito di Jonathan Swift, dice ben di più sul senso cognitivo
del rapporto tra oggetto culturale e soggetto di molte raffinate indagini che
riconducono il fenomeno a un “organo”, sia esso soltanto “materiale” o
esclusivamente “spirituale”. Si tratta di speculari integralismi, di cui la
filosofia deve sempre sospettare, sospettandone in modo particolare quando la
struttura di senso di un fenomeno o di un processo non sembra sposare
integralmente alcun “modello”, vagando qua e là tra saperi diversi, e senza mai
interrogarsi sulla natura stessa del sapere. E accettando anche, come appunto
scrive Swift, che non siamo obbligati a dar conto di ogni fenomeno che si
verifica in natura, in particolare, aggiungo, se essi richiedono analisi che
hanno la caratteristica di rinnovarsi sempre di nuovo in descrizioni e domande,
più che in spiegazioni e risposte.
Che lo si voglia o no, le neuroscenze oggi sono un fiume in piena:
tutti ne parlano, tutti ne vogliono sentir parlare. Che fare di fronte alla loro
incontenibile “avvolgenza”, come Lei stesso dichiarava in un recente convegno,
proprio di fronte a un pubblico di neuroscienziati?
Che fare di fronte all’avvolgenza delle neuroscienze che sembrano invadere
ogni campo del sapere... In questo caso, in sintesi e semplicità, non negare a
nessuno il diritto di studiare ciò che più aggrada, con l’avvertenza tuttavia
che bisognerebbe sempre cercare di comprendere se l’oggetto si adatta al metodo
di indagine, se le premesse metodologiche sono state esplorate e se, infine, le
finalità della ricerca conducono a qualcosa che comporti un accrescimento
cognitivo sulla natura dell’oggetto. E’ senza dubbio vero quel che scrive
Roberta De Monticelli, cioè che il fenomenologo si oppone non alla
naturalizzazione della mente, bensì a quella della coscienza. Ma questa regola
non ha quelle eccezioni che Varela o Andy Clark sottolineano, e De Monticelli
rileva, e non perché ci si rifiuti di dare corpo alla mente o non si tenga in
considerazione il corpo nei processi di apprensione, ma in quanto è diverso il
punto di vista da cui si guarda il fenomeno, il fine cognitivo cui si vuole
giungere e la dimensione assiologica in cui si intende inserire sia la ricerca
sia la conoscenza del fenomeno. Le implicazioni corporee presenti
nell’esperienza non possono infatti venire “obiettivate”: l’oggetto culturale,
per esempio un’opera d’arte, non può mai essere afferrato come una serie di
cause ed effetti in quanto i processi della sua produzione e ricezione possono
venire descritti inserendoli all’interno di un circuito motivazionale, che non
mira a “spiegare”, bensì intende cogliere gli atti attraverso i quali si
determinano i giudizi di valore così come il senso culturale e teleologico del
fenomeno. Infine, si tratta di raggiungere la consapevolezza che ogni fenomeno,
anche un’opera d’arte, può venire sottoposto, e con esso i processi che
conducono alla sua formazione e ricezione, a tutte le indagini descrittive che
aggradano. Ma ciò non significa, senza un’opportuna riflessione, che esse, al di
là di un mero esercizio intellettuale, cioè non finalizzato a coglierne il
nucleo cognitivo, possano essere analizzate come si preferisce. Si tratta forse
di porre alcune premesse: 1. non tutti gli oggetti rivelano la loro essenza
andando alle loro radici “mentali” e corporee: essi “resistono” a
interpretazioni di tal genere perché rifiutano di essere ricondotti a schemi
quantitativi, a immagini definite, a percorsi di spiegazione, a processi
cerebrali. I loro motivi, la complessità degli strati di senso che presiedono
alla loro ricezione o produzione hanno bisogno di essere interrogati sempre di
nuovo su un piano “storico”, da corpi “storici”; rivelano quindi a occhi
oggettivi e a corpi solo mentali aspetti cognitivi estrinseci, che finiscono per
assimilarli a dimensioni oggettuali da cui essi intendono invece distinguersi;
2. questo esempio induce a credere che il modello metodologico deve mutare a
seconda del punto di vista e della finalità metodologica e scientifica: il
filosofo non intende “spiegare”, bensì appunto mostrare le differenze, ponendone
le premesse metodologiche. E indicando che i punti di vista devono mutare a
seconda di ciò che l’oggetto è, cioè della “riducibilità” o meno delle sue
qualità a vari punti di vista. Per un’opera d’arte, allora, lo sguardo
neuroestetico aiuta a meglio comprendere la mente, non l’oggetto dell’esperienza
mentale; 3. ciò comporta la necessità di distinguere sul piano metodologico gli
orizzonti della mente e del cervello da quelli degli atti intenzionali della
coscienza, che devono afferrare ciò che gli oggetti richiedono loro, a essi
adattando le specificità esperienziali.
Quale può / deve essere oggi il compito della ricerca filosofica
sulla coscienza umana?
Il compito della ricerca filosofica è quello di comprendere la genesi della
coscienza, che in estetica diviene “genesi della coscienza estetica”.
Espressioni complesse, che vanno dunque specificate, lasciandone a coloro che
studiano attraverso altri metodi il giudizio sulla applicabilità alle loro
ricerche. L’interdisciplinarietà è parola antica e fuori moda: si tratta ora di
“dialogare”, ma nella consapevolezza che i “logoi” non sempre pretendono la
sintesi. E’ chiaro tuttavia che quando si parla di “fenomenologia”,
sottolineando la sua attenzione per le dimensioni sensibili dell’esperienza, si
individua in essa l’avversario più antico dei riduzionismi, ovvero
dell’applicazione indistinta del prefisso “neuro” alla filosofia e alle sue
parti. E’ impossibile quindi non ricordare il paragrafo 49 del secondo volume
delle Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica in cui
Husserl, pur ricordando che i generi costitutivi fondamentali dell’apprensione
si costruiscono l’uno sull’altro, e che quindi l’esperienza fisica, psichica,
corporea sono strati di un medesimo processo, rileva come l’attenzione per la
sua “fisicità” naturale non può cogliere quegli strati che conducono all’io come
persona e come membro del mondo sociale. Quello che viene chiamato
“atteggiamento naturalistico” non può comprendere i sensi che derivano dai
nostri atteggiamenti “personalistici”, che sono quelli che si hanno nella vita
quotidiana, nei sentimenti, nei dialoghi, nei processi assiologici e simbolici
dell’arte. Rilevando che l’atteggiamento scientifico è immancabilmente un
atteggiamento naturalistico puntato verso la realtà obiettiva, Husserl invita a
togliersi i “paraocchi abituali” per guardare con altro sguardo la complessità
del proprio mondo circostante e di oggetti irriducibili al fisico e alle loro
variate rappresentazioni. Perché ciò accada è necessario un piccolo passo
preliminare, cioè quello di mostrare come la coscienza, alle sue basi, lavori:
non per tracotanza, ma solo perché, una volta compreso questo, meglio si possano
capire le differenze che abitano il nostro mondo circostante. Husserl stesso ben
conosceva i pericoli che avvolgono i positivismi di ogni tempo se è consapevole
di avere sottolineato sino alle Ricerche logiche un aspetto soltanto della
descrizione fenomenologica, sia pure di grande importanza: quello che chiama,
anche a rischio di creare equivoci, “psicologia descrittiva”. Sono cioè
esaminati, ricordando il metodo di Brentano, quegli atti soggettivi che hanno un
diretto legame empirico con gli oggetti naturali esterni, con il mondo: atti che
da qui in avanti Husserl chiama però vissuti, protagonisti della "vita" della
coscienza, del suo incessante fluire. Tali vissuti, cioè gli atti di conoscenza,
così come erano descritti nelle Ricerche logiche, pur riferendosi
necessariamente alla "vita" di un soggetto, a un "io" che ha esperienze "pure",
non chiarificano tuttavia mai che cosa si intenda con questo termine, come l'io
operi nei processi conoscitivi. Non sono ancora, in altri termini, ben definiti
intorno a un centro preciso, a un punto focale che ne spieghi l'irraggiamento.
La ricerca di questo punto è ciò che permette il passaggio dalla psicologia
descrittiva a un piano in cui si vuole determinare il senso genetico della
coscienza, ciò che in termini tecnici si chiama fenomenologia trascendentale,
che si realizza in primo luogo nel 1905-1906. Qui comprende che la genesi della
coscienza va indagata andando alla radice di quel fenomeno estetico originario
che è il “tempo”: la coscienza, infatti, è, molto banalmente, il flusso costante
e vivente della (nostra, e non solo nostra) temporalità. Il tempo, come insegna
Kant, è il senso interno, la condizione necessaria per ogni intuizione
possibile: ogni apprensione d'oggetto avviene "nel" tempo e segna l'incontro
conoscitivo tra la dimensione interiore della temporalità, il tempo della mia
coscienza, del flusso dei miei atti o vissuti, e il tempo esterno dell'oggetto,
un tempo "oggettivo" che trascende quello interiore della mia coscienza.
Occuparsi del problema del tempo è una questione preliminare per comprendere la
relazione conoscitiva tra io e mondo, per rimeditarne le modalità, per capirne,
in primo luogo, la funzione costitutiva. Non esistono oggetti, non esistono
pensieri, non c'è riflessione che non siano temporali, che non abbiano nel tempo
la loro più intima trama di senso. Trama nel vero e proprio significato del
termine, perché comporta fili che si intersecano, strati che si sovrappongono
senza annullarsi: l'interiorità è tempo, il fluire dei pensieri è temporale ma,
al tempo stesso, sono nel tempo anche gli oggetti, è nel tempo che si
costituisce la storicità dell'uomo, del suo mondo, delle sue produzioni
spirituali. Tutti problemi che Husserl individua come precisi orizzonti tematici
della fenomenologia: il problema dell'intenzionalità; il senso della logica
nella conoscenza; la problematica della sintesi a priori vanno dunque inseriti
nel contesto, esperienziale e fondativo, della temporalità.
Un “ritorno” dunque della filosofia alle “questioni di principio”,
alla “ricerca della verità”...
Non va perduto, certo, il piano etico e ideologico su cui tali riflessioni si
innestano, che ancora oggi ha la sua (drammatica) attualità: di fronte al regno
delle opinioni soggettive e indimostrate, che hanno ormai invaso la filosofia, o
dei vari obiettivismi alla moda che l’attraversano, si impone per la filosofia
il ritorno alle questioni di principio. Questo ritorno è connesso a una ben
definita idea di verità: verità cui la filosofia deve tendere perché soltanto un
atteggiamento filosofico - e fenomenologico - può superare sia i limiti
psicologici individuali sia le riflessioni pragmatiche e specialistiche delle
scienze particolari. La filosofia deve porsi come una continua riflessione
critico-conoscitiva per giungere a una comprensione evidente del senso e
dell'essenza delle sue operazioni. Cogliere le essenze non significa ricadere
nel platonismo, bensì ritenere che l’apprensione estetica del mondo non debba
tradursi in un culto per i fatti o per una presenza “infondata”. Attraverso le
operazioni intenzionali - gli atti immanenti – si devono analizzare i modi con
cui si danno quei contenuti generali ("cosa", "evento", "effetto", "causa",
"spazio", "tempo", ecc.) cui si riferiscono tutte le scienze particolari. La
fenomenologia, sin dai suoi primi passi, vuole allora definirsi come lo studio
del legame conoscitivo, temporalmente organizzato, tra i contenuti del conoscere
e gli atti che verso di essi si dirigono. E' in quest'ambito che Husserl parla
di intuizione essenziale: perché l'essenza che si vuole conoscere non è né un
dato psicologico né un'immutabile idealità di stampo platonico (o
platonizzante), bensì, appunto una "intuizione".
Come possiamo definire oggi l'essenza dell'esperienza?
Si può definire l'essenza come quel quid, quell'elemento che, nei vari campi
dell'esperienza, caratterizza il senso degli atti che mirano a conoscerli, le
loro strutture permanenti, le qualità specifiche e caratterizzanti (per esempio
il colore, la forma, i contorni, ecc.: tutti elementi "essenziali" perché
permettono di distinguere tra loro gli oggetti). Husserl vuole giungere a quel
nucleo, a quel nesso o a quella serie di nessi che non sono "nel" soggetto, ma
che i suoi atti conoscitivi possono cogliere nelle cose stesse, nelle relazioni
delle parti tra loro e negli interi che costituiscono. Questa esigenza di
intuire i nessi essenziali, dal momento che non è nulla di psicologico o
mentale, ha necessità, per essere conosciuta al di là della contingente empiria,
di venire fondata. E' per tale motivo che in Husserl l'intuizione delle essenze
è radicata in una logica, cioè in una "dottrina dei fondamenti”. Il compito che
Husserl si pone, pur nelle difficoltà terminologiche e stilistiche, è ben
delineato: la conoscenza non può costituirsi su piani soggettivi o scettici, o
obiettivati e realistici, perché è radicata negli oggetti stessi, negli interi e
nelle loro qualità essenziali. Il processo che porta a riconoscere questi legami
fondativi è un processo intenzionale: alle qualità oggettive delle cose si
giunge descrivendo come le cose appaiono, il loro essere fenomenico, il loro
darsi alla nostra intuizione. Questa modalità d'essere dei fenomeni è regolata
da leggi intrinseche, poste nei fenomeni stessi: la logica non è nulla di
astratto perché descrive le fondazioni conoscitive dei vari campi di esperienza
possibile. Di conseguenza, non solo incontra l’estetica, ma è in essa
fondata.
Mi sembra di capire che in questo periodo storico singolare si renda
assolutamente necessario recuperare un “senso razionale” per la filosofia,
proprio nel “mondo della vita” di husserliana memoria... Ma che cos'è, alla
fine, il mondo della vita?
In questo quadro – e si è giunti così a ribadire il punto decisivo, e il suo
radicamento sensibile – la temporalità svolge un ruolo di fondazione estetica di
quel processo razionale che è la descrizione del nostro mondo circostante, e
delle ontologie regionali che ne caratterizzano l’esperienza: è qui radicata la
necessità di recuperare un senso razionale per la filosofia, e di recuperarlo in
quel terreno originario che Husserl chiama “mondo della vita”, che è il senso
stesso della fondazione originaria della temporalità, del suo “fungere” in ogni
nostro atto. Dal momento che di tale mondo non si danno definizioni – e ciò
proprio perché esso è il nostro mondo, in cui si realizza il senso di ogni
nostra operazione di prassi e di conoscenza – la questione non è “che cosa” esso
sia, ma come se ne possano comprendere essenza e fondazione, rispondendo che il
suo senso è estetico, implicato nel sensibile, nel precategoriale in cui le cose
stesse determinano le loro sintesi, il loro divenire, tramite associazioni
descrivibili, interi d’esperienza. Il significato generale di tale processo è il
“nodo” della fenomenologia che si vuole sottolineare. Husserl ritiene, in via
preliminare, che immanente sia "la conoscenza guardante che si ha della
cogitatio", trascendente "la conoscenza che compete alle scienze obiettive”. Vi
è dunque una distinzione generale, che sembra quasi un’utile formula
riassuntiva: "l'immanente è in me, il trascendente fuori di me”. E' questo il
punto nodale dell'intera fenomenologia, vero suo "tema generale" da cui deriva
un’argomentazione che è l’asse centrale della maturità husserliana: se del
trascendente (non materialmente immanente) non mi è lecito far uso, come
afferma, per evitare di credere erroneamente che la conoscenza possa essere
limitata a questi fatti "fuori di me", devo "effettuare la riduzione
fenomenologica", cioè l'esclusione di ogni posizione trascendente di realtà.
Dove con "trascendenti" possono essere qui intese tutte le proposizioni
fondamentali delle scienze naturali e obiettive, come anche le forme empiriche,
linguistiche o le singolari esperienze vitali, che quindi non sono l'oggetto
tematico della ricerca fenomenologica (che, come già si è osservato, è scienza
di fondamenti, di essenze e non di meri "fatti").
Come è possibile avviare, concretamente, questa “nuova scienza di
fondamenti, di essenze, non di meri fatti”?
La prima operazione fondamentale che va compiuta per dare avvio a questa
nuova scienza è la "riduzione" alla "immanenza", in virtù della quale tutto il
trascendente "va provvisto di un indice di nullità”. Soltanto dopo questa
necessaria operazione si potrà affrontare l'esame della sfera dell'immanenza,
meglio distinguendo, come Husserl già ha anticipato, l'immanenza materiale e
l'immanenza come datità diretta. Non ci si vuole qui soffermare sulle
articolazioni di questa “operazione fondamentale”, ma solo sottolineare che essa
“ci offre universalità che permettono di capire, specie, essenze, e con ciò
sembra detta la parola risolutiva: dopotutto noi cerchiamo una chiarezza
guardante intorno all'essenza della conoscenza". E’ in questo modo che appare il
carattere di "assoluta datità diretta" della cogitatio, che è "pura evidenza”.
Husserl con questi complessi termini intende in primo luogo sottolineare che il
senso della riduzione fenomenologica non è soltanto la messa fuori causa del
trascendente, ma l'esclusione di tutto ciò che non sia datità diretta, intesa
come l'apparire, l'essere fenomeno dell'apparizione; l'immanenza materiale è
invece la "cosa" che appare "nella" coscienza, il contenuto dell'oggetto nella
immanenza. Husserl vuole dunque affermare che la fenomenologia è possibile solo
sul piano della datità immanente: "è la meravigliosa correlazione tra fenomeno
di conoscenza e oggetto di conoscenza", in cui la descrizione fenomenologica
deve "approfondire tutte le forme di datità e tutte le correlazioni". In altri
termini, ciò significa che l’orizzonte generale della fenomenologia si pone nel
quadro della intenzionalità ed è da qui che si aprono i "problemi della
costituzione di oggettualità d'ogni specie nella conoscenza". In questo contesto
viene eliminato qualsivoglia naturalismo immanentistico, così come qualsiasi
tipo di discorso teologico: immanenza è invece il piano originario della
conoscenza, il suo indubitabile punto di partenza, la datità diretta di ciò che
immediatamente si intuisce come "vissuto". Di conseguenza, operare l'epoche
significa mettere fra parentesi, con l'atteggiamento naturale, anche il piano
della trascendenza che gli è proprio. Trascendenza che viene intesa da Husserl
come tutto ciò che è "fuori" dal flusso della coscienza, dal flusso delle
cogitationes, cioè di quei vissuti che sono la trama stessa dell'intenzionalità.
Trascendente è ogni conoscenza che, nel suo porre qualcosa di oggettuale, non lo
guarda in modo diretto, non ne afferra l'essenza nel divenire dei suoi atti
conoscitivi. Con ciò Husserl non esclude dall'indagine fenomenologica l'ambito
della trascendenza, del “mondo esterno”: afferma soltanto che deve venire
indagato a partire dall'immanenza, dalla indubitabile certezza del flusso dei
vissuti. Si è in questo modo chiarificata la triplice funzione dell'epochè:
liberarsi dall'atteggiamento naturale, rendere possibile uno sguardo immanente,
riproporre su un nuovo piano metodologico il problema della trascendenza, cioè
l'antica questione del "mondo esterno".
E come si “costituisce” l'oggetto conoscibile?
L'oggetto si costituisce (si offre ed è conoscibile) solo negli atti della
correlazione intenzionale, che è un processo essenzialmente temporale. Un
oggetto qualsiasi, per esempio un tavolo, o un’immagine cerebrale, non è
concepibile in una isolata astrattezza realista, né può essere considerato come
una immagine "dentro" la coscienza (tanto meno, quindi “dentro” il cervello).
Possiamo invece soltanto concepirlo negli atti percettivi che ne abbiamo, nel
tempo della coscienza che incontra quello del mondo. Una volta stabilito che
l'oggetto si costituisce nella conoscenza - nei concreti atti conoscitivi -
Husserl osserva anche (e questa affermazione ha per la fenomenologia una
rilevante importanza storica) che le figure fondamentali del mondo degli oggetti
(forma, causa, effetto, ecc.) che siamo in grado di distinguere sono sempre in
correlazione temporale con le figure fondamentali degli atti cognitivi, che sono
"atti di conoscenza donatori". Il termine "dono" non deve ingannare: Husserl
vuole solo affermare, ancora una volta, che il senso è già nelle cose stesse
(che possiedono le loro proprie specifiche qualità), ma che esso è conoscibile
solo nel momento in cui tali cose mi appaiono, divengono "per me" negli atti che
mi "donano" il senso. Tali atti, inoltre, non sono atomi dispersi e fluttuanti
ma, nel flusso della coscienza, si organizzano temporalmente e, in tale
organizzarsi, costituiscono l'oggettualità stessa, costruendo una trama di senso
oggettivo. La costruzione di questa trama non implica un'intuizione magica e
immediata, ma un "processo", una genesi stratificata. Husserl parla dunque della
costituzione come di un "processo ascendente", a partire da connessioni
temporali di atti immanenti. La costituzione procede infatti per gradi, per
successivi sguardi chiarificatori, per sovrapposizione di vissuti. Se infatti il
mondo degli oggetti esiste "per" gli atti conoscitivi, le varie "regioni" di
questi oggetti andranno indagate in modo progressivo e sistematico, per
penetrare nei nessi essenziali che le costituiscono, nei progressivi strati
qualitativi. E' su tale via che appare a Husserl il compito generale della
fenomenologia: se conoscenza è il "costituirsi" di un oggetto, di esso nel
tempo, il campo conoscitivo sarà di conseguenza sterminato come le trame
temporali che disegna. Il fenomenologo, invece di perdersi in discorsi vaghi, e
prima di affrontare la complessità degli oggetti culturali che, con le loro
stratificate dimensioni temporali attraversano il nostro comune mondo della
vita, dovrà approfondire tutte le forme di datità e tutte le correlazioni che al
suo interno divengono attive, che costituiscono contesti, interi i cui momenti
di aggregazione vanno a loro volta indagati e chiarificati.
Qual è l'”orizzonte di verità” che viene dunque a
delinearsi?
L'orizzonte di verità che così si delinea, coincidendo con quello
dell’esperienza, non ha confini prefissati, scienze particolari su cui
concentrarsi, e vive soltanto attraverso un "incremento illimitato": è in questi
contesti che si costituisce, non in un sol colpo, ma in un processo ascendente,
l'oggettualità, quella che il tempo fonda. Si può in questo modo recuperare,
attraverso il lavoro fondativo della ragione, un senso di "oggettività" nuovo,
che coincide con quello di "evidenza" e che sfugge agli equivoci trascendenti
dell'atteggiamento naturale e dei suoi più o meno retorici succedanei.
L'indagine fenomenologica è un "sempre di nuovo", come è giusto sia per una
descrizione stratificata, che si avvicina all'oggetto attraverso sguardi
progressivi, per “variazioni immaginative”. In questo modo l'oggetto positivo,
la natura che si costituisce con la conoscenza intenzionale, non può più essere
scambiata per quella cosa trascendente che si è neutralizzata con l'epoché, con
l'oggetto come si presenta nell'atteggiamento naturale: proprio perché l'oggetto
non si dà in una statica, massiccia, definitiva essenza, ma è all'interno di un
processo graduale, che è sempre e comunque intenzione di oggetto, in cui la sua
presenza si offre secondo i gradi dell'esperienza, in cui la percezione è
supportata dalla memoria e si proietta con l'immaginazione. L'oggetto acquisisce
man mano, attraverso le operazioni dei soggetti, le sue qualità e la sua
trascendenza divenendo una genesi di senso. Questo processo non è la conseguenza
di una "scelta" soggettiva, psicologica, individuale, al limite neppure
metodologica: sono gli oggetti stessi a richiedere, nella loro temporalità
“passiva”, un tal genere di costituzione, prospettica e graduale, perché questa
è l'essenza stessa del loro presentarsi all'esperienza. Il metodo ha la funzione
di indirizzare un processo le cui linee generali sono offerte dal modo stesso in
cui le cose si danno.
In questo procedere squisitamente fenomenologico, dove ha luogo
esattamente la “sintesi conoscitiva”?
Come si sarà notato, non si ha qui alcun intento polemico, ma si cerca solo
di mostrare qualche traccia di un disegno che viene “prima” dei colori che le
varie scienze possono attribuire ai fenomeni, purché in tale attribuzione non
abbiano la pretesa di ridurre la verità ai colori che le loro macchine vedono.
Un disegno in virtù del quale la conoscenza non è né un processo
formale-categoriale, né dato ontologico o biologico: la sintesi conoscitiva è
invece indicata dalla cosa stessa e sono le sue caratteristiche essenziali
(forma, colore, profili, ecc.) e i tratti fondamentali della correlata
operatività soggettiva e intersoggettiva a mostrarne nel tempo quella
complessità costitutiva che è la stessa complessità qualitativa delle cose del
mondo. Husserl è dunque un momento di consapevolezza di questo percorso in cui è
apparso come la ragione abbia una fondazione estetica, e non sia una Minerva
autofaga e autofondata: al di là delle sigle, dei movimenti, dei metodi e delle
loro ingenuità, ciò viene compreso da chi ritiene il discorso filosofico un
piano di conoscenze fondate che costruisce interi cercando di indagarne sia le
parti sia i nessi temporali che le rendono un insieme estetico, sensibile, da
guardare in tutti i suoi angoli prospettici. Nella fenomenologia si trova il
senso simbolico di questo percorso, che vuole analizzare sia le forme
costitutive di ogni ambito di "cose" sia, correlativamente, i fondamenti di una
teoria della scienza, ponendosi come scienza che si occupa dei problemi relativi
alla costituzione di oggettualità d'ogni specie nella conoscenza. Il campo di
indagine di tale scienza non è indistinto: sono i fenomeni, intesi da un lato
come atti intenzionali della coscienza, atti che sono "coscienza di oggetto", e,
dall'altro, come oggetti che in tali forme si presentano. Per un fenomenologo,
infatti, la sintesi conoscitiva è estetica, si effettua nel darsi stesso
“materiale” delle cose e va idealmente disgiunta dai modi dell’apprensione di
tali cose, che si articolano attraverso operazioni soggettive, atti intenzionali
che non guardano al mondo come a un “fatto”, bensì come al correlato sensato di
un’altrettanto sensata esperienza sensibile, che vuole avere consapevolezza del
mondo non come un insieme di categorie formali o materiali, ma in quanto varietà
di sensi e strati che si svolgono di fronte ai nostri corpi sensibili.
Sembra emergere chiaramente il ruolo decisivo della dimensione
temporale nell'esperienza umana...
Il tempo da cui si è preso avvio è proprio il tempo dell’esperienza, cioè
della relazione precategoriale con il nostro comune mondo della vita, ma è anche
il tempo della ragione, cioè quella temporalità che costituisce in forma, in
intero costituito, di cui si colgono nessi e prospezioni, i fenomeni percettivi,
memorativi, immaginativi. E’ anche, infine, ed è l’ultimo punto, il tempo di una
psicologia trascendentale, cioè di quella dimensione intenzionale che Husserl
vede all’origine sia delle scienze sia di una riflessione epistemologica:
interrogazione del mondo della vita nella sua originarietà precategoriale, che
ne vieta un’obiettivizzazione, indicando come la conoscenza si articoli
attraverso operazioni soggettive e intersoggettive.
E del "trascendentale"...
“Trascendentale” non è una parola strana: significa solo che la filosofia
serve a indagare non campi oggettuali specifici, ma le condizioni di possibilità
a partire dalle quali le varie scienze, con le proprie opportune e specifiche
operazioni metodologiche, e rispettando quel che gli oggetti sono, debbono poi
analizzare. Operazioni che, nel campo dell’arte, risultano irriducibili a piani
fisici o rappresentazionali, a esaltazioni acritiche di immagini cerebrali e
della loro bellezza, esibendo invece il senso, ossimorico ma produttivo, di una
ragione estetica: è un piano filosofico che non cerca di esplorare mode o
confini incerti tra scienze che non dialogano, ma intende superarne i dualismi
verso un’unificazione tra sensibilità e ragione, tra immanenza e trascendenza,
che mantenga un’apertura, che non sia cioè né fisicalistica né dialettica,
mostrando di tale ragione, come avrebbe detto Goethe, sia la forza conoscitiva
sia l’azione simbolica.
Intervista realizzata da Marco Mozzoni
Venerdì 05 Giugno 2009
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