Ho bisogno di aiuto
Questa richiesta, in forme più o meno esplicite, vi sarà giunta almeno una volta nella vita da vostro figlio che non riesce a fare i compiti o da vostra madre che ha bisogno di essere accompagnata dal medico. L’aiuto di cui voglio parlare oggi ha radici più profonde: è quella richiesta che nasce da dentro quando ci si sente soli, inadeguati, poco stimati, senza alcuna via di uscita...
Eppure, nonostante siano questi i cardini della nostra vita, quelli che fanno la differenza tra l’essere felici o no, pochi ritengono di dovere ricorrere agli altri. La tendenza principale è quella di chiudersi in se stessi, lasciando che malinconia e pessimismo regnino sovrani e impedendo alle soluzioni di venire a galla e imporsi sui problemi.
La parola chiave è “passività”: lasciamo cioè che i sentimenti, le emozioni e le situazioni ci sovrastino, incassando come dei pugili sul ring e pensando che prima o poi ci sarà una fine, poco importa se per KO o per sfinimento. Vi sono scrittori e pensatori che hanno basato tutta la loro vita sul pessimismo cosmico. Personalmente sono convinto che il farsi aiutare da un "esperto" sia sempre la soluzione migliore e credo anche che questo debba avvenire prima che le condizioni psicofisiche richiedano interventi ben più strutturati e impegnativi...
Gli stati d’animo disturbanti, che fanno soffrire, a cui tutti noi siamo prima o poi sottoposti, sono vari e diversificati, come le nostre capacità di reagirvi. Anche la nostra forma fisica influisce sulla capacità di risolvere un problema o di cercare soluzioni alternative. Per questo la visione di un esperto esterno non coinvolto nei nostri processi è fondamentale. E' un pensiero che ho già espresso in più occasioni, anche in questa sede: bisogna avere il coraggio di dire “Ho bisogno di aiuto e te lo chiedo!”
A volte succede anche che, una volta ricevuto e terminato il percorso di aiuto, non se ne voglia più parlare. È come se la persona, al termine di un sostegno specialistico o di counseling orientato al benessere, volesse chiudere l’esperienza - godendone solo i risultati - in una sorta di armadio ed evitare di parlarne accuratamente. Nell’immaginario collettivo la “mente funzionante” fa la differenza tra un “sano” e un “matto” ed è per questo che chiedere aiuto è come ammettere di essere un "disturbato". Una volta, una persona che soffriva di forti emicranie, mi diceva di essersi rivolta a uno specialista ma di avere subito soprasseduto per non dover presentare in ufficio un certificato attestante la sua condizione...
Ma se ci guardiamo bene allo specchio, ognuno di noi può scoprire di avere "problemi". Allora perché ci vergogniamo ad ammetterlo? Perché è così deplorevole nella nostra società confessare di avere bisogno di aiuto? Perché non dire, dopo un percorso di counseling o di trattamento specialistico, che si sono trovate soluzioni, che si è imparato a guardare il mondo con occhi diversi o anche semplicemente che si sono imparati esercizi utili per controllare la rabbia o per rilassarsi prima di andare a dormire? E’ una sorta di legame disfunzionale con un nostro "io profondo" che ci barrica nell’orgoglio e ci impedisce di dire anche alle nostre migliori amiche che il giovedì andiamo dal "terapeuta".
Forse la paura più grande è quella di non dover ammettere che si è avuto bisogno di una mano. Ci insegnano già a scuola che bisogna cavarsela da soli, di non chiedere niente a nessuno e conquistarsi tutto con le proprie forze. Poi quando, una volta cresciuti, arriviamo a lavorare, dobbiamo re-imparare a condividere con altri obiettivi e risultati, mandando in crisi il nostro sistema valoriale per il quale fino a quel momento eravamo il centro del mondo. Nessuno vive per se stesso come nessuno vive da solo, tutti abbiamo bisogno reciprocamente di trovare e dare conforto in un cerchio continuo che ottimizza le personalità di ognuno.
Ammettere di avere bisogno significa prima di tutto riconoscersi persone, poi di essere perfettibili. Nel primo caso, in un mondo di supereroi credo a volte sia importante ritrovarsi nella normalità, nel secondo significa riconoscere che si può migliorare anche e soprattutto grazie all’intervento esterno. Dall’altra parte esistono persone che chiedono aiuto indistintamente, a tutti e indipendentemente dal problema: alla fine le evitiamo, asfissiati dai loro stessi problemi che spesso non sono diversi dai nostri. Qui la facilità di espressione supera la decenza e l’amore per se stessi. Queste sono persone che vanno aiutate non a risolvere quanto le angustia, ma a trovare un modo per non angustiare sempre gli altri.
Forse la risposta sta in una dose di umiltà che ci faccia mettere da parte il nostro orgoglio personale e riconoscere che farsi aiutare è umano quanto necessario e parlarne non ci sminuisce affatto: l’hanno fatto profeti e uomini illustri; noi non siamo da meno, o no?
Paolo G. Bianchi
Antropologo, Counselor
Bibliografia di riferimento:
- Mario Mengheri, “Formazione alla relazione di aiuto: Il counseling ad approccio integrato”, FrancoAngeli, 2010
- Cosimo Variale, “Aiutare le persone ad aiutarsi”, Guerini sicentifica, 2009
- Gabriele Lo Iacono, “Come cercare aiuto psicologico e perché: orientarsi nelle possibilità professionali e informali per accrescere il benessere”, Erickson, 2001
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