Il diritto alla pigrizia (Le Droit à la paresse, 1883)
è un pamphlet di Paul Lafargue, rivoluzionario francese di origini cubane e di ispirazione comunista.
Il testo, scritto dalla sua cella di prigione (nel 1880) e commentato in modo favorevole da Marx, muove un'aspra critica alla strana follia che si è impossessata di uomini e donne della società moderna: l'amore per il lavoro.
Secondo Lafargue, la passione per il lavoro è causa della degenerazione intellettuale tipica delle società capitalistiche, nonché generatrice di miserie individuali e sociali.
A sostegno del diritto all'ozio Lafargue porta un pungente ritratto della società lavoratrice del tempo, alienata da ritmi estenuanti e dal paradosso di macchinari sempre più precisi e veloci che non portano però ad un'effettiva riduzione delle ore di lavoro umane - quasi si volesse competere con la macchina, afferma sarcasticamente l'autore.
“Ma cosa vedono i nostri occhi? Via via che la macchina si perfeziona e annienta il lavoro dell’uomo, con una rapidità e precisione che crescono senza posa, l’operaio invece di prolungare altrettanto il proprio riposo, raddoppia l’ardore, come se volesse rivaleggiare con la macchina”
Sono inoltre presenti riferimenti alla concezione del lavoro in epoche passate:
«Anche i Greci dell'antichità non provavano che disprezzo per il lavoro: solo agli schiavi era permesso lavorare; l'uomo libero conosceva unicamente gli esercizi corporali e i giochi di intelligenza.» [...]
«Ad Atene, i cittadini erano dei veri nobili, che non dovevano occuparsi d’altro che della difesa e dell’amministrazione della comunità, come i guerrieri selvaggi da cui traevano origine. Dovendo dunque essere padroni di tutto il loro tempo per vegliare, grazie alla propria forza intellettuale e fisica, sugli interessi della Repubblica, essi affidavano agli schiavi tutto il lavoro. Ugualmente, a Lacedemone, anche le donne non dovevano filare né tessere, per non venir meno alla propria nobiltà» [32]
[32]E. Biot, De l’abolition de l’esclavage ancien en Occident, 1840.
I Romani conoscevano solo due mestieri nobili e liberi, l’agricoltura e le armi. Tutti i cittadini vivevano di diritto a spese dell’Erario, e non potevano venire costretti a provvedere al proprio sostentamento, tramite alcuna delle sordidae artes (così essi designavano i vari mestieri) che appartenevano di diritto agli schiavi. Bruto il vecchio, per sollevare il popolo, accusò Tarquinio il tiranno, soprattutto di avere trasformato dei liberi cittadini in artigiani e muratori [33].
[33] Tito Livio, I [Lett. «operai e tagliapietre»: «Romanos homines... opifices ac lapicidas pro bellatoribus factos». Storia di Roma, I, 59 (n.d.r.)].
I filosofi antichi discutevano sull’origine delle idee, ma quando si trattava di aborrire il lavoro, erano tutti d’accordo.
«La natura – dice Platone nella sua utopia sociale, nella sua Repubblica modello – la natura non ha creato né calzolai né fabbri; simili occupazioni degradano coloro che le esercitano, vili mercenari, miserabili senza nome che per il loro stesso stato sono esclusi dai diritti politici. E in quanto ai mercanti abituati a mentire e ingannare, li si sopporterà nella città come un male necessario. Il cittadino che si sarà degradato con il commercio di bottega, verrà perseguito per tale delitto. Se è convinto del suo operato, verrà condannato a un anno di prigione. La pena raddoppierà ad ogni recidiva.» [34].
[34] Platone, La Repubblica, V [ll brano citato è irreperibile (n.d.r.)].
Nel suo Economico, Senofonte scrive:
«Coloro che si dedicano ai lavori manuali non vengono mai elevati a cariche pubbliche, e ben a ragione. I più tra loro, condannati a stare seduti tutto il giorno e alcuni persino a subire continuamente la vicinanza del fuoco, non possono non avere il corpo alterato, ed è assai difficile che lo spirito non ne risenta».
E dichiara Cicerone:
«Cosa può scaturire di onorevole da una bottega e cosa il commercio può produrre di onesto? Tutto ciò che ha nome negozio è indegno di un onest‘uomo… poiché i mercanti non possono guadagnare senza mentire, e nulla è più turpe della menzogna! Perciò dobbiamo stimare basso e vile il mestiere di tutti coloro che vendono la propria fatica e il loro ingegno; poiché chiunque offre il proprio lavoro in cambio di denaro vende se stesso e si pone nel novero degli schiavi» [35].
[35] Cicerone, Dei doveri, I, tit. II, cap. XLII.
(Il diritto alla pigrizia, Paul Lafargue)
Diversi sono i dirigenti socialisti che hanno reso omaggio a Lafargue per il pamphlet, divenuto più popolare delle sue pubblicazioni scientifiche.
«Sempre pieno di umorismo, di spirito e di arguzia, è stato un maestro della satira politica, e il suo Diritto alla pigrizia l'ha reso noto e popolare forse più di tutte le sue opere scientifiche.»
Karl Kautsky, articolo comparso sull'Arbeiter Zeitung e pubblicato da L'Humanité.
Paul Lafargue, Il diritto alla pigrizia, (tr. Bini S.; Marazzi A.), Massari, 1996, pp. 176
Il diritto alla pigrizia, scritto nel 1880 da Paul Lafargue.
PREFAZIONE
In seno alla Commissione per l’istruzione elementare, del 1849, il Sig. Thiers affermava:
«Intendo rendere onnipotente l’influenza del clero, poiché conto su di esso per propagare quella buona filosofia che insegna all’uomo che egli si trova sulla terra per soffrire, e non l’altra che, al contrario, dice all’uomo: “Godi”.».
Thiers esprimeva la morale della classe borghese, di cui incarnava l’egoismo feroce e la gretta intelligenza. [...]
1. UN DOGMA DISASTROSO.
Una strana follia si è impossessata delle classi operaie nelle nazioni ove regna la civiltà capitalistica. Questa follia trascina con sé le miserie individuali e sociali che da due secoli torturano la triste umanità. Questa follia è l’amore per il lavoro, la moribonda passione per il lavoro, spinta fino all’esaurimento delle forze vitali dell’individuo e della sua progenie. Invece di reagire contro questa aberrazione mentale, i preti, gli economisti, i moralisti, hanno santificato il lavoro. Uomini ciechi e limitati, essi hanno voluto essere più savi del loro Dio; deboli e spregevoli, hanno voluto riabilitare ciò che il loro Dio aveva maledetto. Io, che non mi professo cristiano, economista o moralista, non posso fare a meno di mettere a confronto il loro giudizioso con quello del loro Dio, i precetti della loro morale religiosa, economica e libero-pensatrice, con le spaventose conseguenze del lavoro nella società capitalistica. [...] [3]
[3] Gli esploratori europei si fermano stupiti davanti alla bellezza fisica e al portamento fiero degli uomini delle popolazioni primitive, incontaminati da ciò che Pæppig definiva «il fiato avvelenato della civiltà».
Parlando degli aborigeni delle isole oceaniche, lord George Campbell scrive: «Non esiste popolo al mondo che al primo contatto colpisca maggiormente. La pelle liscia e di un colore leggermente ramato, i capelli dorati e ricciuti, il viso bello e gioioso, in una parola tutta la loro persona costituiva un campione nuovo e splendido del genus homo; il loro aspetto fisico dava l’impressione di una razza superiore alla nostra». I civilizzati dell’antica Roma, i Cesare, i Tacito, contemplavano con la stessa ammirazione i Germani delle tribù comuniste che invadevano l’Impero romano.
Come Tacito, Salvien, il prete del V secolo soprannominato il maestro dei vescovi, proponeva i barbari come esempio ai civilizzati e ai cristiani: «Noi siamo impudichi in mezzo ai barbari, più casti di noi. Non solo, i barbari si sentono offesi dalle nostre impudicizie, i Goti non sopportano che tra loro vi siano dei dissoluti appartenenti alla loro nazione; soli in mezzo a loro, grazie al triste privilegio della propria nazionalità e del proprio nome, i romani hanno il diritto di essere impuri. [La pederastia era allora di gran moda tra i pagani e i cristiani...] Gli oppressi se ne vanno presso i barbari a cercare un po’ di umanità e un rifugio» (De Gubernatione Dei).
L’antica civiltà e il cristianesimo nascente corruppero i barbari del vecchio mondo, come il cristianesimo invecchiato e la moderna civiltà capitalistica corrompono i selvaggi del nuovo mondo.
F. Le Play — cui va riconosciuta la capacità di osservazione, pur respingendo le sue conclusioni sociologiche, contaminate di saccente pedanteria filantropica e cristiana – così afferma nel suo libro Les ouvriers européens (1885): «La propensione dei Baschiri per la pigrizia [i Baschiri sono pastori seminomadi del versante asiatico degli Urali], gli svaghi della vita nomade, le abitudini alla meditazione che essi inducono negli individui più dotati, trasmettono spesso loro una distinzione di modi, una finezza d’intelligenza e di giudizio che di rado si notano, al medesimo livello sociale, in una civiltà maggiormente sviluppata…. Ciò che più loro ripugna sono i lavori agricoli; fanno di tutto piuttosto che accettare il mestiere di agricoltore».
L’agricoltura è, in effetti, la prima manifestazione di lavoro servile dell’umanità.
Secondo la tradizione biblica, il primo criminale, Caino, è un agricoltore.
3. CIÒ CHE SEGUE LA SOVRAPPRODUZIONE
Antipatro, un poeta greco dell’epoca di Cicerone, così decantava l’invenzione del mulino ad acqua (per la macinatura del grano), che avrebbe emancipato le schiave e riportato l’età dell’oro:
Risparmiate la mano che macina, o mugnaie e dormite
dolcemente! Invano il gallo vi annunci il mattino!
Demetra ha ordinato alle ninfe il lavoro delle fanciulle,
e ora esse saltellano leggere sopra le ruote,
che gli assi percossi girino con i loro raggi,
e in circolo ruotino la mole della pietra che gira.
Viviamo la vita dei padri, rallegriamoci, liberi dalla fatica,
dei doni che la dea ci porge.
Antipatro, un poeta greco dell’epoca di Cicerone
Ahimè! Gli agi annunziati dal poeta pagano non sono arrivati; la passione cieca, perversa e omicida per il lavoro trasforma la macchina liberatrice in un mezzo di asservimento degli uomini liberi: la sua produttività li impoverisce.
Una brava operaia esegue con il fuso soltanto cinque maglie al minuto; alcuni telai circolari per maglieria ne fanno trentamila nello stesso tempo. Ogni minuto della macchina equivale dunque a cento ore di lavoro dell’operaia; o meglio, ogni minuto di lavoro della macchina consente all’operaia dieci giorni di riposo. Ciò che è valido per l’industria della maglieria è più o meno valido per tutte le industrie, rinnovate dalla meccanica moderna. Ma cosa vedono i nostri occhi? Via via che la macchina si perfeziona e annienta il lavoro dell’uomo, con una rapidità e una precisione che crescono senza posa, l’operaio, invece di prolungare altrettanto il proprio riposo, raddoppia l’ardore, come se volesse rivaleggiare con la macchina. Oh, concorrenza assurda e assassina!
Affinché la concorrenza tra l’uomo e la macchina abbia libero corso, i proletari hanno abolito le sagge leggi che limitavano il lavoro degli artigiani delle antiche corporazioni; hanno soppresso i giorni festivi [20].
[20] Sotto l’Ancien regime, le leggi della Chiesa garantivano al lavoratore 90 giorni di riposo (52 domeniche e 38 giorni festivi) durante i quali era rigorosamente proibito lavorare. Era questo il grande crimine del cattolicesimo, la causa principale dell’irreligiosità della borghesia industriale e mercantile. Con la Rivoluzione, non appena fu padrona, essa abolì i giorni festivi e sostituì alla settimana di sette giorni quella di dieci. Affrancò gli operai dal giogo della Chiesa per meglio sottometterli a quello del lavoro.
L’odio contro i giorni festivi compare solo quando la borghesia moderna, industriale e mercantile, prende corpo nel XV e XVI secolo. Enrico IV chiese al Papa la loro riduzione; il Papa rifiutò, perché «una delle eresie correnti oggigiorno, è quella di por mano alle festività» (lettera del cardinale d’Ossat). Ma nel 1666, Péréfixe, arcivescovo di Parigi, ne soppresse 17 nella sua diocesi. Il protestantesimo, che era la religione cristiana ritoccata secondo le nuove esigenze industriali e mercantili della borghesia, si preoccupò meno del riposo popolare; detronizzò i santi dal cielo per abolire sulla terra le loro festività.
La riforma religiosa e il libero pensiero filosofico erano solo dei pretesti, che permisero alla borghesia gesuita e rapace di far sparire i giorni di festa del popolo.
http://www.giuseppelaino.it/?page_id=1872
https://it.wikipedia.org/wiki/Il_diritto_alla_pigrizia
Descrizione
"Una strana follia possiede le classi operaie delle nazioni in cui regna la civilizzazione capitalista. Questa follia è l'amore per il lavoro". Negli ultimi decenni dell'Ottocento, l'autore - militante comunista di origine cubana e genero di Karl Marx - vede con orrore che il movimento operaio abbocca all'esca della "ideologia del lavoro": lavoro alienante, degradante, svolto da donne e bambini, con orari e ritmi insostenibili. Questo testo è la denuncia della condizione operaia e delle contraddizioni del capitalismo, che produce un'immane quantità di merci e che deve mantenere categorie improduttive (politici e militari) per avere qualcuno a cui vendere quella "robaccia". Ma l'autore rassicura: "Una risata li seppellirà".
Marco M. Movio
[...] La tecnologia si rivolta contro coloro che ne dovrebbero trarre benefici.
Dopo secoli di meccanizzazione ancora lavoriamo per quasi tutta la nostra giornata, e con che scopo? Produrre di più? a che genere di beni non potremmo rinunciare per un po' più di tempo libero? ma ci rendiamo conto? [...]
Luigi
Il diritto alla pigrizia di un maître à penser come fu Paul Lafargue è paragonabile a mio giudizio alla Disoccupazione creativa di Ivan Illich.
[...] Il diritto alla pigrizia è un libretto “piccolo piccolo”, di quelli che si leggono durante un viaggio in metro. Leggerlo mentre si va a lavoro però risulta paradossale… perché? Perché questo pamphlet è scritto con un’unica motivazione: andare contro il lavoro, anzi contro “l’amore per il lavoro”, quello strano fenomeno che Lafargue definisce una follia che si è impossessata di tutto e di tutti.
Il lavoro, così come vuole una buona tradizione anarchica, non solo non nobilita l’uomo ma risucchia tutte le energie vitali dell’individuo e della sua progenie. Infatti a ben vedere cosa hanno fatto i vertici della società politica e morale? Hanno definito il lavoro come edificante dello spirito umano… un ossimoro, secondo Lafargue. Il lavoro ha conseguenze spaventose per una società perché non è ciò che rende produttivo il contenitore sociale ma è ciò che lo livella inserendo tutti in delle restrittive e superflue categorie.
Lo stile è sempre quello, un po’ marxista e un po’ anarchico; poche idee ma ben confuse.
Lo sdegno per il lavoro che Lafargue qui dimostra però - lo si deve dire - suscita simpatia. [...]
http://www.mangialibri.com/libri/il-diritto-alla-pigrizia-e-qualche-preghiera-capitalista
Paul Lafargue, rivoluzionario, giornalista, scrittore, saggista e critico letterario francese, di ispirazione comunista, nonchè genero di Karl Marx (sposò la figlia di Marx, Laura), scriveva nelle pagine de "Il diritto alla pigrizia" un durissimo attacco all'ideologia del lavoro, vista come una forma di schiavitù, e di conseguenza un attacco anche al capitalismo, generatore di forme di schiavitù sociali:
"Una strana follia possiede le classi operaie delle nazioni dove regna la civiltà capitalista. Questa follia trascina al suo seguito miserie individuali e sociali che da secoli torturano la triste umanità. Questa follia è l'amore per il lavoro, la passione nociva del lavoro, spinta fino all'esaurimento delle forze vitali dell'individuo e della sua progenie . Invece di reagire contro questa aberrazione mentale i preti, gli economisti, i moralisti, hanno sacro-santificato il lavoro. Uomini ciechi e ottusi, hanno voluto essere più saggi del loro Dio, uomini deboli e spregevoli hanno voluto riabilitare ciò che il loro Dio aveva maledetto. Io che non mi proclamo cristiano, economo e morale , rimetto il loro giudizio a quello del loro Dio, le prediche della loro morale religiosa, economica, di liberi pensatori, le rimetto alle conseguenze spaventose del lavoro nella società capitalista."
E ancora afferma:
"Lavorate, lavorate proletari per accrescere la ricchezza sociale e le vostre miserie individuali. Lavorate, lavorate, perché diventando più poveri avrete più ragioni per lavorare e per essere miserabili. Questa è la legge inesorabile della produzione capitalista. Perché, prestando orecchio alle fallaci parole degli economisti, i proletari si sono consegnati corpo e anima al vizio del lavoro, facendo precipitare la società intera nelle crisi industriali della sovrapproduzione che sconvolgono
l'organismo sociale . Allora visto che c'è sovrabbondanza di merci e penuria di acquirenti, le officine si fermano e la fame sferza la popolazione operaia con la sua frusta dai mille lacci. I proletari, abbrutiti dal dogma del lavoro, non capiscono che il superlavoro che si sono inflitti durante il periodo di pretesa prosperità è la causa della loro miseria attuale."
"Invece di approfittare dei momenti di crisi per una ridistribuzione generale de i prodotti e il benessere universale, gli operai morendo di fame, se ne vanno a sbattere la testa sulle porte delle officine . Con figure smunte, corpi smagriti, discorsi pietosi, essi assillano i fabbricanti: "Buon signor Chagot, dolce signor Schneider, dateci del lavoro, non è la fame , ma la passione del lavoro che ci tormenta!" E questi miserabili, che hanno a mala pena la forza di tenersi in piedi, vendono dodici o quattordici ore di lavoro due volte meno care di quando avevano il pane sulla tavola. Ed i filantropi dell'industria approfittano della disoccupazione per fabbricare a migliore mercato."
Secondo il genero di Marx i “diritti dell’ozio” devono essere considerati piú sacri dei “Diritti dell’uomo”. Essi impongono di non lavorare piú di tre ore al giorno. Quando si raggiungerà questo risultato, allora finalmente lavorare sarà un piacere. Con l’aiuto delle macchine moderne ciò è diventato possibile, ma i dogmi del capitalismo ci impongono di lavorare per guadagnare e consumare, e non permettono agli individui di avere il tempo libero per esprimere al meglio le loro passioni o attitudini.
Il capitalismo è quel mostro che ha generato benefici per pochi, in cambio di briciole di progresso effimero destinate alla massa proletaria.
Le briciole dorate, offerte dai capitalisti affamati di profitto, non valgono quanto il tempo di una vita perso a lavorare.
http://glioziosi.blogspot.it/2012/07/paul-lafargue-rivoluzionario.html
[...]
«Il pregiudizio della schiavitù dominava lo spirito di Pitagora e di Aristotele», è stato scritto con disdegno; e tuttavia Aristotele prevedeva che
«se, ogni strumento potesse compiere su comando… l’opera ad esso spettante, allo stesso modo che gli artifici di Dedalo si muovevano da sé o i tripodi di Efesto di proprio impulso intraprendevano il loro sacro lavoro, se in questo modo le spole dei tessitori tessessero da sé, il maestro d’arte non avrebbe bisogno dei suoi aiutanti e il padrone non avrebbe bisogno dei suoi schiavi» [37].
Il sogno di Aristotele é la nostra realtà. Le nostre macchine dal fiato di fuoco e le membra d’acciaio, infaticabili, di mirabile fecondità, inesauribili, eseguono docilmente da sole il loro lavoro sacro; eppure, il genio dei grandi filosofi del capitalismo resta dominato dal pregiudizio del rapporto salariale, la peggiore delle schiavitù. Non comprendono ancora che la macchina è il redentore dell’umanità, il Dio che riscatterà l’uomo dalle sordidae artes e dal lavoro salariato, il Dio che gli donerà gli svaghi e la libertà.
Dcscansar es salud (riposarsi è salute).
proverbio spagnolo
«O Melibeo, un dio ci ha dato questo ozio».
Virgilio, Bucoliche, I, 6.
[8] Al primo congresso di beneficenza tenutosi a Bruxelles nel 1857, il signor Scrive, uno dei più ricchi industriali manifatturieri di Marquette, vicino a Lille, tra gli applausi dei membri del congresso e con la più nobile soddisfazione del dovere compiuto, raccontava: “Abbiamo introdotto alcuni sistemi di distrazione per i bambini. Insegniamo loro a cantare durante il lavoro, e anche a contare lavorando: ciò li distrae, e fa loro accettare con coraggio le dodici are di lavoro necessarie a procurar loro i mezzi di sostentamento.” Dodici ore di lavoro – e che lavoro! – imposte a bambini che non hanno ancora dodici anni! I materialisti rimpiangeranno in eterno che non ci sia un inferno per inchiodarci questi cristiani, questi filantropi, carnefici dell’infanzia!
[12] Gli Indiani delle tribù bellicose del Brasile uccidono gli infermi e i vecchi; testimoniano la loro amicizia mettendo fine a una vita che non è più rallegrata dalle battaglie, le feste e le danze. Tutti i popoli primitivi hanno dato ai loro simili tali prove di affetto: i Massageti del mar Caspio (Erodoto), come i Wen della Germania e i Celti della Gallia. Nelle chiese di Svezia, ancor in tempi recenti, erano conservate delle mazze, dette mazze famigliari, che servivano a liberare i genitori dalle tristezze della vecchiaia. Quanto sono degenerati i proletari moderni per sopportare pazientemente le spaventose miserie del lavoro in fabbrica!
[24] «La percentuale in cui la popolazione di un paese è impiegata come domestica al servizio delle classi agiate, indica il progresso della ricchezza nazionale e dell’incivilimento».
R.M. Martin, Ireland before and after the Union, 1818.
[25] [...] il governo inglese, per compiacere i paesi indiani che, malgrado venissero devastati dalle periodiche carestie, si intestardivano a coltivare papaveri invece di riso o grano, ha dovuto intraprendere guerre sanguinose allo scopo di imporre al governo cinese la libera introduzione dell’oppio indiano. [...]
[29] Fingono d’esser dei Curii e vivono come ai Baccanali
(Giovenale) [Il verso «qui Curios simulant et Bacchanalia vivunt»,
è ripreso dalle Satire, II, 3 (n.d.r.)].
[31] Erodoto, II, trad. Larcher 1876 [La trad. italiana di Augusta Izzo D’Accinni, che di seguito riportiamo, si discosta dal testo francese citato da Lafargue: «Se anche questo uso i Greci hanno appreso dagli Egiziani non sono in grado di giudicarlo esattamente, giacche vedo che anche Traci e Sciti e Persiani e Lidi e quasi tutti i barbari considerano più spregevoli degli altri cittadini quelli che hanno appreso un mestiere e i loro discendenti, mentre quelli che si sono tenuti lontani dai lavori manuali li ritengono nobili... Questo modo di pensare, l’hanno appreso tutti i Greci e specialmente i Lacedemoni».
Storie, II, 167, Milano 1988, I, p. 515 (n.d.r.)],
Nessun commento:
Posta un commento