A mio figlio
Abbi fiducia nella vita
e non nelle ideologie;
non ascoltare i missionari
di quest’illusione o quell’altra.
Ricorda che c’è una sola cosa
affermativa, l’invenzione;
il sistema invece è caratteristico
della mancanza d’immaginazione.
Ricorda che tutto accade
a caso e che niente dura,
il che non ti vieta di fare
un disegno sul vetro appannato,
né di cantare qualche nota
semplice quando sei contento;
può darsi che sia un bel disegno,
che la canzone sia bella:
ma questo non ha certo importanza,
basta che piacciano a te.
Un giorno morirai; non fa niente,
poiché saranno gli altri ad accorgersene.
Poesie (Adelphi, 1980)
Comunque sia, questo mondo è per te.
Mi sono domandato molte volte
a che serviva, e non serviva a niente,
ma adesso grazie a te ritorna utile.
Fa il conto della merce abbandonata
da Dio e prendila, l’hanno fatta per te
millenni di uomini che non ti conoscevano
ma che cercavano di prefigurare
in templi e tombe di roccia e biblioteche
uno stupore come quello che effondi
quando sorridi e fai fermare il tempo
e tutti ammutoliscono rapiti
e ti alzi e dici, «io me ne vado a letto».
Dormi, al risveglio sarà lì il tuo retaggio:
una città che fu famosa assai,
un fiume sporco cantato dai poeti,
il cinema dove hanno ucciso Giulio Cesare;
e intorno valli, montagne, mari, oceani,
e capitali, e continenti e selve,
e piramidi, e versi, e adoratori
della tua forma esterna o quella interna
e in alto il cielo e il sole e le stelle e la luna
e sulla terra le bestie ubbidienti
a te che infine vieni a giustificare
la loro straordinaria varietà.
È tutto tuo e non finisce mai.
Comunque sia, questo mondo è per te
Juan Rodolfo Wilcock, Poesie
- Da "Italienisches Liederbuch"
Pensa, uomo civile, che sei l’ultimo
uomo rimasto sulla terra e pensa:
tutti i diamanti sono tornati sassi,
sei il re dell’America e della Russia,
con le sterline puoi pulirti il culo
ma perché dovresti ormai pulirtelo,
per uno scrupolo verso i vermi?
E come il fallo cerca la vulva assente,
la tua lingua va in cerca di un orecchio,
metti la maschera d’oro di Agamennone
e ti guardi allo specchio, ma non ti parla,
cerchi la Sfinge, ma non ti fa domande,
leggi i giornali vecchi per ritrovare
la voce immonda della razza scomparsa,
avara, ipocrita, assassina e ladra,
ma almeno ti parlava, non come adesso,
ti mentiva, ti odiava, ti dileggiava,
ma ti parlava e a volte ti ascoltava,
rimpiangi il giudice, lo sbirro, il boia,
che erano te specchiato con la maschera,
ma quelle labbra d’oro ti parlavano,
non come le ricchezze della terra
che senza le parole sono polvere,
ceneri, cenci, sassi, carte e metalli.
Puoi fare quel che vuoi, chi è solo è morto”.
Ma quell’uomo civile che era l’ultimo
uomo rimasto sulla terra si mise
sulla faccia la maschera di Agamennone
e si sdraiò nel sepolcro a Micene
sperando che Qualcuno lo vedesse.
Juan Rodolfo Wilcock
da “La parola morte”
Ogni scrittore, da quando l’arte di scrivere esiste, ha scritto e scrive per una società (che può anche essere di sole dieci persone), la società cioè alla quale egli appartiene. Esiste una differenza fondamentale tra il fatto di scrivere per una società e quello di scrivere per la folla. La società ha una Weltanschauung, un sistema vivo di pensiero, e vuole, per sentirsi vivere, lo stimolo di nuovi pensieri. La folla invece è inerte, non pensa e non può assimilare pensieri, né nuovi né vecchi.
Juan Rodolfo Wilcock
Per le strade, la folla variopinta ed eterogenea fa pensare a certe scene dell'Inferno, come se una maledizione l'avesse condannata a vagare senza sosta, a mangiare panini sotto gli archi medievali, a sedere sul piedistallo dei monumenti. Passano come greggi intontite e disperate, a volte guidate da qualche energico prete.
Juan Rodolfo Wilcock, Da Turismo di massa, Tempo Presente, settembre/ottobre 1959, pp. 780-781.
Ciò che si fa "in gruppo" finisce col degradare; basta osservare nell'interno di una qualunque cattedrale o basilica importante quei gruppi di visitatori che, macchina fotografica a tracolla e guida in mano, ascoltano o fingono di ascoltare con espressione ebete le spiegazioni della guida (la quale sa di non interessare nessuno eppure si deve guadagnare il pane) davanti a qualche antichissima opera d'arte il cui senso purtroppo viene abbassato e persino cancellato da quel collettivo simulacro di attenzione.
Juan Rodolfo Wilcock, Da Turismo di massa, Tempo Presente, settembre/ottobre 1959, pp. 780-781.
[...] il senso della storia divenne presto la vera malattia dell'intellettuale moderno, dove moderno vuol dire privo del senso della realtà. Questa consuetudine di considerare gli eventi, consecutivi nel tempo, nel loro ordine cronologico, quasi che formassero una catena logica di cause e di effetti, porta facilmente l'intellettuale ad assumere senza accorgersene un atteggiamento tra i più ridicoli e futili, quale è quello di predire l'avvenire. [...] Ma questa supposta scienza, non ha leggi né necessità né certezza; essa consiste nella scelta piuttosto arbitraria di particolari vistosi, tra una folla infinita di altri particolari, contemporanei ai primi, più o meno arbitrariamente trascurati.
Juan Rodolfo Wilcock, Da Storia e realtà, Il Tempo, 26 gennaio 1976.
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