Van Gogh, Tre paia di scarpe, 1886.
La bellezza nell’imperfezione.
Ci sono oggetti che sembrano emanare un’aura attrattiva speciale.
Oggetti affatto belli, per nulla perfetti, magari vecchiotti.
Ma forse è proprio l’aspetto vissuto a renderli così interessanti, così seducenti ai nostri occhi.
Che siano un paio di scarpe vecchie o delle ceramiche sbreccate, ognuno di noi ha sicuramente in casa uno di questi oggetti al quale è particolarmente legato (io ne ho armadi pieni!).
Spesso il fascino misterioso di questi oggetti umili, anonimi sta proprio nel loro essere imperfetti.
Certo, tutti noi ammiriamo le cose belle e nuove ma poi ci affezioniamo a quelle nelle quali il tempo ha impresso una storia, oggetti che sanno evocare il passato e nella cui imperfezione rivediamo noi stessi con i nostri difetti, le nostre debolezze. In genere hanno qualità visive e tattili assolutamente uniche. Pensate ai legni spiaggiati, quelli che il mare ha levigato e decolorato sino a ridurli a scheletri inariditi…
“Objet trouvé“, così li chiamavano gli artisti del primo Novecento. Oggetti trovati per caso, scarti, rottami carichi di storia che fanno risuonare qualcosa dentro di noi.
Per Le Corbusier erano “oggetti a reazione poetica“: ossa, conchiglie, sassi e parti meccaniche ricchi di potenziale estetico ed immaginativo. Collezionava questi reperti, li fotografava e li disegnava più volte per svelarne la bellezza della forma, la precisione del lavoro della natura e magari riprenderne la struttura nei suoi progetti architettonici.
Ma l’estetica degli oggetti poveri, dei ruderi e dei frammenti è molto antica.
Già nel Rinascimento Botticelli e Mantegna mostrano una forte attrazione per tutto ciò che rappresenta un passato lontano, per le rovine classiche in tutta la loro splendida decadenza.
Ma è tra Neoclassicismo e Romanticismo che il rudere vede il suo momento di maggior gloria. Alcuni artisti come Giovanni Battista Piranesi ne hanno fatto addirittura il tema di tutta la loro produzione. È il momento in cui l’amore per la classicità (o nel caso di Freidrich per le rovine gotiche) si trasforma in una sorta di devozione feticistica del rudere pittoresco che suscita nostalgia e bisogno di preservarne la memoria.
Sarà John Ruskin, a metà Ottocento, a teorizzare il culto per le rovine romantiche ne “Le sette lampade dell’architettura”.
Con significati completamente diversi, le rovine contemporanee sono state oggetto degli scatti di Gabriele Basilico. Le foto di Beirut del 1991 non hanno nulla di romantico testimoniando, al contrario, le ferite di una città colpita al cuore ma ancora estremamente dignitosa.
Ma nella storia dell’arte non si trovano solo grandi vestigia architettoniche:
fin dai tempi di Caravaggio, infatti, l’attenzione è andata anche alle piccole cose che portano i segni del tempo.
Pensate alla celeberrima Canestra di frutta.
L’apparente perfezione realistica della composizione nasconde una natura in decomposizione, un senso di bellezza sfiorita e di transitorietà delle cose terrene: la mela è bacata, l’uva sta per marcire, le foglie di vite si stanno già accartocciando.
Sembrano i frutti colti da quel Giardino della Sofferenza di cui racconterà Giacomo Leopardi più di duecento anni dopo:
“Entrate in un giardino di piante, d’erbe, di fiori.
Sia pur quanto volete ridente. Sia nella più mite stagion dell’anno.
Voi non potete volger lo sguardo in nessuna parte che voi non vi troviate del patimento.
Tutta quella famiglia di vegetali è in stato di souffrance, qual individuo più, qual meno.
Là quella rosa è offesa dal sole, che gli ha dato la vita; si corruga, langue, appassisce…”.
C’è in Caravaggio e soprattutto in tanti pittori fiamminghi del Seicento, la rappresentazione della Vanitas, una natura morta con elementi simbolici allusivi al tema religioso della caducità della vita.
Questa denominazione deriva dalla locuzione latina biblica “vanitas vanitatum et omnia vanitas” (“vanità delle vanità, tutto è vanità”) e, come il “memento mori” (“ricordati che devi morire”), è un ammonimento all’effimera condizione dell’esistenza.
Si tratta di un genere pittorico che ha avuto grande diffusione in età barocca, soprattutto in Olanda, a causa del senso di precarietà che investì l’Europa in seguito alla guerra dei trent’anni e al dilagare delle epidemie di peste.
È con questa chiave di lettura che va osservata la famosa Lattaia di Jan Vermeer.
Una donna umile, in una stanza spartana, che compie un gesto semplice come versare il latte da una vecchia brocca. Il tutto con la cura che meritano i gesti nobili e il rispetto verso ciò che è prezioso.
Un gesto, quello della lattaia, talmente intenso e universale da aver meritato i versi della poetessa polacca Wislawa Szymborska:
"Finché quella donna del Rijksmuseum nel silenzio dipinto e in raccoglimento,
giorno dopo giorno versa il latte dalla brocca nella scodella,
il mondo non merita la fine del mondo".
La stessa bellezza nascosta nelle piccole cose vissute e rovinate dal tempo è presente in tante opere di Van Gogh. Stanze squallide, sedie impagliate e vecchi scarponi sono trasfigurati attraverso le pennellate dense e decise del pittore assumendo una nobiltà e una dignità che l’occhio comune non sa cogliere.
“Su questa terra vorrei restare eternamente fra le primule gialle e le assi del soffitto che marciscono“, scriveva Vincent in una nelle sue lettere.
Pochi anni dopo toccherà alla poesia crepuscolare decantare il fascino nostalgico e intimista delle “buone cose di pessimo gusto” per dirla alla Gozzano.
Caminetti tetri, lampadari vetusti, acquerelli un po’ scialbi.
In pratica simili agli ambienti che in questi ultimi due anni ha fotografato Rebecca Litchfield con il suo progetto “Orfani del tempo“…
… o le stanze spoglie e silenziose che usa dipingere Matteo Massagrande.
In effetti la letteratura ha sempre mostrato una forte predilezione per gli oggetti desueti e inutili che il tempo, dopo aver logorato, ha anche nobilitato.
Scrive Sciascia ne Le parrocchie di Regalpetra:
“Il paese è umido. Non una di queste case è nata dentro l’occhio di un architetto; murate a gesso, si intridono di nebbia come carta assorbente, fioriscono all’interno di muffe. Vecchie case con stanze che escono una dall’altra a cannocchiale, con scale storte e ripide. D’inverno ardono nelle stanze bracieri di quell’arida carbonella di gusci di mandorle, il calore risveglia un acre sentore di gatti, muffa e piscio di gatti. Nelle case terragne i poveri riempiono vecchie bacinelle a smalto o tegami di coccio di una brace più effimera, i groppi delle fave o le stoppie del grano che bruciano prima nei forni“.
Molti fotografi vanno a caccia proprio di posti simili, pronti a catturare quest’atmosfera di malinconico disfacimento. Come moderne vanitas laiche, le architetture abbandonate stanno a ricordarci la perdita del nostro passato in un mondo che consuma continuamente il nuovo abbandonando memorie e valori.
D’altro canto la patina che riveste tutto ciò che è invecchiato rende la materia anche più bella di quando è nuova… e questo è il motivo per cui le lamiere arrugginite, le vernici spellate e gli intonaci scrostati sono tanto interessanti!
La materia, dunque, specialmente quando racconta di una sua “sofferenza” appare estremamente espressiva.
E di questo se n’è accorto anche Alberto Burri quando, negli anni Cinquanta, iniziò ad incollare sulla tela pezzi di juta, pellicole di plastica bruciata o strani impasti capaci di fratturarsi come zolle arse di terra. La bellezza dell’imperfezione è portata da Burri all’ennesima potenza quando realizza il Grande Cretto, un’opera di land art che ingloba i ruderi di Gibellina, città rasa al suolo dal terremoto del Belice, in Sicilia, nel 1968. La desolata distesa di cemento è scavata, come nei quadri fratturati, dai solchi che ripercorrono il tracciato delle strade originali. Come una grande pietra tombale conserva i resti di un città cancellata dalle carte geografiche dalla violenza della natura.
Dunque c’è una bellezza in ogni cosa, c’è una storia in ogni oggetto.
Anche uno scolabottiglie, un vecchio sellino con un manubrio o un gruppo di stampelle per indumenti possiedono un potenziale estetico. Si tratta solo di guardarli con occhi diversi, con lo sguardo della creatività.
DI EMANUELA PULVIRENTI · 18 APRILE 2014
http://www.didatticarte.it/Blog/?p=2635
Emile Zola, uno degli scrittori che ha descritto la vita portata all'estremità più nera della miseria.
Di zoccoli, scarpe molto consumate e senza lacci, si è pure cibata la povera gente.
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