“Questo libro rappresenta il mio dovere verso colui che ha illuminato la mia vita per i ventisei anni che gli passai accanto; anche in questi tristissimi anni in cui mi avvicino alla vecchiaia, continua a guidarmi come una fulgida stella…”.
Aleksandra Tolstaja
Sono parole toccanti e che emozionano quelle con cui Aleksandra Tolstaja introduce il libro dedicato a suo padre Lev oggi edito da Castelvecchi con il titolo “La vita con mio padre” (480 pp, € 22). E la stessa emozione si percepisce leggendo le pagine di questo lungo ed intenso racconto che la dodicesima dei tredici figli dell’autore di Guerra e Pace scrisse ormai adulta svelando ai lettori un lato nuovo del grande Tolstoj.
Fedele agli ideali paterni, Aleksandra Tolstaja organizzava cliniche e dirigeva scuole tolstoiane, fino a quando nel 1929 non fu costretta a lasciare la Russia perché accusata di attività controrivoluzionarie. Dall’America, dove si occupava di aiutare i rifugiati politici, diventata ormai adulta decise così di scrivere e di raccontare del padre ricordando la Russia lontana: “scrivo di ciò che mi è più intimo, ricordando coloro che già da lungo tempo hanno cessato di vivere, ricordando la patria, che pare morta, anch’essa…”.
Nel volume, Aleksandra Tolstaja inizia dalla sua infanzia raccontando di come la sua nascita non fosse affatto voluta e fosse arrivata anzi in un momento di crisi tra lo scrittore e la moglie Sonja Andreevna : “la contessa non voleva metterti al mondo”, le confessò la niana da bambina, “A quei tempi, mi ricordo, la contessa non andava affatto d’accordo col conte.” Ma nonostante un’infanzia solitaria e logorata dal dubbio di non essere voluta e amata come gli altri fratelli, Aleksandra cresce con una grande ammirazione per quel padre così speciale che tutti i figli guardavano con rispetto e devozione: “tutto quello che riguardava mio padre aveva un’importanza speciale: lo studio dal soffitto arcuato, la scrivania, l’antica poltrona così lunga che ci si poteva sdraiare come in un lettino, l’odore particolare di cuoio e di vecchia carta che emanava da tutto quanto gli apparteneva”.
Non mancano naturalmente i racconti dei giorni trascorsi nella tenuta tolstojana di Jasnaja Poljana dove lo scrittore amava rimanere anche oltre l’autunno con le figlie più grandi: “mi pareva che il babbo e le sorelle, partendo per Jasnaja, fossero allegri come scolaretti fuggiti alla vigilanza degli adulti!” scrive Aleksandra Tolstaja. Ma nel libro l’autrice rievoca anche tanti altri episodi legati alla storia della sua famiglia, al rapporto con la madre e a quello tra lei e il marito, alla salute cagionevole del padre e alla sua decisa fedeltà nei suoi confronti. Diventata sua segretaria e copista, Aleksandra condivide con il padre ogni momento della sua attività, comprese le visite di grandi nomi della cultura russa come Cechov, Gor’kij e Balmont, ma soprattutto inizia a dare un senso alla sua vita.
Ed è proprio Aleksandra ad assistere il padre durante la malattia fino all’ultima fuga conclusasi con la morte dello scrittore nella stazione ferroviaria di Astapovo. Di particolare intensità sono le ultime parole che Lev Tostoj disse prima di spirare alla figlia Aleksandra e alla sorella: “Vi consiglio di ricordare una cosa: ci sono molti altri al mondo oltre Lev Tostoj, mentre voi guardate solamente me.”
Quelle parole aiutarono Aleksandra a sottrarsi “alla disperazione nella quale mi trovavo, e mi fecero ricordare che la vita è stata data all’uomo per qualche ragione e, indipendentemente dalle circostanze, noi siamo obbligati a continuare questa vita, cercando nella misura delle nostre debili forze di servire Colui che ha mandato sulla Terra e gli uomini”.
La vita con mio padre è un racconto intenso, ricco di ricordi, impressioni, sensazioni ma anche emozioni e riflessioni che restituiscono un affresco nuovo e autentico della figura di Lev Tolstoj scrittore, ma anche e soprattutto padre.
https://it.rbth.com/cultura/2014/03/10/mio_padre_lev_tolstoj_29961
La vita con mio padre Lev Tolstoj di Aleksandra L. Tolstaja
Aleksandra L’vovna Tolstaja (1884-1979) fu la dodicesima dei tredici figli del grande scrittore russo, ma crebbe privata dell’affetto materno ed ebbe un’infanzia difficile, poiché la moglie di Tolstoj non aveva minimamente desiderato la piccola nascesse e di Aleksandra, bambina e adolescente, si curò sempre molto poco. Così la ragazza si affezionò al padre, fino a dedicarsi completamente a questi, divenendone prima appassionata lettrice/ammiratrice, poi segretaria e quindi copista.
La sua fu una fedeltà assoluta e senza riserve, che la fece divenire la più intima testimone della contraddittoria grandezza del celeberrimo genitore, di cui fu compagna (in senso spirituale) assai più della nevrotica Sof’ja Andreevna, la quale anzi − a detta della nostra biografa − non fece che tormentare per anni l’anziano consorte con continue e reiterate lamentele o pretese in merito ai diritti d’autore delle sue opere, che Tolstoj intendeva donare al popolo.
Aleksandra finì inoltre per accompagnare/accudire il padre durante la sua ultima partenza precipitosa da casa: vera e propria evasione dal carcere coniugale, messa in atto per liberarsi una volta per tutte di quella moglie molesta.
Ma la drammatica fuga non condurrà molto lontano il vecchio scrittore malato; essa venne infatti bruscamente interrotta nella stazione ferroviaria russa di Astapovo, presso la quale Tolstoj − fatto scendere dal treno dove viaggiava causa l’aggravarsi del suo stato di salute − fu costretto a trascorre gli ultimi giorni della propria esistenza, ospitato nella casa del capostazione locale, dove l’autore di Guerra e pace morì il 20 novembre 1910.
Fedele agli ideali paterni e a lui rimasta indissolubilmente legata anche dopo la sua scomparsa, Aleksandra dirige a lungo varie scuole tolstoiane – ispirate al filantropo che fu, ben oltre che rinomato romanziere, un eccentrico ma schietto educatore popolare −, ma nel 1929 è costretta ad abbandonare la madrepatria in seguito alle gravi accuse mossele dal regime sovietico relative a tanto improbabili quanto fantasmatiche attività controrivoluzionarie e/o anticomuniste.
La donna, lasciata controvoglia la Russia, si rifugerà quindi negli Stati Uniti, dove non solo creerà la Tolstoj Foundation, impegnata nel sostegno ai rifugiati, ma si impegnerà in tutta una lunga serie di conferenze e convegni presso scuole di vario grado o università, onde promuovere i diritti umani, prodigandosi instancabilmente per la libertà di espressione.
Aleksandra L’vovna Tolstaja è nota altresì per aver pubblicato lo scritto, a metà fra il biografico e l’autobiografico, La vita con mio padre (recentemente tradotto in italiano da Castelvecchi), in cui il lettore può scorgere − sia pur tratteggiato in modo discontinuo e per cenni, spesso solo allusivi − l’intenso e variegato ritratto di un Tolstoj davvero inedito.
Emerge insomma da questo testo un personaggio complesso, a volte contraddittorio, senz’altro di non facile classificazione. Una figura aristocratica estremamente creativa, tipica del genio poliedrico, ma anticonformista sino alla rischiosa denuncia contro l’autocrazia zarista.
Un uomo passionale ed estroverso, tuttavia a tratti scontroso e schivo fino all’asocialità. Un utopista, certo, comunque sempre armato di sano realismo. Infine un genitore amorevole e sensibile, però al contempo possessivo, pretenzioso sin troppo nei confronti della prole; forse incapace di accettare sino in fondo che i propri figlioli fossero e soprattutto divenisse altro dal modello ideale da lui vagheggiato.
Recensione di Francesco Roat
http://www.wuz.it/recensione-libro/8281/vita-con-mio-padre-Aleksandra-Tolstaja.html
Aleksandra L. Tolstaja. La vita con mio padre.
[...] Questo libro rappresenta il mìo dovere verso colui che ha illuminato la mia vita per i ventisei anni che gli passai accanto; anche in questi tristissimi anni in cui mi avvicino alla vecchiaia, continua a guidarmi come una fulgida stella... [...]
1. La mia nascita.
[...] «Tutto è nelle mani dì Dìo. Il Signore non ha concesso di vivere né ad Aljosa, né a Vaneéka. Invece tu sei cresciuta forte e grande, benché tua madre non volesse metterti al mondo». «Come, non voleva? Raccontami».
«Come sei noiosa! Vuoi sapere proprio tutto!».
«Raccontamelo, ti prego».
La bambinaia finisce di bere il tè, rovescia la tazza vuota sul piattino e si asciuga la bocca col grembiule.
«Ecco, la contessa non voleva metterti al mondo.
A quei tempi, mi ricordo, la contessa non andava affatto d'accordo col conte.
Piangeva sempre, e il conte talvolta era così serio, con le ciglia tutte aggrottate, da mettere paura. Stava da solo nel suo studio, oppure usciva e rimaneva fuori a lungo. E la contessa piangeva sempre. Poi seppe di essere incinta. "Levocka", gridava, "non voglio più bambini. So che tu vuoi andartene, lasciarci!". Il conte cercava sempre di calmarla. Naturalmente, io ero presente, con i bimbi, e sentivo tutto. I signori pensano generalmente che noi non capiamo nulla, mentre noi invece capiamo tutto: chi è in collera con un altro, chi è innamorato... Poi la contessa Sofja Andreevna andò a Tuia, da una levatrice, per sbarazzarsi di te, ma questa le disse: "No, contessa, lo farei con piacere ad ogni altra persona, ma a lei non lo farò per nessun compenso. Se succedesse qualcosa sarebbe un guaio!". Così la contessa non potè fare niente a Tuia. Tentò ogni altro mezzo, ma non le servì a nulla. Metteva i piedi nell'acqua calda, si immergeva nell'acqua bollente. A volte, si arrampicava sul comò e saltava a terra, che spavento! Io le dicevo: "Che cosa fate, Sofja Andreevna, finirete per ammazzarvi!". "Nìania, non voglio partorire, il conte non mi ama più, vuole abbandonarci e partire!". E continuava a saltare per terra, ma non seni a nulla, e nascesti tu».
Mi sento il cuore stretto da un'acuta tristezza, vorrei piangere, ma la bambinaia non se ne accorge e continua il suo racconto.
«Quando le doglie iniziarono, il conte se ne andò.
La contessa piangeva. Al calare della notte lui tornò, e allora nascesti tu.
I signori si riconciliarono. Tu eri nata sana, grande, con i capelli neri, con gli occhi di un colore incerto, ma enormi. In casa tutti si rallegrarono che tu fossi una bambina; prima di te, da molto tempo non erano nati che maschi».
Di tanto in tanto il vapore del samovar borbotta.
La bambinaia si alza per chiudere il tubo col coperchio.
Mi rassereno un poco, felice che tutti si siano rallegrati della mia nascita; aspetto con impazienza il seguito del racconto.
«E poi, che cosa accadde?».
«Be', niente».
«Come niente? Dimmi, cosa ci fu poi?».
La bambinaia si siede di nuovo e comincia a strofinare i piatti.
«Poi? La contessa non ti volle allattare, ecco cosa accadde.
Litigava sempre col conte. Lui era strano a quell'epoca.
A volte andava a lavorare nei campi, coi contadini, altre volte cuciva delle scarpe; altre ancora voleva dar via tutto il suo patrimonio. Questo naturalmente non piaceva alla contessa. Il patrimonio era stato accumulato durante gli anni di vita comune; c'erano dei bambini piccoli... E per dispetto», perché sapeva che questo non gli sarebbe piaciuto, «la contessa prese per te una balia, una contadina sana e grassa».
Il tono della bambinaia è pieno di disapprovazione.
Mi sento invadere da un'infinita tristezza. Cerco di asciugare le lacrime senza farmi vedere.
«Oh bella! », esclama con stizza la bambinaia.
«Cosa c'è? A una tale piagnucolona non dovrei raccontare proprio nulla!».
2.1 primi ricordi.
Il mio primo dolore:
sedevo sul grande tavolo nella camera dei bambini e piangevo.
Mamma mi accarezzava e mi consolava: diceva che la balia non stava bene con noi, che sentiva un grande desiderio di rivedere il marito e il suo bambino, piccolo come me. «Sarà certamente quell'antipatico, brutto e pieno di chiazze, che ho visto nella cucina dei domestici», pensai.
Mi ricordo il senso di dispetto contro tutti - contro il piccolo e il marito della balia, contro la balia stessa per avermi lasciata. Piangevo, e le lacrime mi cadevano fitte per l'amarezza e per Tira. Mi avevano tolto la mia buona balia, che era così tranquilla, così familiare; vicino a lei mi sentivo così bene!
«Non piangere più, non piangere», mi diceva la mamma, «ti dico che presto, ben presto tornerà».
Ma la balia non tornò. Talvolta mi ricordavo di lei piangendo... Ma quando, due anni dopo, ci venne a trovare con gli abiti della festa, con quegli abiti nuovi e con quelle maniere così poco naturali, mi parve un'altra, mi sembrò sgradevole; non era più quella a cui avevo voluto tanto bene...
di tutto questo non conservo che vaghi ricordi.
Sul tavolo del salotto ci sono molte fotografie.
Le sto esaminando con curiosità. Riproducono cavalli, mucche, molte camere piene di abiti, ogni sorta di calzature, oggetti casalinghi, ecc. Un matto di possidente aveva mandato a mio padre queste fotografie, rappresentanti le sue ricchezze. Qualcuno mi aveva fatto credere che quel possidente, ora morto, era stato il marito di Tanja, e che io ero la loro figlia. Io ci avevo creduto e guardavo le fotografie, sentendomi triste di non essere la figlia dei miei genitori.
Le mie sorelle mi chiamavano per scherzo «Aleksandra L'vovna», e io le chiamavo con persuasione «Tat'jana L'vovna» e «Marija L'vovna». Allora non sapevo di poterle chiamare diversamente.
Giocavamo a tombola. Il babbo entrava e ci guardava sorridendo, con le mani dietro la schiena. Avevo tanta voglia di piacergli. Allora non sapevo ancora leggere, ma conoscevo a memoria i titoli delle immagini e fingevo di leggere: «L'abete è sempre verde», «il maggiolino è bruno», e lo guardavo furtivamente per vedere che impressione gli facessi. Lui si metteva a ridere.
Tutto ciò che riguardava mio padre aveva un'importanza speciale: lo studio dal soffitto arcuato, la scrivania, l'antica poltrona così lunga che ci si poteva sdraiare come in un lettino, l'odore particolare di cuoio e di vecchia carta che emanava da tutto quanto gli apparteneva. Non si poteva concepire di poter rubare dalla sua scrivania una matita, o di disegnare, su qualche pezzetto di carta trovato lì sopra, un porcellino dal muso gaio o triste.
E che gioia provavamo quando il babbo giocava con noi! Talvolta ci gridava dopo il pasto: «Avanti, bambini!». Pieni di entusiasmo gli correvamo dietro nello studio. Nell'angolo, accanto all'antico lavabo, c'era un cesto per la biancheria usata. Lui lo vuotava.
«Avanti, a chi tocca per primo?».
Vanecka entrava per primo nel cesto, perché era il più piccolo; chiuso il coperchio, il cesto veniva portato dal babbo, aiutato da qualcuno della famiglia o degli ospiti. Più spesso ci trascinava Aleksandr Nikoforovic Dunaev-, o semplicemente «Nikoforovic», come lo chiamavamo. Voleva molto bene a me e a Vanecka. Vanecka veniva portato per tutta la casa e io gli correvo dietro. Finalmente, il cesto veniva lasciato in qualche posto insolito: sotto la tavola, sul cassettone, in qualche angolo scuro.
«Ora, Vanecka, indovina dove sei?».
Ma Vanecka non poteva indovinare: era troppo piccolo; era solo felice di fare un viaggio nel cesto. Ora toccava a me. Con fatica m'infilavo nel cesto, stringendo le gambe. Mi mancava spazio, aria; avevo un po' di paura. Intanto il cesto cominciava a dondolare ritmicamente. Quando veniva inclinato, indovinavo che mi portavano sotto la scala. Cercavo intensamente di afferrare la direzione. Finalmente il cesto s'alzava, urtava qualcosa, io battevo la testa contro il coperchio e la voce di papà domandava: «Adesso, di', dove sei?».
«Nella camera delle domestiche, sul baule della niania», gridavo.
«No, sbagliato!».
Uscivo, mi reggevo sulle gambe e mi guardavo attorno.
Cos'era? In un primo momento mi pareva di essere in un posto sconosciuto:
era quasi buio, davanti alla finestra c'era un'inferriata.
«E lo studio di papà», gridavo a squarciagola, tirando le tende, Nikoforovic mi aiutava a uscire.
«Ecco, piccini, per oggi basta», e noi scappavamo via allegramente, senza insistere, come invece facevamo con la mamma o con la bambinaia.
Il miglior posto per i nostri giochi era la sala. Vi passavamo quasi tutto il tempo nei giorni piovosi. Con le sedie facevamo un treno, una carrozza a quattro cavalli, un battello, e tante altre cose...
La poltrona alla Voltaire si piegava, e si adattava a fare da montagna; il pavimento lucido serviva per il pattinaggio; sotto il grande tavolo, coperto dalla tovaglia bianca, costruivamo la nostra casa...
Quando papà entrava nella sala prima del pasto, gli piaceva giocare con noi. Ci sollevava sulle braccia, ci faceva fare le capriole, ci portava sulle spalle.
Un altro ricordo: siamo tutti riuniti per il pranzo, manca solo la mamma. La minestra si raffreddava, perché senza la padrona di casa nessuno si metteva a tavola. D'un tratto si sentiva la sua voce e il fruscio delle sottane di seta.
«Uno, due, tre, avanti! Tutti sotto il tavolo!», gridava papà. In un attimo sorelle, fratelli, ospiti, la governante inglese, tutti ci nascondevamo sotto il tavolo.
«Ma dove sono tutti? », domandava la mamma, girando lo sguardo miope per tutta la stanza.
«Non lo so, Eccellenza», rispondeva il cameriere e, voltandosi, si copriva la bocca con la mano inguantata di bianco, scoppiando a ridere.
Sotto la tavola faceva eco una risata unanime, e uscivamo tutti insieme.
«Hai sempre qualche nuova trovata, Levocka», diceva mamma, dondolandosi dal ridere.
Poi papà aveva inventato un altro gioco:
tirava il tappeto da sotto il tavolo rotondo del salotto e, dopo averci distesi sopra, lo prendeva da due parti e cominciava a trascinarci intorno al tavolo. Il tappeto scivolava e sdrucciolava come una slitta. Per noi era un divertimento immenso. Ma questo gioco dovette ben presto cessare. Quando mamma si accorse del disordine del salotto, e che il suo tappeto prediletto veniva sciupato, sgridò il babbo, fece rimettere il tappeto al suo posto e non ci permise più di toccarlo.
Un altro ricordo: nostro padre in testa e noi, mano per la mano, dietro. Camminavamo in punta di piedi, trattenendo il respiro. Lui ci portava per le camere più buie, per le scale, entrando in tutti gli angoli. «Zitti, zitti...», sussurrava. «Altrimenti ci sentirà...».
Eravamo mezzi morti dalla paura. Ci pareva che all'improvviso quell'essere misterioso sarebbe saltato fuori per afferrarci. Proseguivamo in pieno silenzio, quasi senza respirare. «Ssst!», sibilavamo, «silenzio...».
«Eccolo!», esclamava improvvisamente papà, a voce alta.
Con grida e strepiti ci lanciavamo fuori della camera, il babbo in testa.
Erano sempre tutti premurosi con mio padre, e questo m'ingelosiva.
Anch'io volevo fare qualcosa per lui. Eravamo seduti sotto i vecchi alberi ombrosi vicino al «croquet», come chiamavamo il posto dove si mangiava nei giorni più caldi, quando sulla terrazza la temperatura diventava insopportabile. Mio padre, parlando, tagliava meccanicamente pezzi sottili di formaggio e li mangiava. Quando mi sembrò che avesse finito mi alzai, presi il formaggio e lo portai adagio sull'altro tavolo: credevo che l'odore del formaggio potesse disturbare papà.
Le mie sorelle scoppiarono a ridere.
«Guarda Aleksandra L'vovna», disse una di loro, «ha paura che papà mangi troppo formaggio!» (a quell'epoca papà soffriva di una malattia al fegato, e non doveva mangiare niente di piccante). D'un tratto tutti si concentrarono su di me, mi sorridevano, mi lodavano. Fu una tortura! Come mi vergognavo che avessero capito male! Avrei voluto spiegarmi, ma non potevo pronunciare neppure una sillaba: scoppiai in lacrime e fuggii.
Era una giornata calda e limpida. L'aria era pura e trasparente.
I suoni - il cinguettare degli uccelli, i colpi delle scuri nella foresta, le voci della gente, il rumore e i fischi della locomotiva - tutto si udiva con chiarezza sorprendente. La foresta era una macchia verde, e solo qua e là si intravedevano le foglie rosse degli aceri. Vi andavo col babbo, camminando sull'erba bassa, morbida e scura, come si vede solo in autunno. A destra e a sinistra, c'era legna tagliata. Arrivammo a Gorelaja Poljana e poi, girando a destra, in cima a un'altura. Alcuni anni prima lì era stata abbattuta la foresta, e la vasta distesa si era coperta di noccioli.
Quell'anno la raccolta delle nocciole fu abbondante. I rami si chinavano sotto il loro peso. Non si poteva raccoglierle tutte. Talvolta perdevo di vista il babbo fra gli arbusti e mi spaventavo.
« Papà, dove sei? ».
«Hop, hop, hop (mio padre rispondeva sempre così quando si allontanava durante le passeggiate), sono qui, vieni; ce ne sono tante».
Non avevo voglia di lasciare il mio albero, volevo portarne a casa tutte le nocciole. Spogliai in fretta i rami più grossi, corsi da lui, e vi trovai la stessa quantità di nocciole - da non poterle raccogliere tutte. D'un tratto si sentì una voce incollerita che gridava: «Cosa fate qui? Aspettate che vi...».
I cespugli si aprirono, e comparve il custode.
«Ah, siete voi, Eccellenza», esclamo con tono diverso vedendo mio padre.
In seguito venimmo a sapere che la radura su cui crescevano le noci (distante alcune verste da Jasnaja Poljana), era stata presa in appalto da alcuni commercianti che vi avevano installato delle guardie.
Certo, ciò non impediva alle contadine e ai ragazzi di penetrare nel bosco per rubare delle nocciole, benché i custodi gli dessero la caccia e gli confiscassero i bottini.
Il babbo si mise d'accordo col custode e pagò per le nocciole, e così potemmo continuare la raccolta. Avevamo riempito un sacco intero e, dopo averle pulite, lo riempimmo di nuovo e lo legammo. Papà se lo caricò sulle spalle e ci mettemmo in marcia. Appena arrivati al limite del bosco, il babbo inciampò contro qualcosa.
«Toh!», disse, «un altro sacco pieno di nocciole, certamente qualcuno l'ha lasciato qui per paura. Il sacco è sporco e umido, si vede che è qui già da parecchi giorni».
Il babbo sollevò il sacco, che pesava molto. Lo unì al nostro e uno di qua, uno di là sulla spalla, li portò a casa. Era il crepuscolo e c'erano ancora sei verste da percorrere. Vedevo che papà doveva spesso spostare i sacchi da una spalla all'altra; era molto affaticato.
«Aspetta», disse a un tratto, «prendi il bastone e sostieni i sacchi contro il dorso». Il bastone aveva la punta di gomma e scivolava nel puntarlo; il babbo affrettava il passo, così che facevo fatica a seguirlo, correvo, sudavo, mi mancavano le forze. Eravamo ormai molto stanchi.
Quando arrivammo a casa verso le otto, era già buio e il pranzo era finito. Con un'aria trionfale spargemmo una vera montagna di nocciole sulla tavola. Tutti ne furono meravigliati e gelosi, ma la mamma si lamentò perché il babbo era tornato così tardi e mi aveva trascinata con lui, così piccola. Era ormai pronta a inviare degli uomini a cavallo per venire a cercarci.
Quando penso al vecchio Ge, mi viene sempre voglia di chiamarlo «il caro nonno», tanto ci era vicino. Tutti in casa nostra erano contenti quando veniva a trovarci. Era simpatico e mite. Era sempre gentile, e sapeva mettere tutti a proprio agio.
Il nonno aveva una calvizie rosea e tonda, circondata da morbidi capelli bianchi, e lui stesso era roseo e pulito. Gli piaceva scherzare, ed era sempre il primo a ridere, sussultando silenziosamente con tutto il corpo; anche gli altri finivano per ridere, non per i suoi scherzi, ma perché contagiati dalla sua allegria. Al nonno piacevano molto i dolci, e dopo colazione chiedeva a mamma come noi bambini: «Mammina, non c'è qualcosa di dolce?».
Il quadro del nonno, La crocefissione, stava nello studio in cui Tanja dipingeva.
Capitava spesso che mio padre si fermava a lungo davanti a quel quadro, mostrandolo agli altri ed esprimendo il suo entusiasmo. Io invece non riuscivo a capire che cosa gli piacesse in quel Cristo raffigurato come un semplice uomo, con un'espressione di dolore sul volto, mentre la faccia stravolta del brigante mi faceva addirittura rabbrividire. Mio fratello Misa sapeva imitarlo a meraviglia.
«Su, Misa», gli diceva Tanja, «mostraci il brigante!».
E Misa si alzava, si irrigidiva e spalancava gli occhi, apriva la bocca e diventava uguale al brigante.
Mi ricordo il nonno arruffato, tutto coperto di creta, che lavorava con passione intorno a un busto di papa. Era un periodo di grande entusiasmo per la pittura e la scultura a Jasnaja Poljana. Allora vennero pure Repin e Ginzburg a scolpire mio padre. Fu portata della creta grigia, gialla, azzurra; fu un immenso divertimento per noi bambini. Era così tenera, piacevole da toccare, ed era così divertente poterne fare dei piccoli funghi e scodelline...
Un giorno, il nonno si precipitò nella sala superiore con un'espressione insolitamente turbata e scura, cercando il babbo, e poi se ne andarono insieme. Seppimo in seguito che un carro di fascine, trasportato da una vecchia del villaggio, le si era rovesciato addosso, così che non si sapeva se fosse ancora viva. I contadini non avevano il coraggio di alzare il carro prima dell'arrivo della polizia. Mio padre e il nonno ordinarono di rimuovere il carro, ma la vecchia era già morta. Questo avvenimento mi fece una grande impressione, e per molto tempo evitai di passare per quei posti.
Conservo un vago ricordo della rappresentazione della commedia I frutti dell'istruzione a Jasnaja Poljana.
La scena è ambientata nella sala, a destra dell'entrata.
E' scuro. Le file delle sedie sono fìtte. C'è molta gente. Sto seduta in prima fila con la bambinaia.
Sono ancora piccola, e non capisco niente. Sulla scena si cammina, si parla; nella sala molti ridono, ride anche papà. Anch'io mi diverto, rido, ma non mi piace che la bambinaia voglia portarmi a dormire. Aleksis Mitrofanovic corre portando un vassoio con dei bicchieri e per poco non li rovescia. La scena è in penombra, ma a un tratto scorgo sotto il divano mia sorella Tanja. Vorrei chiamarla, ma la bambinaia dice che bisogna stare zitti, e Tanja mi sorride con aria furba mentre mi portano a letto.
I fratelli e le sorelle stanno raccolti nella sala di Jasnaja Poljana.
E successo qualcosa d'importante e solenne. Tutti sono agitati, si parla di qualche divisione.
Papà pare scontento, mamma si arrabbia perché Mala ha rifiutato tutto. Qualcuno di noi piccoli - Vanecka o io - pigliamo dei biglietti su cui c'è scritto che cosa si deve ricevere, è molto divertente.
L'epoca della carestia.
Papà, Tanja e Mala partono per il governatorato di Rjazan diretti alla proprietà di Begicevka, mentre il fratello Lev per il governatorato di Samara. Mamma rimane con noi, i piccoli, a Mosca. Arrivano ceste di pane nerissimo come il carbone, fatto con le verdure. Lo guardiamo, lo tocchiamo e stentiamo a credere che si possa mangiarlo. Nelle lettere, l'eco delle quali giunge fino a noi, si raccontano orrori. La gente muore, gonfiata dalla fame; manca il combustibile, cosicché le abitazioni si riscaldano con la paglia dei tetti. M'immagino che papà e le sorelle vivano in condizioni terribili, che si nutrano male, che siano dispersi fra le tempeste di neve, e tutto ciò mi fa tanta paura.
Anche la mamma, non potendo abbandonare i più piccoli a Mosca, è in continua inquietudine per papà e per i figli. Scrive ai giornali, dopodiché cominciano ad arrivare grandi pacchi con i sussidi.
Mi sono rimaste impresse le grandi buste con i cinque enormi sigilli.
Mamma ne è contenta. Seduta alla scrivania, annota qualcosa nel suo taccuino, buttando le buste nel cestino. Allora io ci gioco, ritagliando i sigilli e decifrando a fatica le iscrizioni con su scritto: «Contenente tre rubli», «contenente cento rubli», ecc. Fu la prima volta che percepii l'importanza del denaro; desiderai di vedere aumentare il numero di quelle buste...
Ricevevamo anche stoffa e viveri, e tutto veniva spedito da mamma là, dove - come mi sembrava - papà e le sorelle stavano compiendo atti di grande eroismo.
3. La servitù.
Non potevo immaginare la vita a Mosca senza camerieri e carrozze, senza sale da ricevimento con i parimenti lucidissimi; così non potevo immaginare Jasnaja Poljana senza domestici e operai, senza un enorme numero di gente che lavorava nei campi e nei giardini, senza il fattore e il giardiniere Hans, che veniva ogni giorno nella sala ad annaffiare i fiori ricino ai busti di papà, e che con rispetto dava dell'<<Eccellenza>> a mamma.
Avevamo molti domestici: dodici o tredici. Non mi ricordo di tutti. Le cameriere, i valletti, i cocchieri e le sarte erano sempre diversi perché venivano licenziati per ubriachezza, per pigrizia o per cattiva condotta.
E - cosa strana - benché mia madre fosse severa ed esigente e ispirasse paura, gran parte della servitù le voleva bene, specialmente il cuoco Semén Nikolaeric Rumjancev. Era rimasto da noi per molti anni dopo la morte di suo padre, che gli aveva raccomandato di prestare coscienziosamente servizio al conte e alla contessa. E' vero, Semén Nikolaeric o Senicka, come veniva chiamato talvolta, era il figlioccio di mamma, che gli voleva tanto bene, e anche lui gliene voleva molto.
Mi accorgevo spesso che gli ordini confusi erano molto sgraditi alla servitù, che preferiva di gran lunga vedere i padroni arrabbiati, perché allora capiva di aver fatto qualche sbaglio. «La contessa all'inizio grida», dicevano, «ma dopo alcuni minuti si calma». Capivano la mentalità di mamma. Era una vera padrona, e meritava ogni stima. Era chiaro cosa fare per accontentarla, e i domestici stavano meglio in sua presenza che in quella di mio padre. Anche la mamma non provava nessun disagio di fronte alla servitù, considerandosi loro benefattrice per il fatto che dava loro lavoro.
Mio padre, invece, si considerava sempre colpevole davanti alle persone di servizio.
Gli faceva pena ogni servizio che gli veniva prestato; era in soggezione con il cocchiere, che gli portava il cavallo da sella, con il cuoco, quando lo chiamava «Eccellenza», con il valletto Il'ja Vasil'evic, che faceva le pulizie nella sua camera. Il babbo cercava di non servirsi del loro lavoro, portava via personalmente il secchio con l'acqua sporca del suo lavabo, si faceva il letto, si puliva le scarpe. L'estate, non andava nemmeno «in America» (era così che chiamavamo il gabinetto); scendeva nel parco o andava a Capyz.
I domestici perdevano il tono naturale di fronte a lui. «Come fare? Se le scarpe non saranno pulite, non sta bene. Se saranno pulite, il conte potrebbe arrabbiarsi. La cosa peggiore è che non si può mai sapere se il conte è contento oppure no; non dice mai nulla».
I servi non lo capivano, e a volte brontolavano: «Dalla contessa vengono ospiti nobili, per bene, mentre il conte riceve questi "oscuri'-, questi contadini, che sporcano i pavimenti, che portano un odore di catrame; è un guaio».
Quando i domestici pulivano le scarpe dei miei fratellini, mio padre si avvicinava e diceva: «Cosa fate, Sergej Petrovic?», domandava papà ad Arbouzov, che gli prestava servizio da molti anni. «Sono i ragazzi che dovrebbero pulire le scarpe a voi, e non viceversa».
Un valletto prendeva i laptfi del babbo non appena tornava dai campi arati, e si metteva a scuoterli. Papà diceva, confuso: «Lasciate, lasciate, lo farò io stesso».
Quella che visse più a lungo in casa nostra fu la vecchia bambinaia.
Aveva perso i contatti con il villaggio natio, che non visitava che raramente, e tutta la sua vita era concentrata intorno a noi. Era lei che ci aveva allevati, cominciando da Andrej, e lei aveva assistito Aljosa e Vanecka fino alla morte.
La piccola e atticciata niania dalle spalle larghe aveva un carattere risoluto e ardito, sempre pronta alla risposta; non temeva nessuno, nemmeno la mamma, davanti alla quale tutti tremavano. Per il babbo, suo coetaneo, nutriva un misto di indulgenza e rispetto, privo però di approvazione.
«Ditemi, niania, cosa pensate della morte?», le domandava papà.
«A che serve pensarci, Vostra Eccellenza? Verrà a suo tempo, senza chiederci il permesso». Niania non era una sognatrice, non meditava mai e non le piacevano le domande di questo genere. Per lei la vita era semplice e chiara. Non le interessavano i sentimenti. Era sana e robusta; quando faceva la lotta con Misa, già grande e forte, per lei era uno scherzo buttarlo a terra.
Non era facile confonderla. A qualunque domanda trovava subito risposta. Ricordo che m'interessava terribilmente la questione di come nascessero i bambini.
«E vero, niania, che il ventre si schiude e ne esce il bambino?».
«È vero», rispose niania. «E sai? Stai tutto il giorno con Sasa-; se lo baci, avrai certamente un bambino».
Ebbi una grande paura, e ne parlai a Sasa l'indomani.
Questi scoppiò a ridere, ma non ebbe il coraggio di svelarmi il mistero della nascita.
A volte, cantavo con sentimento qualche romanza zigana, udita dalle sorelle o dai fratelli.
«Niania, canto bene?».
«Benissimo, ma è ancora meglio quando taci...». La bambinaia non mi amava troppo.
«Cosa può dare una bambina?», diceva. «Non possono portare nessuna gioia».
Dopo la morte di Vanecka, Niania trasferì la sua tenerezza su Misa.
Lo chiamava «Michail L'vovic», ma gli dava del tu e lo guardava con orgoglio affettuoso. La niania era piuttosto avara, ma non rifiutava mai niente a Misa quando lui le chiedeva dei soldi. Mi ricordo che un giorno venne a trovarla sua madre, che abitava a sette verste di distanza, a Sudakovo; una vecchia con un bastoncino e un fazzoletto pieno di noci, raccolte da lei stessa per la figlia. La bambinaia preparò il samovar. Poi, le due vecchiette presero il tè con la marmellata e il pane bianco. Non potevo distogliere l'attenzione da quella centenaria con il piccolo viso tutto grinze, con barba e baffi; me la immaginavo mentre errava per le foreste, con il bastone in mano. Mi sembrava meravigliosa, uscita da una favola.
Più tardi seppi della sua morte. Anche la sua fine era stata fuori dal comune: si era affaccendata a mettere tutto in ordine, poi aveva chiamato il figlio, gli aveva detto come e con quale abito la dovesse seppellire. Poi si era coricata, e un'ora dopo la sua anima passava a Dio.
La bambinaia andò al suo villaggio per assistere ai funerali, fece celebrare due messe funebri al nono e al quarantesimo giorno, dopodiché non nominò più sua madre. Le morti di Vanecka e di Aljosa fecero su di lei un'impressione molto più profonda. La niania stessa si spense in casa nostra, un anno dopo la morte di suo padre.
Evdokija Vasil'evna, o Dunecka, come veniva chiamata da noi, aveva un carattere molto diverso.
Era sentimentale e timida, le piacevano i racconti commoventi, che la facevano piangere.
Di lei ricordo che piagnucolava sempre. Le facevano male i piedi, poteva appena trascinare il suo corpo grasso, si faceva sempre frizioni di formaldeide e talvolta andava nella foresta per mettere i piedi dentro i formicai. Tornava a casa con i piedi gonfiati dalle punture, ma sollevata. Dunecka stava sempre sdraiata sul letto, sepolta fra le piume, e brontolava quando veniva chiamata per consegnare un po' di marmellata o dei biscotti per il tè.
«Eccola nuovamente a cantare la solita canzone», notava niania con disprezzo. Lei stessa non si coricava mai di giorno, e di notte dormiva sopra un materasso durissimo, «ora non smetterà di brontolare per mezz'ora».
••Dunecka», gridavano dal piano superiore. «Dunecka, presto, la marmellata!».
••Dio mio. dove posso prenderne? Non ce n'è più».
E una volta lei rispose a mia sorella Tanja: « Se vi servo la marmellata, Tat'jana Lvovna, verrà tutta mangiata! ». Era molto avara. Raccoglieva tutti i resti dalla colazione e dal pranzo, metteva tutto accuratamente insieme nella dispensa, e non li dava a nessuno.
«Dunecka», le dicevano, «dateci qualcosa di dolce, della torta!».
«Della torta?», domandava lei meravigliata. «E dove la prendo? Che vi inventate? La torta!».
E qualche giorno dopo si poteva vedere Dunecka mentre buttava gli avanzi della torta ammuffita a Boksik, il suo cane prediletto. «Dunecka, Dunecka, dateci delle mandorle, dell'uva passa!».
«Non ce n'è, non ce n'è, vi dico. Se vi do tutte le mandorle, con che cosa faremo il latte per il signor conte? Che cosa dirà la contessa? Che modi sono questi, di mendicare tutto il giorno come zingari! ». ••Ebbene, Dunecka, dateci dell'uva passa!».
E quando Dunecka, finalmente, diventava generosa, e dopo aver stracciato un pezzetto di vecchia carta grigia vi spargeva sopra alcune mandorle e qualche palletta di uva passa incollate insieme, mi sembrava che niente al mondo potesse essere più saporito.
I miei fratelli avevano come precettore lo studente di medicina Z., un bel giovane alto, dal colorito vivo, un suonatore di violino che aveva curato parecchie volte Evdokija Vasil'evna per i reumatismi. E, come succede spesso alle vecchie zitelle, lei si era invaghita di lui. E così venne dimenticato il vecchio cane, al quale Dunecka prima voleva tanto bene.
Con un sorriso confuso, portava all'insegnante diverse ghiottonerie, e non si doveva più insistere per farle servire un po' di marmellata. Quando il dottore era a tavola, venivano portati biscotti e torte. Noi bambini notammo immediatamente i sentimenti della vecchietta per il bel precettore e la canzonavamo: «Dunecka, se portate della marmellata, sarà, certo, per il dottore... Dovreste darne un po' anche a noi!...». Dunecka non sapeva essere aggressiva come niania. Si sedeva sulla sedia (non poteva stare in piedi per i suoi dolori ai piedi), si copriva il viso e piangeva.
A volte anche il babbo prendeva in giro Dunecka, ma lo faceva bonariamente e con gentilezza. Dunecka gli piaceva per la sua infinita timidezza.
«Ah! Evdokija Vasil'evna». le diceva. «Noi invecchiamo sempre di più. Voi di certo ne siete afflitta, mentre io me ne rallegro. E una cosa buona e saggia, la vecchiaia».
«Non c'è niente di buono, Eccellenza», rispondeva Dunecka. «Cosa c'è di bello nella vecchiaia? I piedi dolgono, non si può più camminare. Non riesco a capire cosa possiate trovarci di bello. Quando stavo dal generale Moller...».
A questo punto noi tutti scoppiavamo a ridere. Il racconto dei due generali serviva a Dunecka come argomento contro i vantaggi della vecchiaia, e ci faceva sempre un grandissimo piacere sentirlo ripetere, benché lo conoscessimo a memoria. Dunecka lo raccontava, usando sempre le stesse espressioni, come una lezione imparata a memoria.
«Perché ridete?», ci domandava offesa. «Posso anche tacere».
Ma papà la consolava: «Non dovete dar loro alcuna attenzione. Raccontate, ve ne prego! ».
«Ebbene», ricominciava lei, con voce tenera e melodiosa, «quando servivo il generale Moller, lo veniva a trovare il generale Nabel. Un giorno, parlavano nell'anticamera: "Sì, quello che è vecchio, non può essere buono", disse il generale Nabel al generale Moller, mostrandogli una vecchia pelliccia rovinata dalle tarme. "Quello che è vecchio, non può essere buono';. E questo è proprio giusto, Eccellenza», aggiungeva Dunecka, sospirando profondamente.
I mendicanti, i pellegrini, i contadini che avevano perso i loro beni in un incendio, ispiravano compassione a Dunecka, che conversava con loro a lungo delle loro disgrazie, singhiozzava e piangeva con loro. Talvolta portava loro qualche indumento vecchio, dava loro del pane o dello zucchero. Tanto era avara con ciò che era di proprietà dei padroni, tanto non si tratteneva dal regalare le proprie cose, e distribuiva tutto ciò che possedeva fra i poveri e i parenti, non tenendo nulla per sé.
Gli ultimi anni di niania, Dunecka e la sarta abitavano in una grande camera chiamata «la camera delle domestiche», le cui finestre guardavano sul cortile.
Ogni sabato le due vecchiette mettevano in ordine le lampade davanti alle icone sacre, ciascuna la propria; accanto ai letti con le coperte rosa e azzurro, stavano le loro cassapanche antiche; al capezzale della niania erano appesi i ritratti di Aljosa e Vanecka, dentro a cornici di legno ornate di fiori di carta.
Mi sembrava che mio padre si sentisse più a suo agio con queste vecchiette le quali, avendo la vita legata alla nostra famiglia, non avevano altri interessi all'infuori dei nostri, che non con i giovani camerieri e cocchieri, strappati alla terra per andare a imparare un mestiere. Il babbo si sentiva a disagio quando dietro di lui c'erano dei lacchè in divisa e mentre questi portavano un'interminabile serie di piatti dalla cucina.
Il'ja Vasil'evic Sidorkov- era attaccato alla nostra famiglia più degli altri.
Mi ricordo di lui, con la tuba e in livrea, quando ci accompagnava a teatro in carrozza.
Lo ricordo anche quando, in frac e guanti bianchi, scivolava silenziosamente sul parquet.
Quando Il'ja Vasil'evic arrivò al nostro servizio, nessuno di noi sapeva che amasse bere.
Una sera mia sorella Mala rientrò tardi e, passando per il corridoio, lo vide. Barcollava e borbottava qualcosa, e nel mentre accendeva un fiammifero dopo l'altro e li buttava per terra.
«Cosa fate, Il'ja Vasil'evic, così potreste bruciare tutta la casa!»
(la casa era di legno, tappezzata di carta). Ma lui continuava a buttar giù dei fiammiferi accesi.
«Il'ja Vasil'evic, che fate? Siete ubriaco fradicio, parola mia! ».
«Strano», brontolava lui tetro, «questi ragionamenti, queste osservazioni, come se fossi sbronzo...».
Masa non riuscì a persuaderlo, e dovette svegliare un altro servo, che mise a letto Il'ja Vasil'evic. Mamma non seppe mai di questo incidente, e lui, nonostante i suoi accessi di ubriachezza, rimase a lungo in casa nostra. Negli ultimi tempi, prestava servizio presso mio padre. Silenzioso come quando serviva a tavola, metteva ordine nello studio di papà, premuroso di non alterare l'ordine dei libri e dei manoscritti, di non perdere il minimo pezzetto di carta. Conosceva tutte le abitudini di mio padre. Non appena papà usciva per la sua passeggiata mattutina, Il'ja Vasil'evic andava a far ordine nella sua camera, cercando di terminare prima del suo ritorno. E quando fra gli alberi appariva la figura di mio padre, Il'ja Vasil'evic gli portava il caffè e la posta. Alle due, quando mio padre terminava il lavoro, ancora prima che avesse il tempo di uscire dalla camera, Il'ja Vasil'evic scendeva la scala con passo rapido e leggero e, avvicinandosi allo sportello della camera dove si mettevano in ordine i piatti prima di essere serviti, gridava al cuoco: «Semén Nikolaeric, prepara la minestra di avena per il signor conte».
Quando faceva freddo, Il'ja Vasil'evic preparava cautamente gli indumenti di lana per papà e, se lui li rifiutava, diceva timidamente: «Ma Lev Nikolaeric, c'è molto vento oggi! ».
Il'ja Vasil'evic aveva un intuito finissimo nel discernere i tipi di visitatori, e cercava di liberare mio padre dai più molesti e noiosi, avvertendo la mamma, me o il segretario.
Malgrado la modestia e la delicatezza di Il'ja Vasil'evic, i suoi servizi pesavano a mio padre, che di tanto in tanto ripeteva: «E' duro, com'è duro! Sembra una persona buona, e mi vuole probabilmente bene; ma è duro lo stesso!».
Il'ja Vasil'evic spariva periodicamente. Mio padre scuoteva la testa in silenzio, la mamma si irritava e minacciava di licenziarlo, sua moglie piangeva. Dopo alcuni giorni ricompariva, la sua faccia magra più pallida del solito. Si sentiva a disagio, specialmente in presenza di mio padre, e cercava di sfuggirgli. Con l'andare degli anni, gli accessi di ubriachezza di Il'ja Vasil'evic diventarono sempre più rari e, finalmente, cessarono del tutto.
Visse a Jasnaja Poljana per trentatré anni. Ogni giorno e ancora oggi, benché settantacinquenne, sale silenziosamente al piano superiore, carica il grande orologio dal suono pesante sulla scala, prosegue in salotto, sfoglia il calendario Pensieri di saggi per ogni giorno che mio padre leggeva quotidianamente, poi passa nelle sue camere con uno straccio e la scopetta in mano. Non affida a nessuno la cura delle camere di papà. SÌ affaccenda lui stesso scopando, mettendo in ordine ogni suo oggetto. E in primavera, al primo sole, Il'ja Vasil'evic porta fuori tutti gli indumenti di mio padre per arieggiarli: la pellicceria, le maglie, il soprabito, le calze e gli scialli di lana; li sbatte, li spazzola e, dopo averli cosparsi di tabacco e di canfora, li ripone nei bauli.
Di solito i possidenti attribuivano un'importanza speciale ai cocchieri.
E infatti, nell'immaginarsi le vie delle campagne russe, dove le ruote affogano nel fango liquido, dove a volte si è costretti nelle tempeste di neve per giorni e giorni, dove la distanza tra le stazioni e le città si conta per decine di verste, si può intuire che i cocchieri e i cavalli avessero un ruolo determinante nella vita di campagna. Avere dei cocchieri esperti, capaci di costeggiare con scaltrezza le strade infide, di ammaestrare i puledri e indovinare la giusta direzione con l'istinto quando non si sarebbe riusciti a vedere a un palmo dal proprio naso, era fondamentale. Chi ne aveva, se ne vantava e ne era fiero; di nascosto, cercavano di sottrarseli l'uno con l'altro.
A Jasnaja Poljana non si prestava molta attenzione alla scuderia.
Mamma non amava i cavalli e non se ne intendeva. Mio padre, che una volta aveva una grande passione per l'amministrazione del suo podere, e che nel passato aveva allevato una razza speciale di cavalli incrociando i chirghisi con i trottatori, aveva poi smesso di occuparsene. E soltanto noi figli, grandi e piccoli, adoravamo i cavalli e soffrivamo perché nella nostra scuderia tutto era misero e mal curato. Non c'erano che vecchie carrozze malconce e cocchieri inetti. Una. volta il vecchio Filip Rodionovic perse, andando alla stazione, il controllo sui cavalli vicino al grande burrone, e il bellissimo baio Sultan, tra i preferiti del babbo, si spezzò tre gambe, dopodiché non restò che abbatterlo. Mi pare che fu proprio dopo quel caso che Filip Rodionovic finì la sua carriera. E che misera figura faceva sulla cassetta, sporco com'era, con la barba arruffata, vestito di un logoro caftano azzurro dal quale uscivano, qua e là, fiocchi di ovatta!
A Mosca avevamo per cocchiere lo zoppo, storto Emeljanic. Quando il domestico lo vestiva, facendogli indossare un caftano larghissimo con innumerevoli arricciature e un cuscino dietro per renderlo più imponente, e gli stringeva la vita con una cintura di seta azzurra, Emeljanic non solo non poteva sedersi, ma non poteva nemmeno muoversi, eppure ordinava con tono superbo:
«Ebbene, alzami!».
Non posso immaginare che in qualunque altro posto potessero assumere un tipo simile a Fil'ka Borisov. Nel villaggio era canzonato da tutti. La sua cascina era la più misera, e non sapeva lavorare i campi per la sua enorme stupidità; nessuno lo voleva prendere a servizio, e non era nemmeno capace di fare il pastore.
Ed ecco quel Fil'ka capitare nel nostro podere, nella casa padronale, come dicevano i contadini, e rimanervi per molti anni. Magrolino, lentigginoso, Fil'ka sorrideva sempre con un sorriso stupido, digrignando i denti difettosi: «Fil'ka, devi andare...». E Fil'ka si metteva subito a correre.
«Ma aspetta, scemo, dove vai?».
Se Fil'ka attaccava un cavallo, si poteva essere sicuri che si sarebbe staccato durante il percorso; se era lui che aveva messo in ordine la carrozza, le ruote cominciavano a stridere, oppure si staccavano; se Fil'ka montava a cavallo, gli faceva male al dorso; quando guidava la carrozza, faceva spesso cadere quelli che vi erano dentro.
Tale miseria della scuderia era inconciliabile con il relativo lusso della nostra vita.
Guidando, Fil'ka teneva le redini in pugno e dava continui strappi al cavallo. Un grande berretto vecchio, che da tempo aveva perso il colore originale, copriva con la visiera buona parte della sua faccia minuscola; i suoi pantaloni erano molto usati e sporchi; il cavallo non era curato ed era male attaccato, ma tutto ciò non confondeva Fil'ka.
Egli andava ogni giorno alla stazione a prendere la posta.
I corrispondenti lo chiamavano il «postino di Tolstoj», e il suo ritratto compariva nei giornali, rappresentato a dorso di cavallo, con una borsa dietro le spalle. Spesso Fil'ka doveva condurre in carrozza Marija Aleksandrovna Smidt, che stava a due verste dalla stazione, nel podere di mia sorella a Ovsjanniki. Fil'ka andava a prenderla e la portava a casa nostra. Marija Aleksandrovna aveva paura di andare con lui e lo implorava di essere prudente. D'inverno si metteva alcune sciarpe sopra la pelliccia per ripararsi dal freddo, e così acconciata non poteva muoversi. Allora Fil'ka la portava sulla slitta.
«Fil'ka, adagio; caro Fil'ka, sii prudente», lo pregava.
«Non inquietarti, Marija Aleksandrovna!».
« Ma mi butterai fuori, scellerato ! ».
«No, non fa niente».
Fil'ka non distingueva la strada; con una mano si teneva alla slitta, e con l'altra incitava il cavallo. Succedeva che alla curva la slitta si ribaltava e Marija Aleksandrovna. gridando, veniva catapultata fuori, seguita da Fil'ka.
«Firica, Fil'ka, scellerato, cos'hai fatto?», lo sgridava Marija Aleksandrovna, cercando di alzarsi nella neve. «Non riesco ad alzarmi».
«Non sei una gran signora! Alzati!», le rispondeva Fil'ka bonariamente.
Se toccava a Fil'ka di preparare il cavallo per mio padre, avevo sempre paura.
Lo consideravamo un ragazzetto che gli anni non avevano cambiato. Perciò fu grande la nostra sorpresa quando venimmo a sapere che Fil'ka si sposava. Per quel giorno solenne, mamma aveva prestato i cavalli, e la nostra migliore carrozza fu attaccata per lo sposo. Andai anch'io alla chiesa con la mia nipotina e la sua governante.
Com'era trasformato Fil'ka! Era un uomo alto e robusto, indossava un abito ben fatto di panno azzurro; i suoi capelli erano ben pettinati, gli stivali nuovi brillavano. La sua faccia magra e concentrata era coperta di sudore. Accanto a lui stava la sposa, alta e robusta anche lei, con un velo sulla testa. In seguito scoprimmo che i sensali avevano ingannato entrambi gli sposi; avevano messo sotto il soprabito di Fil'ka alcuni indumenti foderati di ovatta, inchiodato tacchi altissimi sotto i suoi stivali e lo avevano fatto passare per un uomo intelligente. E la donna avvenente, la sua sposa, si rivelò anch'essa una sciocca.
Mamma aveva paura di andare in carrozza, e si agitava molto quando doveva fare tre verste e mezzo fino alla stazione, di notte (non so il motivo, ma preferiva prendere i treni notturni per andare a Mosca). Se era buio, Fil'ka doveva andare a cavallo davanti alla carrozza con una fiaccola per illuminare la strada.
Avevamo due cocchieri. Uno era a completa disposizione della contessa, e la mamma era tranquilla solo quando andava con lui. Negli ultimi tempi, questo compito era svolto da Adrian Pavlovic Elisee. Guidava male, e aveva paura dei cavalli; gli era successo varie volte di ribaltare papà e mamma, e non si riusciva a capire perché la mamma non avesse paura di andare proprio con lui.
Per tutta la sua vita, Adrian Pavlovic aveva nutrito il sogno di diventare fattore, ma non era mai riuscito a sollevarsi dalla posizione di cocchiere o di «starosta». Piccolo e vivace, com'era, assomigliava molto a uno zingaro. Quando andava con mia madre, si girava verso di lei dalla cassetta e cominciava a raccontarle dei disordini nell'amministrazione del podere.
L'amministrazione, difatti, non andava molto bene, perché non interessava nessuno. I fattori cambiavano continuamente. O si assumeva qualcuno con una certa istruzione, come il poeta popolano Ljapunov, i cui versi erano piaciuti a papà, oppure qualche contadino energico. Vi furono dei fattori onesti, ma non adatti, e vi furono buoni amministratori disonesti. Le terre erano coltivate secondo l'antico sistema dei tre campi.
Vi erano molte vacche ma poco latte, i cavalli erano cattivi e gli strumenti agricoli mal tenuti, il frutteto era sfruttato da un appaltatore, e le foreste non erano amministrate; in inverno si arrivava a comprare la verdura, benché avessimo un giardiniere estone, una serra e folle intere di contadini, assunti per aiutare a coltivare giardini e orti. Gli operai abitavano case sporche, mal conservate, si nutrivano male, e nessuno badava a loro. Era tutto trascurato, privo di ordine logico.
4. La nostra famiglia
Passavamo sempre l'estate a Jasnaja Poljana.
Ai primi di settembre ci trasferivamo a Mosca, dove i piccoli dovevano andare a scuola. I fratelli maggiori frequentavano il liceo o il ginnasio; io avevo un'istitutrice inglese e studiavo in casa.
Mio padre e le mie sorelle maggiori rimanevano a Jasnaja Poljana fino a tardo autunno, e talvolta fino a primavera, benché a mia madre dispiacesse molto restare separata da loro. Mamma sosteneva che senza le sue premure, senza un cuoco, senza cibi adatti, il babbo si sarebbe certamente ammalato; che le sorelle non sarebbero state capaci di curarlo, come faceva lei stessa; che senza domestici sarebbero vissuti nella sporcizia; e che, infine, avrebbero fatto molte stupidaggini.
Fin da quando ho memoria, mio padre ha sofferto di dolori di stomaco. Lo tormentava specialmente il bruciore: I medici gli prescrivevano i rimedi più svariati: soda, carbone polverizzato, magnesia, diverse acque minerali, ma nulla riusciva a dargli sollievo. Talvolta aveva dolori al fegato, ma non ricordo attacchi gravi. Mamma raccontava che prima ne soffriva atrocemente. Succedeva che fosse svegliata di notte dalle sue grida. Una volta, accorrendo nella sala, vide mio padre contorcersi sul pavimento in preda a dolori terribili.
Mamma si preoccupava sempre di preparare pasti leggeri, e l'argomento cibo era stato elevato fino a diventare un vero e proprio culto. Ogni sera, la mamma stabiliva col cuoco Semen Nikolaevic, dopo lunghe discussioni, la lista dei piatti per il giorno seguente. Il pranzo consisteva in quattro pietanze:
si serviva del brodo di carne per tutti, minestra vegetariana per papà e per le mie sorelle. Se la terza portata era di verdura, la seconda doveva essere più sostanziosa, ad esempio, frittelle di riso o maccheroni con formaggio. Il dolce, pure, dipendeva dallo stato di salute di papà e dei bambini.
Se il babbo si sentiva debole, mamma e il cuoco congiuravano per versargli di nascosto del brodo di carne nella sua minestra vegetariana. Quando mamma era occupata, Semén Nikolaeric le metteva sulla scrivania la lista delle pietanze, scritta in un quaderno cucito da lui stesso. In quel quaderno, oltre alle note giornaliere riguardanti i pranzi e le colazioni, s'incontravano diversi suggerimenti: «Vanecka ha male allo stomaco, preparagli polpette di pollo e brodo», «fa della semolina leggera con minestra di funghi per la colazione di Lev Nikolaeric, che si lagna di dolori allo stomaco», o ancora: «Oggi ci saranno ospiti a pranzo. Compra dei polli, delle pernici, e cerca del buon cavolfiore oppure dei cavoli di Bruxelles».
Il cuoco Semén Nikolaeric capiva i desideri di mia madre fin dalla prima parola. Nell'arte di cucinare raggiungeva la perfezione. Ogni sera, prima di coricarsi, mamma meditava amorosamente sui pasti di ognuno. Queste premure le davano gioia e la rendevano fiera.
Il babbo, intanto, cercava di ridurre al minimo i suoi bisogni. Non voleva avere né cuochi, né camerieri. Quando andava a Jasnaja Poljana con le figlie, era felice della sua libertà; in quei momenti si accontentava dei servizi di una contadina qualunque, che non aveva nemmeno un'idea dell'arte culinaria, che tagliava le testoline agli asparagi, buttandole poi via, ma che in compenso non versava del brodo di carne nella sua minestra vegetariana. A quell'epoca io ero ancora piccina, capivo poco, ma mi pareva che il babbo e le sorelle, partendo per Jasnaja, fossero allegri come scolaretti sfuggiti alla vigilanza degli adulti. Scrivevano lettere piene di buonumore e quando, finalmente, la famiglia si riuniva di nuovo, ci raccontavano tanti episodi interessanti del loro soggiorno a Jasnaja Poljana. Mi ricordo del racconto sulla visita della zia Tat'jana Andreevna. Le davano da mangiare alla vegetariana, il che per lei era insopportabile.
Un giorno, all'ora di pranzo, il babbo e le sorelle presero una gallina viva, la legarono alla sedia della zia e aggiunsero al suo coperto un grande coltellaccio da cucina. La zia rimase stupita.
«Hai voluto una gallina da mangiare», le disse mio padre, «ma qui non c'è nessuno che abbia il coraggio di ucciderla; così abbiamo preparato tutto per te...».
Mamma insisteva sulla necessità di far studiare i bambini.
Il babbo, invece, non credeva che si dovessero forzare, ma che si dovesse allevarli nella semplicità e nel lavoro. Se i ragazzi avevano voglia d'imparare, potevano farlo. Si spendeva molto per i maestri, per le scuole, ma nessuno di noi voleva studiare.
I più piccoli intuivano il disaccordo fra i genitori e prendevano dalle parole di ciascuno ciò che vi era di più comprensibile e di più conveniente per loro. Dimenticavamo che nostro padre riteneva che l'istruzione fosse indispensabile per ogni persona, e che lui stesso avesse cercato di aumentare le proprie cognizioni fino agli ultimi giorni della sua vita; la nostra mente riteneva solo che lui era contrario allo studio. Ci piaceva anche che la mamma parlasse della necessità di avere molti soldi per vestire bene, per avere cavalli propri, per dare ricevimenti e feste da ballo, per mangiare bene. Ma le sue richieste di lavorare e di frequentare le scuole erano per noi odiose. Non ci preoccupavamo troppo di tutto ciò, vivendo come ci sembrava più facile e più gradevole.
Alcuni di noi studiavano con grande facilità. Misa. ad esempio, era un ragazzo dalle doti eccezionali. Quando aveva appena imparato a leggere e a scrivere, annotò su di un pezzettino di carta «bisogna essere bono», e da quel momento in poi aveva avuto sempre in tasca la propria sentenza.
Spesso, molto spesso, quando qualcuno si arrabbiava, il babbo sorrideva con mitezza, e diceva: «Bisogna essere boni». Misa era il miglior musicista della famiglia. Appena sentiva una nuova melodia, era subito in grado di ripeterla al pianoforte, alla chitarra o alla balalaica. Per un periodo aveva preso lezioni di violino, facendo grandi progressi, e la mamma ne era felice e fiera. Tuttavia, Misa se ne era stancato presto. Mi ricordo la prima volta che Saljapin cantò a casa nostra, a Mosca. Mio padre non approvò le prime due canzoni, La canzone della pulce e I due granatieri. Saljapin offri di cantare Nocenka, ma il giovane pianista che lo accompagnava, Gol'denvejzer, non ricordava la canzone a memoria. Allora Misa si avvicinò timidamente al pianoforte, cercò la melodia e, dopo alcuni minuti, Saljapin cantava con il suo accompagnamento piuttosto primitivo ma perfettamente intonato.
La mia educazione fu affidata prima a una bambinaia, poi alle domestiche inglesi che mi insegnarono a parlare la loro lingua e mi abituarono alle docce fredde; più tardi ancora alle istitutrici. Queste cambiavano sempre; mi erano antipatiche, e io spesso cercavo di arrecargli dei dispiaceri. Anch'esse trovavano un piacere straordinario nel tormentarmi. Mamma mi picchiava, mi puniva, mi tirava per le trecce, ma non serviva a nulla. Nell'agenzia delle istitutrici avevo già una certa fama:
«Ah, la petite Sasa Tolstoj, non merci!».
Ho voluto bene a una sola istitutrice inglese, che passò da noi i mesi estivi per sette o otto anni. Si chiamava Miss Belch. Di lei parlerò più tardi.
Mia madre aveva deciso di prepararmi all'esame di maestra.
Inoltre, fin dai dieci anni mi insegnarono inglese, tedesco, francese, musica e disegno.
Avevo lezioni dalle nove alle dodici. Poi c'era la pausa per la colazione e la passeggiata; dalle due alle sei dovevo studiare di nuovo. La sera, dopo la cena, facevo i compiti. Non mi sentivo capace di ricordare tutte quelle nozioni e studiavo male, non ero una buona allieva. La mia gioia più grande erano le ore passate in giardino. Come mi sembrava enorme, ombroso! I sentieri trascurati, coperti di erbe, mi davano l'impressione di una foresta vergine, i viali mi sembravano interminabili, la collina alta e inaccessibile; la pergola, che si confondeva con gli arbusti, mi sembrava bellissima, misteriosa. Ora, quando mi succede di tornare in questo giardino, vorrei provare di nuovo le sensazioni dell'infanzia. Ma i viali mi sembrano miseri accanto all'alto cancello, e l'erba nei sentieri si è diradata. Posso raggiungere la cima della collina con due passi. Forse era la mia immaginazione infantile che idealizzava la realtà o forse, adesso, il giardino è veramente diventato più povero? In ogni caso, anche oggi mi è infinitamente caro.
Oltre il giardino della nostra casa di Chamovniki c'era un grande cortile, circondato da un cancello e da varie costruzioni di servizio. Nell'arrivare a Mosca portavamo con noi un intero ménage: un paio di cavalli da carrozza col vecchio cocchiere Emeljanic, una vacca, un vagone di fieno e di avena, enormi recipienti di cavoli e cetrioli salati, grandi quantità di marmellata. Una volta portammo anche il cavallo da sella del babbo, Malcik. Mi ricordo che Malcik pascolava nel giardino: invece di studiare osservavo, dalle finestre, come giocava con il levriero di papà Bielka.
Nella rimessa più vicina alla strada c'era la mucca, nella seconda stavano i cavalli.
Poi c'era la rimessa delle carrozze, mentre l'ultima era piena di libri: era un grande deposito delle opere di mio padre, pubblicate e vendute da mamma. I libri rendevano circa ventimila rubli all'anno, e di ciò vìveva tutta la famiglia.
Accanto alla porta che dava sulla strada, c'era una casupola abitata dal portinaio e dal cocchiere.
Un sentiero conduceva da lì alla cucina, che stava dalla parte opposta della casa. Là si trovava anche la stanza dove la servitù prendeva i pasti, e il piccolo stanzino del cuoco Semen Nikolaeric.
La casa era vecchia. Mia madre sosteneva che avesse più di cent'anni; diceva che era scomoda, poco adatta ai ricevimenti, e che solo Levocka avrebbe potuto comprare una casa in un quartiere così poco signorile, fra fabbriche e stabilimenti. A me, invece, sembrava allora che non ci fosse abitazione più bella, dove si stesse così bene, come nella nostra casa di Chamovniki. Naturalmente, noi bambini non badavamo al suo aspetto esteriore, ma mi ricordo benissimo che, quando mia madre decise di rinnovarla, e quando la casa bruna, scurita dal tempo, diventò a un tratto rosea e con le imposte verdi, tutti noi ci sentimmo offesi per lei. Sembrava antipatica, come una vecchia che tenti di ringiovanirsi.
E che camere meravigliose c'erano in questa casa, che passaggi, che scale, grandi e piccole, che armadi nei muri! Noi abitavamo al pianterreno. C'era la sala da pranzo, la camera dei genitori, quella di Tat'jana e dei ragazzi, quella dei bambini, la stanza mia e della governante. Al primo piano c'erano le sale di ricevimento. C'era una piccola anticamera, nella quale Tanja, che aveva ottimo gusto, aveva fatto un salottino dove generalmente si radunava la gioventù; la sala, il salotto grande e quello piccolo. Queste stanze non mi piacevano, mi sembravano fredde. Del salotto mi piaceva solo il grande divano turco, ampio e basso, dove si potevano fare così bene le capriole. Il nostro posticino prediletto nella sala era la pelle d'orso, distesa sotto il pianoforte. Quando suonava qualcuno, lo zio Kostia—, Sereza o mamma, ci sdraiavamo sulla pelle, appoggiandoci alla testa della belva, e ascoltavamo. Era la pelle di quello stesso orso che aveva quasi ucciso mio padre durante una caccia.
Dalle sale di ricevimento due piccolissime scale immettevano nel corridoio - una dalla sala, l'altra dal piccolo salotto. La prima stanza sul corridoio era quella di Masa, bassa e con le finestre piccole; seguivano le camere della governante, della sarta, del cameriere e proprio in fondo, nell'angolo della casa, separate da tutte le altre, si trovavano due piccole stanze dai soffitti molto bassi: erano quelle di mio padre - un'anticamera, dove il grande armadio di noce nascondeva il lavabo, e a destra lo studio, il posto «più sacro» per la nostra immaginazione infantile.
Le stanze delle mie sorelle erano molto diverse. Quelle di Tanja - la piccola camera da letto al pianterreno e il salottino al primo piano - erano arredate con molto buon gusto. I mobili soffici e comodi, i piccoli divani, le rustiche tovaglie originali, i quadri, gli albi, le innumerevoli fotografie di parenti e di amici, tutto era disposto con un po' di disordine, ma con molto garbo.
Nella camera di Masa, al contrario, non c'era nulla di superfluo. Le sedie e le tavole rigide e semplici, il letto duro, davano l'impressione di severità e di purezza. Stavo volentieri nella stanza di Tanja, c'erano tanti quadri interessanti e nella grande cassa - anche questa rustica - trovavo spesso delle noci o dei dolci, mentre avevo quasi paura di entrare nella camera di Masa, così come in quella del babbo. Tutto lì era severo, e si sentiva come un odore di farmacia.
Le mie sorelle erano molto diverse tra loro. Tanja era la prediletta della famiglia. Mamma la preferiva a Masa, e la portava sempre con sé quando andava a trovare qualcuno. L'amore per la mamma non impediva a Tanja di essere intima anche con il babbo e di condividere le sue opinioni. Non prendeva mai interamente le parti di qualcuno, e per tutta la sua vita cercò di mitigare i dissidi fra i miei genitori. I piccoli erano affezionati a Tanja, perché lei si occupava spesso di loro, e sapeva anche conservare l'amicizia dei fratelli maggiori. Allegra e vivace, con i capelli castani inanellati, con i suoi brillanti occhi bruni e il suo nasino corto, Tanja era molto attraente. Conosceva bene le lingue e frequentava corsi di pittura. Repin e gli altri pittori lodavano i suoi lavori. In famiglia, Tanja era considerata la più intelligente e la più colta.
Quando ripenso a Masa, mi sento invadere da una grande serenità. Mi ricordava in tutto mio padre, anche se in fondo solo gli occhi grigi, attenti e profondi e l'alta fronte gli assomigliassero. Era snella, piena di grazia, molto abile - sapeva fare di tutto con le sue mani bruttine e un po' nodose. Il volto di Masa era serio, concentrato, sembrava riflettere continuamente la sua vita intima. Tutti le volevano bene e lei si mostrava amabile e sensibile; trovava per ognuno una parola buona, e lo faceva con grande naturalezza, come se sentisse quale corda si dovesse toccare per far vibrare la nota desiderata. Masa era considerata da tutti piuttosto brutta, la sua grande bocca ricordava quella di mamma, aveva i denti non molto belli, il naso un po' troppo grande, ma tutta la sua persona mi sembrava affascinante.
Mio padre le amava entrambe, e loro, per quanto potevo vedere, erano gelose l'una dell'altra. Ognuna credeva che il padre prediligesse l'altra. I miei fratelli maggiori non vivevano quasi mai con noi. Nei miei ricordi d'infanzia non occupano che un posto molto limitato, perché tutta la nostra vita trascorreva senza di loro. Quando fui un po' più grandicella, mio fratello Sergej si trasferì nel governatorato di Tuia, nel podere patrimoniale dei Tolstoj. Nikol'skoe-Vjazemskij, che aveva ricevuto come maggiore dei figli.
Avevo sempre un po' di paura davanti a Sereza - mi sembrava molto serio e importante. Aveva finito l'università ed era musicista. Alle persone che lo conoscevano poco, lui sembrava, (e sembra ancora oggi) severo, misantropo. Ma quando lo si conosce meglio, si vede che sotto la severità e la rudezza esteriore si cela una grande bontà, una tenerezza, e perfino... se anche sembra strano per un uomo del suo aspetto, una grande timidezza. Quando ero ancora piccola, lui mi chiamava «la sua unica sorella», cosa che mi riempiva di fierezza. Il fatto che mi chiamasse «la sua unica sorella» era già un segno di grande affetto, e io lo capivo e lo apprezzavo. Fra di noi non usavamo tenerezze, e se qualcuno si lasciava trasportare dal sentimento, lo deridevamo: «Che smancerie!», oppure «che affetto!».
Forse, fino ad oggi mio fratello non ha mai saputo che grande effetto mi facesse la sua musica.
Da bambina, quando non riuscivo a addormentarmi, sentivo la sua musica. Lui mi insegnò a capire e ad apprezzare Chopin, Beethoven, Schumann, Grieg. E per molto tempo mi sembrò che nessuno - anche i più grandi musicisti - potesse suonare meglio di mio fratello Sergej.
Fin da quando ricordi, Il'ja non viveva molto con noi: mi viene appena in mente quando si sposò, e anche questo solo perché mi fu vietato di assistere al rito nuziale, cosa che mi offese moltissimo. Alto, dalle spalle larghe, appena incurvato, dalla larga barba castana, col naso grande e gli occhi grigi sotto le folte sopracciglia, Il'ja assomigliava a mio padre più degli altri—. Viveva in campagna, anche lui nel governatorato di Tuia, poco lontano da Sergej.
Più a lungo degli altri restò con noi Lev, che molto più tardi sposò la figlia del celebre medico svedese Westerlund. Lev assomigliava molto alla mamma: era bruno, aveva una barbetta rossiccia, un grande naso aquilino, una bocca grande e occhi neri. Si ammalava spesso, causando preoccupazioni alla mamma. Terminati gli studi all'università, cambiava continuamente le sue opinioni: a volte diventava seguace del padre e fervido vegetariano, altre si rivolgeva con la stessa passione contro quelle idee. Dapprima, predicò la castità e il celibato e poi, dopo essersi sposato, con lo stesso entusiasmo parlava della necessità di contrarre matrimonio ancora giovani. Scriveva, e ci fu un tempo in cui i suoi scritti attirarono attenzione nel mondo letterario, non a causa del suo talento, ma per la polemica con il padre. Pubblicò il preludio di Chopin, in opposizione alla Sonata a Kreutzer, Jasa Poljakov a Infanzia e adolescenza, ecc. Mi pare che a quell'epoca Suvorin lo chiamasse «Tigr Tigrovic».
La nostra famiglia era grande ed eravamo molto diversi gli uni dagli altri. Mia madre cercava di raccogliere tutti intorno a sé come una chioccia con i pulcini. Però a poco a poco tutti si emanciparono dalla sua influenza. I figli si crearono famiglie proprie, mentre le figlie cercarono di seguire il padre.
L'unica consolazione di mamma rimase Vanecka. Formava il centro della sua vita.
5. Vanecka
Vanecka nacque piccolo e gracile. Tutti erano inquieti per la sua salute: fu naturale che mia madre si concentrasse completamente su di lui, e che io passassi in secondo piano. Anche niania diventò più fredda nei miei confronti,
••Non entrare», mi diceva, «non vedi che Vanecka piange?», e incollerita mi allontanava con la mano.
«Zitti, zitti! Vanecka dorme... Bisogna preparare la pappa per Vanecka... Vanecka si sente male...».
Ben presto, mi abituai al pensiero che le nostre vite ruotassero intorno a Vanecka e che lui avesse bisogno di molte cure, e divenni più indifferente ai privilegi di cui godeva.
Crescendo, si notò che era simile al babbo, non nei tratti del volto, come nel caso di Il'ja, ma per qualche tratto interiore, come mia sorella Masa.
Era magro, aveva un viso pallido, trasparente, gli occhi attenti color grigio-celeste, e sull'alta fronte aveva una piccola vena azzurra che gli dava un'aria da adulto. D'inverno, poiché non venivano tagliati, i suoi morbidi capelli biondo bruno gli cadevano in riccioli sulle spalle.
Vanecka era un bimbo eccezionale; tali bimbi, si dice, non possono vivere a lungo. Si distingueva per una bontà straordinaria, ed era strano come questa piccola creatura, appena consapevole, si preoccupasse già della vecchia niania, che era stanca e aveva bisogno di dormire, e di mamma, che passava le notti accanto a lui quando era malato.
«Va' a dormire, cara mamma, non ho bisogno di nulla...».
Non gli piaceva che gli si dicesse: «Questo è tuo, Vanecka, questo è per te».
••Non devi dire così», rispondeva, «tutto è di tutti».
Il sole d'aprile brucia come in giugno. Siamo, come sempre, troppo coperti; abbiamo caldo, gli abiti si appiccicano al corpo, il viso viene sfiorato dalla brezza primaverile. Con delle palette in mano, andiamo con mamma nel campo per piantare degli alberi. Ci sono molti braccianti; le donne si levano le giacche pesanti, si aggiustano le gonne, rialzandole, e si mettono a scavare fosse. Noi facciamo altrettanto e piantiamo piccole querce.
«Ecco, Vanecka», dice la mamma, «quando sarai grande, anche queste querce saranno grandi.
Ti ricorderai allora come furono piantate. Sai? Jasnaja Poljana, queste foreste, questi campi, questi prati, tutto è tuo».
«Ah, mamma, non dire questo, tutto è di tutti», risponde Vanecka, e continua a scavare la fossetta con la minuscola pala, gonfiando le labbra per lo sforzo.
Tutti in casa amavano Vanecka, e tutti erano sempre in ansia per lui. Lui era nervoso e sensibile fino alla malattia. Quello che mi sfiorava senza nemmeno lasciar traccia, rimaneva profondamente inciso nella sua coscienza. Vanecka assorbiva tutto ciò che vedeva e che sentiva, come una spugna. A teatro e nei racconti dei libri, riviveva la vita dei personaggi. Non era capace di sopportare le sofferenze degli uomini e degli animali; sentiva il desiderio di aiutare tutti. Una lite o una cattiveria lo facevano soffrire intensamente. Tutti in casa sentivano che in quel fragile corpicino c'era qualcosa di molto importante, una saggezza non infantile. Credo che anche mio padre lo sapesse bene. Può darsi che lui, come anche gli altri, pensasse che Vanecka avrebbe potuto continuare la sua opera. Quando Vanecka gli si accostava e, alzando la testolina, si indirizzava a lui seriamente, senza la minima confusione, e gli parlava come un adulto, scorgevo un'immensa tenerezza nello sguardo di papà. Gli sorrideva, e il suo sorriso era intriso di sofferenza.
Caro piccolo Vanecka! Sapeva essere più giusto e più saggio degli adulti. Con un'intuizione speciale, scopriva la verità, che lo attraeva come il sole attira le piante. Quante volte dava lezioni agli adulti senza accorgersene. Quando si agiva male, Vanecka ne soffriva talmente che ci si affrettava a riparare la colpa per amor suo.
Si accorgeva anche che in casa gli si voleva più bene che a me, e ne soffriva. Ogni ingiustizia verso di me lo eccitava. Quando riceveva un dolce, e io ero dimenticata, domandava immediatamente: «E per Sala?».
D'estate andavamo spesso nella foresta con la bambinaia. Ero appassionata della raccolta dei funghi, conoscevo i posti dove crescevano ed essendo miope, mi mettevo a quattro zampe e scovavo Ì funghi, con l'aiuto del tatto, sotto le foglie secche. Un giorno, inaspettatamente, scorsi un grande fungo bianco in un posto nuovo. Lanciai un grido e corsi ad afferrarlo. Subito dopo di me lanciò un grido anche Vanecka.
La bambinaia mi spinse rozzamente.
«Dove vai? Che novità! E Vanecka che lo ha visto per primo!».
«Non è vero, non è vero, sono stata io la prima», mi agitai. «Vanecka, non sono stata forse io?!». I funghi bianchi erano rari, e quello era così fresco, grande e bello. Vanecka esitò per qualche istante. «Sì, niania, è vero, è stata Sala che lo ha visto per prima».
Malgrado la sua sensibilità non infantile e il superiore senso di giustizia, in tutto il resto Vanecka rimaneva un vero bimbo. Gli piaceva correre, scherzare, giocare. In sua compagnia saltavamo per tutta la casa come matti, passavamo da un gioco all'altro, come fanno tutti i bambini. Talvolta facevamo partite a tombola con le nocciole. Ve n'erano sempre in abbondanza a Jasnaja Poljana. Venivano tostate, messe nei sacchi e trasportate a Mosca per l'inverno. Ciascuno di noi ne aveva un sacchetto proprio. La bambinaia sapeva raccogliere nocciole meglio degli altri, e la sua provvista era sempre la più grande. Lei non le mangiava - non aveva denti - ma le conservara per noi.
Nei giochi, a cui talvolta partecipavano anche i fratelli Andrjula e Mila, si faceva sentire una grande animazione; più degli altri si agitava niania che, quando perdeva, si arrabbiava tanto che dovevamo consolarla.
Anche Vanecka si accalorava. Capitava, quando vinceva, che qualcuno gli dicesse canzonandolo: «Aspetta, Vanecka, perché prendi le nocciole? Non sei tu che hai vinto! ».
Lui si agitava terribilmente: «No, no! Ho vinto io! Tutti qui ne sono testimoni! ».
Non sapevamo da dove avesse preso tale espressione, ma il suo significato era chiaro, e venne subito imitato. Quando bisognava provare la propria ragione, gridavamo tutti in coro: «Testimoni attorno, testimoni attorno».
Un posto immenso nella nostra vita era occupato dalle fiabe. In casa prestava servizio una ragazza, Mala, che sposò in seguito il cuoco Semen Nikolaevic. Era vivace e allegra, ma da noi era apprezzata, specialmente, per le belle favole che ci raccontava. Generalmente la sera, prima di andar a letto, la pregavamo: «Cara Malenka, sii buona, raccontaci una fiaba». Mala acconsentiva, non subito, forse perché non sempre ne aveva voglia. Sospirava, stendeva le mani sulle ginocchia, e iniziava. Raccontava improvvisando; per cominciare prendeva l'inizio di qualche favola nota, ma nell'andare avanti lasciava correre la sua fantasia. Spesso noi stessi eravamo i personaggi dei suoi racconti. Narrava di come andassimo con Vanecka a fare una passeggiata nella foresta, e che cosa succedesse poi. Cadevamo nelle mani dei briganti, o ne eravamo inseguiti e scappavamo, inciampando contro i tronchi, eravamo inseguiti da bestie feroci, ci arrampicavamo sulle montagne, attraversavamo a nuoto grandi fiumi, ed eravamo catturati da maghi... Dimenticando tutto il mondo, ascoltavamo i racconti di Masa trattenendo il respiro. Talvolta, quando la vicenda diventava troppo emozionante, Vanecka afferrava Masa per la mano e per il dito, e non la lasciava fino a che il racconto non fosse terminato.
Masa stessa fu trascinata dal fascino dei suoi racconti. La sua voce giovane e melodiosa s'innalzava, per abbassarsi subito dopo a un sussurro; un'immagine cedeva il posto a un'altra. Ci succedeva di addormentarci durante i racconti di Masa, e che continuassimo a sognare di foreste impenetrabili, di bestie, di fate.
Anche la mamma e la bambinaia ci raccontavano delle favole, pure queste interessanti, ma non si poteva paragonarle ai racconti di Masa. Nell'ascoltare le favole di mamma e di niania sapevamo già fin dal principio come sarebbero finite, mentre la fine di quelle narrate da Masa aveva sempre qualcosa di imprevedibile.
Al mattino, a Jasnaja Poljana si radunavano per pregare, sotto il vecchio olmo, i pellegrini che passavano per la strada maestra di Kiev. Ricevevano cinque copechi ciascuno, qualche volta del pane bianco e dello zucchero. I pellegrini e le vecchiette con i sacchi sulle spalle erano più contenti di ricevere pane e zucchero che soldi.
«Sai, Vanecka», dissi un giorno, «mettiamoci a raccogliere per i mendicanti lo zucchero che ci avanza».
Vanecka fu entusiasta. Di solito avevamo due zollette di zucchero per ogni tazza di tè; prendendone due tazze si potevano economizzare almeno quattro zollette. Dapprima avevamo deciso di prendere il tè tenendo lo zucchero in bocca, anziché metterlo nella tazzina, ma non ci riuscimmo. Non appena lo zucchero era in bocca, si scioglieva e ci toccava finire il tè con l'altra zolletta. Il tè con un pezzo solo, nella tazza, non sembrava abbastanza dolce. Uno dei fratelli maggiori, venuto a conoscenza del nostro progetto, ci consigliò per scherzo di bere prima il tè, e poi di leccare lo zucchero. Ci provammo. Prima leccava uno di noi, poi l'altro, ma non ci sembrava abbastanza dolce. Lo zucchero sembrava duro, ruvido, e ci grattava la lingua. Vanecka se la graffiò fino al sangue e la sua zolletta si tinse di rosso. Si spaventò molto. Quando la bambinaia lo vide, raccontò la cosa alla mamma e io venni sgridata duramente.
«Sono le nuove invenzioni di Sala», disse la mamma.
«E già grande e non può smettere di far sciocchezze e di insegnarle anche a Vanecka».
La nostra vita a Jasnaja Poljana si svolgeva più o meno regolarmente, mentre quella di Mosca non era affatto adatta a un ragazzetto nervoso e fragile com'era Vanecka. Mamma non poteva trattenere la sua continua ammirazione per lui, lo esibiva sempre, ne lodava le virtù. Amava Vanecka più di ogni altra cosa al mondo: non era mai abbastanza entusiasta per lui. Per tutto il giorno si sentiva: «Bisogna comprare un giocattolo a Vanecka, Vanecka si sente male, Vanecka ha detto questo...».
Mi ricordo questo episodio: mamma e Vanecka erano nel grande salotto al piano superiore, davanti alla scrivania. Mamma diceva qualcosa a Vanecka, e poi scriveva delle note. Fui curiosa di sapere che cosa stessero facendo. Mi avvicinai da una parte, poi dall'altra, sperando di attirare l'attenzione della mamma. Invano. Alla fine, mi sentii di troppo e mi allontanai. Dopo poco fui raggiunta da Vanecka, che ne aveva abbastanza di stare fermo, e ci mettemmo a giocare. Mamma continuava a scrivere. Alcuni giorni dopo la sentii raccontare agli ospiti che Vanecka sarebbe diventato, certamente, uno scrittore, che aveva scritto una meravigliosa storiella su un bassotto. Gli ospiti si meravigliarono e si entusiasmarono. Mi ricordo benissimo il volto di mio padre quando seppe del talento di Vanecka e della storiella che aveva scritto. Le sue ciglia si avvicinarono, chinò la testa, ma non disse nulla.
Nessuno in casa nostra approvava il sistema educativo adottato dalla mamma per Vanecka, ma lei non ammetteva critiche. Era evidente che ogni altro bambino sarebbe stato danneggiato da un simile sistema, ma era quasi impossibile guastare Vanecka.
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