La corruzione.
Nelle sue molteplici applicazioni, è da sempre la spina dorsale della politica e chi non la pratica è considerato un elemento di disturbo, da eliminare alla prima occasione.
Manlio Cecovini, Dizionarietto di filosofia quotidiana
La corruzione di una repubblica nasce dal proliferare delle leggi
Tacito
Il crimine una volta scoperto
non ha altro rifugio
che nella sfrontatezza.
Publio Cornelio Tacito
CONVIVENZA.
Una società evoluta pone ai suoi componenti il minor numero possibile di veti, cioè soltanto quelli indispensabili alla tutela dell'ordine generale. Ma quando ne pone uno, deve anche ottenere che sia rispettato. È meglio la mancanza di una norma che la sua violazione. In una società evoluta la maggior parte delle prescrizioni legali è sostituita da prescrizioni morali. Non è necessario decretare che non bisogna sputare sul pavimento: il cittadino educato osserva la regola per principio e ne richiama l'osservanza a chi non la rispetti.
Per definizione la legge è la manifestazione formale d'un bisogno sociale.
Ma non ogni bisogno si trasforma in legge. Ciò è necessario solo per i bisogni generali, permanenti o di lunga durata. Per quelli contingenti dovrebbe bastare il senso naturale dell'ordine.
Qualche esempio. Più persone devono uscire insieme da un palazzo di uffici.
E stabilito che ognuno ritiri una schedina numerata.
Le schedine sono a disposizione su un tavolo, ma la gente è impaziente e si accalca per arraffare la propria, poi, spingendo a gomitate, grida il proprio numero. I due addetti al servizio si innervosiscono e vorrebbero l'aiuto delle guardie. Ma, in simili circostanze, non dovrebbe essere necessaria la presenza di tutori della legge, dovrebbe bastare l'ordine spontaneo, dato che la precedenza nell'uscita è stabilita dal numero della schedina e che l'osservanza del turno fa risparmiare tempo a tutti.
Ordine significa rinuncia alla sopraffazione, equivale a civismo.
Altro esempio. A Roma, in un autobus affollatissimo.
Davanti e dietro due tabelline avvertono che è vietato fumare.
Ci sono anche scritte in inglese: Don't smoke, please.
Sono per i militari inglesi e americani che circolano in città.
Il testo italiano è alquanto prolisso, richiama disposizioni di legge,
specifica l'ammontare dell'ammenda e dell'oblazione volontaria.
Le due tabelle rivelano le diverse psicologie sia dei redattori che dei destinatari.
Quella in lingua inglese conta sul fatto che per i destinatari, avvezzi a un maggiore civismo,
basta un cortese richiamo all'osservanza di un divieto che potrebbe non essere vigente a casa loro. Per gli italiani si ritiene necessaria la minaccia di una punizione.
Ma cosa accade frattanto là in fondo?
Un giovane coi capelli lunghi sulla nuca e un gran fazzoletto di seta intorno al collo sta parlando con una graziosa signorina, e intanto fuma con dimostrativa arroganza. Sa che è proibito e che rischia un'improbabile multa, ma crede che se non lo facesse darebbe prova di pusillanimità. Pensa anche che una sigaretta fra le labbra, mentre sta corteggiando una ragazza, gli dia un tono disinvolto che accresca il suo impatto. La sigaretta talvolta fa miracoli. Dove non sono d'accordo è nel fatto che voglia i miracoli sull'autobus. Anche lui. come parte della comunità, sia pure indirettamente, ha voluto quel divieto.
Ora si avvia a scendere, la folla lo spinge, la mano con la sigaretta si libra sopra le teste e sfiora i capelli d'un signore che non se n'accorge. Seguendoli, con un colpetto libero l'uomo del focolaio che ospita tra i capelli. Qualcuno ride, ma nessuno è intervenuto.
Mi sono ricordato di una massima che vorrei aggiungere ai brocardi del De Ruggiero:
"A un palmo del mio c... fotta chi vuole". A Roma si osserva.
Tecnico/politico.
Tecnico e uno che fa; politico, uno che parla.
Conferenze.
Una buona conferenza dev'essere come l'abito d'una signora elegante:
sufficiente a coprire, ma non tanto da scoraggiare la fantasia.
Dilemma.
Servì sempre gli altri più che se stesso.
Fu un generoso oppure un fesso?
II corpo.
Strutturalmente il corpo è un edificio.
Dinamicamente è una macchina.
Sotto entrambi gli aspetti, se vuole durare in stato d'uso,
ha bisogno di una continua manutenzione
e di quando in quando di appropriati restauri.
Posizione per dormire.
Per dormire ognuno ha una posizione preferita.
Per me è quella di aggrapparmi allo spigolo superiore esterno del materasso, quasi in bilico, un ginocchio e un braccio piegati e debordanti. Se il sonno non viene, mi rovescio sull'altro fianco, in posizione esattamente simmetrica. Li chiamo esercizi spirituali, perché rivolti a evocare gli spiriti che benevolmente mi visiteranno nel sonno.
Quadrupedi.
Che l'uomo sia stato in orìgine un quadrupede (se non proprio un asino) è dimostrato geneticamente da come camminando muove le braccia. Camminano anch'esse, sia pure sospese nell'aria, e con l'esatto ritmo del passo del quadrupede, secondo il principio delle diagonali alternate, braccio destro col piede sinistro e viceversa. E con la stessa alternanza si dispongono i pesi, quando il camminatore si ferma.
Ma non solo dalla postura...
Ci sono delle teste d'asino.
A Napoli vengono chiamati ciuccio o ciucciarello
per definire una persona un po ottusa
che non arriva ad una semplice logica ad un ragionamento.
È ... È rimane convito delle sue idee.
Tanto di rispetto per il somaro.
A volte i ciucci umani non lavorano tanto.
A volte troppo.
Vorrei vedere mia moglie spremersi le meningi senza l'ausilio dei sussidi libreschi!
Manlio Cecovini, Dizionarietto di filosofia quotidiana.
CRUCIVERBA.
Bridge e parole crociate, show televisivi agrodolci, qualche lettura di trattenimento serale, a letto prima di prendere sonno: questa è la cultura della maggior parte delle nostre donne. Pigrizia, senso dell'inutilità del bagaglio culturale convenzionale, chissà. Bisogna prenderle come sono, non si può ingaggiare ogni giorno una battaglia. Inforca gli occhiali, già innervosita per i minuti consumati nel cercarli qua e là, biro nella destra, una delle tante rivistine enigmistiche nell'altra, qualche istante di meditazione sul cruciverba più difficile, didascalie senza numeri o indicazioni di "orizzontale" e "verticale", e poi, a voce sempre troppo bassa perché io la possa percepire al primo lancio: "Chi ha ucciso la Gorgona? Come si chiamava il padre di Edipo?". 'Teseo" rispondo senza convinzione. "No, no. Perseo" mi correggo con infastidita incertezza. "Ma perché non tieni sul tavolo l'enciclopedia tascabile? E il dizionario dei sinonimi, e un prontuario di mitologia greca... Faresti prima e impareresti un mucchio di cose!".
"Come si dice in latino 'ma'?".
Qui va meglio. "Si dice sed. Adesso, per favore, lasciami lavorare".
Se mi occupassi di cruciverba, piuttosto che risolverli, li inventerei.
Mi pare assai più divertente. Comincerei con un elenco di parole di uso raro, o particolarmente lunghe, o grammaticalmente incerte, che richiedano dimestichezza con i problemi linguistici, non le solite baggianate cui gli enigmisti dilettanti rispondono macchinalmente. Poi, a fianco di ciascuna collocherei la didascalia, breve e precisa: "Con grande furore" (per freneticamente); oppure: "Alectoris greca" (per coturnice); o anche "Annientare una città col bombardamento aereo" (per coventrizzare). Vorrei vedere mia moglie spremersi le meningi senza l'ausilio dei sussidi libreschi!
DOODLINGS.
Cos'è quel "vizio" di scarabocchiare disegnini su lutti i foglietti (in calce, a margine, di traverso) che mi capitano sotto mano, soprattutto in certe riunioni dove si chiacchiera molto e non si conclude niente? Ma, anche, nelle lunghe telefonate, quando l'altro, che per riguardo non dev'essere interrotto, non la smette di raccontare di sé, dei suoi acciacchi... Io, intanto, sempre a fare disegnini, a volte informali, ghirigori che si sviluppano in spirali concentriche irregolari; altre volte pietre tombali viste dall'alto, in prospettiva, o di sghembo; o i cipressi che da Bolgheri alti e schietti vanno chissà dove; o grattacieli arditissimi; o infine ritratti immaginari, spesso mostruosi, gibbosi, grifagni, non c'è limite alla fantasia dei miei disegnini.
Una gentile amica aveva preso l'abitudine di starmi a guardare e, come finiva la riunione, si precipitava a strapparmeli di mano, qualche volta mi pregava di datarli, più avanti volle addirittura che li firmassi. Lo consideravo un'innocua mania da collezionista, c'è gente che colleziona scatole di fiammiferi e altre cosucce assolutamente inutili.
Ma un giorno m'informa che [...]
quando andavo a scuola, le magistrali, avevo un quaderno solo per questo.
Mentre i professori spiegavano o interrogavano, io scarabocchiavo.
Era come se tenendo le mani occupate, il corpo fisico impegnato in un'attività,
la mente potesse rendersi indipendente.
Se l'insegnante era interessante seguivo ciò che diceva
ma se era noiosa me ne andavo vagando per altri mondi... E lo faccio tuttora!
Scarabocchiavo spesso una casetta, le montagne sullo sfondo e vicino delle siepi con degli alberi alti che sembravano cipressi ma che io sapevo che non lo erano. In età adulta ho trovato quegli alberi nella realtà e sono i pioppi. Mi piacciono moltissimo per le loro foglie che si muovono al minimo soffio di vento resistendogli. Che dici, vado a vedere o potrei scoprire qualcosa che non mi garba?
Però non sono d'accordo con l'ultimo paragrafo,
per me tenere la mente (corpo) occupata consente allo spirito (anima) di poter emergere e volare...
Io figure geometriche......mi preoccupa la chiusura del sentimento e la troppa logica.
Uhmm dovrò cambiare disegno.
quando andavo a scuola, le magistrali, avevo un quaderno solo per questo.
Mentre i professori spiegavano o interrogavano, io scarabocchiavo.
Era come se tenendo le mani occupate, il corpo fisico impegnato in un'attività,
la mente potesse rendersi indipendente.
Se l'insegnante era interessante seguivo ciò che diceva
ma se era noiosa me ne andavo vagando per altri mondi... E lo faccio tuttora!
Scarabocchiavo spesso una casetta, le montagne sullo sfondo e vicino delle siepi con degli alberi alti che sembravano cipressi ma che io sapevo che non lo erano. In età adulta ho trovato quegli alberi nella realtà e sono i pioppi. Mi piacciono moltissimo per le loro foglie che si muovono al minimo soffio di vento resistendogli. Che dici, vado a vedere o potrei scoprire qualcosa che non mi garba?
Però non sono d'accordo con l'ultimo paragrafo,
per me tenere la mente (corpo) occupata consente allo spirito (anima) di poter emergere e volare...
Io figure geometriche......mi preoccupa la chiusura del sentimento e la troppa logica.
Uhmm dovrò cambiare disegno.
Ebrei.
Gli ebrei si autodefiniscono "il popolo eletto da Dio".
Poiché io ho un concetto del tutto spersonalizzato del soggetto "Dio",
è evidente che nella mia filosofìa non c'è posto per popoli eletti, ogni popolo dovendo essere giudicato per il suo peso, le sue fortune e sventure, la traccia culturale che lascia di sé nella storia.
Il popolo ebraico, formatosi dal coacervo di numerose e non omogenee tribù nomadi, a partire dal XVIII secolo a.C, in quei territori del Medio Oriente che oggi costituiscono il Libano, Israele, la Palestina, e via via fino all'Arabia Saudita, all'Irak, agli Emirati, al Kuwait, venne nel tempo consolidandosi intorno all'elemento unificante di una religione monoteista che si è riconosciuta nel libro sacro della Bibbia (Vecchio Testamento), dalla quale si originò, attraverso il magistero di Cristo, la religione cristiana, che al Vecchio Testamento affiancò il Nuovo, costituito dai Vangeli.
Qualcuno ritiene che la storia degli ebrei sia contenuta nella Bibbia; ma non è cosi.
Come insegna Jean Bottero, docente di religioni semitiche nell'École Pratique des Hautes Études di Parigi, nel suo libro La nascita di Dio, la Bibbia è sì la storia della religione ebraica, non certo quella degli ebrei, la cui origine va ricercata in altre fonti, soprattutto assire e babilonesi, di civiltà cioè già affermate quando ancora gli ebrei erano nient'altro che un gruppo di tribù errabonde, senza scrittura e con una cultura tramandala oralmente.
Naturalmente la Bibbia, formata in molti secoli con l'assemblaggio di numerosi testi di diversa provenienza e importanza e relativi a materie diversissime fra di loro, parte in lingua aramaica, parte in lingua ebraica e parte in lingua greca, costituisce un testo di enorme interesse etnologico, soprattutto con riguardo alle leggende, ai costumi, agli eventi - veri o inventati -, necessari per fondare i miti dai quali la religione ebraica trae le proprie radici.
Manlio Cecovini, Dizionarietto di filosofia quotidiana.
Manlio Cecovini, narratore e saggista in quel filone triestino che prende le mosse da Svevo e Slataper, e tuttora si distingue nella letteratura italiana, è un singolare testimone della seconda metà del Ventesimo secolo, con la quale si è concluso senza entusiasmi il secondo millennio dell'era cristiana. Con questo suo Dizionarietto dì filosofia quotidiana, sorridente ma affilato come un rasoio, tra miti in disfacimento e quesiti irrisolti, e probabilmente irresolubili, egli consegna, come diceva Stendhal, «to the happy few», cioè ai posteri, un documento senza ipocrisie, su quella che egli chiama "la muffa umana che imbratta la superficie terrestre».
Questa sorta di manuale in 120 voci è dedicato a tutti quelli che non si accontentano dei luoghi comuni e, non volendosi fermare alla superficie delle cose, vogliono approfondire argomenti, temi, concetti, senza cadere nel tedio, solleticati con acume e ironia.
E di ironia - caratteristica degli scrittori di frontiera, primo fra tutti Italo Svevo. concittadino dell'Autore - è permeata questa raccolta di sagge riflessioni, scritte nell'arco di molti anni, che alla fine racconta il mondo interiore di Cecovini, la sua vita di grande impegno professionale, politico e artistico, sostanzialmente la sua filosofia - in senso lato - quotidiana, spicciola.
Un'opera senza dubbio originale, che oscillla con disinvoltura tra saggistica e narrativa, in uno stile rapido, chiaro ad ogni lettore e divertente.
MANLIO CECOVINI, nato a Trieste nel 1914, è stato prima magistrato e poi avvocato.
Ideatore del movimento autonomista «Lista del Melone», che insegnò a tanti distratti che la sovranità appartiene ai cittadini e non ai politici, dal 1993 si è occupato soltanto di cultura e scrittura.
Le sue principali opere sono:
- Ponte Perati: la Julia in Grecia (1954),
- Discorso di un triestino agli italiani (1968),
- Straniero in paradiso (1970),
- Un'ipotesi per Barbara (1982),
- Trieste ribelle (1985),
- Testimone del caos (1990).
- Escursioni in Elicona (1990).
- Dare e avere per Trieste (1991-1994).
- Nottole ad Atene (1994),
- Refoli (1996)Refoli.
- Assieme all'albero che deve morire (1997).
- Un seme per il corvo & Zadig (1998).
- Dizionarietto di filosofia quotidiana.
- «Trieste» 1971,
- «Misasi» 1976,
- «Ceraci» 1977,
- «Speciale Cesare Pavese» 1984,
- «Speciale alla carriera» Latisana 1997,
- «Settembrini» Mestre 1998,
- «Leone di Muggia» 1998.
La democrazia non ha la pretesa di rendere ricchi i poveri, ma dovrebbe almeno evitare di rendere poveri i ricchi. Chi creerebbe nuovi posti di lavoro atti a restringere l’area della povertà?
Manlio Cecovini
—
L'auto-coccodrillo di Cecovini: "Io, un pittore mancato con le radici in Carso"
Sul finire degli anni ’90, Manlio Cecovini sintetizzò in questo scritto inedito la storia della sua famiglia e le tappe più importanti della propria vita
di Manlio Cecovini
Coccodrillo – dicono i vocabolari – è parola di etimo incerto, a significare quel grosso rettile tropicale, dal corpo lungo e poderoso e lunga robusta coda, il tutto ricoperto da una salda corazza di scudi ossei. L’enorme bocca è piena di denti aguzzi che gli servono per mangiare gli uomini che gli capitano a tiro. Dopo colazione, qualcuno dice che si mette a piangere: dal che, la locuzione «lacrime di coccodrillo», a indicare che non si salva l’anima facendo il male e poi pentendosene, come usano i nostri «pentiti» processuali tutti i giorni della settimana. Comunque è di bocca buona e democratica, perché mangia neri e bianchi senza discriminazioni e non rigetta neppure le scarpe. È anche servizievole e galante, nel senso che, dopo ammazzato, consente che dalla sua pelle si traggono borsette e scarpe per signora. Nel gergo giornalistico significa la biografia dei personaggi che si conserva in archivio, in attesa di pubblicarla quando tirano le cuoia.
Dubito di essere un personaggio degno di tanto onore, ma per l’ipotesi che mi tocchi, a risparmio di tempo e per facilitare il compito di chi dovesse esserne incaricato, collega sia pure precario nella fatica dello scrivere, ho pensato di offrirgli un aiuto, redigendo da me, in terza persona, la minuta del mio coccodrillo, ovviamente con piena licenza di modificarlo secondo le esigenze del momento, soprattutto nell’aggettivazione.
A beneficio dei non addetti ai lavori, lo riproduco qui, senza varianti. Manlio Cecovini è stato una figura poliedrica. Sportivo nell’adolescenza e prima giovinezza (scherma, alpinismo, sci, nuoto, calcio, ecc.) giurista e politico attivo nella maturità, prevalentemente pensatore e scrittore quando si ritirò dalla vita attiva. Fu anche combattente, nelle truppe alpine, nella campagna di Grecia, massone eminente nell’ambito del Grande Oriente d’Italia e del Rito Scozzese Antico e Accettato. Come scrittore, pubblicò una quarantina di libri, sia di narrativa (romanzi e racconti), che di saggistica. Usava dire che gli sarebbe piaciuto essere ricordato come scrittore.
Nato a Trieste il 29 gennaio 1914 da genitori entrambi triestini, diceva anche, senza malizia o ironia, di essere nato austriaco e divenuto italiano «prima dell’uso della ragione». Nei suoi primissimi anni fu testimone inconscio della prima guerra mondiale, nella parte svoltasi per così dire alle porte di casa. A quel tempo, e fino al 1927, si chiamava Cehovin e quando i cognomi triestini vennero «italianizzati» divenne Cecovini, tale rimanendo anche quando, dopo la seconda guerra mondiale, venne di moda riprendere i cognomi originari. Un cognome illustre, fra l’altro, Cehovin, per essere stato onorato al tempo delle guerre dell’indipendenza italiana da un giovane sloveno, nato ai piedi del monte Nanos e divenuto l’ufficiale austriaco più decorato, combattendo contro l’Italia agli ordini del maresciallo Radetzki, fino a essere insignito nell’Ordine di Maria Teresa e del titolo di barone.
«Mio padre – ricordava Cecovini – continuava a sollecitarmi, negli anni del ginnasio, a fare ricerche genealogiche e raccontare questa ”storia di famiglia”». Molti anni più tardi Cecovini si divertì infatti a scrivere il racconto ”Per favore chiamatemi von”, nel quale basta sostituire al nome del protagonista (barone von Gabrovitz) quello di von Cehovin per avere la storia fedele dell’eroe sloveno, sia pure narrata con bonaria ironia. Per la storia, nel cinquantesimo anniversario di regno dell’imperatore Francesco Giuseppe, il barone venne onorato con l’erezione di un monumento in marmo di Carrara che, rimesso in piedi dopo le traversie del ventennio fascista e della seconda guerra mondiale, si può nuovamente ammirare in quel di Branizza, oggi in Slovenia.
Fu il nonno Bartolomeo, Bortolo in triestino, a portare sedicenne la stirpe dei Cechovin-Cecovini dal Carso a Trieste, dove si costruì una solida posizione economica nel campo dell’artigianato delle calzature, quando ancora non esistevano i calzaturifici industriali. E fu lui ad avviare l’unico figlio maschio (Giovanni, padre di Manlio) agli studi nella scuola italiana e quindi alla professione di ingegnere, determinando con ciò altresì il passaggio della discendenza dalla categoria sociale dei blu-collars e quella degli white-collars e insieme alla scelta italiana.
Manlio Cecovini si è sempre considerato «italiano per scelta culturale». Nel suo caso, peraltro, tale scelta era corroborata dalla stirpe materna, prettamente veneta, dei Rigotti. Educato nella severa tradizione mitteleuropea allora in auge nella borghesia triestina, Cecovini frequenta il ginnasio-liceo Dante Alighieri, scuola dalla quale erano usciti i grandi nomi dell’irredentismo triestino, gli Stuparich, gli Slataper, Guido Corsi, ecc. In questo clima, sin da bambino legge, scrive, disegna e infine dipinge, esponendo nelle mostre universitarie. Poi, in una delle sue periodiche «potature radicali», troncherà l’attività pittorica per dedicarsi, accanto agli studi e alla professione giuridica, soltanto agli interessi letterari.
Fra tutti gli sport praticati, Cecovini riservò alla scherma agonistica un posto preminente. Ne è traccia nel suo romanzo, pubblicato prima a puntate nel Piccolo di Trieste (col titolo ”Chi di spada ferisce”) e poi in volume (col titolo ”Un’ipotesi per Barbara”, Garzanti/Vallardi 1982).
Laureatosi in legge a Bologna nel 1936, esercitò inizialmente la magistratura, prima come pubblico ministero, poi come giudice civile. Prestava servizio a Milano quando, richiamato alle armi, fu inviato al fronte greco-albanese. Congedato, riprese servizio presso il tribunale di Trieste, cominciando contemporaneamente a pubblicare saggi giuridici. L’esperienza della guerra volse i suoi interessi letterari dal campo del diritto alla narrativa e allla saggistica. Scrisse così il suo primo romanzo, ”Ritorno da Poggio Boschetto” (Vallecchi, 1954, poi ripubblicato nel 1966 col titolo ”Ponte Perati / La Julia in Grecia”, e poi ancora nel 1974 nei pocket Longanesi).
Del 1970 è il romanzo ”Straniero in paradiso”, ambientato negli Usa dove Cecovini viaggiò per quattro mesi, ospite del Department of State, ricavandone anche uno studio di diritto comparato,
”La giustizia negli Stati Uniti d’America”.
Nel 1952 egli lascia la magistratura e passa all’Avvocatura dello Stato, dalla quale si ritirerà nel 1979, con la qualifica di Avvocato Generale dello Stato onorario, quando sarà eletto al primo Parlamento Europeo uscito dal suffragio universale. Frattanto era stato promosso al grado di Maggior Generale della Giusitiza Militare, nella riserva. Già dal tempo del Governo Militare Alleato a Trieste (presso il quale egli fu distaccato come consulente giuridico e draftman), Cecovini si era interessato di politica, soprattutto in difesa degli interessi della sua città, duramente provata dallo scontro fra le potenze occidentali e quelle orientali. Consigliere comunale negli anni ’60/’70, nel 1976 fu tra i fondatori della Lista per Trieste, movimento autonomista dichiaratamente italiano, più noto fuori Trieste come «Il Melone». Fu sindaco della città negli anni 1978-1983, parlamentare europeo nel quinquennio 1979-1984, consigliere regionale dal 1988 al 1993, alla scadenza del quale si ritirò definitivamente dalla politica, per dedicarsi soltanto alle lettere. Da questa massa di esperienze Cecovini ha tratto la materia della sua narrativa saggistica. Vari elementi biografici si deducono pertanto dai suoi scritti, e specialmente dai libri di contenuto politico.
Secondo un’illustre tradizione triestina, Cecovini è stato anche attivo membro della Massoneria, a livello locale, nazionale e internazionale. Per dieci anni resse la giurisdizione italiana del Rito Scozzese Antico e Accettato, e fu poi insignito delle qualifiche di Sovrano Gran Commendatore onorario e di Gran Maestro onorario a vita del Grande Oriente d’Italia.
Di lui già nel 1974 Alberto Spaini aveva detto:
«Cecovini possiede innata la sottile ironia, in genere sconosciuta agli scrittori triestini, che lo colloca a un posto raggiunto solo dall’ultimo Svevo». Era un giudizio che riguardava solo lo scrittore. Più completo il giudizio espresso dall’ancora vivente e attivo Diego de Castro, a pagina 234 delle sue ”Memorie di un novantenne” (Mgs Press, Trieste 1999): «Circa la poliedricità dell’intelligenza di Cecovini penso di essere un testimone molto credibile perché ho scritto la prefazione a tre suoi volumi intitolati ”Dare e avere per Trieste”, nei quali è riassunta tutta la sua attività. Cecovini è un ottimo giurista, un letterato che ha scritto decine di libri sì da di venire uno dei migliori scrittori triestini di questo secolo; divenne il capo della massoneria nazionale e diverrebbe capo di qualsiasi attività verso la quale rivolgesse il suo intelletto».
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http://ilpiccolo.gelocal.it/trieste/cronaca/2010/11/07/news/l-auto-coccodrillo-di-cecovini-io-un-pittore-mancato-con-le-radici-in-carso-1.18551
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