lunedì 10 ottobre 2016

É ORA DI CAMBIARE IL MODELLO DELLE RESIDENZE PER ANZIANI! É ora di cambiare il modello delle residenze per garantire i servizi alle persone anziane: altri paesi europei ed alcune esperienze pilota in Italia, già da qualche tempo hanno consolidato esperienze innovative in questo settore, abbandonando i vecchi modelli istituzionalizzanti.

É ORA DI CAMBIARE IL MODELLO DELLE RESIDENZE PER ANZIANI!

É ora di cambiare il modello delle residenze per garantire i servizi alle persone anziane: altri paesi europei ed alcune esperienze pilota in Italia, già da qualche tempo hanno consolidato esperienze innovative in questo settore, abbandonando i vecchi modelli istituzionalizzanti

Questo percorso di cambiamento non può che partire dalla considerazione che molti dei modelli ancora in utilizzo non rispondono ai reali desideri delle persone: a  partire da coloro che risiedono nei centri e di chi vi deve entrare (spesso intimoriti dalla prospettiva) sino ad arrivare agli stessi familiari che, obbligati alla situazione di non poter più assistere il proprio familiare in casa, si trovano in difficoltà sia nel momento in cui  occorre riflettere su come, quando, dove e cosa fare, sia  successivamente quando il loro familiare è in struttura, a vivere sensi di colpa più o meno manifesti. Così succede che le persone anziane e i loro familiari fanno ricorso alle residenze quando non rimane altro rimedio possibile.

Questa percezione diffusa dipende evidentemente dal modello secondo il quale si sta ancora costruendo e organizzando strutture residenziali per anziani: centri di elevata capienza (100 e più posti letto), che funzionano secondo gli schemi della istituzione totale (assistenza uniforme poco personalizzata, insufficiente privacy, assistenza basata sui processi della organizzazione e non sulla persona, alzarsi e lavarsi a un certa ora mangiare in orari impensabili in casa propria, etc ),  e spesso l’istituzionalizzazione è totale. C’è da segnalare che il dibattito sulla ridefinizione del modello residenziale in alcuni paesi del nord Europa è iniziato circa venti anni fa. In Svezia, Danimarca, Germania, Gran Bretagna e Francia, già da qualche tempo non si costruiscono più, né si parla di residenze realizzate in questo modo (in Danimarca sono proibite per Legge fin dal 1987)

(immagine da “PaesaggiMutanti.it”) - Il COHOUSING, una forma di coabitazione intenzionale, è UNA MODALITÀ DI ABITARE che consente a un gruppo di persone di lavorare insieme per realizzare LUOGHI DOVE VIVERE che offrano al contempo SPAZI PRIVATI e SPAZI COLLETTIVI (…)  L’idea del cohousing nasce in DANIMARCA e il concetto di “COMUNITÀ DELL’ABITARE” si è presto diffuso in tutto il mondo, specialmente in SVEZIA, STATI UNITI, CANADA, AUSTRALIA, OLANDA, GERMANIA, FRANCIA e BELGIO. Da qualche anno il cohousing è sbarcato in Italia, dove sembra aver riscosso più successo nel mercato immobiliare che sul terreno del sociale, permettendo di immettere nel settore un prodotto alternativo alle case di riposo per anziani. (immagine e testo tratto dal sito http://paesaggimutanti.it/)

I principi che hanno stimolato questo progresso nei modelli residenziali e che devono essere alla base delle future strategie di cambiamento in Italia sono strettamente legati all’evolversi dell’immagine dell’anziano.Tra i concetti su cui si fonda questa evoluzione, è bene porre l’accento in primis a quello dell’anziano attivo: è necessario promuovere la sua autonomia piuttosto che l’assistenzialismo; il rispetto del suo diritto di libera scelta del modo e del luogo in cui desidera trascorrere questa fase della propria vita. È necessario, inoltre, considerare le congiunture economiche e la necessità di coniugare risorse sempre più esigue rispetto a bisogni sempre più crescenti con l’invecchiare generalizzato della popolazione. La possibilità di trasformare i vecchi modelli per ottenerne di nuovi è vincolata ovviamente dal livello di crescita culturale e politica delle società e delle comunità locali oltre che dalla mediazione tra interessi pubblici e interessi privati che in questo settore sono fisiologicamente presenti. Nei luoghi in cui la cultura sociale rispetto a questi temi ha saputo evolversi, il modello residenziale tradizionale è stato ormai sostituito da modelli che prendono il nome di alloggi assistiti e con servizi costituiti da piccole unità di convivenza anche per persone con deterioramento cognitivo. In questi alloggi è garantita oltre che l’assistenza personale, la vita privata, l’indipendenza e tutto ciò che la persona anziana, al di là del suo deterioramento cognitivo è in grado di fare seguendo le sue abitudini personali, il suo ritmo di vita, soddisfacendo i propri desideri, secondo le sue capacità di esercitare un controllo della sua vita.  È soprattutto garantita la possibilità per la persona anziana di poter scegliere il luogo in cui vivere nella fase della vita legata al suo invecchiamento appare di fondamentale importanza in quanto può in maniera diversa sviluppare il suo invecchiamento attivo e la sua autonomia e nello stesso tempo aver garantiti servizi che promuovano ancora  quest’ultima anche nelle fasi di graduale sua riduzione .

In effetti, il tema tradizionalmente è stato affrontato  nel suo dualismo:

istituzionalizzazione si /no?,
residenza si/no?,
invecchiare in casa si/no?

Con questi esempi, oggi possiamo dire che il dualismo è superabile anche nelle nostre realtà perché è superato in diverse esperienze europee e internazionali.  La promozione di un insieme di mezzi, programmi e interventi trasversali hanno potuto, da una parte rivedere  i sistemi dell’organizzazione degli spazi e interventi nelle  residenze, dall’altra i sistemi dell’organizzazione degli spazi  nelle case , entrambi finalizzati al rispetto della autonomia decisionale e operativa della persona anziana nel rispetto dei propri gusti e aspettative di vita attiva e qualitativamente proponibile. Anche la Spagna, paese che caratteristiche economiche e sociali ci è più prossimo in Europa, si sta adeguando e in alcune delle sue regioni autonome (Paesi Baschi, Galizia) è stato avviato un profondo ripensamento, anche normativo, indirizzato alla sperimentazione di nuovi modelli di servizi in favore delle persone anziane e in particolare del sistema delle  residenze e degli interventi di aiuto a domicilio. Un gruppo integrato di una ventina di esperti di differenti professioni provenienti da diverse regioni ed enti privati si è costituito alla fine del 2008 su proposta di IMSERSO (organismo ministeriale dedicato all’assistenza degli anziani), il cui compito è di analizzare il modello attuale di residenze per anziani  ed elaborare un documento che ponga le basi per un approccio nuovo alle abitazioni per anziani che a causa della loro dipendenza non possono continuare a vivere  proprio domicilio. I modelli che anche in Spagna si stanno proponendo, vanno dall’adattamento delle residenze per anziani in modelli di nuclei di convivenza, per vivere come in casa, ai modelli dei Centri Multiservizi Servizi Integrati. In entrambi i casi, i cambiamenti hanno riguardato non solo gli elementi architettonici, costruttivi e adattattivi, compresi gli arredi delle strutture in termini di disponibilità di spazi propri e arredi personalizzati;  ma soprattutto il modello organizzativo e l’approccio assistenziale nei confronti degli ospiti: vivere come in casa con meno sanitarizzazione e più sostegno e accompagnamento nel percorso di vita autonoma e attiva.


Si è trattato di adattare anche l’offerta di servizi alle nuove domande emergenti e di promuovere i servizi in rete diversificando la stessa offerta delle strutture: offerta residenziale, diurna, domiciliare, etc.  Sono centri vivi, aperti, più attrattivi e flessibili e di maggior qualità di offerta in quanto permettono che attorno allo steso centro si avvino percorsi e processi di inclusione sociale con il resto della comunità. Da questi centri parte la teleassistenza, la promozione dell’autonomia personale, l’aiuto a domicilio, catering, lavanderia, centro diurno, assistenza personale e, quando necessaria, assistenza residenziale. La persona anziana potrà usufruire di questi multiservizi a sua scelta e/o dei propri familiari decidendo di vivere in maniera permanente nel Centro o usufruire di opportunità di accudimento nel prendere un caffè, dormine nel fine settimana o per settimane, sostare per solo la giornata o solo la notte, farsi lavare la biancheria o farsi fornire il pasto per conto del Centro, in maniera duratura o saltuaria. Naturalmente il servizio residenziale è struttura in unità di convivenza per 6-8-12 persone che vivono come se fossero nella loro casa.  Le persone hanno il loro appartamento personale ma condividono nello stesso nucleo di convivenza il soggiorno, la cucina, la sala da pranzo, sale comuni per il tempo libero e attività: l’idea è di permettere agli ospiti di poter personalizzare il proprio ambiente circostante, arredare il proprio appartamento. Ciascun ospite ha un referente personale che lo accompagna nel suo progetto di invecchiamento attivo, offrendo il suo contributo nella routine quotidiana e soprattutto nei casi di necessità e urgenze, informando personalmente i familiari dell’anziano. La famiglia naturalmente partecipa al programma di vita, nonostante il proprio anziano sia in residenza , anche trascorrendo buona parte della propria giornata nel centro, secondo le proprie disponibilità Gli stessi centri multiservizi possono contenere unità di convivenza sociosanitaria destinate a persone in situazione di dipendenza che in maniera provvisoria o definitiva, non possono continuare la loro vita con un’assistenza sociosanitaria nel proprio domicilio. https://abitaresociale.net/2013/02/11/e-ora-di-cambiare-il-modello-delle-residenze-per-anziani/

https://abitaresociale.net/



COHOUSING e CASE CONDIVISE – L’ABITARE, per necessità o per vocazione, che cambia e cerca modi nuovi di proporsi – CITTA’, quartieri, periferie, stanno trasformando il nostro “abitare” e i servizi alla MOBILITA’ – L’interessante esperienza del COHOUSING

Il COHOUSING, una forma di coabitazione intenzionale, è UNA MODALITÀ DI ABITARE che consente a un gruppo di persone di lavorare insieme per realizzare LUOGHI DOVE VIVERE che offrano al contempo SPAZI PRIVATI e SPAZI COLLETTIVI (…)  L’idea del cohousing nasce in DANIMARCA e il concetto di “COMUNITÀ DELL’ABITARE” si è presto diffuso in tutto il mondo, specialmente in SVEZIA, STATI UNITI, CANADA, AUSTRALIA, OLANDA, GERMANIA, FRANCIA e BELGIO. Da qualche anno il cohousing è sbarcato in Italia, dove sembra aver riscosso più successo nel mercato immobiliare che sul terreno del sociale, permettendo di immettere nel settore un prodotto alternativo alle case di riposo per anziani. (immagine e testo tratto dal sito http://paesaggimutanti.it/) 
(immagine da “PaesaggiMutanti.it”) – Il COHOUSING, una forma di coabitazione intenzionale, è UNA MODALITÀ DI ABITARE che consente a un gruppo di persone di lavorare insieme per realizzare LUOGHI DOVE VIVERE che offrano al contempo SPAZI PRIVATI e SPAZI COLLETTIVI (…) L’idea del cohousing nasce in DANIMARCA e il concetto di “COMUNITÀ DELL’ABITARE” si è presto diffuso in tutto il mondo, specialmente in SVEZIA, STATI UNITI, CANADA, AUSTRALIA, OLANDA, GERMANIA, FRANCIA e BELGIO. Da qualche anno il cohousing è sbarcato in Italia, dove sembra aver riscosso più successo nel mercato immobiliare che sul terreno del sociale, permettendo di immettere nel settore un prodotto alternativo alle case di riposo per anziani. (immagine e testo tratto dal sito http://paesaggimutanti.it/)
   Sulla importante questione dell’ABITARE (che è esigenza fondamentale della nostra vita, al pari di salute, affetti, lavoro…) il pensiero geografico può (e dovrebbe) dire molto: forse mai come in questi anni viviamo trasformazioni epocali sul senso di vivere in città o in campagna (e maggiormente accade in periferie diffuse periurbane, disordinate e casuali nel loro disporsi, e non è un aspetto positivo come a volte potrebbe essere…).

TRENTO - Piazza del Duomo – per “ICITY RATE”, la CLASSIFICA delle CITTÀ INTELLIGENTI, nel 2013 TRENTO è prima (poi Bologna e Milano) (v. http://www.icitylab.it/) 
TRENTO – Piazza del Duomo – per “ICITY RATE”, la CLASSIFICA delle CITTÀ INTELLIGENTI, nel 2013 TRENTO è prima (poi Bologna e Milano) (v. http://www.icitylab.it/)
   L’ABITARE, che si esprime nella collettività istituzionalmente in città medio-grandi, più o meno ben organizzate e divertenti da viverci (con i pro e i contro), oppure in comuni medio-piccoli, bisognosi di essere ripensati (rivisti, sciolti, cancellati…), geograficamente riorganizzati in territori più confacenti, più credibili nell’epoca in cui viviamo. Va detto che ogni tentativo di costruire “nuove città” è assai rischioso: Il fallimento dei progetti urbani calati dall’alto, “perfetti”, è cosa che accade spesso (le città che si son dotate di nuovissime aree di servizi, commerciali e abitative, son spesso dei mostri…); ma è anche vero che le “CITTÀ GIARDINO” progettate nel secolo scorso non solo male (viene in mente il centro residenziale di Marghera progettato nel 1919 dall’ingegnere milanese Pietro Emilio Emmer), e appaiono un lascito sereno dell’urbanistica moderna novecentesca; e sono ancora un bell’esempio di ordine urbano e buon vissuto della popolazione (rispetto a quartieri popolari disadorni, o villette e “villettopoli” sparse qua e là…).

La visione del COHOUSING è quella di CREARE OASI DI COMUNITÀ nel mezzo di città che non consentono più forme di comunicazione adeguate e non impersonali tra i loro abitanti. Le abitazioni vengono progettate per facilitare la vita comunitaria e allo stesso tempo garantire agli occupanti di scegliere, secondo le proprie necessità e desideri, di vivere momenti privati o collettivi. Le abitazioni gestite in cohousing sono luoghi dove i “vicini” si aiutano gli uni con gli altri, dove la vita quotidiana è più facile e più soddisfacente che in situazioni tradizionali. Scegliere di vivere in cohousing non è come acquistare un appartamento in un condominio, ma comporta la scelta di CONTRIBUIRE E PARTECIPARE ALLA VITA COLLETTIVA.  In qualche modo viene riproposta L’IDEA DEL KIBBUTZ, DELLE COOPERATIVE OPERAIE, DELLE COMUNI, SENZA L’ASPETTO HIPPY che caratterizzava le esperienze degli anni 1970. (testo dal sito http://paesaggimutanti.it/)
La visione del COHOUSING è quella di CREARE OASI DI COMUNITÀ nel mezzo di città che non consentono più forme di comunicazione adeguate e non impersonali tra i loro abitanti. Le abitazioni vengono progettate per facilitare la vita comunitaria e allo stesso tempo garantire agli occupanti di scegliere, secondo le proprie necessità e desideri, di vivere momenti privati o collettivi. Le abitazioni gestite in cohousing sono luoghi dove i “vicini” si aiutano gli uni con gli altri, dove la vita quotidiana è più facile e più soddisfacente che in situazioni tradizionali. Scegliere di vivere in cohousing non è come acquistare un appartamento in un condominio, ma comporta la scelta di CONTRIBUIRE E PARTECIPARE ALLA VITA COLLETTIVA.  In qualche modo viene riproposta L’IDEA DEL KIBBUTZ, DELLE COOPERATIVE OPERAIE, DELLE COMUNI, SENZA L’ASPETTO HIPPY che caratterizzava le esperienze degli anni 1970. (testo dal sito http://paesaggimutanti.it/) 
La visione del COHOUSING è quella di CREARE OASI DI COMUNITÀ nel mezzo di città che non consentono più forme di comunicazione adeguate e non impersonali tra i loro abitanti. Le abitazioni vengono progettate per facilitare la vita comunitaria e allo stesso tempo garantire agli occupanti di scegliere, secondo le proprie necessità e desideri, di vivere momenti privati o collettivi. Le abitazioni gestite in cohousing sono luoghi dove i “vicini” si aiutano gli uni con gli altri, dove la vita quotidiana è più facile e più soddisfacente che in situazioni tradizionali. Scegliere di vivere in cohousing non è come acquistare un appartamento in un condominio, ma comporta la scelta di CONTRIBUIRE E PARTECIPARE ALLA VITA COLLETTIVA. In qualche modo viene riproposta L’IDEA DEL KIBBUTZ, DELLE COOPERATIVE OPERAIE, DELLE COMUNI, SENZA L’ASPETTO HIPPY che caratterizzava le esperienze degli anni 1970. (testo dal sito http://paesaggimutanti.it/)
   Ma ora si dovrà sognare nuovi orizzonti (si deve), pensare a città e quartieri che riescano a interpretare antropologicamente, concretamente, il presente che ancora non abbiamo ben chiaro, il futuro e il passato; di sicuro orientandosi sempre di più su forme di eco-sostenibilità, raziocinio, multiculturalismo, invenzione di nuovi stili di vita, coraggio nel cambiare, innovare ma anche conservare, di bellezza architettonica del “nuovo” e valorizzazione del “bello” che ci è stato lasciato in eredità dal passato (vi invitiamo a leggere attentamente il primo articolo di questo post che ci pare contenga degli spunti interessanti per iniziare un discorso).

Il mondo, scrive Polci nel  saggio “CONDIVISIONE RESIDENZIALE, il silver cohousing per la qualità urbana e sociale in terza età”, «potrà contare nel 2030 su due miliardi di anziani; in Italia, nel 1961 gli over 65 erano il 9,5% della popolazione; nel 2011 il 20,3%». Una percentuale molto più alta di quella planetaria. (Gian Antonio Stella, da "il Corriere delle Sera" del 15/1/2014)
Il mondo, scrive Polci nel  saggio “CONDIVISIONE RESIDENZIALE, il silver cohousing per la qualità urbana e sociale in terza età”, «potrà contare nel 2030 su due miliardi di anziani; in Italia, nel 1961 gli over 65 erano il 9,5% della popolazione; nel 2011 il 20,3%». Una percentuale molto più alta di quella planetaria. (Gian Antonio Stella, da "il Corriere delle Sera" del 15/1/2014)
Il mondo, scrive Polci nel saggio “CONDIVISIONE RESIDENZIALE, il silver cohousing per la qualità urbana e sociale in terza età”, «potrà contare nel 2030 su due miliardi di anziani; in Italia, nel 1961 gli over 65 erano il 9,5% della popolazione; nel 2011 il 20,3%». Una percentuale molto più alta di quella planetaria. (Gian Antonio Stella, da “il Corriere delle Sera” del 15/1/2014)
   Ma  qui in particolare vorremmo concentrarci su un altro “ABITARE”, quello più intimo e personale delle nostre case, appartamenti, abitazioni… dove la trasforma- zione che sta (seppur lentamente e in piccola parte) avvenendo è rivolta a una eterogeneità di “convivenze”, che vanno oltre la famiglia tradizionale, o il single. Ci concentriamo in questo post in particolare sull’esperienza, ancora minimale ma assai interessante delle COHOUSING.

   Il cohousing, termine anglosassone che in italiano si potrebbe tradurre con “coabitazione”, sta a indicare una particolare forma di VICINATO ELETTIVO in cui coesistono abitazioni private e servizi comuni; gli spazi abitativi sono armonizzati in modo tale da salvaguardare la privacy di ciascuno e, nel contempo, soddisfare il bisogno di socialità. Spesso (lo scoprirete leggendo gli articoli di questo post) è una “necessità imposta”: per anziani, giovani, famiglie con scarsi mezzi che, in un periodo di riduzione drastica del welfare, accettano forme di coabitazione per risparmiare, in grado di vicariare servizi e di offrire socialità, in precedenza affidati alle famiglie d’origine o a servizi offerti dall’amministrazione comunale. A volte il cohuosing è “scelta vera”, non imposta dalle necessità, di aprirsi al “collettivo”, fare cose insieme agli altri, pur conservando un proprio spazio di ABITARE “privato” (cosa che invece mancava alle “comuni” degli anni settanta del secolo scorso, e le ha fatta miseramente fallire). Ma il bello del cohousing, della condivisione con altri nell’abitare, è che non c’è un unico “modulo”, c’è versatilità, flessibilità… ogni situazione è a sè.

   Ci interessa poi l’ “abitare collettivo”, quando si riferisce al RECUPERO DI COSTRUZIONI obsolete, cadenti: fabbriche, cascinali… ma anche BORGHI ABBANDONATI (a volte si parla di costruzione di ECOVILLAGGI).


IERI SI COSTRUIVANO LE UTOPIE, OGGI LA RETE DELLE COMUNITÀ – Ciò è il presupposto del libro di architettura “UTOPIA E COMUNITÀ - ANTOLOGIA” di Brunetto De Batté e Giovanna Santinolli  / Anno: 2010 / Pagine: 168 / euro 20,00
IERI SI COSTRUIVANO LE UTOPIE, OGGI LA RETE DELLE COMUNITÀ – Ciò è il presupposto del libro di architettura “UTOPIA E COMUNITÀ - ANTOLOGIA” di Brunetto De Batté e Giovanna Santinolli  / Anno: 2010 / Pagine: 168 / euro 20,00 
IERI SI COSTRUIVANO LE UTOPIE, OGGI LA RETE DELLE COMUNITÀ – Ciò è il presupposto del libro di architettura “UTOPIA E COMUNITÀ – ANTOLOGIA” di Brunetto De Batté e Giovanna Santinolli / Anno: 2010 / Pagine: 168 / euro 20,00
   Ma, nel discorso dell’ABITARE, accenneremo qui ad altre innovazioni legate alla MOBILITA’, al muoversi negli spazi del nostro quotidiano (casa, lavoro, acquisti, parenti, amici, tempo libero…), individuando alternative all’uso dell’auto privata (il CAR SHARING)

   E poi le ALTERNATIVE che ci possono essere AL PENDOLARISMO quotidiano, con il “lavoro da casa”, con lo spostamento della residenza e la facilità di trovare collocazioni abitative a buon prezzo… insomma la nostra epoca ha bisogno di RISPOSTE CONCRETE PER UN “NUOVO MODO DI ABITARE”. E pian piano molte cose stanno cambiando. (s.m.)
sebastianomalamocco - sabato 18 gennaio 2014


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“NUOVI QUARTIERI A MISURA DI NUOVI ABITANTI”

di Cino Zucchi, da LA LETTURA, inserto domenicale de “il Corriere della Sera” del 5/1/2014

   Dormire, lavarsi, studiare, preparare il cibo, riposarsi: la RICERCA FUNZIONALISTA del secolo scorso ha tentato di RIDISEGNARE L’ALLOGGIO DI MASSA secondo necessità universali, capaci di riformare sia l’ipocrisia dell’abitare borghese che il degrado degli slum della metropoli industriale.

   Ma l’elenco dei bisogni che l’alloggio moderno deve soddisfare andrebbe oggi aggiornato alla luce dei NUOVI DESIDERI E STILI DI VITA. Se i manuali razionalisti contenevano le sagome stilizzate di un’umanità «standard», i progetti delle NUOVE ABITAZIONI DOVREBBERO OSPITARE LE ICONE VARIEGATE DEI CITY USERS .

   Il concetto di «personalizzazione» ha ormai unito corpo, abbigliamento, gusti musicali e letterari degli abitanti, trasformando le pareti dell’ambiente domestico in un rifugio idiosincratico reso possibile dalle infinite scelte del «menù a tendina».

   Sia il modello collettivista delle «unità d’abitazione» che la risposta individualista della villetta suburbana hanno tuttavia segregato il concetto di casa da quello più complesso dell’ABITARE NELLA CITTÀ: da sfondo della vita collettiva, quest’ultima è spesso diventata SOLO un LUOGO DI LAVORO, DI SERVIZIO O DI INTRATTENIMENTO. I cambiamenti della società e dei suoi modi di vita hanno bisogno di risposte inedite.

   La sperimentazione progettuale contemporanea sul tema dell’abitare guarda con interesse a soggetti ai quali il mercato immobiliare degli ultimi anni non ha saputo rispondere: famiglie MONOPARENTALI o COPPIE ANOMALE, COABITAZIONE di studenti o giovani professionisti, lavoro domestico, COHOUSING, GRUPPI ETNICI O SOCIALI con esigenze particolari, PORTATORI DI HANDICAP, ANZIANI autosufficienti o no.

   Ma la semplice sommatoria di molte cellule abitative non è di per sé capace di generare lo spazio collettivo della città. La dimensione privata e quella pubblica hanno bisogno di interfacce o luoghi di transizione capaci di attivare un dialogo tra le diverse scale. Il grande interesse di alcune esperienze di urban design e di housing sociale contemporaneo — socialdemocrazie come l’Olanda ne hanno dato esempi particolarmente felici — dimostra come UNA SPERIMENTAZIONE LIBERA, CAPACE DI IMPARARE DAGLI AMBIENTI STORICI, può costituire un sano antidoto all’atomizzazione suburbana.

   LA CITTÀ EUROPEA — una risposta elaborata nei secoli con un sapiente meccanismo di prova ed errore — HA in fondo DIMOSTRATO DI SAPER ADATTARSI BENE A BISOGNI NON IMMAGINABILI nel momento della sua edificazione. Se la città non fosse in grado di sopravvivere ai destini individuali delle generazioni che l’hanno costruita, dovremmo distruggerla e rifarla ogni trent’anni.

   Un giusto rapporto tra innovazione e conservazione è anche la base per affrontare una delle questioni fondamentali di questo secolo, quella della SOSTENIBILITÀ. Essa non va limitata ai temi pur importanti del risparmio energetico e dell’uso delle energie alternative, ma va estesa a quelli della durata degli edifici e della qualità ambientale nel suo complesso. L’architettura «sostenibile» non deve essere una specialità, né deve ridursi a una sorta di «stile ecologico».

   Molti studi dimostrano come un abitante del centro consumi meno della metà dell’energia di uno dei sobborghi. UNA DENSITÀ ADEGUATA È UNA DELLE CONDIZIONI PRINCIPALI DELLA CITTÀ SOSTENIBILE; ma questo obiettivo va raggiunto in maniera differenziata, aumentando la «porosità» e il verde nella città storica e creando nuovi luoghi urbani nello sprawl che la circonda.

   La città europea ha bisogno di METABOLIZZARE MEGLIO IL MOSAICO DI SOTTOCULTURE che la connota sempre più, ACCETTANDO nel suo corpo ordinato LE ANOMALIE VITALI che rendono viva la dimensione metropolitana e INTEGRANDOLA con una NUOVA QUALITÀ DEL PAESAGGIO E DEL VERDE.

   Dalla nuova casa, dalla nuova città vorremmo questo, che fosse al contempo RASSICURANTE E INATTESA; con la speranza di trovare nelle complessità e contraddizioni del territorio contemporaneo quel senso di «naturalezza» che emana dagli ambienti storici che fanno ancora da sfondo amato alla nostra vita quotidiana. (Cino Zucchi)

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IL COHOUSING: ORIGINI, STORIA ED EVOLUZIONE IN EUROPA E NEL MONDO

a cura di MATTHIEU LIETAERT (docente di Scienze Politiche alla Richmond University e alla James Madison University di Firenze, dal 2010 vive e lavora a Bruxelles)

dal sito http://www.cohousingitalia.it/

INTRODUZIONE 
Il cohousing, termine anglosassone che in italiano si potrebbe tradurre con “coabitazione”, sta a indicare una particolare forma di VICINATO ELETTIVO in cui coesistono abitazioni private e servizi comuni; gli spazi abitativi sono armonizzati in modo tale da SALVAGUARDARE LA PRIVACY di ciascuno e, nel contempo, soddisfare il BISOGNO DI SOCIALITÀ, consentendo una risposta efficiente alla gestione di svariate questioni pratiche del vivere, sempre più complesse (cura dei bambini, cura degli ambienti ecc.).

   Il cohousing è, dunque, molto PIÙ ARTICOLATO e ricco DI UN TRADIZIONALE CONDOMINIO (in cui ognuno è trincerato nel proprio appartamento) ma è anche profondamente DIVERSO DA UNA COMUNITÀ O UN ECOVILLAGGIO che richiedono una condivisione profonda di un progetto comune di vita; nel cohousing, infatti, OGNI NUCLEO FAMILIARE POSSIEDE LA PROPRIA INDIPENDENZA, sia dal punto di vista economico che in merito alla propria visione della vita.
La prima esperienza di cohousing è sorta in DANIMARCA nel 1972, nei pressi di Copenhagen; nel 1977 ha fatto seguito l’OLANDA mentre in SVEZIA, in cui esisteva fin dagli anni ’30 una forte realtà comunitaria, negli anni ’80 il cohousing è stato riconosciuto e sostenuto dagli enti pubblici.
Negli anni seguenti il fenomeno si è diffuso in numerosi altri paesi (USA,  INGHILTERRA, CANADA, AUSTRALIA, GIAPPONE ecc.) tanto che oggi si possono stimare circa un migliaio di strutture di cohousing attive in tutto il mondo e numerosi sono i progetti in fase di avvìo; ANCHE IN FRANCIA E IN ITALIA si vanno realizzando esperienze simili e sussiste un vivace dibattito sul tema.
Analizzeremo di seguito la EVOLUZIONE STORICA DEL COHOUSING, dalla sua origine alla attuale estesa diffusione internazionale, attraversando aspetti relativi ai cambiamenti sociali, al ruolo delle comunità, al rapporto di amore-odio per la città e, quindi, alla sua DIFFUSIONE GEOGRAFICA NEGLI ULTIMI TRENTA ANNI (la nascita del fenomeno nel Nord Europa, la sua globalizazzione, la sua diffusione presso gli anziani e nell’Europa mediterranea).
I CAMBIAMENTI SOCIALI ALL’ORIGINE DEL COHOUSING 
Così come per molti fenomeni sociali, anche il cohousing è nato come RISPOSTA INNOVATIVA di base ad alcuni bisogni specifici delle società nord-occidentali in cui l’affermazione dell’individualismo ha comportato la graduale dissoluzione delle reti parentali tradizionali, di fatto non supportate dalla fragilità dei servizi di welfare.

   Non è un caso che il cohousing si sia diffuso, sin dall’inizio, nei paesi scandinavi in cui, già a partire dagli anni ’70, si andavano verificando problematiche sociali come la precarietà del mercato del lavoro, la dissoluzione della famiglia tradizionale, la crescita dei nuclei familiari monogenitoriali ecc.

   Si poneva, dunque, l’esigenza di luoghi di vita, come le strutture di COHOUSING, IN GRADO DI VICARIARE SERVIZI E DI OFFRIRE SOCIALITÀ, IN PRECEDENZA AFFIDATI ALLE FAMIGLIE D’ORIGINE.

   Poiché TALI PROBLEMATICHE HANNO progressivamente COINVOLTO ANCHE I PAESI MEDITERRANEI, il cohousing ha iniziato da alcuni anni ad essere preso in considerazione anche in Europa meridionale come un’alternativa concreta al modello familiare convenzionale, tanto che il dibattito culturale ha ricevuto in Francia e in Italia, nell’ultimo quinquennio, un significativo riscontro mediatico. In lingua danese, il significato letterale della parola che traduce il cohousing, bofaelleskaber, è “COMUNITÀ VIVENTE”, ad indicare la bellezza del vivere insieme.
Già nel periodo rinascimentale, importanti opere di saggistica come l’UTOPIA di Thomas More (1516) o LA CITTÁ DEL SOLE di Tommaso Campanella (1623), presentavano la vita comunitaria come un’alternativa concreta alla deriva individualistica della civiltà occidentale; ispirazione analoga hanno avuto in seguito anche le prime comunità utopico- socialiste del XIX secolo.

   Il XX secolo è stato ricco di molteplici e spontanee forme di vita comunitaria, dalle prime comuni hippy degli anni Sessanta alle realtà più consolidate e mature degli ecovillaggi dei nostri giorni. Anche se poi il cohousing si è molto differenziato dalle comuni degli anni ’60, è possibile considerare le sue origini come UNA DERIVAZIONE DELLE PRIME COMUNITÀ SORTE NEGLI USA E NEL REGNO UNITO tra gli anni Sessanta e Settanta; molti promotori di tali esperienze, spinti dal desiderio di una diversa socialità e di trovare risposte collettive a bisogni individuali, provenivano, infatti, dal movimento studentesco degli anni ’60 o avevano comunque fatto esperienze in comunità che si proponevano come alternativa radicale alla proprietà privata e alla famiglia tradizionale.
In sintesi, il COHOUSING potrebbe essere considerato come un TENTATIVO ORIGINALE DI REINTRODURRE RELAZIONI SOCIALI TIPICHE DELLE SOCIETÀ PRE-INDUSTRIALI NELLA REALTÀ POST-INDUSTRIALE odierna, anonima e impersonale. Infatti, come spiegano Durrett e McCamant (1993, i due architetti che per primi hanno  introdotto il tema negli Stati Uniti) lo stile di vita del cohousing non è del tutto nuovo.

   Nelle società preindustriali, i villaggi erano strutturati con solidi legami interpersonali e tutt’oggi, nei paesi meno industrializzati, le comunità presentano significativi legami di interdipendenza: le persone si frequentano abitualmente e maturano una approfondita conoscenza di sé e degli altri in funzione dei contesti vissuti. Le persone sono, in tal modo, più responsabilizzate per le proprie azioni ma ricevono in cambio, dalla comunità, SICUREZZA e SENSO DI APPARTENENZA.

   Il cohousing propone un modello di coesistenza abitativa che consente di riportare questo senso d’appartenenza a un luogo e a una comunità specifici, preservando, nel contempo, le esigenze di autonomia e indipendenza di ciascuno.
Nelle comunità preindustriali, inoltre, NON VI ERA SEPARAZIONE TRA ATTIVITÀ PROFESSIONALE E VITA DOMESTICA; i piccoli centri urbani, per esempio, non erano suddivisi in aree specializzate (residenziali, commerciali e industriali) ma abitazioni ed attività commerciali erano spesso edificate in egual modo e nei quartieri fiorivano piccole attività produttive domestiche.

   Le strutture di cohousing, sebbene abbiano principalmente destinazione residenziale, propongono sempre più modelli che riassociano attività professionale e vita domestica; anche se la maggior parte dei cohousers possiede attività lavorative esterne alla comunità, esistono, infatti, spesso forme di scambio professionale informale all’interno delle comunità.
Una ulteriore significativa caratteristica di questo modello abitativo è la COLLOCAZIONE QUASI SEMPRE URBANA O SEMIURBANA; si può dire, in tal senso, che il cohousing rappresenta una valida soluzione contro la crescente atomizzazione e solitudine delle  grandi città della nostra epoca.
Da sempre considerata come la culla della moderna cultura occidentale e luogo ideale per lo scambio di saperi e conoscenze, la “città” è stata celebrata da molti uomini di pensiero come la massima vetta del progresso. I centri abitati erano considerati da Aristotele “il luogo politico per eccellenza”, da Rousseau “il posto in cui i cittadini potevano radunarsi e proteggersi dall’autorità dello stato” e da Max Weber come “il luogo della cittadinanza e della libertà”.
Tuttavia, come sappiamo, NEGLI ULTIMI CINQUANT’ANNI LA CITTÀ È MUTATA PROFONDAMENTE, trasformandosi in luogo elettivo per la produzione e la competizione sociale e in contenitore per l’adattamento dei cittadini al processo di globalizzazione; I CENTRI STORICI, INFATTI, SONO ORMAI SEMPRE PIÙ VETRINE PERMANENTI E LE PERIFERIE SEMPRE PIÙ INVIVIBILI E DISUMANE.

   Come un centauro, la città da un lato affascina per le numerose occasioni offerte, mentre dall’altro spaventa per le difficoltà crescenti del vivere; in centri abitati così popolosi è sempre più difficile preservare le proprie radici mentre l’individualismo e lo sfaldamento della coesione sociale rendono, al contrario, l’individuo sempre più solo e con una bassa percezione di sicurezza sociale. Paradossalmente, dunque, PIÙ LA POPOLAZIONE DELLE CITTÀ AUMENTA PIÙ CRESCE LA SOLITUDINE DEI SUOI ABITANTI.

   Un tale scenario è destinato ad aggravarsi se è vero che, dalla fine del 2007, sono TRE MILIARDI LE PERSONE CHE VIVONO IN UN CENTRO URBANO: per la prima volta nella storia del genere umano, la popolazione delle città supererà quella delle aree rurali.
In questo contesto di grave mutamento epocale, il problema principale è senza dubbio la PERDITA DI COESIONE SOCIALE e la disgregazione della vita comunitaria a cui il cohousing tenta proprio di dare una risposta. Si sottolinea, inoltre, che i meccanismi speculativi del mercato abitativo hanno trasformato un bisogno primario come l’abitazione in bene di consumo, sottoponendo la sua legittimità a mere leggi di mercato; i costi elevati delle abitazioni urbane costringono, di conseguenza, le persone al decentramento, con dispendio notevole di energie negli spostamenti lavorativi.

   Abitare in cohousing consente, pertanto, di poter ovviare alle tante difficoltà indotte dalla crescente complessità della vita urbana, rappresentando concretamente un NUOVO MODELLO DI ABITARE E VIVERE LA CITTÀ e un’occasione per riscoprire socialità, cooperazione e solidarietà.
STORIA ED EVOLUZIONE DEL COHOUSING
Descriviamo di seguito l’evoluzione del fenomeno “cohousing” dal punto di vista storico-sociale, seguendo UN CRITERIO GEOGRAFICO e distinguendo alcune fasi significative. Sebbene, comunque, le varie esperienze di cohousing nel mondo differiscano tra loro per dimensione, ubicazione, tipologia di proprietà, aspetti progettuali e gerarchie di priorità, sottolineamo QUATTRO CARATTERISTICHE CHE ACCOMUNANO I COHOUSING EUROPEI, AMERICANI E AUSTRALIANI:
1. LA PARTECIPAZIONE. I residenti organizzano e partecipano ai processi di pianificazione e progettazione dell’operazione immobiliare e sono responsabili in modo collegiale delle decisioni finali.
2. LA PROGETTAZIONE INTENZIONALE. Il cohousing è progettato in modo da incoraggiare un forte senso di comunità.
3. AMPI SERVIZI IN COMUNE. Gli spazi comuni sono parte integrante del cohousing e sono progettati per un uso quotidiano a integrazione degli spazi privati.
4. LA GESTIONE DIRETTA DA PARTE DEI RESIDENTI. I residenti gestiscono la struttura decidendo in modo collegiale durante incontri periodici.
PRIMA FASE : NORD EUROPA (1970-1980) 
DANIMARCA 
Le prime esperienze risalgono al 1972, in continuità con il movimento del 1968, da cui comunque differiscono poiché affermano la IMPORTANZA DELLA PRIVACY E DEGLI SPAZI INDIVIDUALI; il cohousing nasce proprio dall’esigenza di rinvenire forme intermedie tra le comuni e i condominii-dormitorio.

   La prima struttura di cohousing nacque da un progetto di JAN GODMAND HOYER, un architetto che era stato positivamente influenzato da un articolo dello psicologo Bodil Graae, pubblicato sulla rivista Politiken (Aprile 1967), dal titolo “OGNI BAMBINO DOVREBBE AVERE 100 GENITORI” che metteva in discussione la famiglia nucleare.
Nel 1972, a Skraplanet, il primo cohousing, fu creato per 27 famiglie ma OGGI CIRCA IL 2% DELLA POPOLAZIONE DANESE VIVE IN COHOUSING. La NUOVA GENERAZIONE dei cohousers (anni ‘90 e 2000) tende ad avere un orientamento piú marcatamente “AMBIENTALISTA”, fino ad arrivare a condizioni anche estreme come, per esempio, a Munksoegaard, vicino alla cittá di Roskilde, dove le cinque case comuni sono state costruite dai cohousers stessi con BALLE DI PAGLIA ED ARGILLA, ottimi materiali isolanti.

   Alcune strutture di cohousing in Danimarca, come FRI OG FRO (letteralmente, “Liberi e Felici”), sono interamente costruite con la paglia, molto più economica del cemento, tanto che le famiglie hanno sostenuto poche spese per la costruzione. Al di là dei casi estremi, si sottolinea che, in caso di autocostruzione, è evidente che il processo stesso consente di creare coesione di gruppo all’interno di una particolare visione ecologico-sociale dell’abitare.
SVEZIA 
La Svezia ha una lunga tradizione di vita comunitaria in quanto giá negli anni ‘30 erano note le case popolari in cui diverse famiglie vivevano assieme; la rigidità del clima è stata una motivazione importante al cohousing così come le notevoli dimensioni geografiche del paese. Attualmente in Svezia esistono una cinquantina di strutture di cohousing, in gran parte pubbliche, di proprietà delle amministrazioni locali. La particolarità della realtà svedese risiede nel notevole investimento da parte delle istituzioni poiché in altri paesi, come in Danimarca o negli Stati Uniti, le strutture sono per lo più private con forme di sostegno variabili da parte delle amministrazione pubbliche.
Anche in Svezia si fanno risalire le prime esperienze agli anni ’70 ma, mentre inizialmente la motivazione al cohousing era prevalentemente di natura politica (anche il movimento femminista ha giocato un ruolo molto importante all’epoca), in seguito ha assunto sempre più una veste di ordine pratico, con prevalente presenza di persone agiate che ricercano una migliore qualità di vita.
La associazione KOLLEKTIVHUS NU, nata nell’aprile del 2005, aggrega i gruppi di cohousing svedesi che, con modica cifra, possono diventarne membri, mettendo in rete le esperienze per raggiungere un pubblico più vasto e sfatare pregiudizi e luoghi comuni, come per esempio la mancanza di privacy. “Siamo convinti”, afferma il portavoce dell’associazione “che molte più persone vivrebbero in cohousing se sapessero come funziona realmente… e non si tratta affatto, come pensano molti, di rinunciare alla propria vita privata…anzi direi che il cohousing offre ottime opportunità per l’individualità”.
A STOPLYCKAN (la maggiore struttura di cohousing della Svezia) vivono oltre 400 persone che versano un basso canone mensile di affitto al comune; sono suddivise in 184 appartamenti con 13 condominii…un vero e proprio villaggio! La particolarità di Stoplickan è la GESTIONE EFFICACE DEGLI SPAZI COMUNI: durante il giorno, infatti, alcuni spazi della struttura (palestra, mensa ecc.) sono utilizzati da enti pubblici per attività con anziani e persone diversamente abili, pienamente integrati nella comunità di cohousing, mentre di sera questi stessi spazi vengono utilizzati dai cohousers per le proprie attività, versando al comune un canone minimo di affitto; si tratta, dunque, di un evidente modo per ottimizzare l’uso di strutture pubbliche.
OLANDA
Nel 2008 in Olanda c’erano oltre 100 cohousings, ciascuno con 30-70 unità familiari. Molti Centraal Wonen (Cohousing in olandese) sono membri del Landelijke Vereniging Centraal Wonen (www.lvcw.nl ) che, dagli anni ’70, può essere considerato il sindacato nazionale dei cohousers, a dimostrazione della grande diffusione del movimento in tutto il paese.

   Come in Danimarca e in Svezia, anche in Olanda il movimento culturale per il cohousing è nato negli ANNI ’60 quando nelle città universitarie (Nijmegen, Tilburg, Amsterdam, Utrecht e Groningen) i giovani, rifiutando le gerarchie tradizionali e il consumismo, proponevano NUOVI MODELLI SOCIALI INCENTRATI SULLA PERSONA, L’UGUAGLIANZA TRA I SESSI, LA AFFERMAZIONE GLOBALE DEI DIRITTI UMANI ecc.
A questa prima fase culturale ha fatto poi seguito una SECONDA FASE NEGLI ANNI ‘70 in cui furono realizzati i primi cohousing. Per comprenderne lo sviluppo in Olanda bisogna però prendere in considerazione due aspetti sociali importanti che, per quanto diffusi in tutta Europa, acquistano tuttavia particolare rilievo in questo paese: la PRESENZA INCISIVA DEL MOVIMENTO FEMMINISTA e la PRECOCITÀ DELLA SEPARAZIONE DEI GIOVANI DALLA FAMIGLIA DI ORIGINE con indipendenza abitativa al compimento della maggiore età.
A partire dalla metà degli anni ‘70, le attiviste dei movimenti femministi cominciarono a vivere in edifici dove potevano risiedere solo donne creando comunità femminili che hanno avuto un notevole valore storico;  anche se la radicalità del movimento si è esaurita nel tempo, ha giocato un ruolo importante nello sviluppo dei Centraal Wonen e nell’idea di comunità urbana.

   In Olanda, inoltre, è abituale che i giovani diciottenni abbandonino la abitazione di origine per vivere in modo indipendente e questa specifica tendenza culturale ha molto incoraggiato la creazione di strutture di cohousing per i giovani.
I CENTRAAL WONEN, costituiti da CASE PRIVATE CON ALCUNI AMBIENTI CONDIVISI, sin dall’inizio  erano finalizzati a sostenere il contatto tra persone di diversa posizione socioeconomica, di varia età anagrafica, con varie composizioni del nucleo familiare, favorendo in questo modo la più ampia integrazione sociale; le strutture di cohousing, solitamente di dimensioni ampie e con molti spazi collettivi,  non si ponevano, dunque, in alternativa al modello tradizionale di famiglia ma semplicemente proponevano un diverso modo di vivere il vicinato.
Le esperienze olandesi presentano anche altre peculiarità; parafrasando ancora Meltzer, si può dire che è l’organizzazione in CIRCOLI (CLUSTERS) a rendere il modello olandese così speciale. La metà dei progetti di cohousing in Olanda è organizzata in circoli che hanno ciascuno i suoi spazi comuni (sala, cucina, lavanderia ecc.) mentre la comunità ha un edificio comune per feste, incontri ecc.
SECONDA FASE:LA GLOBALIZZAZIONE DEGLI ANNI ‘90
GLI STATI-UNITI E LA DIFFUSIONE RAPIDA DEL COHOUSING
Verso la fine degli anni ‘80, due giovani architetti americani, CHARLES DURRETT e KATHRYN MCCAMANT, decisero di visitare i cohousing in Danimarca e per diversi mesi studiarono una decina di progetti già avviati.

   Al rientro negli Stati Uniti, pubblicarono un libro che ebbe notevole successo tanto che solo in un mese furono vendute 3000 copie. Durrett e McCamant hanno creato un vero movimento in tutto il paese, con oltre 250 progetti avviati, inducendo una diffusione esponenziale della cultura del cohousing.
Sono diversi i fattori che hanno contribuito alla espansione del fenomeno negli USA. In primo luogo il BISOGNO di tanti cittadini americani, spesso soli, DI RICREARE UNA COMUNITÀ; in secondo luogo, la possibilità di CONDIVIDERE LA STESSA LINGUA in tutto il paese; con facilità negli scambi per cui, nell’arco di pochi anni, si è creata una rete molto attiva, in grado di sviluppare progetti, dialogare con le amministrazioni locali, sostenere i nuovi gruppi ecc. A Seattle, per esempio, sono sorti in poco tempo 13 cohousings.

   In terzo luogo, l’attitudine molto pragmatica degli statunitensi ha rinforzato la MOTIVAZIONE ECONOMICA. Dal 2008, infatti, la crisi dei cosiddetti “subprime” con conseguente crollo del mercato abitativo, ha fatto sì che il cohousing venisse riconosciuto da molti imprenditori in virtù della serietà dei progetti, a carattere certamente non speculativo.
A giugno 2009, a Seattle, si è tenuto il primo incontro internazionale sul tema a cui hanno partecipato cohousers di tutti i paesi.

INGHILTERRA, AUSTRALIA, NUOVA ZELANDA: 
Dagli Stati-Uniti il fenomeno si è praticamente “globalizzato”. In primo luogo, si è sviluppato nel mondo anglosassone con particolare riferimento all’Australia e alla Nuova Zelanda, dove gli ecovillaggi erano già molto diffusi. In Inghilterra, invece, il cohousing è arrivato tardi ed è strano che stia procedendo con molta lentezza malgrado la notevole partecipazione. A Laughton Lodge, per esempio, nella cittadina di Lewes vicino a Brighton, da circa otto anni diverse persone stanno cercando di realizzare un cohousing. Malgrado i numerosi tentativi, in Gran Bretagna nel 2007 c’erano soltanto sei nuove COMUNITÀ DI COHOUSING, di cui due AL DI SOTTO DEI SEI NUCLEI (QUINDI AL LIMITE DELLE DIMENSIONI PER POTER ESSERE DEFINITE COHOUSING), nonostante la rete dei cohousers sia molto attiva e vi siano diversi progetti in attesa di decollare.
TERZA FASE: IL BOOM DEI COHOUSING PER ANZIANI 
Il cohousing è certamente prediletto da molti anziani; per danesi, svedesi e olandesi si tratta ormai di una opzione realmente disponibile mentre in Gran Bretagna stenta ad attecchire, nonostante vi siano diverse comunità intergenerazionali.

   In Olanda, le circa 200 comunità di cohousing per anziani hanno goduto di un clima politico favorevole e del sostegno attivo delle agenzie di sviluppo edilizio che hanno incoraggiato questo sistema abitativo per ridurre i costi della assistenza sociale e sanitaria.

   Anche negli Stati Uniti si sta diffondendo il cohousing per anziani e, grazie alle reti informatiche, viene effettuata attività di formazione per realizzare progetti.

   In Italia, si sta progettando il primo cohousing per anziani a Milano (Acquarius) con 42 appartamenti (da 45 a 90 mq), immersi in un parco di 15.000 mq, a 45 minuti da Milano e da Torino; si tratta del primo Senior Cohousing italiano con oltre 800 mq di spazi comuni.
COME MAI C’È IL BOOM DEL COHOUSING PER ANZIANI? I fattori sono svariati: la solitudine degli anziani conseguente alle trasformazioni della famiglia, alla bassa natalità e alla mobilità occupazionale; la maggiore longevità con possibilità di relativa autonomia; l’esiguità dei nuclei familiari per separazioni ecc. Questo fa sì che, da un lato l’intera società stia invecchiando e dall’altro ciascuno, arrivato a 60 anni, può aspettarsi di vivere ancora un terzo degli anni già vissuti. In sintesi, la prospettiva di vivere da soli la terza età emerge come uno dei problemi più urgenti da affrontare, particolarmente per le donne che vivono anche più a lungo degli uomini.
La perdita della propria indipendenza e la presenza di nuovi bisogni accresce il desiderio di relazioni sociali ravvicinate e, per dirla con un proverbio olandese, diviene per un anziano preferibile avere  “un conoscente vicino che un amico lontano”.
QUARTA FASE: LO SVILUPPO IN ALTRI PAESI EUROPEI 
Nell’Europa mediterranea il fenomeno è arrivato in ritardo ma si sta rapidamente diffondendo in paesi come SPAGNA, FRANCIA e ITALIA.  In Francia attualmente il cohousing (COHABITAT IN FRANCESE) sta per diventare il nuovo modello abitativo per una generazione di giovani famiglie; ha le sue radici storiche in un movimento solido ma molto eterogeneo, la RETE DEGLI ECO VILLAGGI, e in particolare negli Habitats Groupés, comunità molto simili al cohousing nate trenta anni fa di cui esistono diverse dozzine in tutto il paese. Attualmente in Francia operano per il cohousing almeno due cooperative edilizie.
In Italia, a partire dal 2006, si è verificata una crescita esponenziale di progetti e una discussione mediatica molto interessante con due modelli operativi prevalenti: il primo, mediato da agenzie, riflette il modello americano secondo cui UNA ÉQUIPE DI ESPERTI (IMMOBILIARISTI, ARCHITETTI, PSICOLOGI ECC.) SOSTIENE LE FAMIGLIE PER CREARE UNA COOPERATIVA E REALIZZARE IL PROPRIO PROGETTO; un esempio in tal senso è rappresentato da Cohousing Venture di Milano che, con oltre 10 progetti in cantiere, edifica e vende le abitazioni, sostenendo le famiglie in un percorso di formazione al cohousing.

   Il secondo modello, simile a quello danese, prevede che le famiglie gestiscano autonomamente il processo senza pagare alcun servizio (costituzione della cooperativa, contatto con enti pubblici, ricerca delle abitazioni sul mercato immobiliare ecc.) anche se il risparmio economico comporta poi un allungamento dei tempi di costruzione (fino a 4-5 anni).
Non è per ora possibile prevedere quali saranno le evoluzioni e gli esiti di questo processo appena iniziato, ma certamente la diffusione mediatica e la notevole partecipazione dimostrano che il cohousing risponde ad una esigenza sentita da molti italiani. Un sondaggio realizzato nel 2006 su 3000 cittadini di Milano ha dimostrato che oltre il 50% delle persone era interessata al cohousing mentre circa il 20% si dichiarava disponibile  fare una esperienza.
CONCLUSIONI 
Dopo il nostro excursus, è lecito chiedersi come mai il cohousing si stia tanto diffondendo nel mondo, nonostante l’accentuato individualismo e le difficoltà delle relazioni sociali dimostrate dalle conflittualità crescenti all’interno dei condominii.
IL POTERE SUGGESTIVO DEL COHOUSING RISIEDE, a mio avviso, NELLA SUA FLESSIBILITÀ. Si può dire, infatti, che “non c’è un cohousing uguale all’altro” proprio perché ogni struttura in cohousing è creata da e per le famiglie che la abitano, con i loro sogni e le loro energie.

   Le comunità di cohousing non potranno mai essere comunità rigide, con imposizioni di regole esterne, in quanto i cohousers stessi sono chiamati a definire il regolamento del proprio “villaggio”; in una comunità di cohousing niente è rigidamente prefissato: la dimensione e l’uso degli spazi comuni, l’organizzazione interna, le attività svolte ecc. ecc. vengono sempre decise collegialmente.
La possibilità di conciliare il rispetto della privacy con la vita in una comunità di 10, 15 o 20 famiglie è una enorme ricchezza che tanti cercano oggi in un mondo che ha raggiunto notevoli livelli di benessere materiale, mai accessibili prima, ma che vive in una profonda solitudine urbana. A mio avviso, è esattamente questo che può spiegare il successo del cohousing all’alba del ventunesimo secolo: la possibilità di scegliere come e con chi vivere ed abitare, condividendo il proprio quotidiano e le scelte sulla propria organizzazione di vita. (MATTHIEU LIETAERT, dal sito http://www.cohousingitalia.it/ )

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CASA IN CONDIVISIONE PER I FUTURI ANZIANI

di Gian Antonio Stella, da “il Corriere della Sera”del 15/1/2014
   Se è possibile condividere un’automobile, come dimostra il successo del «car sharing» che a Milano può già contare su sei società e 1.500 macchine usate dai cittadini che rinunciano a ingolfare il traffico con la loro auto privata, perché non provarci con le case?
L’idea del SILVER COHOUSING (la condivisione della casa da parte di chi ha i capelli d’argento) ha già trovato spazio in altre parti del mondo. Ma per il nostro Paese, secondo l’architetto SANDRO POLCI, ricercatore del Cresme (Centro ricerche economiche sociologiche e di mercato) legato a Legambiente, è una strada  obbligata.

   Proprio perché prima di altri ci troveremo a far fronte al problema dell’invecchiamento della popolazione e delle crescenti difficoltà abitative. Il mondo, scrive Polci nel saggio “CONDIVISIONE RESIDENZIALE, il silver cohousing per la qualità urbana e sociale in terza età”, «potrà contare nel 2030 su due miliardi di anziani; in Italia, nel 1961 gli over 65 erano il 9,5% della popolazione; nel 2011 il 20,3%». Una percentuale molto più alta di quella planetaria.

   Del resto nell’ultimo mezzo secolo la popolazione italiana è aumentata del 20%, quella anziana del 155%. Ce ne accorgiamo già oggi, ma domani il fenomeno sarà ancora più vistosa: «L’invecchiamento
collettivo è una patologia “palla di neve”: invisibile in avvio e, quando diviene visibile, difficile e dispendiosa da gestire. Sarà un mondo sempre che non avvengano ad oggi eventi imprevedibili e ben peggiori, in cui essere giovani europei sarà quasi un vezzo».
I nostri genitori mezzo secolo fa sognavano d’avere una stanza a familiare. Oggi ne abbiamo due, abbondanti. E per Polci «dobbiamo porci una domanda: come ottimizzare il patrimonio sfuggendo anche dai mali molteplici della solitudine?». I PROBLEMI, infatti, SONO DUE.
Per cominciare, QUELLO ECONOMICO: gli anziani che vivono da soli sono 3,5 milioni, ben 2,3 hanno più di 75 anni e in poco meno di un terzo dei casi abitano in case di proprietà che sei volte su dieci hanno più di quattro vani. Spesso in condizioni mediocri se non addirittura pessime perché i proprietari, per quasi la metà
(46%), hanno pensioni inferiori ai 1000 euro al mese e non sono dunque in condizione di provvedere a una sana manutenzione.
Va da sè che, visto che «L’80% DEL BILANCIO MENSILE È IMPIEGATO PER TRE VOCI: CASA, BOLLETTE, SPESA, CONDIVIDERE UNA CASA RISTRUTTURATA con spazi comuni può generare una “liberazione di risorse” pari a 352 euro al mese a nucleo per nuclei di 2 persone, fino a 1.028 euro al mese per un nucleo di 4 persone. Si tratta di risorse che, una volta liberate, possono consentire notevoli incrementi della qualità della vita».

   Di più: una sistemazione del patrimonio abitativo, consentirebbe di reimmettere sul mercato da cento a
duecentomila case. Più ancora, però, questa soluzione potrebbe «LIBERARE LA POPOLAZIONE ANZIANA DALLA SOLITUDINE, dall’isolamento e dall’esclusione sociale, superando i problemi di incuria e di mancata  assistenza…».
Fantasie? Forse. Ma certo per uscire dalla crisi la creatività ci serve quanto l’ossigeno. (Gian Antonio Stella)

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L’ABITARE COLLETTIVO

di Giulia Reginetti, da http://living.corriere.it/tendenze/

– Esperienze di vita condivisa. Dalle prime comunità hippies al co-housing, in un libro ricco di storia, immagini e testimonianze –

   Nell’epoca dei social network e delle comunità virtuali, della globalizzazione e di un consumismo irrefrenabile, c’è ancora chi ogni giorno vive sperimentando un modo di abitare diverso, cioè collettivo, con le sue ritualità e le sue molteplici forme di aggregazione. Perché no, è piacevole pensare a uno stile di vita alternativo, a una sorta di continuo ritorno alla natura. E soprattutto, sapere che ci sia ancora qualcuno nel mondo che conserva in sè l’antico mito del “Buon selvaggio”.

VITA DA HIPPIES. Negli spazi comuni si vive a stretto contatto con la terra e con la natura, instaurando una sorta di legame spirituale. COMUNITÀ AUTOGESTITE ancora oggi come Acorn in Virginia, formata nel 1993 o come quella di Los Horcones, a Hermosillo, in Messico, che risale al 1973, hanno alla base la ricerca di un modus vivendi che si esprime nella COOPERAZIONE, nella COMPARTECIPAZIONE, nella NON VIOLENZA, nell’UGUAGLIANZA e nella SOSTENIBILITÀ ECOLOGICA.

   La prima è costituita da tre edifici per la residenza, una casa colonica dei primi del ‘900, un edificio moderno con la cucina in comune, un granaio e un’officina. I venti membri si riuniscono due volte la settimana, lavorano la terra e producono lanterne con materiali di recupero.

   La comunità di Los Horcones è formata invece da ventidue costruzioni, oltre a ricoveri per animali, giardini e frutteti, e i suoi membri mirano al perseguimento di UN’ESISTENZA FELICE E PRODUTTIVA PER TUTTI. Esemplare punto di riferimento ancora oggi è Twin Oaks, in Virginia, fondata nel 1967. Una comunità rurale, con una manifattura di amache e un caseificio, composta da sette edifici per cento persone, con bagni, cucina e soggiorno in comune. Qui vige un sistema di LEADERSHIP A ROTAZIONE in cui nessuno percepisce uno stipendio, perché il motto è: DA OGNUNO SECONDO LA CAPACITÀ, AD OGNUNO SECONDO IL BISOGNO.

LIBERTÁ, ECOVILLAGGI, COHOUSING. Dal fenomeno dell’abitare collettivo, che si traduce nella condivisione di valori sociali e nell’occupazione dei medesimi spazi vitali, si possono osservare FORME SPERIMENTALI E CREATIVE DELL’ABITARE. Arcosanti, città arcologica (basata sulla disciplina che unisce architettura ed ecologia), è situata in mezzo al deserto dell’ARIZONA lungo l’autostrada che collega Phoenix al Grand Canyon, e rappresenta UN’ALTERNATIVA ALLA CITTÀ CONTEMPORANEA: si vive con meno risorse energetiche, meno inquinamento, meno spreco di spazio e di materiali.

   Un altro esempio? Basta pensare a ciò che era DROP CITY (1965-1970), in Colorado, formata da cupole geodetiche costruite (in materiale riciclato) su modello di R.B. Fuller, come il Dome Village, a Los Angeles (progettato da un architetto allievo di R. B. Fuller), consistente in un insieme di cupole di pannelli in fiberglass.

   Attualmente ANCHE IN EUROPA SI STANNO SVILUPPANDO MOLTE STRATEGIE DI RECUPERO DI FABBRICHE, CASCINALI E BORGHI ABBANDONATI. Si parla di ECOVILLAGGI (molto diffusi soprattutto sugli APPENNINI DEL CENTRO ITALIA, come CÀ FAVALE nell’entroterra ligure oppure GRANARA nel cuore dell’Appennino Tosco-Emiliano) quando un gruppo di persone si impegna a vivere in una comunità basata sulla cooperazione e l’ecologia.

   UNA SOLUZIONE PIÙ FLESSIBILE È INVECE IL COHOUSING, modello di vita collettivo nato in Danimarca negli anni ’60 e diffuso sopratutto in Nord Europa, Usa e Australia: stessa città, stesso lavoro ma CONDIVISONE DELLO SPAZIO ABITATIVO E DI ALCUNI SERVIZI. In questo senso, l’esperimento olandese dell’Aja (Grote Pyr) è riuscito: una comunità ha presentato il progetto (realizzato nel ’99) di ristrutturazione di una EX SCUOLA ABBANDONATA in cui sono stati recuperati gli spazi sia per le residenze (unità abitative nelle classi) che per gli spazi collettivi (bar, museo, laboratori, spazi per esposizioni), laddove sistemi “ecocompatibili” salvaguardano il patrimonio architettonico.

IL LIBRO. IERI SI COSTRUIVANO LE UTOPIE, OGGI LA RETE DELLE COMUNITÀ. Questo il presupposto alla base di un libro molto interessante che indaga le nuove dimensioni dell’abitare collettivo ripercorrendo la storia, dai movimenti sociali degli anni ’60 fino ai risvolti più recenti. UTOPIA & COMUNITÀ. ANTOLOGIA, è il titolo del volume di BRUNETTO DE BATTÉ E GIOVANNA SANTINOLLI (Ed. plug_in, euro 20). Un appassionato e accurato lavoro di ricerca ha portato gli autori ad andare a visitare in prima persona alcuni VILLAGGI E COMUNI IN GIRO PER IL MONDO. Da questa esperienza è nata l’idea di pubblicare una raccolta di citazioni storiche, fotografie, mappe, testimonianze, schede con le caratteristiche e le abitudini delle diverse comunità. Oltre a ciò si sono immersi nel mondo parallelo del web visionando online nella Communities Directory più di tremila centri attivi, senza contare i 22000 AMISH (solo nella zona Lancaster) e 270 KIBBUTZIN presenti ancora oggi e le comunità storiche (40 Falansteri fourieriani, 21 comunità hutteriane, 6 comunità icariane, 24 community shaker, 19 esperimenti oweniani) tramutate in monumenti e fondazioni. (Giulia Reginetti)

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L’ECO-VILLAGGIO AL CENTO PER CENTO DOVE CIBO ED ENERGIA SONO A «KM 0»

di Francesco Alberti, 12/1/2014, da “il Corriere della Sera”

– Parma Due: un modo travestito per urbanizzare un altro pezzo di territorio rurale: con la scusa della sostenibilità e del chilometro zero, l’ennesimo quartiere suburbano a bassa densità e filosofia ruralista? –

Parma – C’è un grande prato verde dove nascono speranze cantava Gianni Morandi. Il prato verde di Giovanni Leoni, 52 anni, imprenditore agricolo parmense con una rivoluzionaria idea in testa e un progetto che a mesi diventerà realtà, sono i 28 ettari sui quali il prossimo settembre verranno posate le 60 ABITAZIONI (per altrettante famiglie, totale 240 PERSONE) del suo AGRIVILLAGGIO, UN QUARTIERE ECOLOGICO TOTALMENTE AUTOSUFFICIENTE dal punto di vista alimentare ed energetico, fornito di negozi e servizi, dove nulla viene sprecato, tutto viene prodotto secondo i cicli naturali dell’agricoltura e i cui abitanti si muovono a piedi, in bici o con auto elettriche.
Un eco-villaggio, «unico al mondo» afferma Leoni, capace di provvedere ai bisogni dei residenti nel rispetto dell’ambiente. Dove la filosofia del «Km 0» trova piena attuazione (Leoni parla di «iperzero»): «Tra il consumatore residente nel villaggio e l’agricoltore non ci sono intermediari né sprechi di risorse per il trasporto: tutto viene prodotto all’interno dell’Agrivillaggio, a cominciare dai prodotti di stagione».

   Il cuore pulsante, «IL POLO ENERGETICO» come lo chiama Leoni, È LA STALLA già perfettamente funzionante e in linea con le migliori tecnologie, che sforna cibo, consente il riciclo dei rifiuti e produce energia (biogas, quindi metano).
Il progetto di Leoni, a un tiro di schioppo da Parma, a VICOFERTILE, dove la campagna lambisce la prima periferia, non è un ritorno al Medioevo, «né una suggestione da eremita». È un MODO DIVERSO DI PENSARE IL FUTURO, l’alimentazione, l’abitabilità, i rapporti sociali. Un modello alternativo alle grandi megalopoli-dormitorio che parte dalla constatazione «dell’enorme debito ecologico che il genere umano ha ormai contratto con la Terra».

   Un modello che punta, nel rispetto dei cicli, a creare UN MONDO CON PIÙ BENI E SERVIZI E UN MINOR IMPATTO AMBIENTALE:«A differenza di adesso, l’agricoltura del futuro dovrà partire dal fabbisogno ideale di ciascuno, guardando in faccia il consumatore». È quella che Leoni chiama «agricoltura on demand»: «Nel villaggio gli orti e i frutteti produrranno cibo per un migliaio di persone, anche se i residenti sono 200: l’eccedenza sarà venduta all’esterno».
Se negli ultimi dieci anni Leoni ha potuto dedicarsi anima e corpo al progetto dell’Agrivillaggio — che decollerà ufficialmente all’inizio del 2015 per SFRUTTARE LA SCIA DELL’EXPO DI MILANO e che si è avvalso della consulenza di architetti, biologi e ingegneri — lo si deve alla solidità della sua azienda agricola, leader nel settore, che produce ogni anno 1500 forme di Parmigiano-Reggiano, 22 mila quintali di pomodori e 10 mila di cipolle.

   L’azienda sarà il cuore pulsante dell’Agrivillaggio. È in essa che Leoni ha riversato le conoscenze accumulate nelle più diverse aree del mondo (dall’Argentina all’Australia) nel campo della sperimentazione agricola e ora confluite in una sorta di «fattoria didattica» per gli studenti delle scuole medie e superiori.

   Anche sul piano urbanistico il progetto presenta lati innovativi. ISPIRATO DALLE TEORIE DELL’ARCHITETTO FRANK LLOYD WRIGHT («La città vivente», 1958) e dalle TRANSITION TOWNS FONDATE IN IRLANDA E IN INGHILTERRA DALL’AMBIENTALISTA ROB HOPKINS, l’Agrivillaggio prevede nuove concezioni abitative: «Case a un piano con un tetto che fa da terrazza sugli orti. Ogni modulo poggia su una piattaforma di cemento e ha una superficie di 18 metri quadrati. Saranno i residenti a scegliere la metratura: basterà aggiungere o togliere i moduli».
Il costo della casa, fornita di fotovoltaico e solare termico, è volutamente basso per consentire a tutti di usufruirne: «Non si acquista la terra, che resta di proprietà dell’azienda, ma il diritto di superficie. Chi vuole può acquistare una quota che diventa una sorta di pensione integrativa».

   Autogestita anche l’urbanizzazione. NON CI SARANNO FOGNE: «TRAMITE LA FITODEPURAZIONE i rifiuti vengono trasformati in cibo per piante, biomassa e quindi energia». Di notte funzionerà UN’ILLUMINAZIONE AL PASSAGGIO.

   E poi c’è l’aspetto sociale: «LA SPESA A “KM 0”, la possibilità del TELELAVORO e i servizi del villaggio consentiranno ai residenti di dedicare PIÙ TEMPO AI FIGLI E AGLI ANZIANI».
La grande incognita tra Leoni e il suo sogno si chiama, guarda caso, burocrazia: «Stiamo aspettando il varo del Piano strutturale comunale, ci hanno assicurato una corsia preferenziale». E ci mancherebbe. Parma è governata da un monocolore 5 Stelle. E UNO DEGLI ISPIRATORI DELL’AGRIVILLAGGIO, nonché presidente della scuola, È MAURIZIO PALLANTE, TEORICO DELLA «DECRESCITA FELICE», totem dei grillini. (Francesco Alberti)

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QUESTIONI DI INNOVAZIONE E NUOVI STILI DI VITA

il CAR SHARING

IL PENDOLARISMO CONDIVISO

– L’industria del CAR SHARING avanza in tutto il mondo: complice la diffusione del wifi e la possibilità di prenotare un’auto con lo smartphone –

di PIERO FORMICA, da “il Corriere del Veneto” del 8/1/2014

   Mentre in Veneto si discute sul pendolarismo, a scala internazionale si decide e la mobilità delle metropoli diffuse muta pelle. Le decisioni comportano cambiamenti radicali che tagliano come un panetto di burro tecnologie e modalità organizzative consolidate. L’INDUSTRIA NASCENTE DELL’AUTO CONDIVISA (IL CAR SHARING) È IN FERMENTO.

   È recentissima l’acquisizione per 500 milioni di dollari da parte di Avis, tra i giganti del noleggio auto, di Zipcar, leader mondiale del car sharing. La Daimler, proprietaria della Mercedes-Benz, ha con la sua società Car2Go circa 10mila veicoli condivisi in circolazione in più di 25 città nel mondo.

   Non solo le grandi imprese entrano nel business. Si fanno prepotentemente avanti anche i singoli proprietari di veicoli che affittano spesso per brevi tragitti i loro posti auto. E sono soprattutto le persone sotto i 40 anni, oggi il 60% dei clienti, a trainare la domanda del servizio di AUTO CONDIVISA.

CAR SHARING A PADOVA (da www.corriereinnovazione.corrieredel veneto.corriere.it)
CAR SHARING A PADOVA (da http://www.corriereinnovazione.corrieredel veneto.corriere.it)
   Con l’urbanizzazione in forte aumento, svanisce tra i giovani l’amore per il possesso dell’auto e cresce il desiderio di noleggiare un veicolo parcheggiato in strada per poche ore o minuti. E avanza la moda di sostituire l’auto con LA BICICLETTA INTELLIGENTE dotata di GPS e WIFI, a seguito della tendenza in calo dei giovani al volante quando si dilata la disponibilità di Internet.

   UNA GRANDINATA DI NUOVE TECNOLOGIE, dalle applicazioni per i dispositivi digitali all’internet delle cose (la coabitazione tra sensori intelligenti e oggetti anche di uso quotidiano come l’auto condivisa), si abbatte sul servizio taxi e bus e ne demolisce le alte barriere di regolamentazione. SOCIETÀ TECNologiche come Hailo, Easy Taxi e GetTaxi offrono applicazioni che CONSENTONO AI PASSEGGERI DI PRENOTARE senza passare per un centralino.

   I passeggeri smettono la veste dell’utente e indossano l’abito del cliente che può scegliersi il fornitore del servizio che più risponde alle sue esigenze. Taxi e bus, a loro volta, sono incentivati a compiere il salto imprenditoriale per sfruttare le opportunità offerte dalle tecnologie che si riflettono sulle preferenze dei consumatori. La loro forza dirompente è già in opera nei servizi aeroportuali.

   AEROPORTO DI HEATROW A LONDRA: servendovi di un portatile o di un telefonino multimediale, con un’apposita applicazione PRENOTATE UN TAXI. Riceverete sullo schermo l’identificativo del taxi, il percorso che verrà effettuato e la somma addebitata sulla vostra carta di credito. A Londra ricordano ancora quanto l’innovazione della carrozza a nolo nel 17mo secolo sconvolse i piani dei regolatori comunali di allora. Municipalità e Regione COME REAGIRANNO ALLE ONDATE DEL CAR SHARING E DELLE TECNOLOGIE DIGITALI, innovazioni che incidono profondamente sulla mobilità metropolitana?

   Secondo tradizione, sarà forte la voglia di arroccamento, magari aggrappandosi alla fune della resistenza che, per esempio, a New York vorrebbe impedire ai taxi gialli di servirsi dello smartphone? Continueranno gli amministratori locali a dettare regole obsolete oppure apriranno al pendolarismo il sentiero della sperimentazione affinché i pendolari possano familiarizzare con le nuove tecnologie e i nuovi modelli organizzativi che trasformano il servizio pubblico di mobilità in un’industria all’insegna della connettività?   (Piero Formica)

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IL “DIRITTO” A NON MUOVERSI

Trasporti, ricerca e diritti dei cittadini

di Corrado Poli, da “il Corriere del Veneto” del 7 gennaio 2014

   L’urbanizzazione diffusa del Veneto produce una domanda di mobilità personale superiore ad altre regioni e il trasporto pubblico è in grado di soddisfarne una quota minore. Strade e auto sono essenziali per fare funzionare l’economia e la società.

   La polemica di questi giorni sull’aumento dei pedaggi è sterile se non viene affiancata da ragionamenti più ampi. Per esempio sui costi che la collettività sostiene per soddisfare una domanda di mobilità fuori controllo la cui crescita sembra un destino ineluttabile.

   Sergio Zavoli nei primi anni sessanta denunciava l’ingiustizia subita da alcuni operai costretti a viaggiare “fino a mezz’ora (!)” per raggiungere il lavoro. Da allora ogni carenza di lavoro, istruzione, sanità, servizi è stata scaricata sulla mobilità: il progresso e la libertà sono stati intesi come la possibilità di accedere a un’area sempre più ampia in cui trovare quel che serve. Così, rivendicando il solo diritto a muoversi, ABBIAMO DIMENTICATO LA POSSIBILE ALTERNATIVA DI AVERE UNA CASA PRESSO IL POSTO DI LAVORO; O UN LAVORO VICINO A CASA, con i servizi necessari.

   Realisticamente, il sistema della mobilità s’è sviluppato in modo così pervasivo e complesso che non consente cambiamenti sostanziali in breve tempo. I flussi di spesa pubblica sono enormi e capillari e generano alleanze tra imprese e sindacati entrambi ostili a ogni cambiamento. Allo stesso tempo le abitudini dei cittadini sono radicate, anche se alcuni sarebbero disposti a cambiarle. Non si pretendono perciò rivoluzioni immediate, ma SI CHIEDE ALLA POLITICA E ALLA CULTURA DI PROSPETTARE SOLUZIONI INNOVATIVE – non solo infrastrutture materiali – che si realizzeranno tra dieci o trent’anni (comunque meno di quanti ne sono serviti a realizzare il Passante). I problemi della mobilità oggi sono affrontati con tecnologie e schemi mentali immutati da un secolo.

   La politica della mobilità del Veneto dovrebbe includere SOLUZIONI ANCHE PER CHI PREFERIREBBE MUOVERSI DI MENO. Oggi capita che io decida di trasferirmi presso il posto di lavoro o di studio per non dovere perdere tempo a viaggiare ed essere più produttivo. Un altro invece preferisce pendolare: è legittimo, ma PERCHÉ DEVO PAGARE DUE TERZI DEL SUO BIGLIETTO DEL TRENO PER MEZZO DELLE MIE TASSE?

   La mia impresa investe in una riorganizzazione aziendale che consente ai dipendenti di lavorare da casa uno o due giorni la settimana riducendo così la domanda di mobilità: PERCHÉ DEVE PAGARE LE TASSE PER SUSSIDIARE IL PEDAGGIO DELL’AUTOSTRADA DOPO AVERNE PERALTRO PAGATO LA COSTRUZIONE?

   Non è necessario ridurre gli spostamenti improduttivi del 20%: puntare a una diminuzione del 5% sarebbe un risultato sufficiente a cambiare una mentalità, a sviluppare nuovi mercati anche professionali della progettazione, a soddisfare diritti oggi trascurati, a risparmiare risorse e spesa pubblica.

   UNA RIORGANIZZAZIONE DEL LAVORO, eseguita da esperti gestionali, con l’obiettivo di ridurre il pendolarismo del 5%, costerebbe meno di mezzo autobus e un decimo di un sottopasso, ma contribuirebbe a eliminare quella parte del traffico stradale che genera ingorghi e consentirebbe di trovare un posto libero in treno.

   CON I SOLDI RISPARMIATI SI POTREBBERO TENERE MEGLIO LE STRADE, SENZA FARNE DI PIÙ GRANDI E NUOVE; e ci si dedicherebbe alla puntualità e al confort dei mezzi pubblici. Ci sono decine di possibili progetti innovativi. Elaborarli e attuarli, oltre a risolvere alcuni problemi contingenti, consente di produrre un know-how originale e occupare teste pensanti. Ma ho l’impressione che, come sempre, ARRIVEREMO IN RITARDO A SCIMMIOTTARE QUANTO FATTO DA MENTI PIÙ BRILLANTI ALL’ESTERO. (Corrado Poli)

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LA CLASSIFICA DELLE CITTÀ INTELLIGENTI

– Prima Trento, poi Bologna e Milano. Ecco Icity Rate 2013. Il primo comune del Sud è Cagliari al 47mo posto. Padova prima in Veneto –

da http://corriereinnovazione.corrieredelveneto.corriere.it/

   TRENTO, BOLOGNA, MILANO. E poi fino al 47mo posto, occupato quest’anno da CAGLIARI, solo città del Centro Nord. E’ un paese ancora a due facce quello fotografato da ICITY RATE, la classifica delle SMART CITY promossa dal FORUM DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE che incrocia parametri legati alla SMART ECONOMY, alla MOBILITÀ, all’AMBIENTE, alla GOVERNANCE.

   Rispetto all’edizione 2012 le prime 15 posizioni rimangono abbastanza solide, tutte al Centro Nord. In termini assoluti, un passo positivo è compiuto da BARI, mentre ROMA mantiene una posizione di distanza dalle migliori performance di altre grandi città.

la classifica 2013 delle "CITTA' INTELLIGENTI" di ICITY RATE”,  (v. http://www.icitylab.it/)
la classifica 2013 delle "CITTA' INTELLIGENTI" di ICITY RATE”,  (v. http://www.icitylab.it/)
la classifica 2013 delle “CITTA’ INTELLIGENTI” di ICITY RATE”, (v. http://www.icitylab.it/)
   «NON CI TROVIAMO IN UN MOMENTO FACILE PER LE CITTÀ – spiega il rapporto -. Lo confermano, in modo spietato, gli indicatori della dimensione economica. I valori più positivi riguardano quelle città che “tengono” sulle variabili occupazionali e mantengono o migliorano in piccola misura gli aspetti innovativi del tessuto produttivo, dalla presenza di imprese innovative o nei settori della ricerca, alla partecipazione dei giovani ad iniziative imprenditoriali, alla partecipazione delle donne, all’inclusione degli immigrati nel mondo del lavoro. Come contrappeso, è interessante notare evoluzioni positive nell’ambito della governance e del capitale sociale.

   GLI ENTI DI GOVERNO SI FANNO PIÙ TRASPARENTI E PIÙ “SOCIAL”, per intercettare meglio i bisogni dei cittadini: una maturazione che ha avuto un avvio lento ma che sembra ormai giunta a cambiare la cultura amministrativa.

   UN DATO INTERESSANTE È CHE AUMENTA in modo netto, per tutti i comuni che hanno rinnovato le compagini amministrative, LA PRESENZA FEMMINILE nei consigli e nelle giunte. Si tratta di un’istanza venuta dal basso, amplificata dalla risonanza dei mass media, ma anche segno di un cambiamento culturale ormai acquisito.

   SULLA DIMENSIONE DEL CAPITALE UMANO, emergono punte di vivacità sul piano dell’attivismo sociale e politico, sebbene la dimensione nel suo complesso risenta delle difficoltà crescenti sul piano occupazionale e della formazione di base, su cui si creano disparità regionali nel quadro di un generale divide anche nel confronto europeo.

   PREVEDIBILMENTE, SONO PIÙ LENTI I SALTI IN AVANTI SUL PIANO DELLA MOBILITÀ E DELL’AMBIENTE. I maggiori progressi sembrano riguardare, per alcuni territori, il miglioramento della qualità dell’aria e l’attenzione alle esigenze di chi si sposta in bicicletta».


   Per quanto riguarda il NORDEST LA CITTÀ PIÙ INTELLIGENTE DEL VENETO È PADOVA. Con 469 punti Padova passa dall’11esima posizione dello scorso anno alla sesta a livello nazionale, superando Firenze. «Siamo soddisfatti di questo risultato – spiega Ivo Rossi, sindaco reggente della città del Santo – questa classifica certifica il processo continuo di miglioramento che abbiamo impresso ai fattori che, rendono attraente la città, quali la capacità di connessione e relazione sociale, le reti wifi, la mobilità, la governance e, nonostante la crisi, anche la dimensione economica.

   Questo ultimo dato relativo alla DIMENSIONE ECONOMICA, che vede Padova passare dal 15esimo posto a livello nazionale dello scorso anno, all’ottavo del 2013, spiega che probabilmente la nostra è una città che sta reagendo alla crisi meglio delle altre città del Veneto, in virtù degli investimenti fatti dalle imprese e dal settore pubblico. Con le nuove dotazioni di asili nido, l’aumento degli hot spot gratuiti e della banda larga, contiamo di crescere anche nell’indicatore della qualità della vita dove Padova, pur arrivando davanti a Verona e Treviso, ha ancora dei margini di notevole miglioramento».

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VEDI http://www.icitylab.it/

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PIANO CASA TER E IN VENETO SCOPPIA LA POLEMICA: I CENTRI STORICI NON SI TOCCANO

di Antonella Benanzato, da http://www.ilghirlandaio.com/ del 15/1/2014

– Regione Veneto contro i sindaci veneti dei capoluoghi. In testa il Comune di Venezia con il sindaco Orsoni che minaccia il ricorso alla Corte Costituzionale. L’amministrazione regionale risponde: il piano vale appena il 5-7% dell’espansione edilizia in Veneto e aiuta l’economia –

Venezia, 15 gen. – Il PIANO CASA TER scatena la polemica tra Regione Veneto e sindaci dei capoluoghi, pronti a presentare una propria proposta di legge. La battaglia infuria da qualche giorno e sul Canal Grande le due istituzioni si parlano a colpi di comunicati.

   A guidare la querelle è proprio il Comune di Venezia col sindaco Giorgio Orsoni preoccupato che il centro storico della capoluogo lagunare possa trasformarsi in un enorme bed & breakfast. Ipotesi smentita categoricamente da Palazzo Balbi (sede della Regione Veneto ndr.) che, attraverso il vice governatore Marino Zorzato, ha assicurato che “il centro storico non si tocca” suggerendo al primo cittadino di Venezia “di informarsi meglio”.

   Oggetto del contendere, sottostante, potrebbe essere il mancato coinvolgimento dei sindaci sul provvedimento a vantaggio, invece, delle categorie economiche col paventato rischio degli amministratori di vedersi depotenziati. Ecco perché lo stesso vice presidente della giunta regionale ha convocato in fretta e furia la stampa per illustrare e chiarire ogni dettaglio del piano casa ter. Una circolare esplicativa pronta entro un mese, a detta di Zorzato, servirà a fugare ogni dubbio. In ogni caso, dalla Regione è giunta “la massima apertura al dialogo con i sindaci, il piano casa vale appena tra il 5 e il 7% dell’espansione edilizia in Veneto” mentre si attende una loro controproposta di legge, ovviamente “migliorativa”.

   Tuttavia, dalla Regione nessun passo indietro “nessuno – mette in chiaro Zorzato – mi può impedire di difendere lo spirito e gli obiettivi di una norma che, come testimoniano i numeri e i risultati, ha prodotto nel Veneto solo benefici, sul piano economico e occupazionale, dando risposte concrete ai bisogni delle famiglie e delle aziende, senza deturpare il nostro territorio, anzi, migliorando in molti casi la qualità del patrimonio edilizio esistente”.

   Insomma, per la Regione le “crociate” dei sindaci sono “assurde” proprio perché ha spiegato con dovizia di cifre il vice governatore “i rischi di devastazione che vengono paventati non esistono: il Piano Casa, infatti, non rimuove alcun vincolo, sia esso comunale, regionale o nazionale, e i limiti che le amministrazioni locali hanno fissato alla data di approvazione della legge, rimangono inalterati.

   È davvero una bufala – insiste il vice presidente della giunta regionale – che i nostri preziosi centri storici possano venire alterati e subire dei danni dall’applicazione del Piano Casa: se ciò dovesse succedere sarà perché i Comuni non hanno adeguatamente tutelato il patrimonio edilizio storico con gli strumenti di cui già dispongono”. Dall’altra parte della barricata il sindaco di Venezia Giorgio Orsoni che, insieme ai sindaci veneti, ha promesso di inviare la documentazione del piano casa terza versione al governo per un eventuale ricorso alla Corte Costituzionale.

   Il Comune di Venezia non le manda a dire e definisce la legge regionale “Una norma contraddittoria e poco efficace se si deve contemperare lo sviluppo con la tutela dell’ambiente. Un Piano incongruente – si sfoga Orsoni – con i nostri piani urbanistici e con il Pat, totalmente stravolto dalle nuove disposizioni”. Ma non solo, la Giunta comunale lagunare, ha licenziato un atto di indirizzo che incarica le direzioni comunali Sviluppo del territorio e Sportello unico per l’edilizia a redarre una proposta di Legge regionale di iniziativa del Consiglio comunale per modificare il cosiddetto “Piano Casa ter”. Proposta, questa, che andrà poi condivisa con le altre amministrazioni dei capoluoghi di provincia.

   Sul fronte caldo degli interventi sui centri storici, il primo cittadino di Venezia ha in seguito concesso un’apertura alla Regione che appare più un monito. “Ci conforta sapere – ha sottolineato  –  che l’intento della Regione Veneto non è applicare questa norma ai centri storici. Una normativa che deve essere resa inoltre compatibile con le linee della programmazione urbanistica comunale. Ed é per queste ragioni che ci siamo impegnati – ha annunciato – a costruire una proposta di legge che modifichi o integri il Piano Casa proprio su questi punti. Parallelamente chiederemo al Governo di impugnare questo provvedimento con cui la Regione toglie ai Comuni i poteri attribuiti loro dalla Costituzione in tema di programmazione, pianificazione e sviluppo dei territori, nell’ambito della loro autonomia. Il rilancio del settore dell’edilizia, e dunque dell’economia del territorio – ha concluso Orsoni – è anche un nostro obiettivo, ma credo si possa intervenire diversamente. Penso alla rottamazione degli edifici, alla defiscalizzazione, alla sburocratizzazione delle procedure”, tutti argomenti che sono stati posti dai sindaci veneti nel corso di un incontro col ministro dello Sviluppo economico Zanonato.

   Ma la battaglia tra Regione e Comuni si gioca anche sulle cifre. La Regione Veneto ha fatto sapere che il piano casa come strumento, non solo ha aiutato l’economia veneta e il settore edilizio in ginocchio, ma ha creato occupazione nell’indotto.

   “Utilizzando questo strumento – ha spiegato il vice governatore Zorzato – 7 mila aziende del comparto hanno evitato la chiusura, 11 mila posti di lavoro sono stati salvati e altrettante famiglie hanno potuto contare su un’entrata preziosa in tempo di crisi, sono stati realizzati interventi per 2,8 miliardi con un aumento degli investimenti pari al 5,8%  nel campo delle ristrutturazioni: il tutto grazie ai 60 mila casi di recupero edilizio che hanno migliorato anche esteticamente i nostri centri abitati. Voglio ricordare che l’edilizia muove un indotto composto da oltre 80 settori merceologici diversi”.

   Inoltre il tema più sensibile, quello dell’espansione edilizia sul territorio, è stato messo sul tavolo dall’amministrazione veneta.“Si può stimare che il Piano Casa nel Veneto valga dai 6 agli 8 milioni di metri cubi – ha proseguito Zorzato – che corrispondono appena a un valore tra il 5 e il 7 per cento dei 100 milioni di metri cubi di nuova espansione edilizia prevista nel Veneto. Con quale coraggio, quindi io chiedo, alcuni sindaci puntano l’indice accusatore sul Piano Casa, quando città come Venezia prevede nel suo Pat un’espansione di oltre 6 milioni di metri cubi per il residenziale e di 3 per il produttivo; quando Padova ha aggiunto ai 2,6 milioni che residuavano dal vecchio Piano Regolatore per la residenza, il direzionale e il commerciale, ulteriori 2 milioni di metri cubi con il PAT? Non possono certo questi amministratori a venirci a dare lezioni di tutela del territorio”. (Antonella Benanzato)

https://geograficamente.wordpress.com/2014/01/18/cohousing-e-case-condivise-labitare-per-necessita-o-per-vocazione-che-cambia-e-cerca-modi-nuovi-di-proporsi-citta-quartieri-periferie-stanno-trasformando-il-nostro/

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