mio padre era uno scienziato e vengo da una famiglia piena di persone plasmate a guardare tutto dalla lente di un microscopio o con uno spettrofotometro. Persone con un cervello finissimo e una curiosità inarrestabile. Eppure li ho sempre trovati limitati perchè avevano sempre bisogno di contenere il possibile nel certo o al massimo nel probabile, a condizione che quest'ultimo fosse un'ipotesi fondata su proposizioni attendibili. Credo che avessero tutti paura di accompagnare Alice nel suo paese delle meraviglie. [...]
La depressione è spesso endogena, senza cause scatenanti specifiche, che si evolve lungo percorsi inconsci e spesso molto lunghi e asintomatici, e questo la rende particolarmente difficile da individuare proattivamente e superare. Lo stato depressivo, invece, che segue un evento particolarmente doloroso è di solito più facile da elaborare perché c'e' una causa reale e quindi si può ripartire da un punto definito. Questa componente della causa reale aiuta anche a non far ricadere il senso di colpa sulla persona che, altrimenti, senza cognizione di causa, interiorizza l'esperienza attribuendola alla sua inadeguatezza o indegnità. E da qui la depressione clinica fa presto ad insediarsi.
La depressione è spesso endogena, senza cause scatenanti specifiche, che si evolve lungo percorsi inconsci e spesso molto lunghi e asintomatici, e questo la rende particolarmente difficile da individuare proattivamente e superare. Lo stato depressivo, invece, che segue un evento particolarmente doloroso è di solito più facile da elaborare perché c'e' una causa reale e quindi si può ripartire da un punto definito. Questa componente della causa reale aiuta anche a non far ricadere il senso di colpa sulla persona che, altrimenti, senza cognizione di causa, interiorizza l'esperienza attribuendola alla sua inadeguatezza o indegnità. E da qui la depressione clinica fa presto ad insediarsi.
[...] Ecco perché ho fatto la distinzione perché molti fanno di tutte le erbe un fascio.
Ho avuto clienti con livelli molto seri di depressione e letteralmente bisogna prenderli per mano ed insegnare loro di nuovo a camminare, un piccolissimo passo per volta.
Non sono d'accordo con Fromm in una affermazione: Noi dominiamo la Natura! sic!
Noi ci "illudiamo" di dominare la Natura, di piegarla ai nostri voleri, ma Lei di tanto in tanto, ci ricorda che il letto del fiume è suo, che i venti sono suoi, che per quanto sperimentiamo cambiamenti climatici, l'ultima risposta è la sua, che la Terra, una volta sfruttata con concimi chimici, con pesticidi, con monoculture intensive, dopo qualche tempo non produce più niente e così via. Produciamo medicine , sfruttando principi attivi presenti in Natura, li sintetizziamo in laboratorio, li potenziamo, ma non riusciamo a eliminare gli effetti collaterali che curiamo con altre medicine che alterano il normale funzionamento dei nostri organi ecc. ecc. Sono una curiosa nata, amo tutto ciò che Vive, che comunica, che esprime varietà e bellezza e non voglio assolutamente "dominare" la Natura ma com-prehenderla, lasciarmi affascinare e meravigliare, poter fantasticare e camuffare la scienza in "Alice nel paese delle meraviglie" o nel "Gabbiano Jonathan" o nel "Piccolo Principe" o in qualsiasi fiaba.........Ho paura della cosiddetta "normalità" e rimango stupefatta dinanzi alla varietà, all'intelligenza e fantasia dei comportamenti dei cosiddetti "nevrotici"! Cos'è normalità? Forse semplice conformizzazione ai canoni sociali vigenti, riprodotti di consenso ad un sistema, ma nell'intimità siamo tutti "devianti" con la sete di scoprire l'Invisibile, l'Infinito, l'Indescrivibile che sappiamo è vivo in noi e intorno a noi.
Erich Fromm, I COSIDDETTI SANI, La patologia della normalità.
A cura di Rainer Funk
Traduzione di Marina Bistolfi
Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1996
Copyright 1991 by The Estate of Erich Fromm
Copyright 1991 by Ranier Funk
PREFAZIONE.
All'inizio degli anni Cinquanta, Erich Fromm affrontò il problema della salute psichica dell'individuo nella società industriale e approfittò delle numerose conferenze e lezioni che era invitato a tenere per parlare dell'argomento. Fu soprattutto grazie al suo approccio teorico di impronta sociopsicologica che Fromm poté applicare il metodo psicoanalitico a uno studio approfondito della patologia dell'uomo «normale» e socialmente adattato: egli sottopose a critica radicale i moti affettivi più diffusi, che prevalgono nel comportamento sociale e che determinano quindi il concetto di normalità. Così, alla questione di stabilire che cosa giovi veramente alla salute psichica dell'individuo e che cosa sia invece causa di malattia venne data da parte di Fromm una risposta nuova ed estremamente efficace.
Fromm mira a stabilire una relazione tra i moti affettivi che determinano il comportamento e le esigenze economiche e sociali: i tratti caratteriali più diffusi in una società vanno perciò intesi come risultato di un processo di adattamento alle condizioni socioeconomiche.
Questo stesso metodo d'indagine gli aveva consentito di analizzare negli anni Trenta il carattere autoritario della società, alla fine degli anni Quaranta il carattere mercantile e, all'inizio degli anni Sessanta, il carattere necrofilo della società.
Dall'analisi dei sistemi produttivi contemporanei e dei processi di adattamento psichico messi in atto dall'uomo per corrispondere alle esigenze dell'economia del proprio tempo, si evince che all'individuo vengono richiesti atteggiamenti e disposizioni psichiche (tratti caratteriali sociali) che ne compromettono la salute psichica. Ciò che si dimostra utile per il funzionamento del sistema economico si rivela dannoso per la salute psichica dell'individuo. Ciò che nella nostra società determina il successo del singolo è, a ben vedere, in contrasto con la sua salute psichica. E' dunque legittimo il sospetto che nella normalità trovi espressione un processo patologico.
Fromm studia la patologia della normalità sottolineando gli effetti patogeni che l'economia di mercato ha sull'uomo: al centro di questa condizione patologica si trova la crescente incapacità delle persone normali di stabilire un rapporto diretto con la realtà. Fromm elabora così un concetto clinico di alienazione, mostrandone le diverse forme di manifestazione e le implicazioni, la più importante delle quali è una nuova concezione dell'uomo e della salute psichica; idee nuove, che sfociano nell'appello programmatico per un umanesimo scientifico.
"I cosiddetti sani" raccoglie interventi a prima vista assai eterogenei: le parti prima e seconda sono costituite rispettivamente da una serie di quattro lezioni tenute nel 1953 e da una conferenza del 1962. Entrambi i testi sono costituiti dalla trascrizione dei 3 nastri registrati in quelle occasioni, e hanno quindi un tono più colloquiale; vi si parla di salute psichica e delle principali forme di patologia della normalità. La parte terza, un breve intervento programmatico del 1957 in cui Fromm annuncia la creazione di un «Istituto per la scienza dell'uomo», affronta invece il tema del nuovo umanesimo scientifico quale risposta alla patologia della società contemporanea.
Nella parte quarta, infine, viene presentato un ampio contributo scientifico di Fromm sull'assioma dell'innata pigrizia umana. Quest'ultimo intervento, che risale al 1973-1974, illustra il tentativo frommiano di superare la patologia della normalità per mezzo della scienza: da un lato, egli fornisce una risposta interdisciplinare alla questione, alla luce dei risultati raggiunti nei più diversi campi del sapere e in virtù della valutazione critica della loro rilevanza in rapporto alle concezioni dell'uomo che vi sono
sottese; dall'altro, coniuga i risultati delle più disparate discipline scientifiche con la sua idea di salute psichica, fondata su una concezione umanistica dell'uomo.
Le quattro lezioni sulla "Patologia della normalità dell'uomo contemporaneo", finora inedite, furono tenute da Fromm il 26 e 28 gennaio e il 2 e 4 febbraio 1953 presso la New School for Social Research di New York, che sin dal 1941 aveva ospitato alcuni suoi seminari. Gli argomenti da lui affrontati nell'arco di circa vent'anni rivelano quali fossero di volta in volta le problematiche al centro del suo interesse. Inoltre, poiché dal 1950 viveva in Messico, Fromm si trovava alla giusta distanza culturale per valutare criticamente la società industriale americana.
Al termine di una conferenza tenuta l'11 dicembre 1951 al quarto Congresso internazionale sulla salute psichica svoltosi in Messico, dove illustra per la prima volta il suo interesse per i rapporti tra società e psiche, introducendo il concetto di «salute psichica», Fromm descrive il Messico come un paese moderno "nel quale è peraltro ancora viva una cultura antica, tradizionale, una cultura nella quale la gente può ancora permettersi di essere «pigra» poiché è in grado di gustare la vita; una cultura in cui il falegname prova ancora soddisfazione se costruisce una buona sedia senza pensare unicamente a come produrla in modo rapido e redditizio; una cultura in cui ancora esistono contadini che preferiscono avere
più tempo libero anziché più denaro". (Fromm, 1952, p. 42)
Queste quattro lezioni furono annunciate nel calendario con il titolo "Mental Health in the Modern World". Esse fanno riferimento all'analisi frommiana dell'orientamento mercantile, contenuta nel libro del 1947 "Dalla parte dell'uomo", ma ripercorrono in modo assai più approfondito la psicodinamica dei processi di alienazione nell'economia di mercato.
Il fatto che non viviamo più lo svuotamento e la svalutazione degli individui, nonché la loro dipendenza dal mercato, come qualcosa di anormale è soltanto un indizio di ciò che alla fine Fromm definirà, in "Psicoanalisi della società contemporanea" (1955), «patologia della normalità».
La conferenza "Il concetto di salute psichica", pubblicata per la prima volta quale parte seconda del presente volume, fu tenuta invece da Fromm il primo dicembre 1962 a un Seminario latino-americano sulla salute psichica promosso a Cuernavaca, in Messico, dall'Organizzazione panamericana della sanità, una sezione regionale dell'Organizzazione mondiale della sanità.
Il testo registrato della conferenza, dal titolo "The Concept of Mental Health", fu trascritto e rielaborato da Fromm, ma non venne mai dato alle stampe. E' un testo importante per diversi motivi: si tratta del primo documento della scoperta da parte di Fromm della «necrofilia» (i risultati di tale scoperta verranno pubblicati soltanto due anni dopo, in "Psicoanalisi dell'amore"); è qui che Fromm parla per la prima volta del narcisismo come di una malattia psichica della società contemporanea ed è qui che, in modo analogo a quanto aveva già fatto nelle lezioni del 1953, egli descrive l'alienazione come un fenomeno di rilevanza clinica.
Tuttavia, tra la conferenza del 1962 e le lezioni del 1953 vi sono anche innegabili differenze: il profondo apprezzamento nutrito da Fromm per l'economia di mercato e la sua fiducia in un possibile superamento dei suoi aspetti patogeni (evidenti nelle lezioni del 1953) lasciano il posto allo scetticismo di fronte alla crescita, nella società, di narcisismo e necrofilia. Tale scetticismo si è poi andato ulteriormente rafforzando negli anni seguenti, tanto che nel 1970 Fromm parla di una «crisi della società contemporanea» che è «unica nella storia dell'umanità» in quanto è una «crisi della vita stessa»
(Fromm, 1970 c, p. 213).
Fromm è convinto che il nostro futuro dipenda essenzialmente dal fatto che la consapevolezza della crisi attuale induca gli individui più capaci a porsi al servizio di un umanesimo scientifico che riporti l'uomo al centro del suo interesse. Solo unendo le forze è possibile superare le malattie psichiche della società attuale. Il concetto frommiano di umanesimo scientifico si manifesta con la massima evidenza e concretezza in un breve testo programmatico del 1957, dal titolo "Institute for the Science of Man". Su suggerimento della giornalista Ruth Nanda Anshen, Fromm aveva coltivato per qualche tempo l'idea di fondare un proprio istituto, votato agli ideali dell'umanesimo scientifico. Il fatto che tale istituto non abbia mai visto la luce non sminuisce il valore di quanto enunciato da Fromm in merito all'"umanesimo scientifico".
Infine, quale parte quarta del presente volume viene pubblicato per la prima volta il saggio "L'uomo è pigro per natura?", la cui stesura risale in parte all'epoca di "Anatomia della distruttività umana" (1973). Il testo, elaborato nel 1974, doveva costituire la prima parte di un nuovo libro al quale Fromm, già alla fine dell'ottobre 1973, aveva dato il titolo provvisorio «To Be or to Have». Il motivo del mancato inserimento di questo scritto in "Avere o essere?" (1976) è probabilmente da attribuirsi al fatto che esso esulava dall'ambito specifico del libro. La stessa sorte era già toccata al capitolo dedicato al «passaggio dall'avere all'essere», pubblicato postumo dopo quasi quindici anni in "Da avere a essere" (1989).
La questione se l'uomo sia pigro per natura si rivela a ben vedere una questione cruciale nel pensiero frommiano, ma allo stesso tempo essa tocca il problema fondamentale della nostra epoca, vale a dire la
possibilità di superare l'attuale crisi dell'umanità. Nella terza lezione del 1953 Fromm spiega che una relazione razionale e affettiva con la realtà non è solo il criterio determinante della salute psichica, essa costituisce una fonte autonoma di energia psichica, che rischia però di prosciugarsi per l'effetto alienante dell'economia di mercato. La patologia della normalità va intesa come la crescente
incapacità dell'uomo di comprendere che egli deve instaurare una relazione attiva e autonoma con la realtà. Ed è proprio questo il punto cruciale della questione se l'uomo sia pigro e passivo per natura: l'uomo ha bisogno di stimoli esterni per sentirsi motivato a una relazione attiva con la realtà, oppure l'impulso a essere attivo e a interagire con la realtà è innato?
Fromm chiede a diverse discipline scientifiche, e in particolare alla neurofisiologia, una conferma della sua idea che l'uomo sia per natura capace di attività autonoma, e che crescita e salute psichica siano dunque espressione immediata dell'interesse attivo per la realtà che è radicato nell'uomo, talché alcune ipotesi scientifiche di segno opposto sembrano in realtà schierarsi a favore della patologia della normalità.
Tutti i testi del presente volume sono tradotti dall'inglese, e desidero ringraziare Elfrun Rebstock per la prima versione dell'intervento del 1974. La suddivisione e i titoli dei paragrafi sono miei, tranne nel caso di "L'umanesimo scientifico". Lacune e aggiunte editoriali sono segnalate con parentesi quadre.
Rainer Funk Tübingen, luglio 1991
I COSIDDETTI SANI.
Parte prima.
LA PATOLOGIA DELLA NORMALITA' DELL'UOMO CONTEMPORANEO.
Quattro lezioni (1953)
1. LA SALUTE PSICHICA NEL MONDO MODERNO.
Prima lezione. -
Che cos'è la salute psichica?
Ci sono due approcci differenti al problema della salute psichica nella società contemporanea:
uno statistico e uno analitico o qualitativo. L'approccio statistico è abbastanza semplice, quindi mi limiterò a illustrarlo per sommi capi: esso estrapola dalle statistiche le somme di denaro che nella società moderna vengono destinate alla salute psichica. Tali cifre non sono per nulla incoraggianti: [dall'inizio degli anni Cinquanta] gli Stati Uniti spendono annualmente per le malattie psichiche circa un miliardo di dollari. La metà dei posti letto negli ospedali è occupata da persone affette da disturbi psichici.
Le cifre sono poi ancor più scoraggianti se volgiamo lo sguardo ai dati, sconcertanti quanto significativi, che provengono dall'Europa. Proprio i paesi che sono considerati la patria di una borghesia stabile ed equilibrata, come Svizzera, Svezia, Danimarca e Finlandia, presentano rispetto ad altri paesi europei livelli molto più elevati di schizofrenia, alcolismo, suicidi e omicidi. I dati statistici ci inducono a riflettere. Come mai proprio questi paesi europei hanno realizzato sul piano sociale e culturale quell'ideale che noi, pur auspicandolo, non abbiamo ancora realizzato, vale a dire un'esistenza borghese sufficientemente agiata e fondata in larga misura sulla sicurezza economica? E perché la condizione psichica in quei paesi suscita invece l'impressione che quel sistema di vita non giovi in realtà alla salute psichica? Contrariamente a quanto da noi auspicato, esso non sembra comportare un aumento della felicità.
D'altronde, benché negli Stati Uniti e in Europa il numero delle malattie psichiche sia in aumento, si riscontrano anche degli sviluppi positivi: l'assistenza ai malati psichici migliora continuamente e vengono sperimentati nuovi metodi di cura.
Negli Stati Uniti e in Europa si è inoltre costituito un movimento per la salute psichica.
A dire il vero, non sappiamo se i dati in nostro possesso indicano un 7 reale aumento dell'incidenza delle malattie psichiche, o piuttosto un aumento dell'attenzione rivolta alla salute psichica. Grazie al perfezionamento delle metodologie di ricerca, all'approfondimento delle osservazioni e al miglioramento delle strutture siamo in grado di individuare con maggiore precisione i soggetti che soffrono di malattie psichiche, cosicché le nostre statistiche appaiono più allarmanti di quanto sarebbero se il problema della salute e della malattia psichiche ricevesse minore attenzione e interesse.
Se optiamo per un approccio meramente statistico e ci limitiamo a considerare i dati positivi e negativi, questo genere di conoscenza non sarà molto utile. Di solito non basta un'occhiata alle statistiche per intendere il significato delle cifre.
Perciò in queste quattro lezioni non vorrei occuparmi affatto dell'aspetto statistico della salute psichica, bensì di quello qualitativo.
Che cosa s'intende per salute psichica, per malattia psichica?
Che cosa significano queste espressioni? Qual è il rapporto tra la mia idea di salute e di malattia della psiche e la struttura specifica della nostra società del 1953? Se vogliamo parlare della salute psichica nella società contemporanea, non basta confrontare la salute psichica da un lato e la nostra società dall'altro, come se si trattasse di due entità a sé stanti.
Occorre invece scoprire e comprendere le relazioni profonde, quali fattori dei processi e della struttura della società giovino alla salute, e quali caratteristiche strutturali siano invece patogene per la psiche. Se ci chiediamo che cosa si debba intendere per salute psichica, dobbiamo distinguere tra due concetti radicalmente diversi. Benché le differenze siano evidenti, oggi entrambi i concetti vengono usati e tendono spesso a confondersi. Il primo è un concetto relativistico, sociale, che corrisponde alla condizione mentale della maggior parte della società. Infatti, così come si può definire l'intelligenza in rapporto alla sua misurabilità tramite un test, allo stesso modo si può affermare che la salute psichica è determinabile in rapporto al grado di adattamento al sistema di vita di una determinata società, indipendentemente dal fatto che tale società sia sana o malata. L'unico criterio è che l'uomo vi si sia adattato. Molti conosceranno il racconto di Herbert George Wells "Il paese dei ciechi":
un giovane, smarritosi in Malesia [sic: in Wells, sulle Ande ecuadoriane. N.d.T.], incontra una tribù dove da molte generazioni tutti gli individui sono affetti da cecità congenita. Il giovane invece, per sua «sfortuna», ci vede: e così tutti diffidano di lui. Tra gli altri, persino medici esperti diagnosticano la sua malattia come una strana e fino ad allora ignota affezione del volto, causa di ogni sorta di fenomeni bizzarri e patologici: "Queste strane cose chiamate occhi, che esistono per formare nel volto 8 una lieve e piacevole depressione, in lui sono malate di modo che gli disturbano il cervello. Sono molto dilatate, hanno le ciglia con palpebre che si muovono; di conseguenza, il suo cervello è in uno stato costante d'irritazione e di distrazione". (Wells, 1925, p. 671) Il giovane si innamora di una ragazza e la vuole sposare. Ma il padre di lei si oppone alle nozze, a meno che egli non si sottoponga a un'operazione che lo renda cieco. Prima di dare il suo consenso, il giovane fugge via.
Il racconto di Wells mostra con estrema semplicità quello che tutti noi proviamo, più o meno distintamente, quando si parla di normalità e anormalità, salute e malattia, dal punto di vista dell'adattamento.
La teoria dell'adattamento si basa implicitamente su alcune premesse:
1) ogni società in quanto tale è normale;
2) chi non corrisponde al tipo di personalità gradito alla società deve considerarsi psichicamente malato; 3) il sistema sanitario, in ambito psichiatrico e psicoterapeutico, ha lo scopo di ricondurre il singolo individuo al livello dell'uomo medio, indipendentemente dal fatto che questi sia cieco o vedente.
L'unica cosa che conta è che l'individuo sia adattato, e che non turbi il contesto sociale.
La teoria dell'adattamento è caratterizzata da alcuni elementi.
Tipica è per esempio la convinzione che la nostra famiglia, la nostra nazione, la nostra razza siano da considerarsi normali, mentre il modo di vivere degli altri viene percepito come non normale.
Mi spiegherò meglio con un aneddoto.
Un uomo va dal medico e gli descrive i suoi sintomi.
Comincia così:
«Dunque, dottore, ogni mattina, dopo che ho fatto la doccia e ho vomitato...».
Il medico lo interrompe subito: «Mi sta dicendo che lei vomita tutte le mattine?»,
e il paziente replica: «Perché, dottore, non lo fanno tutti?».
Questa storiella è divertente proprio perché coglie un atteggiamento che tutti noi, chi più chi meno, condividiamo. Magari sappiamo che alcune nostre idiosincrasie personali si riscontrano anche in altri individui, ma non sappiamo che vi sono molte idiosincrasie che esistono soltanto nelle nostre famiglie, negli Stati Uniti o nel mondo occidentale, e che noi invece riteniamo comuni a tutti gli esseri umani, mentre in realtà non sono affatto caratteristiche della natura umana.
Tipico della teoria dell'adattamento non è però solo questo sentimento provinciale che identifica la normalità con il nostro modo di essere e di crescere. Dietro di esso si cela una sorta di filosofia relativistica, la cui principale affermazione è che non si possono stabilire giudizi di valore oggettivamente validi. Bene e male sarebbero per così dire solo una questione di fede, nient'altro che manifestazioni di ciò che viene concretamente realizzato nell'ambito di una determinata cultura o che viene preferito rispetto ad altre culture. Quello che i membri di una determinata cultura amano fare è «bene», quello che non amano fare è «male». Poiché tutto si riduce a una mera questione di opinione, non sarebbe disponibile alcun criterio comparativo oggettivo.
In contrasto con la teoria dell'adattamento ve n'è poi un'altra, che ho già avuto modo di illustrare in "Dalla parte dell'uomo" (1947). Essa muove dal presupposto che in realtà esistano giudizi di valore oggettivamente validi, e che tali giudizi non siano una mera questione di gusto o di fede. Partendo dall'assioma che vivere è meglio di morire, che cioè la vita è preferibile alla morte, il medico o il fisiologo possono per esempio trarne il giudizio di merito oggettivamente valido che il tale alimento è migliore del talaltro, o che un certo clima o un certo modo di riposare o un certo numero di ore di sonno sono più indicati di altri. Gli uni giovano alla salute, gli altri no. Penso che questo non valga solo per il nostro corpo ma anche per la nostra psiche. Anche riguardo alla psiche, sulla base della conoscenza che abbiamo della sua natura e delle leggi che la governano, possiamo arrivare ad affermare oggettivamente che cosa le giovi e che cosa invece le nuoccia.
In realtà, su di essa sappiamo ancora ben poco: probabilmente siamo più informati sul fabbisogno quotidiano di vitamine e di calorie che non su ciò che è indispensabile alla nostra psiche per vivere normalmente. Sappiamo tutti quanto la conoscenza delle vitamine e delle calorie abbia influito sulle nostre abitudini di vita. Perché allora non dovremmo scoprire in relazione alla nostra psiche, a patto di occuparsene seriamente, che anche su di essa possiamo acquisire una gran quantità di informazioni se solo le prestiamo un po' di attenzione?
Il relativismo sociologico, per il quale è bene ciò che serve alla conservazione e alla sopravvivenza di una determinata società, non è affatto arbitrario come sembra. Nell'ottica di una determinata società, qualunque altro punto di vista appare impensabile. Infatti, una determinata struttura sociale esiste solo fintantoché i suoi membri si identificano con un atteggiamento che ne garantisca un funzionamento più o meno agevole. Ogni società, grazie alle sue istituzioni culturali, al suo sistema scolastico, alle sue convinzioni religiose, eccetera, cerca in ogni modo di formare un tipo di personalità che aspiri a fare ciò che deve, e che, oltre a voler fare quanto è necessario, desideri esercitare con zelo il ruolo che la società, per poter funzionare senza attriti, gli ha assegnato.
Il buon funzionamento di una società di guerrieri e predatori richiede che i suoi membri siano bellicosi e aggressivi, che vogliano conquistare, razziare e uccidere. Una figura come il Toro Ferdinando (1) costituirebbe per costoro un grave impedimento a guerreggiare e a veder confermata la struttura della loro personalità, che non è il risultato di una qualche decisione arbitraria ma affonda le sue radici in una serie di condizioni storiche oggettive, all'interno delle quali quella determinata società può funzionare.
La struttura della personalità non può dunque essere modificata tanto facilmente.
Oppure prendiamo l'esempio opposto, quello di una società agricola e cooperativa nella quale capiti che si smarrisca un membro di una società di guerrieri. Costui si sentirebbe assolutamente fuori posto, e sarebbe trattato come un malato. Se altri membri della società agricola dovessero prenderlo a modello, finirebbero per costituire di certo una seria minaccia per il funzionamento della loro società. Si può dire che ogni società nutra un peculiare e legittimo interesse per una certa dose di conformità. Si tratta di un interesse che deriva dalla volontà di sopravvivenza della società stessa, la quale in tal modo vuole confermare la propria struttura e la propria specificità.
La richiesta di comportamenti improntati alla conformità è però molto accentuata nella vita di ogni giorno. Oggi, nel 1953, non ho certo bisogno di soffermarmi sul conformismo; sarebbe piuttosto il caso di sottolineare come attualmente la sopravvivenza della società dipenda dall'esistenza di alcuni non-conformisti. Se tra gli uomini delle caverne fossero esistiti soltanto conformisti, vivremmo ancora nelle caverne e continueremmo a praticare il cannibalismo. Lo sviluppo dell'umanità dipende da un lato da una certa qual disponibilità al conformismo, ma dall'altro anche dalla volontà e dalla determinazione a non adeguarsi. Ai fini non solo del progresso ma della stessa sopravvivenza di qualsiasi società della specie umana, la disponibilità a non adeguarsi risulta essenziale quanto la tendenza a comportarsi in conformità alle norme che in quella determinata società regolano il gioco della vita.
Tra le varie concezioni che identificano la normalità e la salute con l'adattamento, ve ne è poi una che considero in sostanza una razionalizzazione. Il ragionamento è questo:
"Non sono un fautore del relativismo, e neppure sostengo che ogni società viva in conformità a ciò che è normale, buono e sano. Si dà però il caso che oggi, nel 1953, la nostra società e lo stile di vita americano rappresentano la meta e il compimento di ogni umana aspirazione.
E' questo il modo in cui vivono le persone normali, mentre tutte le società esistite finora o fino a centocinquant'anni fa erano retrograde, forse anormali, e facevano cose che non andavano bene. Oggi siamo finalmente giunti al punto in cui il fondamento della nostra vita e della nostra società coincide con ciò che da un punto di vista oggettivo, e non relativistico, deve considerarsi normale e sano".
La pericolosità di tale atteggiamento sta proprio nella sua apparente oggettività: esso, in realtà, non è che l'ennesima variante di quel relativismo sociologico dal quale sembra prendere le distanze. Cercherò di dimostrare che se è vero che nella nostra società vi sono molti elementi positivi, di cui a mio avviso possiamo anche andare fieri, dobbiamo comunque chiederci se il modo in cui viviamo oggi noi americani favorisca maggiormente la salute o la malattia della psiche.
In queste lezioni vorrei analizzare concretamente gli effetti prodotti sull'individuo dal nostro stile di vita: quali effetti producono sull'uomo il nostro stile di vita e la nostra organizzazione sociale e politica?
In che modo questi due fattori influenzano la nostra salute psichica?
In che misura questi due fattori contribuiscono alle malattie psichiche?
Quali conseguenze e quali possibilità di migliorare gli aspetti positivi ed eliminare quelli negativi si ricavano da un'analisi accurata della questione?
Oggi, nel 1953, gli Stati Uniti vengono giudicati in modo piuttosto emotivo.
Da un lato abbiamo un atteggiamento critico, attualmente limitato però agli stalinisti.
Costoro affermano non solo che in tutto il paese la gente muore di fame, ma anche che non esiste assolutamente nulla di positivo e che tutto è marcio. Ma queste critiche non possono essere prese sul serio; da un punto di vista oggettivo si tratta infatti di affermazioni totalmente false.
Personalmente ritengo che il mondo in cui viviamo sia pur sempre uno dei migliori che l'umanità abbia prodotto. Non che questo significhi granché, visto che finora la specie umana non ha mai prodotto una società buona, e che, vedendo come vanno oggi le cose, si potrebbero sollevare molte critiche. Eppure sono spontaneamente portato a valutare in modo più positivo questo nostro mondo quando sento sempre e soltanto dire che esso è così terribile. Chiunque sia minimamente informato riguardo agli avvenimenti degli ultimi cinque o seimila anni deve ammettere che l'odierna società statunitense rappresenta, malgrado tutto, uno dei migliori esperimenti finora intrapresi. Pur con tutti i suoi spaventosi limiti, essa fa comunque sperare in uno sviluppo positivo, a condizione che dimostriamo di avere sufficiente sensibilità per capire che cosa sia davvero necessario e per evitare quel che può essere evitato.
Sul fronte opposto vi sono poi i «patrioti», per i quali l'"American way of life" rappresenta l'unico ideale possibile, indubbiamente il migliore di tutti i tempi. Tale punto di vista è piuttosto rozzo, denota scarsa intelligenza e, temo, anche scarso interesse. A mio avviso non c'è motivo di considerare virtuoso chi glorifica il proprio paese, dato che a nessuno viene in mente di considerare tale chi glorifica sé stesso. Se dico «Io sono una persona fantastica!», sicuramente gli altri mi considereranno un po' matto e non proveranno alcun interesse per me. Se invece affermo «Il mio paese è meraviglioso!», ecco che la cosa viene considerata segno di grande intelligenza e virtù. In realtà, chi si accontenta di affermazioni del genere senza domandarsi che cosa non funzioni, e senza mettervi mano, manifesta unicamente egocentrismo e mancanza di sincero interesse.
Caratteristiche della società moderna.
Prima di affrontare nello specifico la questione della salute psichica nella società contemporanea, vorrei analizzare brevemente le principali caratteristiche e gli atteggiamenti sui quali è fondata la nostra società moderna.
In primo luogo, il mondo occidentale moderno è caratterizzato dall'emergere dell'individuo dal gruppo al quale era indissolubilmente legato e nel quale era tenuto a inserirsi. Emergendo come individuo, il singolo non è più un membro di una società statica quale fu per molti secoli la società feudale del Medioevo.
E' ciò che chiamiamo individualismo o anche libertà dell'uomo moderno, distinguendolo così dalla posizione fissa e statica dell'uomo medievale che era innanzitutto membro di un gruppo e, in ragione di quella struttura, non cessava mai di appartenere a quel gruppo.
L'uomo moderno è emerso da quei legami primari e da quelle strutture originarie, però - in tutti questi casi aggiungerò sempre un però - ha paura della libertà ottenuta. Egli non è più membro di un organismo, ma è divenuto un automa che cerca un sostituto di ciò che ha perso aggrappandosi alla società, alle convenzioni, all'opinione pubblica e a ogni possibile forma di raggruppamento, poiché non sa che cosa fare della sua libertà. Non sopporta di essere solo, di essere libero dai legami entro cui la società determinava il suo ruolo.
Un'altra caratteristica della moderna società occidentale, strettamente connessa all'emergere dell'individuo dall'organizzazione collettiva della società, è quella che siamo soliti chiamare iniziativa individuale. Nelle corporazioni medievali le attività economiche di ogni singolo aderente dipendevano dalla corporazione. Nella moderna società capitalistica gli uomini sono liberi. Il capitalista è libero. Il lavoratore è libero. Ognuno va per la propria strada e sviluppa quella che viene definita iniziativa individuale o personale.
Eppure, malgrado l'iniziativa personale sia stata fortemente incentivata, soprattutto nel corso dell'Ottocento, oggi ci troviamo a vivere in una cultura in cui gli uomini agiscono sempre meno di propria iniziativa. Magari ciò accade con maggior frequenza in ambito economico, ma comunque sempre in misura minore che nell'Ottocento. La causa va ricercata in determinati mutamenti strutturali del capitalismo moderno, sui quali tornerò in seguito.
Se ci chiediamo in che cosa consista, fatta eccezione per il settore degli investimenti finanziari, l'iniziativa individuale, dobbiamo constatare che a ben vedere è come se non esistesse più. Se per spirito di iniziativa intendiamo qualcosa che ha a che fare con la capacità, propria dell'uomo, di meravigliarsi e di stupirsi, di considerare la vita come un'avventura, con il fatto di combinare qualcosa di buono e di distinguersi dal proprio vicino, allora l'uomo medievale ne possedeva altrettanto, se non addirittura di più.
Oserei affermare che gli individui della maggior parte delle altre culture rivelano probabilmente più iniziativa di noi. Se consideriamo lo spirito di iniziativa in rapporto all'uomo, distinguendolo da un'interpretazione meramente economica, dobbiamo ammettere che nell'uomo moderno esso ha raggiunto un livello quanto mai basso.
A mio avviso, la terza caratteristica della società contemporanea è la seguente:
da un lato abbiamo creato una scienza e una prassi che ci hanno consentito di combattere e dominare la natura in misura inimmaginabile, dall'altro noi uomini orgogliosi, partiti alla conquista della natura, siamo diventati gli schiavi di quella stessa macchina economica da noi creata per dominare la natura. Noi dominiamo la natura, ma le nostre macchine ci dominano. Anzi è probabile che siamo molto più dominati dagli artefatti da noi stessi creati con le nostre macchine di quanto non lo siano gli esponenti di molte culture da quella natura che non hanno ancora imparato a governare.
Se per esempio confrontiamo il pericolo derivante da un terremoto o da un'inondazione, dunque dalla natura, con i rischi connessi a una guerra nucleare, risulta evidente che ciò che noi stessi abbiamo creato ci minaccia molto più di quanto non faccia la natura nelle culture da essa dominate.
La quarta caratteristica della cultura moderna è il suo approccio scientifico.
Mi riferisco a qualcosa che va al di là del valore puramente tecnico di un approccio di questo tipo.
Dal punto di vista umano, l'approccio scientifico è la capacità di essere obiettivi, ovvero l'umiltà di vedere il mondo, le cose, gli altri e noi stessi così come sono, senza che i nostri desideri e i nostri sentimenti deformino la realtà. L'approccio scientifico implica la fiducia nella capacità della nostra mente di riconoscere la verità e la realtà, ma anche la costante disponibilità a modificare i risultati del nostro pensiero via via che si scoprono nuovi dati. Un approccio di questo tipo ci chiede inoltre di essere sinceri e obiettivi, di non trascurare i dati di nuova acquisizione al solo scopo di evitare di mettere in discussione le nostre convinzioni. Dal punto di vista umano, l'approccio scientifico moderno rappresenta a mio avviso uno dei passi decisivi nell'evoluzione dell'uomo, in quanto espressione di uno spirito di umiltà, obiettività e realismo che non ha riscontro nelle culture alle quali tale approccio è ignoto.
Ma che cosa ne è oggi di questo approccio?
Noi siamo diventati adoratori della scienza, e abbiamo rimpiazzato gli antichi dogmi religiosi con le definizioni scientifiche. Per noi l'approccio scientifico non è affatto espressione di umiltà e obiettività, ma solo un nuovo modo di formulare dogmi. L'uomo medio considera lo scienziato una specie di sacerdote che ha una risposta a tutto, a stretto contatto con tutto ciò che egli vorrebbe sapere. Così, egli non si distingue granché da chi si accontenta di partecipare alla comunicazione con Dio tramite il prete, che è in diretto contatto con Dio. Chi oggi legge le pubblicazioni scientifiche, si tiene aggiornato sulle scoperte più recenti ed è convinto che esistano scienziati in grado di fornire una risposta a tutto, è partecipe di questo nuovo dogma, la religione della scienza, che gli permette di esimersi dal ragionare con la propria testa.
Una quinta caratteristica della civiltà degli ultimi due secoli è la democrazia politica.
Anch'essa costituisce un enorme passo avanti, in quanto consente agli individui non solo di decidere del modo in cui vengono utilizzate le proprie tasse, ma anche di esprimere la propria opinione su tutte le più importanti questioni sociali.
L'idea, il principio democratico è nato come reazione allo stato assolutista e feudale, nel quale gli esseri umani non avevano alcun margine di intervento nelle decisioni riguardanti la loro stessa esistenza, ma è andato anch'esso deteriorandosi in vari modi. Per usare una metafora particolarmente efficace, oggi la democrazia è come una scommessa alle corse: con tutta l'eccitazione, tutti i rischi e tutte le componenti irrazionali che ci fanno puntare sul cavallo numero tre solo perché ce lo siamo sognato la notte prima. Non nego che nel complesso il nostro sistema elettorale sia caratterizzato da una certa dose di razionalità; eppure non si può dire che esso tenga in gran conto gli interessi degli individui nelle questioni che riguardano la società. E' certo migliore di tutti gli altri sistemi esistenti, ma non c'è dubbio che sia ancora ben lontano dalla sua idea originaria.
Tutte le caratteristiche della società moderna fin qui enumerate vanno intese in primo luogo come negazioni delle strutture premoderne. Libertà personale, iniziativa individuale, approccio scientifico, democrazia politica, dominio della natura: tutto questo si definisce innanzitutto come negazione di qualcos'altro. Il nuovo è opposto, è diverso, e nega i suoi equivalenti nella struttura sociale feudale. Il rischio, a mio avviso, è di restare bloccati in una forma di negazione fine a sé stessa, di concepire e formulare tali idee solo in termini di negazione, che potevano sembrare nuovi due o trecento anni fa.
Occorre invece portare il discorso su un altro livello: il livello della negazione della negazione, se si vuole, ovvero della valutazione critica del significato di tale negazione. Occorre, cioè, oltrepassare il livello della negazione e pervenire a formulazioni nuove e positive dei nostri intenti. D'altronde, lo stato assolutista o il feudalesimo non sono più un problema per noi. Può darsi che cent'anni fa un editoriale del «New York Times» fosse ancora un documento rivelatore, stimolante e suggestivo. Oggi, nel 1953, gli editoriali non mi fanno più lo stesso effetto, e penso che questo valga per la maggior parte delle persone. Semmai gli editoriali si limitano a confermare quello che la gente già pensa per proprio conto, e per molti si tratta evidentemente di un'esperienza bella e gratificante. Se consideriamo le caratteristiche positive della nostra cultura e della nostra società, dobbiamo riconoscere che ci siamo bloccati al livello delle negazioni, e che è già un po' troppo tardi. Molto tempo è trascorso da quando la negazione era veramente feconda e costruttiva. Dalla negazione dovremmo invece passare a un livello nuovo, quello della negazione della negazione, ovvero, in altre parole, a una posizione nuova. -
Condizione umana e bisogni psichici.
Al fine di rendere il mio approccio più plausibile, e prima di entrare nel merito degli effetti prodotti sull'uomo dalla nostra struttura sociale e culturale, devo fare alcune considerazioni di carattere generale.
Prima considerazione:
ogni individuo deve dare una risposta al problema della propria esistenza.
In altre parole, presupponendo che l'uomo abbia da mangiare e da bere a sufficienza, dorma quanto basta e si senta al sicuro (e abbia un normale soddisfacimento sessuale, direbbe Freud), che non subisca privazioni e la sua vita non presenti particolari problemi, è proprio allora, secondo me, che comincia il vero problema per l'uomo. Se è vero che chi non ha cibo a sufficienza, non si sente protetto e ha difficoltà di sostentamento è alle prese con problemi reali, è anche vero che a questo livello si è ancora ben lontani dall'aver sfiorato gli autentici problemi dell'esistenza umana.
Vorrei riprendere in esame alcuni dati relativi ai piccoli e stabili paesi protestanti d'Europa, dove praticamente non esistono più problemi di sostentamento: la gente ha abbastanza da mangiare, c'è cooperazione, la concorrenza non è esasperata, e non c'è stata neppure la guerra. E tuttavia è fuor di dubbio che la vita in quei paesi sia caratterizzata da una noia strisciante, che si traduce in cifre esplosive per quanto riguarda le malattie psichiche. Parliamo spesso dei mali della vita: le malattie, i disturbi psichici, l'alcolismo, eccetera. Ma non ci rendiamo sufficientemente conto del fatto che una delle peggiori sofferenze nella vita è la noia, e che la maggior parte della gente sfrutta ogni occasione e sopporta sforzi immani non per superare la noia - cosa, questa, piuttosto difficile - ma per evitarla e dissimularla. Molti sono ben contenti di sfuggire alla noia lavorando sodo per otto ore al giorno, e ringraziano il buon Dio di aver dato loro il bisogno di dormire, che occupa le altre otto ore.
Ma il problema principale è come riempire le restanti otto ore, come affrontare la noia costantemente prodotta dal nostro sistema di vita. La condizione umana è segnata da profonde contraddizioni. La più profonda è probabilmente dovuta al carattere limitato della nostra esistenza, che si esprime in ultima analisi nell'ineluttabilità della morte.
Le contraddizioni derivano dal fatto che per costituzione fisiologica noi siamo parte del mondo animale, dal quale nello stesso tempo ci sentiamo indipendenti: vi apparteniamo, vi siamo immersi, eppure non ne facciamo parte. Noi possediamo l'intelletto e l'immaginazione, che ci consentono - e anzi quasi ci obbligano - di acquisire la consapevolezza della nostra diversità e peculiarità, e della ineluttabilità della nostra fine, che è l'esatto contrario della vita.
Perciò dobbiamo confrontarci con le contraddizioni della nostra esistenza e dare un senso alla nostra vita. E' impossibile limitarsi a vivere, mangiare e bere, senza dare un senso alla propria vita. Dobbiamo sempre dare una risposta al problema dell'esistenza, sia teoricamente sia praticamente.
Intendo dire che abbiamo bisogno di un quadro di riferimento che ci consenta di orientarci nella vita e conferisca chiarezza e significato al processo vitale e al posto che noi occupiamo in esso. Se non cadiamo nella follia, e se non rimuoviamo la consapevolezza dei nostri problemi esistenziali ricorrendo in modo coatto alla fuga - cosa che a molti riesce, e a volte con grande abilità -, dobbiamo confrontarci con il problema del significato della nostra esistenza.
E per questo abbiamo bisogno di un quadro di riferimento e di orientamento in grado di fornirci un senso. Un quadro di riferimento non soltanto intellettuale: anche per un'esigenza d'ordine abbiamo bisogno di un oggetto di devozione su cui investire le nostre energie che eccedono la semplice produzione e riproduzione. Mi si potrà obiettare che tale bisogno non è del tutto evidente. Come provarlo? Non so se riuscirò a farlo in modo del tutto convincente.
Il mio assunto si basa sull'auto-osservazione - è sempre da qui che si dovrebbe partire! - e poi sull'osservazione di persone che ricorrono all'aiuto dello psichiatra e di ciò che accade nel mondo. Sulla scorta di queste rilevazioni mi sono convinto che vi siano due bisogni imperativi che non possono non essere soddisfatti: il bisogno di un quadro di riferimento in grado di fornirci un senso, e il bisogno di un oggetto di devozione che ci permetta di investire le nostre energie su qualcosa che vada al di là della produzione materiale di oggetti destinati al nostro sostentamento.
In questo senso, tutti noi abbiamo bisogno di religione, a patto di intendere il termine religione in senso molto lato, indipendentemente da qualunque contenuto specifico, come sistema di orientamento e oggetto di devozione. Se si intende la religione in questo senso molto generale, appunto come sistema di orientamento e oggetto di devozione, essa non riguarda solo il teismo proprio dell'Occidente, ma anche il buddismo, il confucianesimo, il taoismo, e persino lo stalinismo o il fascismo, in quanto fanno tutti appello a quei bisogni dell'uomo che nella nostra cultura vengono soddisfatti dalla religione.
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Salute psichica e bisogno di religione.
Vi sono molti modi di rispondere al problema dell'esistenza umana.
Basta sfogliare un qualunque testo di storia delle religioni per avere a disposizione tutte le risposte che nel corso della storia sono state date al problema dell'esistenza umana. In realtà, le varie religioni non sono altro che risposte diverse allo stesso problema. Dalla lettura di un manuale di psichiatria e dallo studio delle nevrosi e delle psicosi si può ricavare l'idea che tali patologie siano delle risposte che l'individuo dà al problema dell'esistenza umana.
Si può quindi affermare che ad ammalarsi di nevrosi e psicosi sono proprio le persone più sensibili della media alla questione del senso della vita. Di norma, la maggior parte delle persone ha la pelle più dura e risponde alla questione religiosa, vale a dire alla questione di un determinato quadro di riferimento e di un determinato oggetto di devozione, nel modo prescritto dalla propria cultura.
Chi invece è più sensibile e non riesce a trascurare l'impellenza del bisogno di religione, elabora un proprio credo profetico che lo psichiatra definisce poi nevrosi o psicosi. A volte mi chiedo se oggi una persona debba impazzire per poter percepire determinate cose.
Lessing ebbe a dire più o meno la stessa cosa:
«Chi non perde la ragione per certe cose, evidentemente non è nemmeno in grado di ragionare».
Temo che noi tutti, o almeno noi psichiatri, parliamo con troppa disinvoltura di «nevrosi» o «pazzia» ogniqualvolta un modo di sentire, un tipo di esperienza o una particolare risposta ai problemi dell'esistenza umana non coincidono esattamente con quello di cui ci si dovrebbe accontentare. Chi, invece di accontentarsi, elabora un più profondo, o comunque diverso, sistema di orientamento e devozione viene semplicemente considerato nevrotico o pazzo.
Naturalmente, con questo non voglio affermare che tutti i pazzi sono dei santi ispirati da Dio, come credono invece molte culture primitive. Certamente la moderna distinzione tra salute e malattia psichica è in qualche misura giustificata, ma quello che mi lascia perplesso è la sicurezza con cui tale distinzione viene operata. Si suol dire che in un ospedale psichiatrico l'unica differenza tra medici e pazienti sta nel fatto che i primi hanno le chiavi.
La battuta esprime bene i miei dubbi nei confronti di ogni rigida definizione di salute e di malattia, di nevrosi e di normalità: alla base di tutte queste definizioni c'è il presupposto che la parte normale della popolazione abbia già trovato una risposta del tutto soddisfacente al problema dell'esistenza umana, e che chi non è in grado di accettarla di buon grado, e va anzi in cerca di qualche soluzione particolare, sia invece malato.
Per me la religione, intesa in senso lato, è un sistema di orientamento che in una forma o nell'altra è proprio di tutti gli esseri umani. Se usiamo il termine religione in questa accezione, la questione che si pone non è più se la religione sia legittima o meno, ma solo se sia buona o cattiva, o per meglio dire migliore o peggiore.
In un certo modo siamo tutti «idealisti», poiché siamo spinti da motivazioni che vanno al di là del nostro interesse personale. Questo «idealismo» è la più grande benedizione, ma anche la più grande maledizione dell'uomo. Praticamente non c'è male inflitto dagli uomini al mondo che non sia dovuto a puro idealismo. «Idealismo» senza un significato preciso, e riferito a quegli impulsi che, travalicando la routine quotidiana che mira a perpetuare la nostra esistenza e ad assicurarci la sopravvivenza biologica, creano un quadro di riferimento e un oggetto di devozione. E' sciocco giustificare le nostre scelte dicendo di essere «idealisti». Siamo tutti «idealisti». L'unica cosa che conta è quali sono gli ideali che perseguiamo. Se a spingerci è il desiderio di distruggere la vita, di dominare, controllare e opprimere, nella mia accezione di «idealismo» tale desiderio, sul piano psicologico, è «idealista» quanto quello di amare e cooperare.
La questione decisiva è: siamo pericolosi o utili per il mondo?
Ma è una questione che ha senso solo nell'ambito e ai fini di una determinata religione o ideale da noi sostenuti, e non sulla base dell'affermazione che alcuni individui sono idealisti e altri no. In effetti è evidente come persino i peggiori ideali del mondo continuino ancora oggi ad avere dei sostenitori. Costoro, tra l'altro, risultano affascinanti proprio per essere idealisti, il che conferisce alle loro azioni diaboliche una parvenza di dignità. Stranamente siamo tuttora convinti che il fatto di avere degli ideali sia di per sé positivo, invece di renderci conto che ciò non è per nulla scontato. Non possiamo fare a meno di seguire i nostri ideali, poiché sono essi che ci spingono a farlo.
Dunque si tratta di superare l'ammirazione per l'«idealismo», per la religione, eccetera, e di porre l'unica domanda che conti: quali scopi vengono perseguiti? Quali sono gli ideali di quella persona? Quali effetti producono, ed entro quale quadro di riferimento si collocano?
Parlare di religione buona o cattiva, di ideali buoni o cattivi, ci riporta alla questione iniziale: se, cioè, sia possibile pervenire a giudizi di valore oggettivamente validi. A costo di essere tacciato di dogmatismo e di assoluta mancanza di scientificità, vorrei dire semplicemente che cosa considero oggettivamente valido ai fini della salute psichica. Non c'è alcuna novità in quello che dico, che anzi è ben noto da tempo. Naturalmente potrei tradurre queste antiche verità in un forbito linguaggio scientifico, ma preferisco usare quelle antiche parole il cui significato oggi spaventa un po' tutti (quantomeno noi scienziati).
E' proprio della natura dell'uomo e della sua condizione esistenziale l'esigenza di avere uno scopo nella vita: essere capaci di amare, capaci di usare la propria intelligenza e di disporre di quella obiettività e umiltà che permettono all'uomo un'esperienza non alienata della realtà esterna e interna. Questa relazione con il mondo è la maggior fonte di energia di cui disponiamo oltre a quella prodotta nel nostro corpo dai processi chimici. Niente stimola la creatività quanto l'amore, a condizione che sia sincero. E non c'è migliore fondamento per qualunque senso di sicurezza e per un sentimento dell'Io in grado di sostenere da solo l'identità personale, di essere a stretto contatto con la realtà. E' questa relazione che ci permette di superare tutte le finzioni e di acquisire quell'umiltà e obiettività necessarie per guardare la realtà così com'è, trascurando tutto ciò che ci separa da essa. Sebbene non si possa dimostrare in modo inconfutabile che questi sono gli obiettivi che ogni religione si prefigge, è indubbio che lo siano almeno per la maggior parte delle grandi religioni. Il che peraltro non significa che si tratti di obiettivi di natura metafisica o prodotti dalla fede, ancorché quasi tutte le grandi religioni degli ultimi cinquemila anni li abbiano definiti in questo modo. L'antropologia, la psichiatria e la psicologia moderne dimostrano invece che, partendo dallo studio della natura dell'uomo e dei suoi problemi, si può desumere - con la stessa evidenza empirica che comprova l'utilità delle vitamine - che grazie a questi obiettivi è possibile ottenere la soluzione migliore e più soddisfacente alla complessa questione della vita e dell'esistenza umana. [...]
[...][...][...]
[...] Fromm spiega come i cosiddetti normali intendono il concetto di felicità [...]:
"Oggi diciamo che vorremmo essere felici, ma cosa intendiamo con queste parole?
Penso che la maggior parte delle persone, che non sta tanto a lambiccarsi il cervello, risponderà con sincerità: divertirsi. Senza entrare nel merito di ciò che questo significhi, una tale descrizione della felicità ha ben poco a che vedere con quella data da altre culture, che l'uomo moderno non sa neppure immaginare. Ma che cos'è la felicità, una condizione dello spirito? Oppure si è felici solo in rarissimi momenti della vita, quasi che la felicità fosse il frutto prezioso di un albero che fiorisce solo in via del tutto eccezionale, ma che pure deve esistere se produce almeno una volta il suo frutto? Vorrei dire qualche parola sulla natura della felicità dal punto di vista psicologico. Molti definiscono la felicità come il contrario del dolore e della sofferenza: dolore e sofferenza da un lato, e felicità dall'altro. In questa ottica la felicità viene immaginata e intesa come qualcosa da cui pena, turbamento e dolore sono esclusi. Ma questa idea di felicità è fondamentalmente errata. Chi non riesce a provare dolore non è vivo, e chi non è vivo non può nemmeno essere felice. Il dolore e la pena sono dunque parte integrante della vita, né più né meno della felicità; pertanto la felicità non può essere l'opposto del dolore. Anzi, sul piano clinico il dolore è in realtà l'esatto contrario della depressione. La depressione non equivale al dolore; il vero depresso ringrazierebbe il cielo se riuscisse a provare dolore. La depressione è l'assenza di ogni tipo di emozione, è un senso di morte che per il depresso è assolutamente insostenibile. È proprio l'incapacità a provare emozioni che rende la depressione cosi pesante da sopportare.
La felicità può essere definita come l'espressione di una intensa vitalità. Secondo Spinoza, l'esperienza di una vita vissuta intensamente corrisponde alla gioia, alla felicità. All'opposto c'è la depressione che equivale all'assenza di emozioni. Chi vive intensamente prova sia gioia che dolore, che vanno di pari passo in quanto conseguenze di una vita vissuta intensamente. All'opposto di gioia e dolore c'è la depressione, l'assenza di emozioni. Se dicessimo all'uomo della strada che una delle più dolorose malattie psichiche, se non la più dolorosa, è l'assenza di emozioni, non comprenderebbe neppure di che cosa stiamo parlando. Anzi direbbe: 'Ma è magnifico! Sarebbe fantastico non provare nulla. D'altronde che cosa dovrei mai provare? Io vorrei solo stare tranquillo e non avere nulla di cui preoccuparmi'. Costui non conosce l'insopportabile esperienza di una condizione psichica del tutto diversa nella quale non si riesce più a provare niente. Se applichiamo questi concetti alla nostra cultura, troveremo che le persone normali sono in gran parte depresse poiché l'intensità delle loro emozioni si e al quanto ridotta".
La felicità può essere definita come l'espressione di una intensa vitalità. Secondo Spinoza, l'esperienza di una vita vissuta intensamente corrisponde alla gioia, alla felicità. All'opposto c'è la depressione che equivale all'assenza di emozioni. Chi vive intensamente prova sia gioia che dolore, che vanno di pari passo in quanto conseguenze di una vita vissuta intensamente. All'opposto di gioia e dolore c'è la depressione, l'assenza di emozioni. Se dicessimo all'uomo della strada che una delle più dolorose malattie psichiche, se non la più dolorosa, è l'assenza di emozioni, non comprenderebbe neppure di che cosa stiamo parlando. Anzi direbbe: 'Ma è magnifico! Sarebbe fantastico non provare nulla. D'altronde che cosa dovrei mai provare? Io vorrei solo stare tranquillo e non avere nulla di cui preoccuparmi'. Costui non conosce l'insopportabile esperienza di una condizione psichica del tutto diversa nella quale non si riesce più a provare niente. Se applichiamo questi concetti alla nostra cultura, troveremo che le persone normali sono in gran parte depresse poiché l'intensità delle loro emozioni si e al quanto ridotta".
http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/psiche/cosiddetti.pdf
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