domenica 16 ottobre 2016

De vita beata - De beata vita - Seneca - Agostino. Concetto di felicità. “Tutti, o fratello Gallione, vogliono vivere felici, ma quando poi si tratta di riconoscere cos'è che rende felice la vita, ecco che ti vanno a tentoni…” Seneca, De vita beata


De vita beata - De beata vita - Seneca - Agostino.

Si potrebbe, per la felicità, parafrasare quel che Agostino dice del tempo: 
se non me lo chiedi so cosa sia, ma divento incerto quando mi costringi a parlarne. 

Eppure vogliamo iniziare il nuovo anno di letture con l’ostinazione esigente di Paolo e interrogarci sulle radici del concetto di felicità attraverso la competenza amica del latinista Ivano Dionigi. 

Stoicismo versus cristianesimo
una linea di continuità o di divaricazione? 
Quali indicazioni ci danno i due filosofi latini nelle loro opere dal titolo “a specchio”?

Tutti, o fratello Gallione, vogliono vivere felici, ma quando poi si tratta di riconoscere cos'è che rende felice la vita, ecco che ti vanno a tentoni…”
Seneca, De vita beata

(Lucio Anneo Seneca, Sulla felicità, Introduzione di Alessandro Schiesaro, traduzione di Donatella Agonigi testo latino a fronte, Milano, Rizzoli,BUR, 1996).
1. Tutti, o fratello Gallione, vogliono vivere felici, ma quando poi si tratta di riconoscere cos'è che rende felice la vita, ecco che ti vanno a tentoni; a tal punto è così poco facile nella vita raggiungere la felicità, che uno, quanto più affannosamente la cerca, tanto più se ne allontana, per poco che esca di strada; che se poi si va in senso opposto, allora più si corre veloci e più aumenta la distanza. 

Perciò dobbiamo prima chiederci che cosa desideriamo; poi considerare per quale strada possiamo pervenirvi nel tempo più breve, e renderci conto, durante il cammino, sempre che sia quello giusto, di quanto ogni giorno ne abbiamo compiuto e di quanto ci stiamo sempre più avvicinando a ciò verso cui il nostro naturale istinto ci spinge

Finché vaghiamo a caso, senza seguire una guida ma solo lo strepito e il clamore discorde di chi ci chiama da tutte le parti, la nostra vita si consumerà in un continuo andirivieni e sarà breve anche se noi ci daremo giorno e notte da fare con le migliori intenzioni. 

Si stabilisca dunque dove vogliamo arrivare e per quale strada, non senza una guida cui sia noto il cammino che abbiamo intrapreso, perché qui non si tratta delle solite circostanze cui si va incontro in tutti gli altri viaggi; in quelli, per non sbagliare, basta seguire la strada o chiedere alla gente del luogo, qui, invece, sono proprio le strade più frequentate e più conosciute a trarre maggiormente in inganno

Da nulla, quindi, bisogna guardarsi meglio che dal seguire, come fanno le pecore, il gregge che ci cammina davanti, dirigendoci non dove si deve andare, ma dove tutti vanno. E niente ci tira addosso i mali peggiori come l'andar dietro alle chiacchiere della gente, convinti che le cose accettate per generale consenso siano le migliori e che, dal momento che gli esempi che abbiamo sono molti, sia meglio vivere non secondo ragione, ma per imitazione

Di qui tutta questa caterva di uomini che crollano gli unì sugli altri. 
Quello che accade in una gran folla di persone, quando la gente si schiaccia a vicenda (nessuno cade, infatti, senza trascinare con sé qualche altro, e i primi provocano la caduta di quelli che stan dietro), capita nella vita: nessuno sbaglia solo per sé, ma è la causa e l'origine degli errori degli altri; infatti è uno sbaglio attaccarsi a quelli che ci precedono, e poiché ognuno preferisce credere, piuttosto che giudicare, mai si esprime un giudizio sulla vita, ma ci si limita a credere: così l'errore, passato di mano in mano, ci travolge e ci fa precipitare

Gli esempi altrui sono quelli che ci rovinano; noi invece staremo bene appena ci staccheremo dalla folla. Ora, in verità, il popolo, contro la ragione, si fa difensore del proprio male. E succede come nei comizi quando, mutato che sia il volubile favore popolare, a meravigliarsi dell'elezione dei pretori sono proprio quelli che li hanno eletti: approviamo e nello stesso tempo disapproviamo le medesime cose; è questo il risultato di ogni giudizio che si dà secondo quel che dicono i più.
[…]

3. Cerchiamo un bene che non sia appariscente, ma solido e duraturo, e che abbia una sua bellezza tutta intima: tiriamolo fuori. Non è lontano; si troverà, bisogna soltanto che tu sappia dove allungare la mano; ora, invece, come se fossimo al buio, passiamo davanti alle cose che ci sono vicine, inciampando magari proprio in quelle che desideriamo. Ma per non fartela molto lunga, lascerò stare le opinioni degli altri (e infatti sarebbe lungo elencarle e discuterle): tu ascolta la nostra. E quando dico nostra non è che resto legato a qualcuno dei grandi stoici: anche io ho il diritto di dire la mia. 

Pertanto con qualcuno sarò d'accordo, a qualche altro suggerirò di difendere solo in parte la sua idea, e può darsi che, invitato a parlare per ultimo, io non avrò nulla da ribattere alle cose dette da quelli che mi hanno preceduto e aggiunga: "In più, ecco quel che io penso". Intanto, d'accordo con tutti gli stoici, io seguo la natura; è saggezza, infatti, non allontanarsi da essa e conformarsi alla sua legge e al suo esempio. È dunque felice una vita che segue la propria natura, che tuttavia non può realizzarsi se prima di tutto l'animo non è sano, anzi nell'ininterrotto possesso della sua salute, e poi forte ed energico, infine assolutamente paziente, adattabile alle circostanze, sollecito ma senza angoscia del suo corpo e di ciò che gli concerne, attento a tutte quelle cose che ornano la vita, senza però ammirarne alcuna, disposto a usare i doni della natura ma senza esserne schiavo. Tu capisci, anche se io non lo dico, che ne deriva una ininterrotta tranquillità e libertà, una volta rimosse le cose che ci irritano o ci atterriscono; infatti, ai piaceri e alle seduzioni, che sono ben meschini e fragili e dannosi per il loro stesso profumo, subentra una gioia infinita inestinguibile, costante e, ancora, la pace, l’armonia de animo e la grandezza insieme alla bontà: infatti ogni cattiveria deriva dalla debolezza.

4. La nostra felicità può essere anche definita altrimenti, nel senso che lo stesso concetto può essere espresso con parole diverse. Allo stesso modo che un esercito si può schierare ora su un fronte molto ampio, ora restringersi in uno spazio più angusto o rientrare al centro curvando le ali o spiegarsi su una linea diritta, esso sempre, comunque sia disposto, ha la medesima forza e la medesima volontà di battersi per la stessa causa: così la definizione del sommo bene può essere ampliata ed estesa o condensata e ristretta. E, quindi, sarà lo stesso se dirò: "Il sommo bene è l'animo che ha in dispregio i doni della fortuna e si compiace della virtù" oppure: "È un'indomita forza d'animo, esperta delle cose, serena nell'azione, dotata di grande umanità e sollecitudine nei riguardi degli altri". Ma si può definire ancora dicendo felice quell'uomo per il quale il bene e il male non sono se non un animo buono o un animo cattivo, che pratica l'onestà, che si compiace della virtù, che non si lascia esaltare né abbattere dagli eventi fortuiti, che non conosce altro bene più grande di quello che lui stesso è in grado di procurarsi, per cui il piacere più vero sarà il disprezzo dei piaceri. E se vuoi dilungarti, si può ancora presentare lo stesso concetto sotto vari e diversi aspetti, lasciandone intatto il valore; che cosa, infatti, ci vieta di dire che la felicità consiste in un animo libero, elevato, intrepido, saldo, che lascia fuori di sé timore e cupidigia, che considera unico bene l'onestà e unico male la turpitudine e tutto il resto un vile coacervo di cose che non tolgono né aggiungono nulla a una vita felice e che possono venire o andarsene senza accrescere o diminuire il sommo bene? A un comportamento così saldo, si voglia o no, seguirà una ininterrotta serenità e una profonda letizia che nasce dall'intimo, perché si rallegra di quel che ha e non desidera nulla di più di quanto le è proprio Ebbene, tutto questo non ripaga ampiamente i meschini, futili, effimeri moti del nostro fragile corpo? Il giorno in cui si sarà schiavi del piacere lo si sarà anche del dolore; e tu vedi a quale spietata e funesta schiavitù dovrà soggiacere colui che sarà posseduto alternativamente dai piaceri e dai dolori, i più capricciosi e dispotici dei padroni; quindi bisogna trovare un varco verso la libertà. E nessun'altra cosa può darcela se non l'indifferenza nei riguardi della sorte: allora nascerà quel bene inestimabile, la pace della mente che si sente al sicuro, e l'elevazione spirituale, e, una volta scacciati i timori, dalla conoscenza del vero una gioia grande e immutabile e l'amabilità e la disponibilità dell'animo, che di queste cose godrà non in quanto beni, ma in quanto nate da un bene che è suo proprio.

5. Visto che ormai ho cominciato a trattare l'argomento ampiamente, possiamo ancora definire felice chi, grazie alla ragione, non ha né timori né passioni. In effetti, né i sassi provano paura e tristezza né certamente gli animali. Non per questo si potrebbe dire che sono felici, dal momento che manca loro la consapevolezza della felicità. Vanno messi sullo stesso piano gli uomini che la loro stupidità e l'incoscienza di sé relegano tra le bestie. Non c'è nessuna differenza tra questi e quelle: infatti, le bestie non sono dotate di ragione, questi uomini ne hanno poca e per di più si ritorce a loro danno. Ora, nessuno può dirsi felice se sta fuori dalla verità. Dunque è beata la vita che si basa costantemente su un giudizio retto e fermo. E' allora infatti che la mente è pura, libera da ogni male, capace di sottrarsi sia alle ferite sia alle graffiature, decisa a restare dove si trova e a difendere la sua posizione anche contro le avversità e le persecuzioni della sorte. Per quanto poi concerne il piacere, se pure si spande tutto intorno e si insinua in ogni fessura, ci blandisce l'anima con sue lusinghe e ci mette davanti una tentazione dopo l'altra per sedurci completamente o almeno in parte, c'è forse un uomo, cui resti un briciolo di umanità, che vorrà lasciarsi trastullare giorno e notte e vorrà trascurare l'animo per dedicarsi solo al corpo?

6. "Ma anche l'animo" mi puoi dire "avrà i suoi piaceri". E li abbia pure, e sieda giudice del lusso e dei piaceri, si sazi di tutto quello che di solito alletta i sensi, poi rivolga il pensiero al passato e, memore dei piaceri trascorsi, si rallegri per le gioie passate e pregusti quelle future, organizzi le sue speranze e, mentre il corpo è ancora appesantito dal lauto pasto di oggi, corra già col pensiero a quello di domani. Tutto questo mi parrà davvero meschino, dato che preferire il male al bene è pura follia. Nessuno può essere felice se non è sano di mente e certo non lo è chi desidera quello che gli nuocerà. E' felice dunque chi giudica rettamente. E' felice chi è contento della sua condizione, qualsiasi essa sia, e gode di quello che ha. E' felice chi affida alla ragione la condotta di tutta la sua vita.

7. Anche quelli che hanno detto che il sommo bene risiede nei piaceri vedono in quale posto vergognoso l'hanno relegato. Per questo affermano che il piacere non può essere separato dalla virtù e sostengono che non vive con onore chi non vive anche con piacere e che non vive con piacere chi non vive anche con onore. Non vedo come si possano accoppiare cose tanto diverse. Per quale ragione, vi chiedo, non si può separare il piacere dalla virtù? Forse perché il principio di ogni bene deriva dalla virtù e dalle sue radici nasce anche quello che voi amate e desiderate? Ma se piacere e virtù non fossero separati non esisterebbero cose piacevoli ma disonorevoli né cose onorevolissime ma difficili e che si raggiungono solo a prezzo di sofferenze. Aggiungi poi che il piacere si accompagna anche alla vita più vergognosa ma la virtù non ammette una vita disonesta, poi che alcuni sono infelici non perché privi di piaceri ma proprio a causa dei piaceri: cosa che non accadrebbe se il piacere fosse mescolato alla virtù, che spesso ne è priva ma mai ne ha bisogno. Perché volete mettere insieme cose diverse, anzi opposte? La virtù è qualcosa di alto, eccelso, regale, invincibile, infaticabile, invece il piacere è una cosa bassa, servile, debole, effimera e sta di casa nei bordelli e nelle taverne. La virtù la troverai nel tempio, nel foro, nella curia, a difesa delle mura, impolverata, accaldata e coi calli alle mani. Il piacere se ne sta quasi sempre nascosto, in cerca del buio intorno ai bagni e alle stufe, nei luoghi che hanno paura degli edili, fiacco, snervato, madido di vino e di profumi, pallido, imbellettato e imbalsamato come un cadavere. Il sommo bene è immortale, non conosce fine, non dà sazietà né rimorso perché la mente retta non cambia, non prova odio per se stessa, non modifica ciò che è già ottimo. Al contrario il piacere si esaurisce sul più bello, è limitato perciò sazia subito, viene a noia e dopo il primo slancio si affloscia. Non può essere stabile quello che per natura è in movimento. Allo stesso modo non può avere nessuna consistenza quello che va e viene in un baleno, destinato a finire nell'attimo stesso in cui si consuma: infatti tende al punto in cui cessa e quando comincia ha già presente la fine.

8. E poi perché mai il piacere esiste tanto tra i buoni che tra i malvagi e gli scellerati godono della loro infamia come gli onesti delle buone azioni? Per questo gli antichi ci hanno insegnato a seguire la vita migliore e non la più piacevole, in modo che il piacere sia compagno e non guida di una buona e retta volontà. E' la natura infatti che dobbiamo prendere come guida: a lei si rivolge la ragione, a lei chiede consiglio. Allora vivere felici e secondo natura è lo stesso. Ti spiego cosa intendo: se sapremo conservare con cura e serenità le doti fisiche e le inclinazioni naturali come beni di un solo giorno e fugaci, se non saremo loro schiavi né soggetti al potere delle cose esterne, se le occasionali gioie del corpo per noi avranno lo stesso posto che hanno le truppe ausiliarie e quelle armate alla leggera nell'esercito (devono servire, non comandare), allora di certo saranno utili alla mente. L'uomo non deve lasciarsi corrompere e dominare dagli eventi esterni e deve fare affidamento solamente su se stesso, sicuro di sé e pronto a tutto, insomma artefice della propria vita. La sua sicurezza non manchi di conoscenza e la conoscenza di costanza. Siano sempre saldi i suoi principi e le sue decisioni non subiscano modifiche. Si capisce, anche se non lo dico, che un uomo così sarà equilibrato e ordinato in ogni sua azione, magnifico ma non senza benevolenza. La ragione si interroghi stimolata dai sensi e li prenda come punto di partenza (del resto non ha altro da cui cominciare per prendere slancio verso la verità) ma poi torni in sé. Infatti anche l'universo che tutto abbraccia e Dio che governa il mondo tendono verso l'esterno, e tuttavia sempre rientrano in sé. Così deve fare la nostra mente: anche quando seguendo i sensi si spinge all'esterno deve avere il controllo su questi e su se stessa. In questo modo si realizzerà una forza unica e un'armonia tra le sue facoltà e nascerà quella razionalità sicura che è senza contraddizioni e che non ha incertezze sulle sue opinioni, conoscenze e convinzioni, quella razionalità che, quando si è organizzata ed è concorde in tutte le sue parti e, per così dire, agisce all'unisono, allora ha toccato il sommo bene. Perché non c'è più niente di riprovevole, niente di incerto, niente che la faccia inciampare e scivolare. Farà tutto secondo il proprio volere e non gli capiterà nulla che non abbia previsto. Tutte le sue azioni avranno buon esito in modo facile, agevole e senza ripensamenti: infatti, pigrizia e indecisione denotano contrasto e incoerenza. Perciò si può affermare senza esitazione che il sommo bene è l'armonia dell'animo, infatti le virtù dovranno stare dove c'è accordo e unità: sono i vizi che non vanno d'accordo.

9. "Ma anche tu" mi puoi dire "non coltivi la virtù per altro se non perché speri di ricavarne qualche piacere." Per prima cosa, anche se la virtù procurerà piacere, non è per questo che la si cerca. Infatti non procura piacere, ma "anche" piacere, e non si affatica per questo, ma la sua fatica, per quanto miri ad altro, ha come conseguenza anche questo. Come in un campo seminato a frumento nascono qua e là i fiori, ma non è per queste piantine (anche se sono belle da guardare) che è stata fatta tanta fatica (diverso era il proposito di chi seminava, il resto è venuto da sé), allo stesso modo il piacere non è il prezzo né la causa della virtù ma un suo accessorio e non piace perché diletta, ma, se piace, allora diletta. Il sommo bene consiste proprio nella convinzione e nel comportamento di una mente perfetta che, quando ha compiuto il suo corso e fissati i suoi limiti, ha pienamente realizzato il sommo bene e non desidera niente di più: fuori del tutto non esiste nulla, nulla oltre la fine. Per questo sbagli a chiedere il motivo che mi spinge ad aspirare alla virtù: cerchi qualcosa al di sopra di ciò che è sommo. Vuoi sapere cosa mi aspetto dalla virtù? La virtù. Infatti non ha nulla di più prezioso del suo stesso valore. Ti sembra poco? Se ti dico: "il sommo bene è la fermezza di un animo saldo e la sua previdenza e la sua elevatezza e il suo equilibrio e la sua libertà e la sua armonia e la sua dignità", pretendi ancora qualcosa di più grande cui riferire questi beni? Perché mi nomini il piacere? lo cerco il bene dell'uomo, non del ventre, che, del resto, è più capiente negli animali."

10. "Travisi" mi puoi dire "quello che dico. Infatti, io affermo che non si può vivere con piacere se non si vive anche con onore, e questo non può accadere né agli animali né a chi misura la felicità dal cibo. Affermo con molta chiarezza che la vita che definisco piacevole non può che essere associata alla virtù." Ma chi è che non sa che sono proprio i più stolti a essere stracolmi dei vostri piaceri, che la malvagità è ricca di soddisfazioni e che l'animo stesso suggerisce tanti tipi di piaceri vergognosi? Prima di tutto l'arroganza e l'eccesso di stima di sé, l'orgoglio che disprezza tutti e l'amore cieco e incauto per le sue cose, l'esaltazione per i più piccoli e futili motivi e poi la maldicenza e la superbia che si compiacciono di offendere, l'inerzia e l'indolenza dell'animo che, fiaccato dalla profusione dei godimenti, si addormenta su se stesso. Tutto questo la virtù lo spazza via, ci dà una tiratina di orecchie, fa una valutazione dei piaceri prima di accettarli e non tiene neanche in gran conto quelli che approva: infatti non li accetta per goderseli, al contrario, si rallegra di poterli moderare? Siccome però la moderazione limita i piaceri, è un'offesa per il sommo bene. Tu il piacere lo tieni stretto, io lo tengo a freno. Tu godi del piacere, io me ne servo. Tu credi che sia il sommo bene, io neanche un bene. Tu fai tutto per il piacere, io niente."
11. Quando dico che non faccio nulla per il piacere, mi riferisco a quel sapiente al quale soltanto concediamo il piacere. Ma non chiamo sapiente chi ha qualcosa sopra di sé, tantomeno il piacere. Perché, se è tutto preso da questo, come farà a resistere alla fatica, al pericolo, alla povertà e alle tante minacce che strepitano intorno alla vita umana? Come potrà sopportare la vista della morte, come i dolori, come il rumore del mondo e di nemici tanto violenti se cede davanti a un avversario così debole? "Farà tutto ciò che il piacere lo persuaderà a fare." Ma via, non vedi di quante cose lo persuaderà? "Non potrà persuaderlo di niente di turpe" puoi dire "perché è unito alla virtù." Ma ancora non vedi che razza di sommo bene è, se ha bisogno di un guardiano per essere un bene? Come potrà la virtù guidare il piacere mentre lo segue, se è ai subordinati che tocca seguire e ai comandanti guidare? Tu metti in coda chi comanda. Ha davvero un illustre incarico la virtù secondo voi: assaggiare i piaceri! Ma vedremo se la virtù, da loro così maltrattata, sarà ancora virtù, perché non può conservare il suo nome se ha abbandonato il suo posto. Intanto, per restare in argomento, ti mostrerò molti uomini assediati dai piaceri che la sorte ha coperto di tutti i suoi doni ma che, devi riconoscere, sono malvagi. Guarda Nomentano e Apicio che vanno a ricercare i beni (così li chiamano loro) della terra e del mare e fanno sfilare sulla mensa animali di ogni paese; li vedi che dal trono adorno di rose contemplano la loro tavola e si deliziano le orecchie al suono dei canti, gli occhi con spettacoli e il palato con ghiottonerie . Hanno tutto il corpo carezzato da stoffe morbide e delicate e, per evitare che le narici nel frattempo restino inerti, viene impregnato dei più svariati profumi il luogo dove la dissolutezza si celebra. Puoi dire che sono in mezzo ai piaceri, ma non ne ricaveranno un bene, perché non godono di un bene.
12. "Sarà male per loro" dirai "perché interverranno molte cose a sconvolgere l'animo e le opinioni contrastanti renderanno inquieta la mente." E' così, te lo concedo. Comunque, anche se stolti e volubili e soggetti al pentimento, proveranno grandi piaceri al punto che si deve ammettere che sono lontani allo stesso modo da qualsiasi inquietudine e serenità e, come succede ai più, sono preda di un'allegra follia e impazziscono dalle risate. Al contrario i piaceri dei saggi sono miti e pacati, quasi affievoliti, controllati e appena percettibili in quanto sopraggiungono senza che siano stati chiamati e, nonostante si presentino da sé, non sono accolti con onore né con particolare gioia da chi li riceve. Infatti il saggio li mescola con la vita come il gioco e il divertimento con le cose serie. La devono smettere, allora, di associare cose incompatibili e di confondere piacere e virtù. E' con questo vizio che lusingano gli uomini peggiori. Chi si è lasciato andare in mezzo ai piaceri e va ruttando sempre ubriaco, siccome sa di vivere col piacere, crede di vivere anche con la virtù: infatti sente dire che virtù e piacere non possono essere separati e così fregia i suoi vizi col nome di sapienza ed esibisce ciò che dovrebbe nascondere. Non è Epicureo che li spinge a essere dissoluti, sono loro che, dediti al vizio, nascondono in grembo alla filosofia la loro dissolutezza e si precipitano dove sentono che si loda il piacere. Non considerano però quanto sia sobrio e moderato il piacere di Epicuro (questo, per Ercole, è quello che penso io) ma accorrono al solo nome, sperando di trovare giustificazione e copertura per le loro dissolutezze. Così perdono anche l'unico bene che possedevano fra tanti mali: il pudore del peccato. Infatti lodano ciò per cui arrossivano e si vantano del vizio. E non può neppure risvegliarsi il pentimento, perché si è dato un nome nobile a una turpe ignavia. Per questo è pericolosa l'esaltazione del piacere, perché i nobili insegnamenti restano nascosti e le fonti di corruzione emergono.
[…]
16. Dunque la vera felicità risiede nella virtù. Ma quali consigli ti darà questa virtù? Di considerare bene solo ciò che è legato alla virtù e male ciò che è legato alla malvagità. Poi di restare ben saldo di fronte al male e al seguito del bene in modo da imitare Dio nei limiti del possibile. E che premio ti promette per questa impresa? Privilegi grandi e degni degli dei: non sarai costretto a nulla, non avrai bisogno di nulla, sarai libero sicuro e inviolabile, non tenterai niente invano e non sarai mai ostacolato, tutto andrà secondo il tuo desiderio, nulla ti sarà avverso né contrario al tuo intento e alla tua volontà. "Allora basta la virtù per essere felici?" Perfetta e divina com'è, perché non dovrebbe essere sufficiente, anzi più che sufficiente? Cosa può mancare infatti a chi è al di là di ogni desiderio? Di cosa può aver bisogno dall'esterno chi ha raccolto tutto in se stesso? Ma chi ancora non ha raggiunto la virtù, anche se ha fatto molta strada, ha bisogno che la sorte gli sia benevola finché si dibatte in mezzo ai difetti umani e non riesce a sciogliere questo nodo e ogni vincolo mortale. Allora che differenza c'è? Che questi sono ben bene legati stretti e incatenati e invece a chi ha cercato di arrivare più in alto si è allentata la catena e anche se non è ancora libero è come se già lo fosse.



Agostino, De beata vita
(Sant’Agostino, La felicità. La libertà. De beata vita. De libero arbitrio. Testo a fronte. Trad. Riccardo Fedriga. Milano, Rizzoli BUR 1995)
Le condizioni della vita e la vocazione alla filosofia (1, 1-5)
La sventura e la vocazione alla filosofia.
1. 1. O coltissimo ed egregio Teodoro, se il tragitto indicato dalla ragione e la sola scelta conducessero al porto della filosofia, dal quale si può sbarcare nella regione e terraferma della felicità, non saprei se può offendere l'affermazione che in molto minor numero sarebbero gli uomini che lo raggiungono. Adesso ancora, come osserviamo, di rado e pochi assai vi arrivano. Infatti ci ha lanciato in questo mondo come in un mare tempestoso, irrazionalmente e a caso, almeno all'apparenza, o Dio, o la natura, o la necessità ovvero una nostra scelta o alcuni di questi principi congiunti o tutti insieme. Il problema è di difficile soluzione. Tu hai cominciato a chiarirlo. Nessuno potrebbe dunque sapere dove dirigersi o per dove ritornare se talora, contro la nostra scelta e mentre ci affatichiamo in direzione opposta, una qualche tempesta, di cui gli ignoranti possono ritenere che ci allontani dalla meta, non ci gettasse, senza la nostra consapevolezza e malgrado il nostro errore, nella terra tanto desiderata.
Le tre categorie di naviganti.
1. 2. Ritengo quindi di poter classificare gli individui che la filosofia può accogliere, in tre categorie di naviganti. La prima è di coloro che, raggiunto l'uso della ragione, senza sforzo, con qualche leggero colpo di remi, salpano senza tentare il largo e si rifugiano nella tranquillità. Di là erigono per quanti è possibile, affinché si sforzino di raggiungerli, il faro splendente di qualche loro opera. La seconda categoria, opposta alla precedente, è di coloro che, ingannati dalla fallace superficie del mare, hanno deciso d'avanzare al largo ed osano allontanarsi dalla patria e spesso se ne dimenticano. E se un vento, che credono favorevole, li sospingerà da poppa non saprei in quale direzione e in maniera assai occulta, incorrono nel colmo dell'infelicità. Ma ne sono orgogliosi e soddisfatti perché fino a tal punto li favorisce la serenità assai ingannevole dei piaceri e degli onori. E ad essi non si deve augurare altro che una sfavorevole e, se è poco, una veramente crudele tempesta, proprio in quelle soddisfazioni da cui sono trattenuti nel piacere ed inoltre il vento contrario che li conduca, magari piangenti e gementi, a godimenti sicuri e stabili. Tuttavia taluni di questa categoria, non essendosi ancora molto allontanati, sono ricondotti da avversità non tanto gravi. Sono gli uomini che, quando le lacrimevoli perdite delle loro sostanze o le angustianti difficoltà per futili interessi li stimoleranno a leggere, poiché non rimane loro altro da fare, libri di uomini dotti e molto saggi, si svegliano, per così dire, nel porto stesso, da cui non possono farli uscire le lusinghe del mare troppo falsamente tranquillo. Fra le due precedenti v'è una terza categoria. È di coloro che o fin dall'adolescenza, ovvero dopo essere stati a lungo e duramente sballottati qua e là, tengono lo sguardo volto ad alcuni fari e, sebbene fra i marosi, si ricordano della patria diletta e con dritto corso senza inganni e senza indugi vi ritornano. O più spesso lasciando la retta via a causa delle nebbie o fissando lo sguardo su stelle che declinano all'orizzonte o presi da qualche allettamento, rimandano il tempo propizio alla navigazione, errano piuttosto a lungo e spesso anche rischiano di naufragare. Anche essi spesso sono ricondotti alla auspicata vita serena dalla sventura nei beni caduchi, la quale può apparire come tempesta contraria ai loro tentativi.
Il monte della vanagloriosa filosofia classica.
1. 3. Tutti coloro che in una maniera o nell'altra sono condotti alla regione della felicità devono temere fortemente ed evitare con ogni cura un alto monte che si erge proprio davanti al porto e lascia un adito assai stretto a coloro che vi entrano. Esso è tanto splendido ed è fasciato da luce così ingannevole che invita a soffermarvisi coloro che arrivano e non sono ancora entrati e lusinga di soddisfare, sostituendosi alla regione della felicità, la loro aspirazione. E spesso adesca anche gli uomini giunti al porto e li fa tornare indietro allettandoli con la propria altezza, da cui è gradevole disprezzare gli altri. Essi tuttavia ammoniscono i frequenti viaggiatori di non finire sugli scogli sommersi nelle acque e di non credere che sia facile salire fino a loro e con molta umanità indicano la via da seguire senza pericolo a causa della vicinanza della regione felice. E poiché non vogliono averli soci di una futile gloria, mostrano il luogo della sicurezza. Infatti non altro la ragione vuol fare intendere per alto monte, temibile a coloro i quali si avvicinano o sono già entrati nella filosofia, che l'orgogliosa aspirazione è gloria caduca e vuota. Esso infatti nell'interno è cavo e privo di compattezza sicché, squarciandosi il fragile suolo, può trascinare nella rovina e inghiottire i tronfi individui che vi camminano sopra e sottrarre ad essi, piombati nelle tenebre, la splendida patria che avevano intravisto.
Le esperienze spirituali di Agostino.
1. 4. Stando così le cose, ascolta, o mio Teodoro, poiché a te solo mi rivolgo e te ritengo capace di comprendere il mio intento, ascolta dunque quale delle tre categorie di persone mi ha fatto rivolgere a te, in quale luogo ritengo di essere e quale aiuto mi attendo da te. Fin dal diciannovesimo anno della mia vita, dopo aver letto, nella scuola del retore, il libro di Cicerone, dal titolo L'Ortensio, fui preso da tanto amore per la filosofia che subito decisi di dedicarmi ad essa. Ma non mancarono nebbie per cui il mio navigare fu senza mèta e a lungo, lo confesso, ebbi fisso lo sguardo su stelle che tramontavano nell'oceano e che inducevano nell'errore. Difatti una falsa e puerile interpretazione della religione mi distoglieva dall'indagine. Reso più maturo, mi allontanai dalla foschia e mi creai la persuasione che ci si dovesse affidare più a coloro che usano la ragione che a coloro che usano l'autorità. M'incontrai allora con individui i quali ritenevano che la luce sensibile si deve venerare fra le cose altamente divine. Non ero d'accordo, ma supponevo che intendessero celare una nobile dottrina in concetti arcani. In seguito me li avrebbero svelati. Ma quando, dopo averli esaminati attentamente, li abbandonai soprattutto con la traversata di questo mare, a lungo gli accademici tennero il mio timone fra i marosi in lotta con tutti i venti. Alfine giunsi in questa regione e qui conobbi la stella polare cui affidarmi. Avvertii infatti spesso, nei discorsi del nostro vescovo e talora nei tuoi, che all'idea di Dio non si deve associare col pensiero nulla di materiale e neanche all'idea dell'anima che nel mondo è il solo essere assai vicino a Dio. Ma, lo confesso, ero trattenuto dal volare in seno alla filosofia dagli allettamenti della donna e dell'onore con questa mira che, una volta conseguìtili, sorte che è toccata a pochi fortunati, alfine a vele spiegate e con tutta la forza dei remi sarei potuto rifugiarmi nel seno della filosofia e ottenervi la quiete. E letti assai pochi libri di Plotino, di cui so che sei grande ammiratore, e, per quanto mi fu possibile, messa a confronto con essi anche l'autorità che ci ha trasmesso la sacra dottrina, m'infiammai talmente da voler levare subitamente tutte le ancore. Mi trattenne l'apprezzamento di alcune persone. Che altro mancava se non che venisse in aiuto a me, che stavo gingillandomi in problemi di poco conto, una tempesta che può sembrare contraria? E proprio a proposito mi assalì un così grave mal di petto che non avendo forze per sostenere il peso della professione, con la quale avrei forse volto le vele verso le Sirene, ho abbandonato tutto e ho ricondotto la nave, sia pure tutta squassata, alla desiderata quiete.
Lo strato attuale della coscienza di Agostino.
1. 5. Puoi dunque osservare in quale filosofia, come in un porto, io navighi. Ma anche esso è assai largo e la sua ampiezza non del tutto esclude la possibilità dell'errore, sebbene con minor pericolo. Intanto ignoro del tutto a quale parte della regione, la quale sola è felice, devo dirigermi e attraccare. Nulla infatti ho raggiunto di sicuro. Anche il problema dell'anima rolla e beccheggia....


lunedì 08 ottobre 2007 legge Ivano Dionigi
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