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Sigmund Freud, La guerra e lo stato.
“I popoli, piú o meno, sono rappresentati dagli Stati che hanno istituito; questi Stati dai governi che li guidano. Il privato cittadino ha modo durante questa guerra [la prima guerra mondiale, 1914 – 1918] di persuadersi con terrore di un fatto che occasionalmente già in tempo di pace lo ha colpito: e cioè che lo Stato ha interdetto al singolo l’uso dell’ingiustizia, non perché intenda sopprimerla, ma solo perché vuole monopolizzarla, come il sale e i tabacchi. Lo Stato in guerra ritiene per sé lecite ingiustizie e violenze che disonorerebbero l’individuo singolo. Si serve contro il nemico non solo di una legittima astuzia, ma anche della cosciente menzogna e dell’inganno intenzionale; e ciò in una misura che sembra sorpassare tutto ciò che è stato fatto nelle guerre precedenti. Lo Stato richiede ai suoi cittadini la massima obbedienza e il massimo sacrifico di sé, ma li tratta da minorenni, esagerando nella segretezza e sottoponendo ogni manifestazione ed espressione del pensiero a una censura che rende coloro che sono stati intellettualmente repressi indifesi di fronte a qualsiasi situazione sfavorevole che possa determinarsi e a qualsiasi voce allarmistica che possa esser propalata. La Stato scioglie ogni convenzione e trattato stipulato con altri Stati, e non teme di confessare la propria rapacità e volontà di potenza: e il cittadino è tenuto ad approvare tutto ciò in nome del patriottismo.
Né ci si venga a obiettare che lo Stato non può rinunciare all’uso dell’ingiustizia per non trovarsi in condizioni di avantaggio. Anche per il singolo l’osservanza delle norme morali e la rinuncia all’uso brutale della forza sono in genere assai poco vantaggiose, ed è raro che lo Stato sia in grado di indennizzarlo per il sacrificio che gli ha imposto. Né possiamo meravigliarci se il rilassamento di tutti i vincoli morali tra le individualità collettive del genere umano si ripercuote anche sulla moralità privata, posto che la coscienza morale, lungi dall’essere quel giudice inflessibile di cui parlano i moralisti, altro non è alle origini che «angoscia sociale». Là dove vien meno il biasimo della comunità cessa anche la repressione degli appetiti malvagi, e gli uomini si abbandonano ad atti di crudeltà, di perfidia, di tradimento e di brutalità, che sembrerebbero incompatibili col livello di civiltà che hanno raggiunto.
Come non può, il cittadino del mondo civile […] non sentirsi smarrito in un mondo che gli è divenuto straniero: la sua grande patria è distrutta, il patrimonio comune devastato, i concittadini divisi e umiliati!
La sua delusione si presta tuttavia ad alcune considerazioni critiche. A stretto rigore, giacché si riduce al crollo di un’illusione, essa non è giustificata. Ebbene le illusioni hanno la funzione di risparmiarci determinati sentimenti spiacevoli consentendoci di fruire al lo posto di alcuni soddisfacimenti sostitutivi. Non dobbiamo quindi lamentarci se esse prima o poi cozzano contro la realtà e ne rimangono distrutte.
Due fatti hanno suscitato in questa guerra la nostra delusione: la scarsa moralità verso l’esterno di quegli Sati che all’interno si erigono a custodi delle norme morali, e la brutalità del comportamento di quei singoli individui che, in quanto membri della piú progredita civiltà umana, non ci saremmo aspettati capaci di tanto.”
SIGMUND FREUD (1856 – 1939), “Considerazioni attuali sulla guerra e la morte” (1915, trad. di Cesare Luigi Musatti [L’arco, Firenze 1949]), in “Opere di sigmund Freud”, ed. diretta e curata da cesare Luigi Musatti, corredo critico di Jame Strachey (1887 – 1967), Boringhieri, Torino 1967 – 1977, 12 voll., vol. 8 (1978 ristampa, I ed. 1976) ʻOpere 1915 – 1917ʼ, I. ‘La delusione della guerra’, pp. 127 – 128.
Negli anni Trenta si ebbero le prime rivolte ebraiche in Palestina, ed anche Freud, come altri ebrei noti al gran pubblico, ricevette dall’Agenzia Ebraica Internazionale la richiesta di partecipare alla pubblica critica verso l’autorità britannica che aveva cominciato a limitare l’immigrazione di ebrei in quel territorio. Poco tempo dopo l’alto dirigente sionista ricevette in risposta questa lettera di Freud:
“Non posso fare ciò che ella mi chiede, perché non riesco a superare l’avversione per l’idea d’imporre al pubblico il mio nome. Neanche il momento così critico, mi sembra sufficiente a poterlo fare. Chiunque voglia infiammare le masse di persone, credo lo debba fare con qualcosa di esaltante, mentre la mia opinione moderata sul Sionismo non mi consente di far nulla di simile. Approvo sicuramente i suoi scopi, sono fiero della nostra Università di Gerusalemme, mi fa immenso piacere la prosperità del nostro insediamento. D’altro canto, però, io non penso che la Palestina possa mai diventare uno Stato ebraico, né che il mondo cristiano e il mondo islamico sarebbero disposti a vedere i loro luoghi sacri in mano agli ebrei. A mio avviso sarebbe stato più sensato fondare una patria ebrea in una terra con meno gravami storici. Sono però consapevole che questa mia opinione razionale non avrebbe mai suscitato l’entusiasmo delle masse né ottenuto l’appoggio finanziario dei ricchi. Devo tristemente riconoscere che l’infondato fanatismo della nostra gente è in parte colpevole di aver suscitato la diffidenza araba. Non provo alcuna simpatia per una religiosità ebraica mal diretta, che trasforma un pezzo di mura erodiane in cimelio nazionale, offendendo così i sentimenti della gente del luogo. Giudichi dunque lei se io, avendo simili opinioni critiche, possa essere la persona giusta per farsi avanti e confortare un Popolo deluso da speranze ingiustificate”.
Lettera scritta a Vienna nel 1930 e indirizzata al Dr. Chaim
Koffler. Documento tratto dall’Archivio Freud che raccoglie i carteggi messi a disposizione da Anna Freud ed Eredi.
Fonte: Ariel Levi di Gualdo, Erbe amare, Bonanno Editore, Acireale-
Roma, 2007, pp. 61-62
“ Völker werden ungefähr durch die Staaten, die sie bilden, repräsentiert; diese Staaten durch die Regierungen, die sie leiten. Der einzelne Volksangehörige kann in diesem Krieg mit Schreck feststellen, was sich ihm gelegentlich schon in Friedenszeiten aufdrängen wollte, daß der Staat dem Einzelnen den Gebrauch des Unrechts untersagt hat, nicht weil er es abschaffen, sondern weil er es monopolisieren will wie Salz und Tabak. Der kriegführende Staat gibt sich jedes Unrecht, jede Gewalttätigkeit frei, die den Einzelnen entehren würde. Er bedient sich nicht nur der erlaubten List, sondern auch der bewußten Lüge und des absichtlichen Betruges gegen den Feind, und dies zwar in einem Maße, welches das in früheren Kriegen Gebräuchliche zu übersteigen scheint. Der Staat fordert das Äußerste an Gehorsam und Aufopferung von seinen Bürgern, entmündigt sie aber dabei durch ein Übermaß von Verheimlichung und eine Zensur der Mitteilung und Meinungsäußerung, welche die Stimmung der so intellektuell Unterdrückten wehrlos macht gegen jede ungünstige Situation und jedes wüste Gerücht. Er löst sich los von Zusicherungen und Verträgen, durch die er sich gegen andere Staaten gebunden hatte, bekennt sich ungescheut zu seiner Habgier und seinem Machtstreben, die dann der Einzelne aus Patriotismus gutheißen soll.
Man wende nicht ein, daß der Staat auf den Gebrauch des Unrechts nicht verzichten kann, weil er sich dadurch in Nachteil setzte. Auch für den Einzelnen ist die Befolgung der sittlichen Normen, der Verzicht auf brutale Machtbetätigung in der Regel sehr unvorteilhaft, und der Staat zeigt sich nur selten dazu fähig, den Einzelnen für das Opfer zu entschädigen, das er von ihm gefordert hat. Man darf sich auch nicht darüber verwundern, daß die Lockerung aller sittlichen Beziehungen zwischen den Großindividuen der Menschheit eine Rückwirkung auf die Sittlichkeit der Einzelnen geäußert hat, denn unser Gewissen ist nicht der unbeugsame Richter, für den die Ethiker es ausgeben, es ist in seinem Ursprunge «soziale Angst» und nichts anderes. Wo die Gemeinschaft den Vorwurf aufhebt, hört auch die Unterdrückung der bösen Gelüste auf, und die Menschen begehen Taten von Grausamkeit, Tücke, Verrat und Roheit, deren Möglichkeit man mit ihrem kulturellen Niveau für unvereinbar gehalten hätte.
So mag der Kulturweltbürger […], ratlos dastehen in der ihm fremd gewordenen Welt, sein großes Vaterland zerfallen, die gemeinsamen Besitztümer verwüstet, die Mitbürger entzweit und erniedrigt!
Zur Kritik seiner Enttäuschung wäre einiges zu bemerken. Sie ist, strenge genommen, nicht berechtigt, denn sie besteht in der Zerstörung einer Illusion. Illusionen empfehlen sich uns dadurch, daß sie Unlustgefühle ersparen und uns an ihrer Statt Befriedigungen genießen lassen. Wir müssen es dann ohne Klage hinnehmen, daß sie irgend einmal mit einem Stück der Wirklichkeit zusammenstoßen, an dem sie zerschellen.
Zweierlei in diesem Kriege hat unsere Enttäuschung rege gemacht: die geringe Sittlichkeit der Staaten nach außen, die sich nach innen als die Wächter der sittlichen Normen gebärden, und die Brutalität im Benehmen der Einzelnen, denen man als Teilnehmer an der höchsten menschlichen Kultur ähnliches nicht zugetraut hat.ˮ
SIGMUND FREUD, “Zeitgemässes über Krieg und Tod”, in «Imago Zeitschrift für Anwendung der Psychoanalyse auf die Geisteswissenschaften», Internationaler Psychoanalytischer Verlag, Leipzig- Wien 1915, IV (S. 1 – 21), I. ʻDie Enttäuschung des Kriegesʼ, S. 4 – 6.
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