[ Commettendo un errore colossale, costruii una casa pensando ad una vita in comune sull’isola. Dimenticai di chiedere a Liv cosa ne pensasse.]
Ingmar Bergman
Sono stata fagocitata da Ingmar, un vero cannibale, come ogni cineasta. Era di una violenza estrema: non fisica, ma psicologica. Vicino a lui, però, nell’isola di Farö, non mi sono mai sentita in prigione.
Liv Ullmann
ph Ingmar Bergman e Liv Ullmann, isola di Farö
Ingmar Bergman, Scene da un matrimonio.
Marianne e Johan sono una coppia sulla quarantina con due figlie.
Il loro mènage matrimoniale che dura da dieci anni sembra apparentemente procedere senza scosse a differenza di quello di due amici. Fino a quando, del tutto inattesa almeno per Marianne, scoppia la crisi.
Il film, girato in 16 mm e poi gonfiato a 35 nasce originariamente nel formato di sei episodi per la televisione ognuno della durata di 50 minuti e trae origine da un soggetto scritto da Bergman nel 1972. Vincitore del premio dell'associazione dei critici americani come miglior film del 1973 conobbe anche un importante esito commerciale (che a distanza di anni ha fatto pentire Liv Ullman di non avere accettato di partecipare al 10% dei profitti).
Diviso in sei capitoli:
1) "Innocenza e panico";
2) "L'arte di nascondere lo sporco sotto il tappeto";
3) "Paola";
4) "Valle di lacrime";
5) "Gli analfabeti";
6) "Nel pieno della notte in una casa buia in qualche parte del mondo"
ha un impianto che si potrebbe quasi definire radiofonico se non fosse che Bergman scava fino nel più piccolo recesso delle espressioni di due attori (Ullman e Josephson) che gli offrono una gamma infinita di variazioni. Girato in tempi strettissimi vede ancora una volta dominare una figura femminile che non ha però le caratteristiche di nevrosi di altre protagoniste bergmaniane.
La Ullman lo ritiene il film migliore da lei girato con il Maestro svedese e ha ragione.
Il non detto di una coppia apparentemente felice finisce con l'esplodere con violenza in seguito alla decisione di Johan di abbandonare la famiglia (le figlie sembrano contare poco o nulla per lui) per una studentessa. Si rivela però come una persona estremamente fragile, vittima delle proprie pulsioni e di un perbenismo fino ad allora autoimposto.
Chi in definitiva riesce ad avere una tenuta più a lungo termine (nonostante l'ansia, le suppliche e gli incubi) finisce con l'essere Marianne nei confronti della quale l'ormai ex marito vorrebbe continuare a mantenere una forma assurda di possesso non concedendole il divorzio ed essendo geloso dei rapporti con altri uomini da lei a sua volta instaurati. All'epoca consentì a un vasto pubblico di verificare come il dizionario delle gioie e delle difficoltà della vita coniugale finisse con l'utilizzare termini comuni a tutte le latitudini.
Isaak, caro, le fragole ormai sono finite.
- Da qualche tempo faccio di continuo dei sogni strani. Ci sarebbe da ridere...
- Ridere di cosa?
- Beh, è come se volessi dire a me stesso qualcosa che non voglio ascoltare da sveglio.
- E che cosa sarebbe?
- Che sono morto pur essendo vivo.
Ingmar Bergman, Il posto delle fragole, 1957
lo compraì ìn vìdeocassetta, poì lessì tutte le sceneggìature deì fllm dì Bergman, una meravìglìa ìl prìmo che lessì fu Scene da un matrìmonìo, cìnìco, feroce, ìmplacabìle
Caro Signor Rossellini,
Una delle migliori lettere di seduzione mai scritte. Brava, Ingrid!
«Credi che non ti capisca? Tu insegui un sogno disperato, questo è il tuo tormento. Tu vuoi essere, non sembrare di essere. Essere in ogni istante cosciente di te, e vigile. nello stesso tempo ti rendi conto dell’abisso che separa ciò che sei per gli altri da ciò che sei per te stessa e provoca quasi un senso di vertigine, un timore di essere scoperta, di vederti messa a nudo, smascherata, riportata ai tuoi giusti limiti. Perché ogni parola è menzogna, ogni gesto falsità, ogni sorriso una smorfia. Qual è il ruolo più difficile? Togliersi la vita? Ma no, sarebbe poco dignitoso. Meglio rifugiarsi nell’immobilità, nel mutismo, così si evita di dover mentire, oppure mettersi al riparo dalla vita, così non c’è bisogno di recitare, di mostrare un volto finto o fare gesti non voluti. Non ti pare? Questo è ciò che si crede ma non basta celarsi perché, vedi, la vita si manifesta in mille modi diversi ed è impossibile non reagire. A nessuno importa sapere se le tue reazioni siano vere o false. Solo a teatro il problema si rivela importante e forse neanche lì. Io ti capisco, Elisabeth… e quasi ti ammiro. Secondo me devi continuare a recitare la tua parte fino in fondo finché essa non perda interesse, e abbandonarla così come sei abituata a fare passando da un ruolo all’altro».
Ingmar Bergman, Persona
Il primo cinema d'autore che ho iniziato a vedere a 16 anni é stato quello di Bergman. Il tocco. Con Elliot Gould. Nessuno come Ingmar per sondeggiare nell'anima umana e i suoi conflitti, le sue domande profonde e senza risposta. Vedo agrimony e wild oat... tramite i Fiori possiamo capire se un personaggio é congruo o meno. Diventa quasi un esercizio quotidiano una volta che abbiamo capito il repertorio floreale. E le scoperte sono infinite.
Veramente io non credo in Dio, ma la faccenda non è così semplice, tutti portiamo un Dio dentro noi stessi, tutto forma una trama che ci pare a volte di riconoscere, soprattutto al momento della morte.
Ingmar Bergman, Lanterna magica
Nella sua complessa e tormentata autobiografia intitolata "Lanterna magica" ( 1987) Bergman ha scritto: «Ci sono immagini mobili, con suono e luce, che non vengono mai tolte dal proiettore dell'anima ma continuano a scorrere ininterrottamente per tutta la vita con immutata, obiettiva chiarezza. E solo la comprensione di se stessi che avanza continuamente e spietatamente verso il profondo, verso la verità»...
Ecco cosa risponde Bergman , su quel complesso, tormentato apprendistato che hanno rappresentato per lui quelle" immagini mobili, con suono e luce, che non vengono mai tolte dal proiettore dell'anima", nello spaccato che attiene "il suo rapporto con la morte, che è stato un motivo centrale dì tutta la sua creazione? Risponde dopo un lungo silenzio."
«Mio padre era prete. Quando era vecchio e malato, gli chiesi che cosa provasse di fronte alla morte. Lui rispose: ne ho un po' paura. Quando si è giovani, nel pieno dell'attività, la fine appare lontana e si pensa: avanti, questa è la nostra unica vita, un "prima" e soprattutto un "dopo" non esistono. Questo pensiero può arrivare a dare un grande senso di sollievo. L'ossessione della morte può diventare un gioco, o anche un pericoloso esorcismo: la morte è un orrore senza soluzione, non perché dia dolore ma perché è piena di brutti sogni da cuì non cì sì può svegliare. Poi, all'improvviso, si smette di fare film, si cominciano a contare le messe in scena all'indietro, le persone care che non ci sono più, riaffiorano i ricordi e i fantasmi. Demoni, angeli, Dio che non risponde, i morti che non sono morti, i vivi che si muovono come spettri. E la prospettiva cambia. La vecchiaia è una brutta malattia, ma può essere combattuta fino a che il corpo e la mente mantengono un livello minimo di collaborazione e di decenza. Oltrepassato quel limite, non c'è più ragione di vivere. In tal caso io rivendico il mio diritto a scegliere il momento in cui porre fine alla mia vita. Il problema è il modo con il quale assicurarmi l'esercizio cli questo diritto. Un modo sicuro e indolore. Un aiuto consapevole. Non si tratta di un problema sociale, ma unicamente individuale....poi l'intervista continua con il riferimento al dramma di Ibsen "Spettri" , messo in scena dallo stesso Bergman e al suo epilogo drammatico in cui "la signora Alving con atto risolutivo gli mette in bocca le pillole mortali e lo aiuta a mandarle giù con gli ultimi sorsi di una coppa di champagne: accenno blasfemo al rito sacro della comunione o ritorno alla condizione primaria di un mostruoso allattamento? Poco prima la signora Alving aveva opposto alla richiesta del figlio di aiutarlo a morire una ovvia constatazione: «Come potrei, io che ti ho dato la vita?». Al che Osvald le aveva risposto: «Non te l'ho chiesta. E che sorta di vita è quella che mi hai dato? Non so che farmene. Riprenditela. Se hai per me un cuore di madre come puoi vedermi soffrire quest'angoscia senza fine?........ "Gli ultimi istanti della rappresentazione sono di una tensione quasi insostenibile: abbandonando Osvald ai suoi rantoli, la signora Alving avanza sola sul proscenio e fissa la sala con un'espressione ambigua, insieme dolorosa e inebetita. E la stessa posizione in cui l'avevamo trovata all'inizio, all'apertura del sipario nel primo atto, con la stessa espressione interrogativa, di sperdimento onirico. Forse tutto è stato solo un orribile sogno."..Ecco cosa risponde ...Bergman,rispetto al paradosso della madre che sopprime il proprio figlio dice.... «Se vogliamo è un fatto contro natura. Ma Osvald non è soltanto un giovane malato terminale, è un essere psicologicamente incapace di continuare a vivere. Non ha più nulla da chiedere alla vita. Chiede soltanto che la madre lo aiuti a morire. E terribile, terribilmente doloroso, ma la signora Alving compie alla fine questo gesto di pietà, ed esso suggella un dramma interiore, sospeso, di portata più generale. So benissimo che la tesi della malattia ereditaria è scientificamente superata, almeno rispetto a come la poteva intendere Ibsen alla sua epoca. Ma qui non si tratta di questo. E’ un mistero, un quesito esistenziale, un simbolo che risale alla notte dei tempi, almeno all'epoca della antica tragedia greca, quando si credeva che le colpe dei padri ricadono sui figli. Mi chiedo: qualcuno dei miei figli ha ereditato le mie sensazioni? Si possono ereditare sensazioni, impressioni, conoscenze?».L'intervista si conclude con questa definizione che di sé da Bergman, definito da tutta la stampa internazionale "genio" e che lui non ama ribadendo infastidito.."«Io non sono un genio, sono un artigiano. Con il tempo sono diventato un artigiano maledettamente abile ed esperto, che sa di fare buoni articoli, generi di prima necessità. Roba di cui la gente normale ha bisogno nella vita di tutti i giorni per stare un po' meglio e dimenticare la melma in cui vive. Per poter piangere un po' e ridere un po' e magari rabbrividire un tantino. E questo è tutto».
Brano tratto da un' intervista di Sergio Sablich dal titolo,"Bergman, artigiano di genio", a Ingmar Bergman,11 Aprile 2002
"Vieni qui, Maria, vieni qui. Guardati allo specchio. Sei bella. Sei forse anche più bella di allora; ma sei tanto cambiata. Vorrei che vedessi quanto sei cambiata. I tuoi occhi hanno sguardi rapidi e sfuggenti. Un tempo guardavi tutto e tutti apertamente, senza crearti una maschera. La tua bocca ha assunto un'espressione insoddisfatta, famelica; prima era così dolce. Il tuo viso è pallido, la pelle incolore; sei costretta a truccarti. La tua bella fronte, ampia, spaziosa, ha quattro rughe sopra ogni sopracciglio. Non riesci a vederle con questa luce, ma risaltano chiare di giorno. Lo sai da dove ti vengono queste rughe?"
Ingmar Bergman
Sono stata fagocitata da Ingmar, un vero cannibale, come ogni cineasta. Era di una violenza estrema: non fisica, ma psicologica. Vicino a lui, però, nell’isola di Farö, non mi sono mai sentita in prigione.
Liv Ullmann
ph Ingmar Bergman e Liv Ullmann, isola di Farö
Ingmar Bergman, Scene da un matrimonio.
Marianne e Johan sono una coppia sulla quarantina con due figlie.
Il loro mènage matrimoniale che dura da dieci anni sembra apparentemente procedere senza scosse a differenza di quello di due amici. Fino a quando, del tutto inattesa almeno per Marianne, scoppia la crisi.
Il film, girato in 16 mm e poi gonfiato a 35 nasce originariamente nel formato di sei episodi per la televisione ognuno della durata di 50 minuti e trae origine da un soggetto scritto da Bergman nel 1972. Vincitore del premio dell'associazione dei critici americani come miglior film del 1973 conobbe anche un importante esito commerciale (che a distanza di anni ha fatto pentire Liv Ullman di non avere accettato di partecipare al 10% dei profitti).
Diviso in sei capitoli:
1) "Innocenza e panico";
2) "L'arte di nascondere lo sporco sotto il tappeto";
3) "Paola";
4) "Valle di lacrime";
5) "Gli analfabeti";
6) "Nel pieno della notte in una casa buia in qualche parte del mondo"
ha un impianto che si potrebbe quasi definire radiofonico se non fosse che Bergman scava fino nel più piccolo recesso delle espressioni di due attori (Ullman e Josephson) che gli offrono una gamma infinita di variazioni. Girato in tempi strettissimi vede ancora una volta dominare una figura femminile che non ha però le caratteristiche di nevrosi di altre protagoniste bergmaniane.
La Ullman lo ritiene il film migliore da lei girato con il Maestro svedese e ha ragione.
Il non detto di una coppia apparentemente felice finisce con l'esplodere con violenza in seguito alla decisione di Johan di abbandonare la famiglia (le figlie sembrano contare poco o nulla per lui) per una studentessa. Si rivela però come una persona estremamente fragile, vittima delle proprie pulsioni e di un perbenismo fino ad allora autoimposto.
Chi in definitiva riesce ad avere una tenuta più a lungo termine (nonostante l'ansia, le suppliche e gli incubi) finisce con l'essere Marianne nei confronti della quale l'ormai ex marito vorrebbe continuare a mantenere una forma assurda di possesso non concedendole il divorzio ed essendo geloso dei rapporti con altri uomini da lei a sua volta instaurati. All'epoca consentì a un vasto pubblico di verificare come il dizionario delle gioie e delle difficoltà della vita coniugale finisse con l'utilizzare termini comuni a tutte le latitudini.
un cult, la storia di una coppia che è emblema di tutte le coppie..
la passione che si spegne (ma mai per sempre), la routine che uccide.. capolavoro
Isaak, caro, le fragole ormai sono finite.
- Da qualche tempo faccio di continuo dei sogni strani. Ci sarebbe da ridere...
- Ridere di cosa?
- Beh, è come se volessi dire a me stesso qualcosa che non voglio ascoltare da sveglio.
- E che cosa sarebbe?
- Che sono morto pur essendo vivo.
https://youtu.be/J_dDkRIAt60
Antonia Finotti
Sono una fan di Bergman da sempre .ho visto e rivisto quasi tutti i suoi film !Un vero maestro inimitabile Nel "Posto delle fragole"i sogni sono lampanti,di facilissima lettura ,mentre la realtà è ambigua sfuggente ,il vero momento onirico del film è la comparsa della giovane autostoppista, che ha lo stesso nome ,Sara ,e lo stesso volto della ragazza di cui Isak era innamorato da giovane e che avrebbe poi sposato suo fratello.
lo compraì ìn vìdeocassetta, poì lessì tutte le sceneggìature deì fllm dì Bergman, una meravìglìa ìl prìmo che lessì fu Scene da un matrìmonìo, cìnìco, feroce, ìmplacabìle
Caro Signor Rossellini,
ho visto i suoi film Roma città aperta e Paisà e li ho apprezzati moltissimo. Se ha bisogno di un'attrice svedese che parla inglese molto bene, che non ha dimenticato il suo tedesco, non si fa quasi capire in francese, e in italiano sa dire solo 'ti amo', sono pronta a venire in Italia per lavorare con lei.
Ingrid Bergman
Una delle migliori lettere di seduzione mai scritte. Brava, Ingrid!
«Credi che non ti capisca? Tu insegui un sogno disperato, questo è il tuo tormento. Tu vuoi essere, non sembrare di essere. Essere in ogni istante cosciente di te, e vigile. nello stesso tempo ti rendi conto dell’abisso che separa ciò che sei per gli altri da ciò che sei per te stessa e provoca quasi un senso di vertigine, un timore di essere scoperta, di vederti messa a nudo, smascherata, riportata ai tuoi giusti limiti. Perché ogni parola è menzogna, ogni gesto falsità, ogni sorriso una smorfia. Qual è il ruolo più difficile? Togliersi la vita? Ma no, sarebbe poco dignitoso. Meglio rifugiarsi nell’immobilità, nel mutismo, così si evita di dover mentire, oppure mettersi al riparo dalla vita, così non c’è bisogno di recitare, di mostrare un volto finto o fare gesti non voluti. Non ti pare? Questo è ciò che si crede ma non basta celarsi perché, vedi, la vita si manifesta in mille modi diversi ed è impossibile non reagire. A nessuno importa sapere se le tue reazioni siano vere o false. Solo a teatro il problema si rivela importante e forse neanche lì. Io ti capisco, Elisabeth… e quasi ti ammiro. Secondo me devi continuare a recitare la tua parte fino in fondo finché essa non perda interesse, e abbandonarla così come sei abituata a fare passando da un ruolo all’altro».
Ingmar Bergman, Persona
Veramente io non credo in Dio, ma la faccenda non è così semplice, tutti portiamo un Dio dentro noi stessi, tutto forma una trama che ci pare a volte di riconoscere, soprattutto al momento della morte.
Ingmar Bergman, Lanterna magica
Ecco cosa risponde Bergman , su quel complesso, tormentato apprendistato che hanno rappresentato per lui quelle" immagini mobili, con suono e luce, che non vengono mai tolte dal proiettore dell'anima", nello spaccato che attiene "il suo rapporto con la morte, che è stato un motivo centrale dì tutta la sua creazione? Risponde dopo un lungo silenzio."
«Mio padre era prete. Quando era vecchio e malato, gli chiesi che cosa provasse di fronte alla morte. Lui rispose: ne ho un po' paura. Quando si è giovani, nel pieno dell'attività, la fine appare lontana e si pensa: avanti, questa è la nostra unica vita, un "prima" e soprattutto un "dopo" non esistono. Questo pensiero può arrivare a dare un grande senso di sollievo. L'ossessione della morte può diventare un gioco, o anche un pericoloso esorcismo: la morte è un orrore senza soluzione, non perché dia dolore ma perché è piena di brutti sogni da cuì non cì sì può svegliare. Poi, all'improvviso, si smette di fare film, si cominciano a contare le messe in scena all'indietro, le persone care che non ci sono più, riaffiorano i ricordi e i fantasmi. Demoni, angeli, Dio che non risponde, i morti che non sono morti, i vivi che si muovono come spettri. E la prospettiva cambia. La vecchiaia è una brutta malattia, ma può essere combattuta fino a che il corpo e la mente mantengono un livello minimo di collaborazione e di decenza. Oltrepassato quel limite, non c'è più ragione di vivere. In tal caso io rivendico il mio diritto a scegliere il momento in cui porre fine alla mia vita. Il problema è il modo con il quale assicurarmi l'esercizio cli questo diritto. Un modo sicuro e indolore. Un aiuto consapevole. Non si tratta di un problema sociale, ma unicamente individuale....poi l'intervista continua con il riferimento al dramma di Ibsen "Spettri" , messo in scena dallo stesso Bergman e al suo epilogo drammatico in cui "la signora Alving con atto risolutivo gli mette in bocca le pillole mortali e lo aiuta a mandarle giù con gli ultimi sorsi di una coppa di champagne: accenno blasfemo al rito sacro della comunione o ritorno alla condizione primaria di un mostruoso allattamento? Poco prima la signora Alving aveva opposto alla richiesta del figlio di aiutarlo a morire una ovvia constatazione: «Come potrei, io che ti ho dato la vita?». Al che Osvald le aveva risposto: «Non te l'ho chiesta. E che sorta di vita è quella che mi hai dato? Non so che farmene. Riprenditela. Se hai per me un cuore di madre come puoi vedermi soffrire quest'angoscia senza fine?........ "Gli ultimi istanti della rappresentazione sono di una tensione quasi insostenibile: abbandonando Osvald ai suoi rantoli, la signora Alving avanza sola sul proscenio e fissa la sala con un'espressione ambigua, insieme dolorosa e inebetita. E la stessa posizione in cui l'avevamo trovata all'inizio, all'apertura del sipario nel primo atto, con la stessa espressione interrogativa, di sperdimento onirico. Forse tutto è stato solo un orribile sogno."..Ecco cosa risponde ...Bergman,rispetto al paradosso della madre che sopprime il proprio figlio dice.... «Se vogliamo è un fatto contro natura. Ma Osvald non è soltanto un giovane malato terminale, è un essere psicologicamente incapace di continuare a vivere. Non ha più nulla da chiedere alla vita. Chiede soltanto che la madre lo aiuti a morire. E terribile, terribilmente doloroso, ma la signora Alving compie alla fine questo gesto di pietà, ed esso suggella un dramma interiore, sospeso, di portata più generale. So benissimo che la tesi della malattia ereditaria è scientificamente superata, almeno rispetto a come la poteva intendere Ibsen alla sua epoca. Ma qui non si tratta di questo. E’ un mistero, un quesito esistenziale, un simbolo che risale alla notte dei tempi, almeno all'epoca della antica tragedia greca, quando si credeva che le colpe dei padri ricadono sui figli. Mi chiedo: qualcuno dei miei figli ha ereditato le mie sensazioni? Si possono ereditare sensazioni, impressioni, conoscenze?».L'intervista si conclude con questa definizione che di sé da Bergman, definito da tutta la stampa internazionale "genio" e che lui non ama ribadendo infastidito.."«Io non sono un genio, sono un artigiano. Con il tempo sono diventato un artigiano maledettamente abile ed esperto, che sa di fare buoni articoli, generi di prima necessità. Roba di cui la gente normale ha bisogno nella vita di tutti i giorni per stare un po' meglio e dimenticare la melma in cui vive. Per poter piangere un po' e ridere un po' e magari rabbrividire un tantino. E questo è tutto».
Brano tratto da un' intervista di Sergio Sablich dal titolo,"Bergman, artigiano di genio", a Ingmar Bergman,11 Aprile 2002
Bursi Raymond:
.......Allora la vita non è che un vuoto senza fine!
Nessuno può vivere sapendo di dover morire un giorno come cadendo in un nulla senza speranza......................
Perché non è possibile cogliere Dio coi propri sensi?
Per quale ragione si nasconde tra mille e mille promesse e preghiere sussurrate e incomprensibili miracoli? Perché io dovrei avere fede nella fede degli altri? Che cosa sarà di coloro i quali non sono capaci né vogliono avere fede? Perché non posso uccidere Dio in me stesso? Perché continua a vivere in me sia pure in modo vergognoso e umiliante anche se io lo maledico e voglio strapparlo dal mio cuore? E perché nonostante tutto egli continua a essere uno struggente richiamo di cui non riesco a liberarmi?
ph Ingmar Bergman, Il settimo sigillo, 1957
[...] Antonius Block, un cavaliere interpretato da Max von Sydow, si trova a dover giocare una partita a scacchi con la Morte in persona. Dopo aver partecipato alle crociate in Terra Santa, Antonius attraversa la Scandinavia per ritornare in casa, in quello che si dimostra essere prima di tutto un viaggio introspettivo che conduce il cavaliere a ritornare in pace con se stesso e con la sua fede in Dio. Il settimo sigillo infatti è in primo luogo una riflessione sulla caducità della vita e sul significato dell’esistenza, affrontata dal punto di vista religioso. Il film è basato sul dramma Pittura su legno (1955), scritto da Bergman stesso, e i dialoghi tra il cavaliere e la Morte ne sono una eco profonda. Allo stesso tempo, anche le riflessioni personali di Antonius appaiono come cariche d’intensa tragicità:
Ingmar Bergman ha trattato del rapporto dell’uomo con la propria condizione di essere umano in diverse altre opere, sempre mantenendo un forte legame con la dimensione religiosa. La trilogia del silenzio di Dio, composta da Come in uno specchio (1961), Luci d’inverno (1963) e Il silenzio (1963), è un chiaro esempio di film che si sono mossi in questa direzione.
http://www.artspecialday.com/9art/2017/07/14/ingmar-bergman-esistenzialismo-cinema/
·
Il settimo sigillo
«Ingmar Bergman è il più grande tra i registi, gli scrittori e gli intellettuali della cultura scandinava.» Goffredo Fofi
Sulle rive di un inquieto mare incolore, il Cavaliere gioca a scacchi con la Morte. L’ha incontrata al ritorno dalla Crociata in Terra Santa, dove aveva creduto di poter trovare uno scopo alla sua vita nell’azione eroica al servizio di Dio. È tornato amaro e disilluso, con il cuore vuoto, tormentato dalle stesse domande con cui era partito. Per questo ha chiesto una dilazione, sfidando la Morte a una partita che sa di perdere, ma che gli lascerà forse ancora un’occasione per compiere almeno un’unica azione che abbia un senso. I vari personaggi, il Cavaliere, il quasi falstaffiano scudiero Jöns, l’attore Skatt, il fabbro Plog e la moglie Lisa, il farabutto Rayal, la Strega-bambina condannata al rogo, vanno incontro al loro destino sullo sfondo dell’eterno scontro tra luce e tenebre, bene e male. Soli superstiti Mia e Jof, la felice coppia di giocolieri che incarna quell’amore, quella semplicità delle piccole cose, quel frammento di serenità che il Cavaliere riesce a sottrarre alla Morte. Scrivendo una sceneggiatura, dice Bergman, si vorrebbe avere a che fare, invece che con le parole, con qualcosa che somigli a una partitura musicale e conservi il ritmo, il tono, ogni minima sfumatura di quelle visioni che sono la vera sostanza da cui nascono i film. Ed è proprio la resistenza delle parole a tradursi in immagini che rende la sceneggiatura del Settimo Sigillo indipendente dalla realizzazione scenica, restituendoci quella parte delle visioni che il cinema non può dare: i profumi, gli odori, i sapori, o la malinconia del sole «che rotola sul mare nebbioso come un pesce gonfio d’acqua».
Voglio parlarti il più sinceramente possibile, ma il mio cuore è vuoto. Il vuoto è uno specchio che mi guarda. Vi vedo riflessa la mia immagine e provo disgusto e paura. Per la mia indifferenza verso il prossimo mi sono isolato dalla compagnia umana. Ora vivo in un mondo di fantasmi, rinchiuso nei miei sogni e nelle mie fantasie.
ph Ingmar Bergman, Il settimo sigillo, 1957
Perché non è possibile cogliere Dio coi propri sensi?
Per quale ragione si nasconde tra mille e mille promesse e preghiere sussurrate e incomprensibili miracoli? Perché io dovrei avere fede nella fede degli altri? Che cosa sarà di coloro i quali non sono capaci né vogliono avere fede? Perché non posso uccidere Dio in me stesso? Perché continua a vivere in me sia pure in modo vergognoso e umiliante anche se io lo maledico e voglio strapparlo dal mio cuore? E perché nonostante tutto egli continua a essere uno struggente richiamo di cui non riesco a liberarmi?
ph Ingmar Bergman, Il settimo sigillo, 1957
[...] Antonius Block, un cavaliere interpretato da Max von Sydow, si trova a dover giocare una partita a scacchi con la Morte in persona. Dopo aver partecipato alle crociate in Terra Santa, Antonius attraversa la Scandinavia per ritornare in casa, in quello che si dimostra essere prima di tutto un viaggio introspettivo che conduce il cavaliere a ritornare in pace con se stesso e con la sua fede in Dio. Il settimo sigillo infatti è in primo luogo una riflessione sulla caducità della vita e sul significato dell’esistenza, affrontata dal punto di vista religioso. Il film è basato sul dramma Pittura su legno (1955), scritto da Bergman stesso, e i dialoghi tra il cavaliere e la Morte ne sono una eco profonda. Allo stesso tempo, anche le riflessioni personali di Antonius appaiono come cariche d’intensa tragicità:
Ingmar Bergman ha trattato del rapporto dell’uomo con la propria condizione di essere umano in diverse altre opere, sempre mantenendo un forte legame con la dimensione religiosa. La trilogia del silenzio di Dio, composta da Come in uno specchio (1961), Luci d’inverno (1963) e Il silenzio (1963), è un chiaro esempio di film che si sono mossi in questa direzione.
http://www.artspecialday.com/9art/2017/07/14/ingmar-bergman-esistenzialismo-cinema/
·
«Ingmar Bergman è il più grande tra i registi, gli scrittori e gli intellettuali della cultura scandinava.» Goffredo Fofi
Sulle rive di un inquieto mare incolore, il Cavaliere gioca a scacchi con la Morte. L’ha incontrata al ritorno dalla Crociata in Terra Santa, dove aveva creduto di poter trovare uno scopo alla sua vita nell’azione eroica al servizio di Dio. È tornato amaro e disilluso, con il cuore vuoto, tormentato dalle stesse domande con cui era partito. Per questo ha chiesto una dilazione, sfidando la Morte a una partita che sa di perdere, ma che gli lascerà forse ancora un’occasione per compiere almeno un’unica azione che abbia un senso. I vari personaggi, il Cavaliere, il quasi falstaffiano scudiero Jöns, l’attore Skatt, il fabbro Plog e la moglie Lisa, il farabutto Rayal, la Strega-bambina condannata al rogo, vanno incontro al loro destino sullo sfondo dell’eterno scontro tra luce e tenebre, bene e male. Soli superstiti Mia e Jof, la felice coppia di giocolieri che incarna quell’amore, quella semplicità delle piccole cose, quel frammento di serenità che il Cavaliere riesce a sottrarre alla Morte. Scrivendo una sceneggiatura, dice Bergman, si vorrebbe avere a che fare, invece che con le parole, con qualcosa che somigli a una partitura musicale e conservi il ritmo, il tono, ogni minima sfumatura di quelle visioni che sono la vera sostanza da cui nascono i film. Ed è proprio la resistenza delle parole a tradursi in immagini che rende la sceneggiatura del Settimo Sigillo indipendente dalla realizzazione scenica, restituendoci quella parte delle visioni che il cinema non può dare: i profumi, gli odori, i sapori, o la malinconia del sole «che rotola sul mare nebbioso come un pesce gonfio d’acqua».
Voglio parlarti il più sinceramente possibile, ma il mio cuore è vuoto. Il vuoto è uno specchio che mi guarda. Vi vedo riflessa la mia immagine e provo disgusto e paura. Per la mia indifferenza verso il prossimo mi sono isolato dalla compagnia umana. Ora vivo in un mondo di fantasmi, rinchiuso nei miei sogni e nelle mie fantasie.
ph Ingmar Bergman, Il settimo sigillo, 1957
Il settimo sigillo (Det sjunde inseglet) è un film svedese del 1957 diretto da Ingmar Bergman, trasposizione cinematografica della pièce teatrale Pittura su legno (Trämålning) che lo stesso Bergman aveva scritto nel 1955 per la sua compagnia di attori teatrali.
Renata Pappalardo:
Ingmar Bergman. Come in uno specchio (Såsom i en spegel)
è un film del 1961 scritto e diretto da Ingmar Bergman, vincitore dell'Oscar al miglior film straniero.
Il titolo del film è preso da un verso della Prima lettera ai Corinzi, dove Paolo di Tarso dice: «Adesso noi vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; allora vedremo faccia a faccia»
(Capitolo 13, Verso 12)[1].
La pellicola inaugura la cosiddetta trilogia "religiosa" di Bergman, dove il regista si addentra in profondità nei meandri del "problema religioso".
La trilogia, composta oltre che dal film in oggetto da Luci d'inverno e da Il silenzio, sarà completata nel breve arco di due anni, ma resterà parte fondamentale del "corpus" dell'opera bergmaniana.
Una famiglia è in vacanza sull'isola di Fårö (situata nel Baltico, a nord di Gotland) : sono due sposi, Martin e Karin, il giovane Minus fratello di Karin, e il padre dei due, David.
La ragazza è appena uscita da un ospedale psichiatrico, e il padre riesce a vedere nella sua malattia soprattutto uno spunto letterario per il suo lavoro di scrittore.
Il marito di Karin è un medico dal temperamento razionale che non si accorge delle attenzioni morbose della moglie verso il giovane Minus al quale la donna confida le proprie allucinazioni a sfondo mistico-religioso.
Ogni personaggio legge nell'animo degli altri ("come in uno specchio") la realtà del disagio, dell'incomprensione e del proprio male di vivere.
Con il proseguire della storia, i protagonisti vengono messi a confronto con dilemmi metafisici quali lo scopo della malattia, il ruolo della famiglia, il senso dell'arte, la ricerca dell'infinito e la presenza/assenza di Dio.
Una sera Karin, ridestatasi nel cuore della notte, frugando tra le carte del padre ne trova il diario. Leggendolo, scopre amaramente di essere per il padre un mero oggetto di studio professionale, che ne descrive freddamente e con distacco il progredire della malattia mentale per trasporla in un suo romanzo. La donna sveglia il marito e in lacrime gli confida la scoperta. Martin cerca di rassicurarla dicendole che la ama. David e Martin partono per una gita in barca. Karin, rimasta sola con il fratello, prima lo umilia sequestrandogli una rivista pornografica, poi lo interroga in latino. Gli racconta le sue allucinazioni e gli rivela di non essere quasi più innamorata del marito.
Nel frattempo, in barca, Martin e David hanno una discussione circa lo stato di salute di Karin. Martin rimprovera a David la sua insensibilità verso la figlia. David ammette di essere ormai così "straniato" da essere stato sull'orlo del suicidio poco tempo prima mentre soggiornava in Svizzera.
All'interno di un relitto sulla spiaggia, Karin abbraccia incestuosamente il fratello, per poi avere un attacco del suo terribile male. Ristabilitasi momentaneamente dalla crisi, Karin dichiara risolutamente di voler tornare in clinica e di non voler essere curata. Il padre le chiede perdono per l'egoismo dimostrato nei suo confronti, e per il tempo sprecato dietro alla sua "cosiddetta arte", come lui stesso la definisce.
Karin prepara le valigie in attesa dell'ambulanza che la riporterà in ospedale, poi sale in solaio. Lì si mette a parlare da sola, fino a quando urla di terrore, in preda a una crisi psicotica scatenata da una delle sue visioni:
Dio le sarebbe apparso sotto forma di un ragno gigantesco, intenzionato a possederla: "Non è riuscito a penetrare in me, così ha strisciato sul mio petto, sul mio viso e se ne è andato su per la parete. Ho visto Dio".
Arrivano infine gli infermieri per portare via Karin, e Martin accompagna la moglie. Minus nelle scene finali parla con il padre chiedendogli di aiutarlo a superare i sensi di colpa e di angoscia provati per la sorella. David gli risponde in tono afflitto, ma indicandogli come sostegno la fede in Dio, unico conforto alla miseria e alla disperazione della condizione umana, un Dio che forse è in realtà soltanto l'amore degli uomini tra di loro.
Il padre si allontana per preparare da mangiare, e Minus prende coscienza di aver parlato per la prima volta davvero con lui.
Renata Pappalardo
Come in uno specchio (Såsom i en spegel)
è un film del 1961 scritto e diretto da Ingmar Bergman, vincitore dell'Oscar al miglior film straniero.
Il titolo del film è preso da un verso della Prima lettera ai Corinzi, dove Paolo di Tarso dice:
«Adesso noi vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; allora vedremo faccia a faccia» (Capitolo 13, Verso 12)[1].
La pellicola inaugura la cosiddetta trilogia "religiosa" di Bergman, dove il regista si addentra in profondità nei meandri del "problema religioso". La trilogia, composta oltre che dal film in oggetto da Luci d'inverno e da Il silenzio, sarà completata nel breve arco di due anni, ma resterà parte fondamentale del "corpus" dell'opera bergmaniana.
COME IN UNO SPECCHIO (SÅSOM I EN SPEGEL)
Come in uno specchio (Såsom i en spegel).
Karin, col marito medico Martin, il fratello Minus ed il padre, lo scrittore David, trascorrono le vacanze su un'isola dei mari del Nord.
Karin, uscita da una clinica psichiatrica, preoccupa molto Martin, che l'ama e che sa come la donna sia incurabile. Non conosce però i suoi periodici stati di allucinazione durante i quali Karin si reca in una camera in soffitta e ode alcune voci che le annunciano la venuta di un qualcuno, che ella è convinta essere Dio.
David, d'altro canto, pur amando la figlia, è preoccupato maggiormente di se stesso e dei suoi successi di scrittore e annota i sintomi della malattia di Karin su un diario per poterne eventualmente trarre l'ispirazione per un suo romanzo.
Karin scopre questo diario e viene a sapere di essere senza speranza. Ciò provoca in lei un trauma e si confida con Martin, che cerca di consolarla.
Durante una gita in barca, fra Martin e David, soli, avviene un colloquio piuttosto violento, durante il quale David comprende e ammette i suoi errori e cerca un riavvicinamento alla famiglia.
Karin, intanto, rimasta sola sull'isola con Minus, confida al fratello le sue visioni nonché il fatto che per vivere in questo nuovo mondo ella si allontana sempre più dal marito.
Al ritorno di Martin e David, Karin chiede di ritornare in manicomio, distaccandosi per sempre da un mondo nel quale ormai non può più trovare pace. La sua decisione provoca peraltro un riavvicinamento fra Minus e il padre, i quali d'ora in poi riusciranno a comprendersi meglio.
http://www.comingsoon.it/film/come-in-uno-specchio/21089/scheda/
[...] se da una parte, infatti, abbiamo la donna in diretta comunicazione con Dio, dall'altra abbiamo l'artista che cerca Dio nell'estetica, ovvero nel mondo terrestre, lontano da Dio, e non capisce la figlia-sorella che, invece, si ritrova in bilico tra Cielo e Terra, segregata, in ambo i film, in un centro di igiene mentale.
In questo senso vanno lette le ultime parole del padre di Karin, David, il quale, alla richiesta del figlio Minus di fornirgli qualche prova dell'esistenza di Dio, a lui così sconsolato e affranto della perdita della sorella, risponderà che è l'amore, la prova che lui cerca, e che, dunque, «Dio è la certezza che l'amore esiste come cosa concreta in questo mondo di uomini. Ogni genere di amore, il più elevato ed il più infimo, il più oscuro e il più splendido. Ogni specie d'amore. Il desiderio e la repulsione, miscredenza e fede. Non so se l'amore dimostra l'esistenza di Dio o se l'amore è Dio stesso; questo pensiero è il solo conforto alla mia miseria e alla mia disperazione. Di colpo la miseria è diventata ricchezza e la disperazione speranza. È come essere graziati in punto di morte», dal che la certezza conquistata (così Bergman descrive questo primo capitolo) nelle parole di Minus: «Allora Karin è tutta circondata da Dio, perché noi l'amiamo davvero».
E parte da qui, lo svedese, da una certezza conquistata che verrà messa a nudo nel successivo Luci d'inverno e che troverà nel capolavoro ultimo, Il silenzio, la propria copia in negativo: un percorso, si direbbe, a passo di gambero, non fosse che per Bergman Come in uno specchio è, piuttosto che l'inizio, la fine di qualcosa
(«Purtroppo ho creato io stesso questo malinteso:
Come in uno specchio, Luci d'inverno e Il silenzio non costituiscono una trilogia.
Come in uno specchio appartiene al periodo precedente, poi viene la rottura.
Ho rivisto i miei primi film, in particolare Come in uno specchio, e ho dovuto accettare il fatto che questo film era stato per me una sconfitta morale, un completo disastro e che dovevo cambiare tutto, rivoluzionare tutta la prima parte della mia opera e ricominciare dall'inizio.
E questo inizio è rappresentato da Luci d'inverno e Il silenzio») e che, come tale, deve seguire a uno specifico processo che ha sedimentate le proprie verità, le proprie certezze, e la certezza da smascherare è questa divinità trascendente che poniamo a presupposto della realtà stessa ma che possiamo conoscere solamente nel momento in cui ci stacchiamo dalla realtà terrena, la quale, all'improvviso, smette di essere giustificata.
È, fondamentalmente, quello che scrive Kierkegaard all'inizio di Timore e tremore:
«Se l'uomo non avesse una coscienza eterna, se al fondo di ogni cosa ci fosse solo una potenza selvaggia e ribollente che produce ogni cosa, il grande e il futile, nel turbine d'oscure passioni; se il vuoto senza fondo, che nulla può colmare, si nascondesse sotto le cose, che cosa sarebbe la vita, se non disperazione?»; Kierkegaard, in questo passo incipitiale, capisce bene che «il segreto della vita consiste nel fatto che ognuno debba costruirsi la propria camicia», che al fondo di ogni cosa non c'è altro che il divenire-folle e che, di conseguenza, non si trova Dio ma, come Bergman, si cerca Dio per poi trovare, come Antonioni, quell'incomunicabilità che non è ancora silenzio ma φωνή, incomunicabilità che Bergman annietta nel finale, quando Minus, che presagisce la potenza angosciosa dell'eterna contingenza del reale («È come un incubo, tutto può accadere, papà. Non posso vivere in questo mondo»), dice di aver parlato con suo padre, che può soltanto presupporre Dio, perché egli è l'angoscia incarnata, ovvero «l'infinità egoista della libertà» (Kierkegaard, Il concetto di angoscia), e «mentre l'individuo, mediante l'angoscia, si forma alla fede, l'angoscia distruggerà proprio ciò che produce essa stessa», ovvero la vacuità di valori di cui David è preda. In tutto questo, Karin è una sorta di ponte Einstein-Rosen, e per questo è schizofrenica, perché in comunione con questa e con quella realtà, realtà che sembra possederla e attraverso la quale Karin risulta incomprensibile agli altri (e del resto «la mania è la sapienza vista dal di fuori», come scrive il Colli), quasi a incarnare non più soltanto l'incomunicabilità tra essere umano ed essere umano ma tra esseri umano e Dio, tra l'essere (umano) e l'essenza che (ne) giustifica l'essere. Come in uno specchio, insomma, risulta da quella confusione di San Paolo («Adesso noi vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; allora vedremo faccia a faccia») e la necessità della ricerca che consegue questa confusione obliante. perché lo specchio è, sì, essenzialmente illusorio (ciò che noi vi vediamo non è la realtà, è un riflesso della realtà), ma, pure, riflettendo la realtà, rappresentandola, lo specchio ci permette di conoscere quella realtà, soprattutto se il riflesso nello specchio è quello della mia persona:
«Tutto il conoscere è portare il mondo dentro uno specchio, ridurlo a un riflesso che io possiedo». Ed ecco, dunque, che la ricerca si trasforma in interrogativo, di cui la fede è la risposta.
Ma qual è la domanda?
Come in uno specchio non è un film religioso né, tanto meno, un film sulla religione o su Dio o sulla fede; Come in uno specchio è un film esistenziale ed esistenzialista, perché la domanda, l'interrogativo che ne soggiace e che muove la ricerca (ricerca che è già risposta, perché c'è un oggetto da ricercare) è nient'altro che la vita o, meglio, l'esistenza, questa esistenza ingiustificata che si tenta disperatamente di giustificare con la religione o con l'etica o che altro e dalla quale, attraverso queste parossistiche giustificazioni, ci si allontana e ci si allontana, forse in maniera irreversibile:
«E d'un tratto si resero conto che non ci sono né Dio né dei: capirono che non esiste né il bene né il male. Poi videro e compresero che, se le cose stavano così, allora nemmeno loro stessi esistevano»
(Béla Tarr, Il cavallo di Torino).
http://emergeredelpossibile.blogspot.it/2013/07/come-in-uno-specchio-sasom-i-en-spegel_31.html
Con Såsom i en Spegel, primo film della nota trilogia sul "silenzio di Dio" o più comunemente chiamata, "trilogia religiosa", Ingmar Bergman inaugura il suo cinema da camera, ma al tempo stesso, anticamera della follia che segnerà il suo periodo successivo (periodo sessantottino, se vogliamo) rappresentato in primis da due opere giganti quali, Persona (1966) e L'Ora del Lupo (1968).
Risultano quindi oltremodo giustificate le parole del regista, quando dichiarava di aver creato un malinteso per cui, Come in uno Specchio, è in realtà un film slegato dalla suddetta trilogia, ma più opportunatamente collocabile come ultimo segmento della filmografia che la precede in quanto, la tormentata ricerca di Dio, l'eterno dubbio sulla fede (temi che comunque hanno assorbito tutta l'esistenza/filmografia di Bergman), risultano sicuramente più pregnanti dai successivi Luci d'inverno e Il Silenzio (1963), considerato l'apice di questa parentesi e di cui, argomentazioni più adeguate sotto il profilo filosofico-esistenziale, potete trovare qui e cliccando sui titoli appena citati.
Chi scrive, al momento preferisce enfatizzare l'aspetto psicologico, decisamente ricco di riflessioni personali, concentrandosi quindi su Karin; sulla sua mente frammentata, oscillante, in perenne bilico sul labile confine tra realtà ed allucinazione, proprio come il film stesso, una creatura scissa da un percorso che si è appena concluso (cui Bergman ne vide, a torto, una sconfitta morale) e un altro illuminato di nuova luce. E Quale primo miglior segnale, se non quella luce che si focalizza con precisione sull'occhio angosciato di Karin, per poter spalancare le porte alla follia?
Anche se una delle sequenze più importanti, per qualunque tipologia di accostamento, rimane quella in cui Karin legge il diario del padre scrittore, David (personaggio che forse meglio rispecchia il pensiero bergmaniano, il suo travagliato rapporto con la fede), scoprendo così di essere per lui un mero oggetto di ricerca per il suo nuovo romanzo:
"Con spavento constato la mia curiosità, l’impulso di prendere nota dei sintomi, di registrare giorno del graduale disfacimento di mia figlia, di usufruirne e sfruttarla".
Mi piace pensare, che la prima incursione di Karin in quella soffitta dalle pareti di carta, soglia metafisica dove le "voci" si fanno sentire (e dove avverrà la "rivelazione"), costituisca un trait d'union con l'esplosione psicotica del pre-finale, dato che le movenze allucinate e quella posa a terra che Karin assume, possono già ricordare vagamente la forma di un ragno.
La lettura del diario, è certamente la goccia che fà traboccare il vaso, in quanto, segna in Karin l'inizio della totale dislocazione dalla realtà, ma l'avvisaglia simbolica è chiusa in quella soffitta, su quella parete, su quella fessura nella parete dove Bergman stringe inquietantemente il campo. Una crepa che rappresenta chiaramente la frattura della psiche (come in Repulsion di Roman Polanski), un varco abbastanza ampio per far sì che la realtà affondi di colpo con i propri rimorsi di coscienza (il vascello arenato sulla spiaggia che diventa alcova incestuosa). Ed ecco allora, che Dio si rivela a noi attraverso la follia, assumendo così le fattezze aracnèe di un essere gelido e ripugnante che, non riuscendo a penetrarci, striscia sopra il nostro corpo per poi svanire nuovamente oltre quel muro. La follia, è dunque la strada per raggiungere Dio, oppure è Dio, che si serve della follia per mostrarci il suo vero volto? [...] la follia nel film di Bergman, si manifesta attraverso l'agghiacciante resoconto di Karin; parole che escono dalla sua bocca con una potenza impressionante, una potenza che sconquassa interiormente e che alla fine, non può che lasciar spazio al "silenzio". Un'assenza, che nonostante "la certezza (ri)conquistata" del padre (Non so se l'amore dimostra l'esistenza di Dio o se l'amore è Dio stesso...questo pensiero è il solo conforto alla mia miseria e alla mia disperazione), comunque permarrà, altanelante, proprio come questo film, in tutta la carriera del maestro.
poor Yorick12 settembre 2013 19:04
[...] ponendo il binomio Dio/follia - che Bergman non è assolutamente religioso quando parla di religione: la sua è una perdita di fede per ritrovarsi uomo; la domanda su Dio e la follia è fondamentale, soprattutto perché Karin vede Dio, mentre il padre - razionale - non vede Dio e ha con Lui un rapporto sfasato e viziato: secondo me, quando Bergman gli fa dire che Dio è amore sta facendo gli sberleffi a tutta una parrocchia che ha voluto che Dio fosse amore, mentre invece è qualcosa di puramente trascendente (Karin è trascendente grazie alla sua follia), e prova ne è il fatto che il padre non vede Dio, non ha rapporti con Dio. [...]
poor Yorick13 settembre 2013 17:48
[...]"Ora noi vediamo come in uno specchio, in maniera confusa":
chi, nel film, vede come in uno specchio?
Secondo me Minus e il padre, soprattutto il padre.
Mentre Karin, appunto, vede in maniera nitida Dio, tant'è che ha una crisi.
D'altro canto, se si parla di psicologia, si nota subito una grande mancanza nel film: la madre.
Il che apre nuovi problemi, e forse radicalizza la prospettiva psicanalitica invece di quella teologica. D'altro canto, si potrebbe ribaltare il film: il film non parla di Karin, parla del padre. Il padre che esce dal peccato e ritrova Dio. In questo senso, quel "Papà ha parlato con me" significherebbe che la conversione è ormai avvenuta, mandando all'aria quanto detto prima: così, infatti, è Karin che vede come in uno specchio (vede il ragno, non vede Dio), e lo specchio è quello della follia. [...]
Frank ViSo14 settembre 2013 09:17
Bravo, hai centrato una cosa che non mi sarebbe mai venuta in mente:
la mancanza della madre, è vero.
Anche la lettura del film ribaltato, in effetti risolverebbe molti quesiti...
Vorrei rivedere "Il Silenzio", sarebbe la terza volta [...]
poor Yorick14 settembre 2013 10:24
Sì, "Il silenzio" è psicologico anche per me, anzi direi addirittura psicanalitico, visto la grande presenza del simbolico (i nani ma non solo)...
http://visionesospesa.blogspot.it/2013/09/come-in-uno-specchio-sasom-i-en-spegel.html
"Nessun Dio entrerà da quella porta".
Bergman uno dei più disperati cercatori di Dio,
su cui non smetterà mai di interrogarsi!
"Ho avuto paura. La porta si è dischiusa,
ma il Dio che è entrato era solo un ragno.
Si è avvicinato a me e io l'ho visto in faccia:
un viso ripugnante e gelido.
Si è lanciato su di me, voleva possedermi ma io mi sono difesa.
Vedevo continuamente i suoi occhi così freddi e calmi.
Non è riuscito a penetrare in me,
così ha strisciato sul mio petto, sul mio viso,
e se ne è andato su per la parete. Ho visto Dio."
Karin (Harriet Andersson) -
tratto da: Come in uno specchio (Såsom i en spegel), di Ingmar Bergman
[...] Nelle intenzioni del regista questa forte allegoria simbolica (Dio uguale ragno) resta a significarci l’allora suo intimo rapporto con la trascendenza; l’isterismo religioso, affidato alle farneticazioni d’una schizofrenica, connota senza equivoco l’inquieto vissuto dell’autore. [...]
http://www.lankelot.eu/cinema/bergman-ingmar-come-in-uno-specchio.html
Renata Pappalardo:
Ingmar Bergman. Come in uno specchio (Såsom i en spegel)
è un film del 1961 scritto e diretto da Ingmar Bergman, vincitore dell'Oscar al miglior film straniero.
Il titolo del film è preso da un verso della Prima lettera ai Corinzi, dove Paolo di Tarso dice: «Adesso noi vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; allora vedremo faccia a faccia»
(Capitolo 13, Verso 12)[1].
La pellicola inaugura la cosiddetta trilogia "religiosa" di Bergman, dove il regista si addentra in profondità nei meandri del "problema religioso".
La trilogia, composta oltre che dal film in oggetto da Luci d'inverno e da Il silenzio, sarà completata nel breve arco di due anni, ma resterà parte fondamentale del "corpus" dell'opera bergmaniana.
Una famiglia è in vacanza sull'isola di Fårö (situata nel Baltico, a nord di Gotland) : sono due sposi, Martin e Karin, il giovane Minus fratello di Karin, e il padre dei due, David.
La ragazza è appena uscita da un ospedale psichiatrico, e il padre riesce a vedere nella sua malattia soprattutto uno spunto letterario per il suo lavoro di scrittore.
Il marito di Karin è un medico dal temperamento razionale che non si accorge delle attenzioni morbose della moglie verso il giovane Minus al quale la donna confida le proprie allucinazioni a sfondo mistico-religioso.
Ogni personaggio legge nell'animo degli altri ("come in uno specchio") la realtà del disagio, dell'incomprensione e del proprio male di vivere.
Con il proseguire della storia, i protagonisti vengono messi a confronto con dilemmi metafisici quali lo scopo della malattia, il ruolo della famiglia, il senso dell'arte, la ricerca dell'infinito e la presenza/assenza di Dio.
Una sera Karin, ridestatasi nel cuore della notte, frugando tra le carte del padre ne trova il diario. Leggendolo, scopre amaramente di essere per il padre un mero oggetto di studio professionale, che ne descrive freddamente e con distacco il progredire della malattia mentale per trasporla in un suo romanzo. La donna sveglia il marito e in lacrime gli confida la scoperta. Martin cerca di rassicurarla dicendole che la ama. David e Martin partono per una gita in barca. Karin, rimasta sola con il fratello, prima lo umilia sequestrandogli una rivista pornografica, poi lo interroga in latino. Gli racconta le sue allucinazioni e gli rivela di non essere quasi più innamorata del marito.
Nel frattempo, in barca, Martin e David hanno una discussione circa lo stato di salute di Karin. Martin rimprovera a David la sua insensibilità verso la figlia. David ammette di essere ormai così "straniato" da essere stato sull'orlo del suicidio poco tempo prima mentre soggiornava in Svizzera.
All'interno di un relitto sulla spiaggia, Karin abbraccia incestuosamente il fratello, per poi avere un attacco del suo terribile male. Ristabilitasi momentaneamente dalla crisi, Karin dichiara risolutamente di voler tornare in clinica e di non voler essere curata. Il padre le chiede perdono per l'egoismo dimostrato nei suo confronti, e per il tempo sprecato dietro alla sua "cosiddetta arte", come lui stesso la definisce.
Karin prepara le valigie in attesa dell'ambulanza che la riporterà in ospedale, poi sale in solaio. Lì si mette a parlare da sola, fino a quando urla di terrore, in preda a una crisi psicotica scatenata da una delle sue visioni:
Dio le sarebbe apparso sotto forma di un ragno gigantesco, intenzionato a possederla: "Non è riuscito a penetrare in me, così ha strisciato sul mio petto, sul mio viso e se ne è andato su per la parete. Ho visto Dio".
Arrivano infine gli infermieri per portare via Karin, e Martin accompagna la moglie. Minus nelle scene finali parla con il padre chiedendogli di aiutarlo a superare i sensi di colpa e di angoscia provati per la sorella. David gli risponde in tono afflitto, ma indicandogli come sostegno la fede in Dio, unico conforto alla miseria e alla disperazione della condizione umana, un Dio che forse è in realtà soltanto l'amore degli uomini tra di loro.
Il padre si allontana per preparare da mangiare, e Minus prende coscienza di aver parlato per la prima volta davvero con lui.
Renata Pappalardo
Come in uno specchio (Såsom i en spegel)
è un film del 1961 scritto e diretto da Ingmar Bergman, vincitore dell'Oscar al miglior film straniero.
Il titolo del film è preso da un verso della Prima lettera ai Corinzi, dove Paolo di Tarso dice:
«Adesso noi vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; allora vedremo faccia a faccia» (Capitolo 13, Verso 12)[1].
La pellicola inaugura la cosiddetta trilogia "religiosa" di Bergman, dove il regista si addentra in profondità nei meandri del "problema religioso". La trilogia, composta oltre che dal film in oggetto da Luci d'inverno e da Il silenzio, sarà completata nel breve arco di due anni, ma resterà parte fondamentale del "corpus" dell'opera bergmaniana.
COME IN UNO SPECCHIO (SÅSOM I EN SPEGEL)
Come in uno specchio (Såsom i en spegel).
Karin, col marito medico Martin, il fratello Minus ed il padre, lo scrittore David, trascorrono le vacanze su un'isola dei mari del Nord.
Karin, uscita da una clinica psichiatrica, preoccupa molto Martin, che l'ama e che sa come la donna sia incurabile. Non conosce però i suoi periodici stati di allucinazione durante i quali Karin si reca in una camera in soffitta e ode alcune voci che le annunciano la venuta di un qualcuno, che ella è convinta essere Dio.
David, d'altro canto, pur amando la figlia, è preoccupato maggiormente di se stesso e dei suoi successi di scrittore e annota i sintomi della malattia di Karin su un diario per poterne eventualmente trarre l'ispirazione per un suo romanzo.
Karin scopre questo diario e viene a sapere di essere senza speranza. Ciò provoca in lei un trauma e si confida con Martin, che cerca di consolarla.
Durante una gita in barca, fra Martin e David, soli, avviene un colloquio piuttosto violento, durante il quale David comprende e ammette i suoi errori e cerca un riavvicinamento alla famiglia.
Karin, intanto, rimasta sola sull'isola con Minus, confida al fratello le sue visioni nonché il fatto che per vivere in questo nuovo mondo ella si allontana sempre più dal marito.
Al ritorno di Martin e David, Karin chiede di ritornare in manicomio, distaccandosi per sempre da un mondo nel quale ormai non può più trovare pace. La sua decisione provoca peraltro un riavvicinamento fra Minus e il padre, i quali d'ora in poi riusciranno a comprendersi meglio.
http://www.comingsoon.it/film/come-in-uno-specchio/21089/scheda/
In questo senso vanno lette le ultime parole del padre di Karin, David, il quale, alla richiesta del figlio Minus di fornirgli qualche prova dell'esistenza di Dio, a lui così sconsolato e affranto della perdita della sorella, risponderà che è l'amore, la prova che lui cerca, e che, dunque, «Dio è la certezza che l'amore esiste come cosa concreta in questo mondo di uomini. Ogni genere di amore, il più elevato ed il più infimo, il più oscuro e il più splendido. Ogni specie d'amore. Il desiderio e la repulsione, miscredenza e fede. Non so se l'amore dimostra l'esistenza di Dio o se l'amore è Dio stesso; questo pensiero è il solo conforto alla mia miseria e alla mia disperazione. Di colpo la miseria è diventata ricchezza e la disperazione speranza. È come essere graziati in punto di morte», dal che la certezza conquistata (così Bergman descrive questo primo capitolo) nelle parole di Minus: «Allora Karin è tutta circondata da Dio, perché noi l'amiamo davvero».
E parte da qui, lo svedese, da una certezza conquistata che verrà messa a nudo nel successivo Luci d'inverno e che troverà nel capolavoro ultimo, Il silenzio, la propria copia in negativo: un percorso, si direbbe, a passo di gambero, non fosse che per Bergman Come in uno specchio è, piuttosto che l'inizio, la fine di qualcosa
(«Purtroppo ho creato io stesso questo malinteso:
Come in uno specchio, Luci d'inverno e Il silenzio non costituiscono una trilogia.
Come in uno specchio appartiene al periodo precedente, poi viene la rottura.
Ho rivisto i miei primi film, in particolare Come in uno specchio, e ho dovuto accettare il fatto che questo film era stato per me una sconfitta morale, un completo disastro e che dovevo cambiare tutto, rivoluzionare tutta la prima parte della mia opera e ricominciare dall'inizio.
E questo inizio è rappresentato da Luci d'inverno e Il silenzio») e che, come tale, deve seguire a uno specifico processo che ha sedimentate le proprie verità, le proprie certezze, e la certezza da smascherare è questa divinità trascendente che poniamo a presupposto della realtà stessa ma che possiamo conoscere solamente nel momento in cui ci stacchiamo dalla realtà terrena, la quale, all'improvviso, smette di essere giustificata.
È, fondamentalmente, quello che scrive Kierkegaard all'inizio di Timore e tremore:
«Se l'uomo non avesse una coscienza eterna, se al fondo di ogni cosa ci fosse solo una potenza selvaggia e ribollente che produce ogni cosa, il grande e il futile, nel turbine d'oscure passioni; se il vuoto senza fondo, che nulla può colmare, si nascondesse sotto le cose, che cosa sarebbe la vita, se non disperazione?»; Kierkegaard, in questo passo incipitiale, capisce bene che «il segreto della vita consiste nel fatto che ognuno debba costruirsi la propria camicia», che al fondo di ogni cosa non c'è altro che il divenire-folle e che, di conseguenza, non si trova Dio ma, come Bergman, si cerca Dio per poi trovare, come Antonioni, quell'incomunicabilità che non è ancora silenzio ma φωνή, incomunicabilità che Bergman annietta nel finale, quando Minus, che presagisce la potenza angosciosa dell'eterna contingenza del reale («È come un incubo, tutto può accadere, papà. Non posso vivere in questo mondo»), dice di aver parlato con suo padre, che può soltanto presupporre Dio, perché egli è l'angoscia incarnata, ovvero «l'infinità egoista della libertà» (Kierkegaard, Il concetto di angoscia), e «mentre l'individuo, mediante l'angoscia, si forma alla fede, l'angoscia distruggerà proprio ciò che produce essa stessa», ovvero la vacuità di valori di cui David è preda. In tutto questo, Karin è una sorta di ponte Einstein-Rosen, e per questo è schizofrenica, perché in comunione con questa e con quella realtà, realtà che sembra possederla e attraverso la quale Karin risulta incomprensibile agli altri (e del resto «la mania è la sapienza vista dal di fuori», come scrive il Colli), quasi a incarnare non più soltanto l'incomunicabilità tra essere umano ed essere umano ma tra esseri umano e Dio, tra l'essere (umano) e l'essenza che (ne) giustifica l'essere. Come in uno specchio, insomma, risulta da quella confusione di San Paolo («Adesso noi vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; allora vedremo faccia a faccia») e la necessità della ricerca che consegue questa confusione obliante. perché lo specchio è, sì, essenzialmente illusorio (ciò che noi vi vediamo non è la realtà, è un riflesso della realtà), ma, pure, riflettendo la realtà, rappresentandola, lo specchio ci permette di conoscere quella realtà, soprattutto se il riflesso nello specchio è quello della mia persona:
«Tutto il conoscere è portare il mondo dentro uno specchio, ridurlo a un riflesso che io possiedo». Ed ecco, dunque, che la ricerca si trasforma in interrogativo, di cui la fede è la risposta.
Ma qual è la domanda?
Come in uno specchio non è un film religioso né, tanto meno, un film sulla religione o su Dio o sulla fede; Come in uno specchio è un film esistenziale ed esistenzialista, perché la domanda, l'interrogativo che ne soggiace e che muove la ricerca (ricerca che è già risposta, perché c'è un oggetto da ricercare) è nient'altro che la vita o, meglio, l'esistenza, questa esistenza ingiustificata che si tenta disperatamente di giustificare con la religione o con l'etica o che altro e dalla quale, attraverso queste parossistiche giustificazioni, ci si allontana e ci si allontana, forse in maniera irreversibile:
«E d'un tratto si resero conto che non ci sono né Dio né dei: capirono che non esiste né il bene né il male. Poi videro e compresero che, se le cose stavano così, allora nemmeno loro stessi esistevano»
(Béla Tarr, Il cavallo di Torino).
http://emergeredelpossibile.blogspot.it/2013/07/come-in-uno-specchio-sasom-i-en-spegel_31.html
Con Såsom i en Spegel, primo film della nota trilogia sul "silenzio di Dio" o più comunemente chiamata, "trilogia religiosa", Ingmar Bergman inaugura il suo cinema da camera, ma al tempo stesso, anticamera della follia che segnerà il suo periodo successivo (periodo sessantottino, se vogliamo) rappresentato in primis da due opere giganti quali, Persona (1966) e L'Ora del Lupo (1968).
Risultano quindi oltremodo giustificate le parole del regista, quando dichiarava di aver creato un malinteso per cui, Come in uno Specchio, è in realtà un film slegato dalla suddetta trilogia, ma più opportunatamente collocabile come ultimo segmento della filmografia che la precede in quanto, la tormentata ricerca di Dio, l'eterno dubbio sulla fede (temi che comunque hanno assorbito tutta l'esistenza/filmografia di Bergman), risultano sicuramente più pregnanti dai successivi Luci d'inverno e Il Silenzio (1963), considerato l'apice di questa parentesi e di cui, argomentazioni più adeguate sotto il profilo filosofico-esistenziale, potete trovare qui e cliccando sui titoli appena citati.
Chi scrive, al momento preferisce enfatizzare l'aspetto psicologico, decisamente ricco di riflessioni personali, concentrandosi quindi su Karin; sulla sua mente frammentata, oscillante, in perenne bilico sul labile confine tra realtà ed allucinazione, proprio come il film stesso, una creatura scissa da un percorso che si è appena concluso (cui Bergman ne vide, a torto, una sconfitta morale) e un altro illuminato di nuova luce. E Quale primo miglior segnale, se non quella luce che si focalizza con precisione sull'occhio angosciato di Karin, per poter spalancare le porte alla follia?
Anche se una delle sequenze più importanti, per qualunque tipologia di accostamento, rimane quella in cui Karin legge il diario del padre scrittore, David (personaggio che forse meglio rispecchia il pensiero bergmaniano, il suo travagliato rapporto con la fede), scoprendo così di essere per lui un mero oggetto di ricerca per il suo nuovo romanzo:
"Con spavento constato la mia curiosità, l’impulso di prendere nota dei sintomi, di registrare giorno del graduale disfacimento di mia figlia, di usufruirne e sfruttarla".
Mi piace pensare, che la prima incursione di Karin in quella soffitta dalle pareti di carta, soglia metafisica dove le "voci" si fanno sentire (e dove avverrà la "rivelazione"), costituisca un trait d'union con l'esplosione psicotica del pre-finale, dato che le movenze allucinate e quella posa a terra che Karin assume, possono già ricordare vagamente la forma di un ragno.
La lettura del diario, è certamente la goccia che fà traboccare il vaso, in quanto, segna in Karin l'inizio della totale dislocazione dalla realtà, ma l'avvisaglia simbolica è chiusa in quella soffitta, su quella parete, su quella fessura nella parete dove Bergman stringe inquietantemente il campo. Una crepa che rappresenta chiaramente la frattura della psiche (come in Repulsion di Roman Polanski), un varco abbastanza ampio per far sì che la realtà affondi di colpo con i propri rimorsi di coscienza (il vascello arenato sulla spiaggia che diventa alcova incestuosa). Ed ecco allora, che Dio si rivela a noi attraverso la follia, assumendo così le fattezze aracnèe di un essere gelido e ripugnante che, non riuscendo a penetrarci, striscia sopra il nostro corpo per poi svanire nuovamente oltre quel muro. La follia, è dunque la strada per raggiungere Dio, oppure è Dio, che si serve della follia per mostrarci il suo vero volto? [...] la follia nel film di Bergman, si manifesta attraverso l'agghiacciante resoconto di Karin; parole che escono dalla sua bocca con una potenza impressionante, una potenza che sconquassa interiormente e che alla fine, non può che lasciar spazio al "silenzio". Un'assenza, che nonostante "la certezza (ri)conquistata" del padre (Non so se l'amore dimostra l'esistenza di Dio o se l'amore è Dio stesso...questo pensiero è il solo conforto alla mia miseria e alla mia disperazione), comunque permarrà, altanelante, proprio come questo film, in tutta la carriera del maestro.
poor Yorick12 settembre 2013 19:04
[...] ponendo il binomio Dio/follia - che Bergman non è assolutamente religioso quando parla di religione: la sua è una perdita di fede per ritrovarsi uomo; la domanda su Dio e la follia è fondamentale, soprattutto perché Karin vede Dio, mentre il padre - razionale - non vede Dio e ha con Lui un rapporto sfasato e viziato: secondo me, quando Bergman gli fa dire che Dio è amore sta facendo gli sberleffi a tutta una parrocchia che ha voluto che Dio fosse amore, mentre invece è qualcosa di puramente trascendente (Karin è trascendente grazie alla sua follia), e prova ne è il fatto che il padre non vede Dio, non ha rapporti con Dio. [...]
poor Yorick13 settembre 2013 17:48
[...]"Ora noi vediamo come in uno specchio, in maniera confusa":
chi, nel film, vede come in uno specchio?
Secondo me Minus e il padre, soprattutto il padre.
Mentre Karin, appunto, vede in maniera nitida Dio, tant'è che ha una crisi.
D'altro canto, se si parla di psicologia, si nota subito una grande mancanza nel film: la madre.
Il che apre nuovi problemi, e forse radicalizza la prospettiva psicanalitica invece di quella teologica. D'altro canto, si potrebbe ribaltare il film: il film non parla di Karin, parla del padre. Il padre che esce dal peccato e ritrova Dio. In questo senso, quel "Papà ha parlato con me" significherebbe che la conversione è ormai avvenuta, mandando all'aria quanto detto prima: così, infatti, è Karin che vede come in uno specchio (vede il ragno, non vede Dio), e lo specchio è quello della follia. [...]
Frank ViSo14 settembre 2013 09:17
Bravo, hai centrato una cosa che non mi sarebbe mai venuta in mente:
la mancanza della madre, è vero.
Anche la lettura del film ribaltato, in effetti risolverebbe molti quesiti...
Vorrei rivedere "Il Silenzio", sarebbe la terza volta [...]
poor Yorick14 settembre 2013 10:24
Sì, "Il silenzio" è psicologico anche per me, anzi direi addirittura psicanalitico, visto la grande presenza del simbolico (i nani ma non solo)...
http://visionesospesa.blogspot.it/2013/09/come-in-uno-specchio-sasom-i-en-spegel.html
"Nessun Dio entrerà da quella porta".
Bergman uno dei più disperati cercatori di Dio,
su cui non smetterà mai di interrogarsi!
"Ho avuto paura. La porta si è dischiusa,
ma il Dio che è entrato era solo un ragno.
Si è avvicinato a me e io l'ho visto in faccia:
un viso ripugnante e gelido.
Si è lanciato su di me, voleva possedermi ma io mi sono difesa.
Vedevo continuamente i suoi occhi così freddi e calmi.
Non è riuscito a penetrare in me,
così ha strisciato sul mio petto, sul mio viso,
e se ne è andato su per la parete. Ho visto Dio."
Karin (Harriet Andersson) -
tratto da: Come in uno specchio (Såsom i en spegel), di Ingmar Bergman
[...] Nelle intenzioni del regista questa forte allegoria simbolica (Dio uguale ragno) resta a significarci l’allora suo intimo rapporto con la trascendenza; l’isterismo religioso, affidato alle farneticazioni d’una schizofrenica, connota senza equivoco l’inquieto vissuto dell’autore. [...]
http://www.lankelot.eu/cinema/bergman-ingmar-come-in-uno-specchio.html
https://youtu.be/vbaX1yv8_9U
La Morte: «Non mi serve sapere».
Ingmar Bergman (1918 – 2007), “Il settimo sigillo”
"No."
"Dalla tua indifferenza, Maria. E questa lieve curva, che va dall'orecchio alla punta del mento, non è nitida come un tempo. Questo significa che sei superficiale e indolente. E lì, alla radice del naso, perché ora c'è tanto sarcasmo, Maria? Riesci a vederlo? C'è troppo sarcasmo, troppo scherno. E sotto ai tuoi occhi inquieti, mille rughe impietose, secche, quasi inavvertibili, di noia e di impazienza."
"Sul serio vedi queste cose sul mio viso?"
"No, ma le vedo ogni volta che mi baci."
"E ogni volta che rispondi ai miei baci, io so dove le vedi."
"Sì, le vedo su di te."
"Le vedi in te stesso, perché noi siamo uguali, tu e io."
"Sarei anche io egocentrico, cinico, indifferente?"
Ingmar Bergman. Sussurri e grida - Dialogo allo specchio (1972)
Impietosa analisi della fredda Maria, interpretata da una splendida Liv Ullmann
Uno dei monologhi più belli di sempre...degno di un film altrettanto indimenticabile.
Tra i capolavori della settima arte
Ingmar Bergman. Sussurri e grida - Dialogo allo specchio
http://www.youtube.com/watch?v=S0ovu_fcVfw
Ingmar Bergman - Il Rito(1969) Scena finale
" Dott Abrams ..... avrà conosciuto la debolezza... forse da bambino
una sensuale smania di sentirsi annullato nell'umiliazione
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Trama del film: Tre attori ricchi e famosi, Thea. Sebastian e Hans, legati fra loro anche di un tormentato triangolo amoroso sono convocati da un giudice che indaga sulla presunta oscenità del loro spettacolo. Il magistrato li sottopone a minuziosi interrogatori, cercando di fiaccare le loro sicurezze. In fondo però egli invidia la loro libertà interiore, anche se prova l'irresistibile desiderio di abbassarli al suo livello di mediocrità.
In questo film arte religione e oscenità arrivano a convivere
https://youtu.be/I92y2i2fBMc
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