lunedì 7 luglio 2014

Jakob Burckhardt. La violenza rappresenta sempre l’inizio dello Stato. “Vane sono tutte le nostre costruzioni circa l’origine e l’inizio dello Stato, e noi quindi non ci romperemo qui il capo, come i filosofi della storia, intorno a tali primordi. I seguenti interrogativi daranno solo quel tanto di luce perché si scorga quale abisso abbiamo dinnanzi: com’è che un popolo diviene popolo? e come diventa Stato?



Burckhardt. I Greci e il disprezzo del lavoro.
L’antibanausica.
“[Il] disprezzo per il lavoro materiale e il guadagno borghese si ritrova nella mentalità dell’aristocrazia del Medioevo europeo; ma accanto ad essa si sviluppa grado a grado la borghesia operosa, che non solo lavora ma ha del lavoro un’altissima considerazione.
Ben diverso […] è il mondo greco, poiché qui è proprio la borghesia che disprezza il lavoro materiale, benché non possa far a meno della sua opera. E non basta la semplice spiegazione che i Greci all’uopo avevano gli schiave: poiché essi disprezzavano proprio la maggior parte del lavoro libero. Né si può gettar la colpa tutta sul clima: poiché questo non è ancora così caldo che il lavoro agricolo e la libertà debbano escludersi a vicenda.
Il criterio essenziale per la valutazione del lavoro deriva piuttosto dall’epoca e dalle circostanze in cui una nazione elabora i propri ideali di vita. Gli ideali dell’Europa moderna provengono prevalentemente dalla borghesia del Medioevo, la quale grado a grado divenne non solo superiore alla nobiltà per ricchezza, ma anche pari ad essa per sviluppo culturale – certo diverso da quello della nobiltà. Ma i greci avevano nella mente l’immagine fantastica del loro tempo eroico, ossia di un mondo senza lucro, e non riuscirono mai a liberarsene; e a questo mondo eroico che non conosceva se non battaglie, tragedie di case reali e interventi divini, il tutto pervaso da una mirabile aura di poesia, erano infinitamente più vicini che non la borghesia medievale alla saga germanica. Ma mentre il mondo eroico, almeno nel suo tramonto, nelle ‹Opere e i giorni› di Esiodo presenta ancora una visione dell’onorata vita dei contadini – e vi si loda fino a un certo grado persino la mercatura – nel periodo agonale che lo seguì doveva inevitabilmente imporsi la mentalità che disprezza il lavoro materiale. I membri della classe dominante, determinati per diritto di nascita, non sono più, come prima, in numero limitato, ma domina una grande aristocrazia cittadina, che vive essenzialmente di rendite fondiarie, che ha pur sempre come suo e suo ideale la lotta, ma non tanto la guerra quanto piuttosto la ara fra pari; e la nazione tutta è convinta che questa sia la cosa più alta sulla terra. Poiché i bisogni sono limitati, molti hanno la possibilità di parteciparvi, e chi non lo può almeno assiste, pieno di invidia e di ammirazione. Sorge così un gran numero di località destinate alle gare, nonché diversi generi di lotta; la ginnastica, come preparazione alla gara, diviene uno degli aspetti fondamentali dell’educazione. Ma questo sistema di vita non ammette alcuna attività lucrativa; l’agone assorbe tutta l’esistenza.
Certo, contemporaneamente, la schiavitù prendeva un enorme sviluppo. Ma questo sviluppo non fu l’elemento decisivo: poiché vediamo che spesso fu sufficiente una massa di cittadini senza diritti, gravati di tributi, e in effetti servi della gleba; a Sparta la classe privilegiata dominava esclusivamente su soggetti di tal condizione. E inoltre l’attività propria del contadino e dell’artigiano, anche se si comprava degli schiavi, non veniva per questo più rispettata nell’opinione comune. Piuttosto si deve ammettere che l’estendersi della schiavitù rafforzò la concezione già esistente. Ed è proprio questa concezione del periodo aristocratico che influisce fin sugli ultimi tempi della grecità, e soprattutto anche nel periodo del pieno affermarsi della democrazia.
Soprattutto la mentalità spartana è nettamente antibanausica; l’ideale di vita ellenica che Sparta realizza è diametralmente opposto ad ogni attività lucrativa di qualsiasi specie, ossia è proprio il godimento di tutta quella felice «pienezza d’ozio» che secondo Plutarco è il più splendido dono che ci sia. Qui tutta la vita dello Stato è basata sull’esistenza di popoli soggetti, che devono lavorare; e si è fieri che ogni Spartiate non faccia se non ciò che serve alla ‹polis›.”
JACOB BURCKHARDT (1818 – 1897), “Storia della civiltà greca” (1898 – 1902), traduzione di Maria Attardo Magrini, introduzione di Arnaldo Momigliano, Sansoni, Firenze 1988 (III ed., I ed. 1955), 2 voll., II vol., Nona parte ‘L’uomo greco nel suo sviluppo storico’, Capitolo II ‘L’uomo coloniale e agonico’, ‘La valutazione del lavoro’ – ‘L’influenza degli ideali del mondo eroico’ – ‘Lo spirito spartano’, pp. 328 – 329.




Jakob Burckhardt. La violenza rappresenta sempre l’inizio dello Stato.
“Vane sono tutte le nostre costruzioni circa l’origine e l’inizio dello Stato, e noi quindi non ci romperemo qui il capo, come i filosofi della storia, intorno a tali primordi. I seguenti interrogativi daranno solo quel tanto di luce perché si scorga quale abisso abbiamo dinnanzi: com’è che un popolo diviene popolo? e come diventa Stato? quali sono le crisi di nascita? dove sta ‹quel› limite d’evoluzione politica partendo dal quale possiamo parlare di Stato?
Assurda è, per lo Stato ‹in fieri›, l’ipotesi contrattuale, di cui del resto in Rousseau si parla soltanto come d’un ipotetico ripiego ideale in quanto egli non volle additare come avvenne, bensì come, secondo lui, sarebbe dovuta avvenire. Ancora nessuno Stato è sorto attraverso un contratto vero e proprio, vale a dire volontariamente accettato da ognuna delle parti (‹inter volentes›); giacché cessioni e accordi, come quelle fra Romani tremebondi e Germani vittoriosi, non sono contratti autentici. Per questa ragione, anche in avvenire non ne sorgeranno in tal modo. E se uno Stato avesse origine così, si tratterebbe di una creatura debole, poiché si potrebbe costantemente discuterne le basi.
La tradizione, che non distingue tra popolo e Stato, indugia volentieri sull’idea dell’origine delle stirpi; il popolo conosce quali mitici rappresentanti della propria unità nomi di eroi e d’archegeti in parte eponimi, ovvero possiede oscure nozioni ora di una protopluralità (i nomi egizi), ora di una protounità più tardi suddivisasi (la torre di Babele). Ma tutte queste nozioni sono brevi e mitiche.
Quale nozione, riguardo alle origini dello Stato, può rivelarsi dal carattere nazionale? In ogni caso, una nozione assai limitata, giacché quest’ultimo consta solo per una quota indeterminabile d’una base primordiale, mentre per il resto è sorto da un accumularsi di ‹passato›, come conseguenza di esperienze vissute, e quindi solo in parte attraverso le successive sorti di Stato e popolo.
Avviene spesso che la fisionomia e la sorte politica di un popolo cadano in piena contraddizione, a causa di tardi disordini e oppressioni.
Inoltre, lo Stato può essere tanto più potente quanto maggiore è l’omogeneità con cui corrisponde a un intero nucleo nazionale; non è facile, però, che corrisponda ad esso, ma solo a una sua parte preponderante, a una particolare regione, a una particolare stirpe, a un particolare strato sociale.
O l’esigenza giuridica avrebbe già da se sola provveduto a creare lo Stato. Eh, l’attesa sarebbe stata lunga! Press’a poco finché la violenza avesse purificato se stessa a tal punto da riconoscere l’utilità di trarre anche altri da una condizione di disperazione a una condizione pacifica, per proprio vantaggio e per poter godere della propria con sicurezza. Non possiamo, dunque, accedere nemmeno a questo punto di vista invitante e ottimistico secondo cui sarebbero sorte le società, i maggiorenti e lo Stato a loro difesa, come una loro parte negativa difensiva e protettiva, sì che lo Stato e il diritto penale avrebbero identica origine. L’umanità è ben diversa.
[…]
Ecco che vi sono dunque due sole probabilità: 
‹a›) la violenza rappresenta certo sempre l’inizio; intorno alle origini di essa non abbiamo mai perplessità perché nasce da sé, dall’ineguaglianza delle capacità umane: spesso lo Stato non avrà rappresentato altro che la loro sistemazione. 
Oppure ‹b› intravvediamo altrimenti un processo estremamente violento, in massima parte di composizione: un raggio di saetta fonde parecchi elementi in nuovo metallo, due più forti ed uno più debole o viceversa. Così si sarebbero unite a scopo di conquista, o in occasione di essa, le tre ‹file› doriche e le tre stirpi gotiche. Una terribile manifestazione di violenza, cui si aggiunsero gli elementi già esistenti e che allora poi si trasformò in forza, rappresentano anche i Normanni nell’Italia meridionale.
Una qualche risonanza delle tremende crisi nel sorgere dello Stato, di ciò che esso è ‹costato› alle origini, permane ancora negli enormi e assoluti privilegi accordatigli fin dai tempi più remoti. Essi ci appaiono d’una naturalezza aprioristica, mentre in parte si tratta certamente di velata tradizione, come ancora avviene per taluni casi: giacché gran parte della tradizione procede tacitamente, seguendo il semplice procrearsi, di generazione in generazione; non è più possibile per noi far distinzioni di tal genere.
Se la crisi è stata una conquista, allora il primissimo contenuto dello Stato, il suo carattere, il suo compito, il suo ‹pathos› infine, consistono essenzialmente nell’asservimento dei sudditi.”
JAKOB BURCKHARDT (1818 – 1897), “Riflessioni sulla storia universaleˮ (1905), trad., prefazione e note di Mariateresa Mandalari, Rizzoli, Milano 1966 (I ed.), Capitolo secondo ‘Le tre potenze’, 1- ‘Lo Stato’, pp. 47 – 50.



Ähnlich geht dann auch auf völlige Verachtung der Arbeit und des bürgerlichen Erwerbes die Denkweise, die der Adel im europäischen Mitelalter ausgebildet hat; aber neben ihm kommt allmählich der Bürgerstand empor, der nicht nur arbeitet, sondern die Arbeit in hohen Ehren hält.
Anders steht […] die griechische Welt da, indem hier gerade das ‹Bürgertum› als solches die Arbeit in ziemlich weitem Umfange verachtet, obwohl es deren Wirkung nicht entbehren kann. Die einfache Erklärung: die Griechen hätten hierfür eben Sklaven gehabt, genügt nicht; denn sie verachteten auch das meiste der freien Arbeit. Auch wird man die Schuld nicht auf das Klima schieben können; denn dieses ist noch nicht so heiß, daß Feldarbeit und Freiheit sich ausschlössen.
Das Wesentliche für die Wertschätzung der Arbeit sind vielmehr die Zeit und die Umstände, unter denen sich bei einer Nation die Ideale des Daseins ausbilden. Dasjenige des jetzigen Europas stammt vorherrschend vom Bürgertum des Mittelalters her, welches allgemach dem Adel nicht nur an Reichtum überlegen, sondern auch an Bildung – freilich einer anderen als der des Adels – gleichwertig wurde. Die Griechen aber hatten das Phantasiebild ihrer heroischen Zeit, d.h. einer Welt ohne Nutzen, und wurden dasselbe nie los; sie standen dem heroischen Dasein, welches nichts enthielt als Kämpfe, Tragödien der Königshäuser und dazwischen die Götter, und zwar dies alles verbunden durch eine wunderbare Poesie, unendlich näher, als der Bürgerstand des Mittelalters der germanischen Sagenwelt stand. Während aber das heroische Zeitalter, wenigstens in seinem Scheiden, in Hesiods Werken und Tagen, noch eine Anschauung des ehrbaren Bauernlebens feststellt – es ist daselbst sogar noch ein gewisser Grad von Gewerbe gepriesen – mußte das agonale, welches darauf folgte, die Denkart, welche die körperliche Arbeit verachtet, noch unvermeidlicher hervorbringen. Die durch die Geburt gegebenen Individuen der herrschenden Klasse sind nicht mehr, wie vorher, in beschränkter Anzahl vorhanden, sondern es herrscht eine große, wesentlich von Grundrenten lebende städtische Aristokratie, deren Lebenszweck und Ideal wiederum der Kampf, aber weniger der Krieg als der Wettkampf unter Gleichen ist. Die ganze Nation ist überzeugt, daß dies das Höchste auf Erden sei. Die Mäßigkeit der Bedürfnisse erlaubt vielen, mitzumachen, und wer dies nicht kann, beneidet und bewundert es doch. So entsteht eine Menge von Kampfstätten und Kampfgattungen, und die Gymnastik als Vorbildung dafür wird ein Hauptteil der Erziehung; mit irgendeiner Art von erwerbender Tätigkeit aber ist diese Lebensweise unverträglich; die Agone verlangen das ganze Dasein.
Zugleich nahm jedenfalls auch das Sklaventum zu. Aber das Entscheidende war diese Zunahme nicht; denn öfter genügten rechtlose, tributpflichtige, tatsächlich leibeigene Bauern, und in Sparta waltete die herrschende Kaste über lauter solchen. Und ferner war das eigene Tun des Bauern und Handwerkers, wenn er auch Sklaven kaufte, deshalb in der allgemeinen Anschauung nicht geachteter. Nur das wird zuzugeben sein, daß die Ausdehnung des Sklaventums die ohnehin herrschende Ansicht bestärkte. Die Anschauung dieses aristokratischen Zeitalters aber ist es, welche bis auf das späteste Griechentum wirkt und besonders auch noch in der Zeit des vollen demokratischen Staatslebens.
Vor allem ist das Spartiatentum absolut antibanausisch; dasjenige Ideal hellenischen Lebens, das von ihm verwirklicht wird, ist der diametrale Gegensatz alles Erwerbes jeglicher Gattung, nämlich die Ausstattung mit aller wünschbaren «Fülle der Muße», nach Plutarch einer der herrlichsten und glückseligsten Bescherungen, die es gibt. Hier ist das ganze Staatswesen auf das Dasein unterworfener Völker gegründet, welche arbeiten müssen, und man ist stolz darauf, daß kein Spartiate etwas anderes tut, als was für die Polis dienlich ist.ˮ
JACOB BURCKHARDT, “Griechische Kulturgeschichte” (herausgegeben von Jakob Oeri, Spemann, Berlin- Stuttgart 1898 – 1902) in Id., “Gesammelte Werke”, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1957, Band 8, Vierter Band, Neunter Abschnitt ʽDer hellenische Mensch in seiner zeitlichen Entwicklungʼ, III. ʽDer koloniale und agonale Menschʼ, S. 116 – 117.


“ Eitel sind alle unsere Konstruktionen von Anfang und Ursprung des Staates, und deshalb werden wir uns hier über diese Primordien nicht wie die Geschichtsphilosophen den Kopf zerbrechen. Nur so viel Licht, daß man sehe, was für ein Abgrund vor uns liegt, sollen die Fragen geben: Wie wird ein Volk zum Volk? und wie zum Staat? Welches sind die Geburtskrisen? Wo liegt die Grenze der politischen Entwicklung, von welcher an wir von einem Staat sprechen können?
Absurd ist die Kontrakthypothese für den zu errichtenden Staat, die bei Rousseau auch nur als ideale hypothetische Aushilfe gemeint ist, indem er nicht zeigen will, wie es gewesen sei, sondern, wie es nach ihm sein sollte. Noch kein Staat ist durch einen wahren, d. h. von allen Seiten freiwilligen Kontrakt (inter volentes) entstanden; denn Abtretungen und Ausgleichungen wie die zwischen zitternden Romanen und siegreichen Germanen sind keine echten Kontrakte. Darum wird auch künftig keiner so entstehen. Und wenn einer so entstände, so wäre es eine schwache Schöpfung, weil man beständig um die Grundlagen rechten könnte. Die Überlieferung, welche Volk und Staat nicht unterscheidet, bleibt gerne bei der Idee von der Abstammung stehen; das Volk kennt Namensheroen und zum Teil eponyme Archegeten als mystische Repräsentanten seiner Einheit, oder es hat eine dunkle Kunde bald von einer Urvielheit (die ägyptischen Nomen), bald von einer Ureinheit, die sich später getrennt habe (der Turm von Babel). Aber alle diese Kunde ist kurz und mythisch.
Was für Kunde geht etwa aus dem Nationalcharakter in betreff der Anfänge des Staates hervor? Jedenfalls nur eine sehr bedingte, da er nur in einer unbestimmbaren Quote aus ursprünglicher Anlage besteht, sonst aber aus aufsummierter Vergangenheit, als Konsequenz von Erlebnissen, also zum Teil erst durch die nachherigen Schicksale des Staates und Volkes entstanden ist.
Oft widerspricht sich die Physiognomie und das politische Schicksal eines Volkes total durch späte Verschiebung und Vergewaltigung.
Ferner kann der Staat zwar um so viel mächtiger sein, je homogener er einem ganzen Volkstum entspricht; aber er entspricht einem solchen nicht leicht, sondern einem tonangebenden Bestandteil, einer besonderen Gegend, einem besonderen Stamm, einer besonderen sozialen Schicht.
Oder hätte das Rechtsbedürfnis allein schon den Staat geschaffen? Ach, das hätte noch lange warten müssen! Etwa bis die Gewalt sich selber solange gereinigt hätte, daß sie zu ihrem eigenen Vorteil und um das Ihrige sicher zu genießen, auch andere aus der Verzweiflung zur Ruhe zu bringen für gut fände. Auch dieser einladenden optimistischen Ansicht, wonach die Gesellschaft das Prius und der Staat zu ihrem Schutze entstanden wäre, als ihre negative, abwehrende, verteidigende Seite, so daß er und das Strafrecht identischen Ursprung hätten, können wir also nicht beitreten. Die Menschen sind ganz anders.
Welches waren die frühesten Notformen des Staates? Wir möchten dies z. B. gerne für die Pfahlbauleute wissen.
[…] 
So ist denn nur zweierlei wahrscheinlich: a) Die Gewalt ist wohl immer das Prius. Um ihren Ursprung sind wir nie verlegen, weil sie durch die Ungleichheit der menschlichen Anlagen von selbst entsteht. Oft mag der Staat nichts weiter gewesen sein als ihre Systematisierung. Oder b) wir ahnen sonst einen höchst gewaltsamen Prozeß, zumal der Mischung. Ein Blitzstrahl schmilzt mehreres zu einem neuen Metall zusammen, etwa zwei Stärkere und ein Schwächeres oder umgekehrt. So dürfen sich zum Zweck einer Eroberung oder bei Anlaß einer solchen die drei Dorierphylen und die drei Gotenstämme zusammengetan haben. [Fußnote] Eine schreckliche Gewalt, an die sich das Vorhandene ansetzte, und die dann zur Kraft wurde, sind auch die Normannen in Unteritalien.
Von den furchtbaren Krisen bei der Entstehung des Staates, von dem, was er ursprünglich «gekostet hat», klingt noch etwas nach in dem enormen, absoluten Vorrecht, das man ihm von jeher gewährt hat.
Dies erscheint uns wie eine aprioristische Selbstverständlichkeit, während es wohl zum Teil verhüllte Überlieferung ist, wie dies noch von manchem gilt; denn viele Überlieferung geht unausgesprochen, durch die bloße Zeugung, von Geschlecht zu Geschlecht; wir können dergleichen nicht mehr ausscheiden.
Ist die Krisis eine Eroberung gewesen, so ist der frühste Inhalt des Staates, seine Haltung, seine Aufgabe, ja, sein Pathos, wesentlich die Knechtung der Unterworfenen.ˮ
JAKOB BURCKHARDT, “Weltgeschichtliche Betrachtungenˮ, herausgegeben von Jakob Oeri, Spermann, Berlin-Stuttgart 1905, II. ʻVon den drei Potenzenʼ, 1. ʻDer Staatʼ, S. 27 – 30.

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