martedì 11 settembre 2012

Ray Bradbury. Fahrenheit 451. Ognuno deve lasciarsi qualche cosa dietro quando muore [...]: un bimbo o un libro o un quadro o una casa o un muro eretto con le proprie mani o un paio di scarpe cucite da noi. O un giardino piantato col nostro sudore. Qualche cosa insomma che la nostra mano abbia toccato in modo che la nostra anima abbia dove andare quando moriamo.


C'era come un odore di Tempo, Nell'aria della notte.
Tomàs sorrise all'idea, continuando a rimuginarla. Era una strana idea.
E che odore aveva il Tempo, poi? Odorava di polvere, di orologi e di gente.
E che suono aveva il Tempo? Faceva un rumore di acque correnti nei recessi bui d'una grotta, di voci querule, di terra che risuonava con un tonfo cavo sui coperchi delle casse, e battere di pioggia.
E, per arrivare alle estreme conseguenze: che aspetto aveva il Tempo?
Era come neve che cade senza rumore in una camera buia,
o come un film muto in un'antica sala cinematografica,
cento miliardi di facce cadenti come palloncini di capodanno, giù, sempre più giù, nel nulla.
Così il tempo odorava, questo era il rumore che faceva, era così che appariva.
E quella notte – Tomàs immerse una mano nel vento fuori della vettura –
quella notte tu quasi lo potevi toccare, il Tempo.
Ray Bradbury


Le mie storie arrivano di corsa e mi mordono alle gambe. 
Io rispondo buttandomi a scrivere qualsiasi cosa che succede durante il morso. 
Quando finisco, l’idea molla la presa e scappa via.
Ray Bradbury 



Ho imparato, nei miei viaggi,
che se resto un giorno senza scrivere comincio ad agitarmi.
Due giorni e mi vengono dei tremiti.
Tre giorni e do segni di pazzia.
Quattro e potrei benissimo essere un maiale che si rotola nel fango.
Ray Bradbury, Lo zen nell’arte della scrittura,


Ogni giorno della tua vita leggi poesie. La poesia è buona perchè esercita muscoli che non usi abbastanza spesso. La poesia espande i sensi e li riporta a condizioni primordiali. Fai sì che tu ti renda conto del tuo naso, del tuo occhio, del tuo orecchio, della tua lingua, della tua mano. E, dopo tutto, la poesia è metafora compatta e similitudine. Tali metafore, come i fiori di carta giapponesi possono espandersi all’esterno in forme gigantesche.
Ray Bradbury, Lo zen nell’arte della scrittura


Non c'è bisogno di bruciare libri per distruggere una cultura.
Basta fare in modo che la gente smetta di leggere.
Ray Bradbury


Non sono i libri che vi mancano, ma alcune delle cose che un tempo erano nei libri.
Le stesse cose potrebbero essere diffuse e proiettate da radio e televisori. Ma ciò non avviene.
No, no, non sono affatto i libri le cose che andate cercando. Prendetele dove ancora potete trovarle, in vecchi dischi, in vecchi film e nei vecchi amici; cercatele nella natura e cercatele soprattutto in voi stesso.
Ray Bradbury


Il televisore è "reale", è immediato, ha dimensioni.
Vi dice lui quello che dovete pensare,
e ve lo dice con voce di tuono.
Deve avere ragione, vi dite:
sembra talmente che l'abbia!
Ray Bradbury


Ho diciassette anni e sono pazza.
Mio zio dice che queste due cose vanno sempre insieme.
Ray Bradbury


Come si spiega», le disse una volta, presso l'ingresso della sotterranea,
«che mi sembra di conoscervi da tanti anni?»
«Perché io vi voglio bene», ella disse,
«e non voglio nulla da voi.
E poiché ci conosciamo bene tutt'e due.
Ray Bradbury


Se non sei innamorato di quello che stai facendo, non farlo; cerca ciò che ami.
Ray Bradbury


La vita è provare le cose per vedere se funzionano.
Ray Bradbury


Tutta questa filosofia, è anche peggio dei romanzi…
pensatori, filosofi, dicono tutti esattamente le stesse cose…
- Soltanto io ho ragione, gli altri sono tutti imbecilli!
- In un secolo ti dicono che il destino dell'uomo è prestabilito,
il secolo dopo ti dicono che ha libertà di scelta.
È soltanto questione di moda la filosofia,
è come le gonne corte quest'anno, le gonne lunghe l'anno prossimo.
Ray Bradbury


Non devi bruciare i libri per distruggere una cultura. 
Basta far smettere alla gente di leggerli.
Ray Bradbury


«... sapete cosa ho scoperto?» «Che cosa?» «Che la gente non dice nulla» 
«Oh, parlerà pure di qualche cosa, la gente!» «No, vi assicuro. 
Parla di una gran quantità di automobili, parla di vestiti e di piscine e dice che sono una meraviglia! Ma non fanno tutti che dire le stesse cose e nessuno dice qualcosa di diverso dagli  altri...
Ray Bradbury 


Ero bambino, quando mi morì il nonno, che era uno scultore di valore. 
Era anche un uomo d'animo gentile che aveva molto amore da dare al mondo e aveva contribuito grandemente ad alleviare la miseria nel quartiere povero della nostra città. Costruiva giocattoli per noi e aveva fatto un milione di cose buone in vita sua. Era un uomo che aveva sempre le mani in moto per fare qualche cosa. Ora, quando morì, io mi accorsi ad un tratto che non piangevo per lui, ma per tutte le cose che aveva fatto. Piangevo perché non le avrebbe fatte mai più, non avrebbe mai più scolpito o intagliato un pezzo di legno, mai più ci avrebbe aiutato ad allevare colombe e piccioni nel giardino di casa, né avrebbe suonato più il violino come lui solo sapeva fare, né ci avrebbe più raccontato le cose buffe che ci raccontava.
Ray Bradbury 



Sono un temperamento asociale, dicono. Non mi mescolo con gli altri. Ed è strano, perché io sono piena di senso sociale, invece. Tutto dipende da che cosa s'intenda per senso sociale, non vi sembra? 
Ray Bradbury, Clarisse; p. 33  


Se non vuoi un uomo infelice per motivi politici, 
non presentargli mai i due aspetti di un problema, o lo tormenterai; 
dagliene uno solo; meglio ancora, non proporgliene nessuno. 
Ray Bradbury (1966, p. 72)

Non voleva sapere, per esempio, come una cosa fosse fatta, ma perché la si facesse. 
Cosa che può essere imbarazzante. Ci si domanda il perché di tante cose, ma guai a continuare: 
si rischia di condannarsi all'infelicità permanente. 
Ray Bradbury (1966, p. 72)


Ritornò a fissare la parete. E come, la faccia di lei, assomigliava inoltre a uno specchio! 
Impossibile; perché, quante persone hai mai conosciuto che riflettessero la propria luce verso di te? Le persone erano più spesso -cercò un paragone, ne trovò uno nel campo della sua attività professionale- come torce, che si consumavano fiammeggiando fino a spegnersi con un sibilio. 
Ray Bradbury (1966, p. 12)


Compatisci, Montag, compatisci. Non inveire, non insultare; così di recente eri ancora dei loro. 
Sono tanto sicuri di poter continuare così per un pezzo! Ma non continueranno. Ignorano che tutto ciò è soltanto un'unica immensa meteora, che fa una bella scia fiammeggiante nello spazio, ma prima o poi dovrà colpire il suolo. Vedono soltanto la scia di fiamma, il bagliore, come lo vedevi tu. […]» Ray Bradbury (1966, p. 123)


Montag guardò il fiume. Noi andremo sul fiume. Guardò le antiche rotaie della ferrovia. 
Oppure andremo in quella direzione. O percorreremo le grandi autostrade ora, e avremo tempo di mettere tante cose dentro di noi. E un giorno, dopo che la sapienza sarà stata a lungo in noi comparirà sulle nostre mani e sulle nostre bocche. E gran parte di essa sarà errata, ma una parte sufficiente sarà giusta. Cominceremo a camminare oggi e a vedere il mondo come il mondo cammina e parla, come realmente appare. Voglio vedere ogni cosa, ormai. E anche se niente di esso sarà e quando entrerà in me, dopo qualche tempo si raccoglierà tutto insieme dentro di me e sarà me stesso. Guarda il mondo qua intorno, Signore, Signore, guardalo, qua intorno a me, al di là della mia faccia, e il solo modo di toccarlo veramente è di metterlo dove sia finalmente me stesso, dove è nel sangue, dove è spinto a correre in circolo mille volte per diecimila ogni giorno. Ho già un dito sul mondo, adesso; questo è un principio.
Ray Bradbury


«Si segga, giovanotto» disse l'ufficiale. 
«Grazie» rispose l'altro, e si sedette. 
«Ho sentito voci sul suo conto» esordì l'ufficiale in tono di simpatia. 
«Oh, niente d'importante. Nervosismo. Un certo senso di disagio. 
Sono mesi ormai che sento parlare di lei, e così ho pensato di chiamarla. 
Magari le piacerebbe cambiare lavoro. All'estero, forse, o in una zona di guerra? 
Se stare dietro una scrivania l'annoia, vorrebbe tornare alle vecchie battaglie?»
Ray Bradbury


Ray Bradbury, Fahrenheit 451, 1953.
Montag fa il pompiere in un mondo in cui ai pompieri non è richiesto di spegnere gli incendi, ma di accenderli: armati di lanciafiamme, fanno irruzione nelle case dei sovversivi che conservano libri e li bruciano. Così vuole la legge. Montag però non è felice della sua esistenza alienata, fra giganteschi schermi televisivi, una moglie che gli è indifferente e un lavoro di routine. Finché, dall’incontro con una ragazza sconosciuta, inizia per lui la scoperta di un sentimento e di una vita diversa, un mondo di luce non ancora offuscato dalle tenebre della imperante società tecnologica.
https://www.oscarmondadori.it/libri/fahrenheit-451-ray-bradbury/



Incipit.
Era una gioia appiccare il fuoco. Era una gioia speciale vedere le cose divorate, vederle annerite, diverse. Con la punta di rame del tubo fra le mani, con quel grosso pitone che sputava il suo cherosene venefico sul mondo, il sangue gli martellava contro le tempie, e le sue mani diventavano le mani di non si sa quale direttore d’orchestra che suonasse tutte le sinfonie fiammeggianti, incendiarie, per far cadere tutti i cenci e le rovine carbonizzate della storia.
Ray Bradbury, Fahrenheit 451, 1953



“…«Mi permettete una domanda?
Da quanto tempo lavorate agli incendi?»
«Da quando avevo vent’anni, dieci anni fa.»
«Non leggete mai qualcuno dei libri che bruciate?»
Lui si mise a ridere:
«Ma è contro la legge!»
«Oh, già, certo.»
«È un bel lavoro, sapete. 
Il lunedì bruciare i luminari della poesia, 
il mercoledì Melville, 
il venerdì Whitman,
ridurli in cenere e poi bruciar la cenere.
È il nostro motto ufficiale.»
Continuarono a camminare e infine la ragazza domandò:
«È vero che tanto tempo fa i vigili del fuoco spegnevano gli incendi invece di appiccarli?»
«No, è una leggenda. Le case sono sempre state antincendio, potete prendermi in parola.»
«È strano. Mi ricordo di aver sentito dire che molto, molto tempo fa
le case ardevano spesso per disgrazia
e che occorrevano gli uomini del fuoco per domare le fiamme.»…”
Ray Bradbury, Fahrenheit 451, 1953


E mi diceva anche:
"Riempiti gli occhi di meraviglie, vivi come se dovessi cadere morto fra dieci secondi!
Guarda il mondo: è più fantastico di qualunque sogno studiato e prodotto dalle più grandi fabbriche. Non chiedere garanzie, non chiedere sicurezza economica, un siffatto animale non è mai esistito; e se ci fosse, sarebbe imparentato col pesante bradipo che se ne sta attaccato alla rovescia al ramo di un albero per tutto il santo giorno, ogni giorno, passando l'intera vita a dormire. Al diavolo" diceva il nonno "squassa l'albero e fa' che il pesante bradipo precipiti al suolo e batta per prima cosa il culo!"
Ray Bradbury, Fahrenheit 451, 1953



Offri al popolo gare che si possano vincere ricordando le parole di canzoni molto popolari, o il nome delle capitali dei vari Stati dell'Unione o la quantità di grano che lo Iowa ha prodotto l'anno passato.
Riempi loro i crani di dati non combustibili, imbottiscili di "fatti" al punto che non si possano più muovere tanto son pieni, ma sicuri d'essere "veramente bene informati". Dopo di che avranno la certezza di pensare, la sensazione del movimento, quando in realtà sono fermi come un macigno. E saranno felici, perché fatti di questo genere sono sempre gli stessi. Non dar loro niente di scivoloso e ambiguo come la filosofia o la sociologia affinché possano pescare con questi ami fatti ch'è meglio restino dove si trovano. Con ami simili, pescheranno la malinconia e la tristezza.
Ray Bradbury, Fahrenheit 451, 1953


Più sport per ognuno, spirito di gruppo, divertimento, svago, distrazioni, e tu così non pensi, no? Organizzare, riorganizzare, superorganizzare super-super-sport! Più vignette umoristiche, più fumetti nei libri! Più illustrazioni, ovunque! LA GENTE ASSIMILA SEMPRE MENO. TUTTI SONO SEMPRE PIÙ IMPAZIENTI, PIÙ AGITATI E IRREQUIETI. Le autostrade e le altre strade d'ogni genere sono affollate di gente che va un po' da per tutto, ovunque, ed è come se non andasse in nessun posto. I profughi della benzina, gli erranti del motore a scoppio ...
Ray Bradbury, Fahrenheit 451, 1953


Alle volte se ne stavano seduti sulla veranda, tutta la famiglia a pensare a tante cose, a sviscerare le cose.
Lo zio dice che gli architetti si sono liberati delle verande, perché le verande non erano estetiche.
Ma lo zio dice che questo è un voler razionalizzare il fatto.
La vera ragione, nascosta sotto, mascherata, era, forse che non si voleva la gente seduta sotto le sue verande, così in pace, senza far niente, a dondolarsi, a chiacchierare: perché quello era il genere di vita collettiva non desiderata.
In quelle condizioni la gente parlava troppo; aveva il tempo di pensare, e così sè fatta la festa alle verande.
E anche ai giardinetti davanti ad ogni casa.
Non ci sono più panchine, non ci sono più giardini, dove sedere a perdere il tempo.
Ray Bradbury, Fahrenheit 451, 1953


Ognuno deve lasciarsi qualche cosa dietro quando muore, diceva sempre mio nonno:
un bimbo o un libro o un quadro o una casa o un muro eretto con le proprie mani o un paio di scarpe cucite da noi. O un giardino piantato col nostro sudore. Qualche cosa insomma che la nostra mano abbia toccato in modo che la nostra anima abbia dove andare quando moriamo, e quando la gente guarderà l'albero o il fiore che abbiamo piantato, noi saremo là. Non ha importanza quello che si fa, diceva mio nonno, purché si cambi qualche cosa da ciò che era prima in qualcos'altro che porti poi la nostra impronta. La differenza tra l'uomo che si limita a tosare un prato e un vero giardiniere sta nel tocco, diceva. Quello che sega il fieno poteva anche non esserci stato, su quel prato; ma il vero giardiniere vi resterà per tutta una vita.
Ray Bradbury, Fahrenheit 451, 1953


Un libro è una pistola carica nella casa accanto.
Chi sa quale può essere l'obiettivo dell'uomo che ha letto molto?
Ray Bradbury, Fahrenheit 451, 1953


Ci deve essere qualcosa di speciale nei libri, delle cose che non possiamo immaginare, per convincere una donna a restare in una casa che brucia. È evidente!
Ray Bradbury, Fahrenheit 451, 1953


Capite ora perché i libri sono odiati e temuti? Perché rivelano i pori sulla faccia della vita.
La gente comoda vuole soltanto facce di luna piena, di cera, facce senza pori, senza peli, inespressive.
Ray Bradbury, Fahrenheit 451, 1953


A tutti noi, almeno una volta nella carriera, viene la smania di sapere cosa c'è in questi libri, ci viene come una smania... Dai retta a me Montague, i libri non hanno niente da dire. Guarda, queste sono opere di fantasia, e parlano di gente che non è mai esistita. I pazzi che li leggono diventano insoddisfatti, cominciano a desiderare di vivere in modi diversi, il che non è mai possibile!
François Truffaut - Fahrenheit 451 (1966), dall'omonimo romanzo di Ray Bradbury


Non possiamo dire in quale preciso momento nasca l'amicizia.
Come nel riempire una caraffa a goccia a goccia, 
c'è finalmente una stilla che la fa traboccare, 
così in una sequela di atti gentili ce n'è uno che fa traboccare il cuore.
Ray Bradbury, Fahrenheit 451, 1953

"(...) E quando ci domanderanno cosa stiamo facendo, tu potrai rispodere loro: noi ricordiamo.
Ecco dove alla lunga avremo vinto noi. E verrà il giorno in cui saremo in grado di ricordare una tal quantità di cose che potremo costruire la più grande scavatrice meccanica della storia e scavare, in tal modo, la più grande fossa di tutti i tempi, nella quale sotterrare la guerra. (...)"
Ray Bradbury, Fahrenheit 451, 1953


C'era un buffissimo uccello, chiamato Fenice, nel più remoto passato, prima di Cristo, e questo uccello ogni quattro o cinquecento anni si costruiva una pira e ci si immolava sopra. Ma ogni volta che vi si bruciava, rinasceva subito poi dalle sue stesse ceneri, per ricominciare. E a quanto sembra, noi esseri umani non sappiamo fare altro che la stessa cosa, infinite volte, ma abbiamo una cosa che la Fenice non ebbe mai. Sappiamo la colossale sciocchezza che abbiamo appena fatta, conosciamo bene tutte le innumerevoli assurdità commesse in migliaia di anni e finché sapremo di averle commesse e ci sforzeremo di saperlo, un giorno o l'altro la smetteremo di accendere i nostri fetenti roghi e di saltarci sopra. Ad ogni generazione, raccogliamo un numero sempre maggiore di gente che si ricorda.
Ray Bradbury, Fahrenheit 451, 1953


E ficcati bene in capo una cosa: tu non sei importante.Tu non sei nulla.
Un giorno, il fardello che ognuno di noi deve portare può riuscire utile a qualcuno.
Ma anche quando avevamo i libri a nostra disposizione, molto tempo fa, non abbiamo saputo trarre profitto da ciò che essi ci davano. Abbiamo continuato come se niente fosse ad insultare i morti. Abbiamo continuato a sputare sulle tombe di tutti i poveri morti prima di noi. Conosceremo una grande quantità di persone sole e dolenti, nei prossimi giorni, nei mesi e negli anni a venire. E quando ci domanderanno che cosa stiamo facendo, tu potrai rispondere loro : Ricordiamo. Ecco dove alla lunga avremo vinto noi. E verrà il giorno in cui saremo ingrado di ricordare una tale quantità di cose che potremo costruire la più grande scavatrice meccanica della storia e scavare, in tal modo la più grande fossa di tutti i tempi, nella quale sotterrare la guerra.
Ray Bradbury, Fahrenheit 451, 1953


Se nascondi la tua ignoranza, nessuno ti darà una bastonata, ma tu non imparerai mai.
Ray Bradbury, Fahrenheit 451, 1953







I robot: sessuati ma privi di sessualità, battezzati ma senza nome.
Con ogni particolare preso a prestito dall'umanità meno l'umanità stessa,
i robot fissavano i coperchi inchiodati delle casse con la scritta
"Franco di porto" in una morte che non era nemmeno morte,
perché non c'era mai stata la vita.
Ray Bradbury, Cronache Marziane, 1950


La vita sulla Terra non si è mai composta in qualcosa di veramente onesto e nobile.
La scienza è corsa troppo innanzi agli uomini, e troppo presto, e gli uomini si sono smarriti in un deserto meccanizzato, come bambini che si passino di mano in mano congegni preziosi, che si balocchino con elicotteri e astronavi a razzo; dando rilievo agli aspetti meno degni, dando valore alle macchine anzi che al modo di servirsi delle macchine. Le guerre, sempre più gigantesche, hanno finito per assassinare la Terra.
… Ecco perché noi siamo fuggiti.
Ray Bradbury, Cronache Marziane, 1950

Erano ingenui soltanto se conveniva esserlo. Smisero di cercare di distruggere tutto, di umiliare tutto. Fusero religione, arte e scienza, perché alla base, la scienza non è che la spiegazione di un miracolo che non riusciamo mai a spiegare e l'arte è un'interpretazione di quel miracolo.
Ray Bradbury, Cronache Marziane, 1950


Noi terrestri abbiamo il genio di rovinare le cose grandi e belle.
La sola ragione per cui non abbiamo messo delle bancarelle di hot dog nell'antico tempio egizio di Karnak è perché si trova fuori mano e commercialmente non serve a nulla.
E l'Egitto è una piccola parte della Terra.
Ray Bradbury, Cronache Marziane, 1950


Troppe emozioni. Sono istupidito, sono stanchissimo.
Come se fossi rimasto sotto la pioggia senza ombrello per quarant'ore,
senza ombrello e senza cappotto. Sono inzuppato di emozioni fino alle ossa.
Ray Bradbury, Cronache Marziane, 1950


Il mio cuore batte, il mio stomaco ha fame, la mia bocca ha sete.
No, né morti né vivi, tu e io. Più vivi di ogni altra cosa. Ma presi in mezzo, direi.
Due sconosciuti che si sfiorano nelle tenebre della notte, ecco che cosa siamo.
Due sconosciuti in cammino.
Ray Bradbury, Cronache Marziane, 1950

Non è logico che gli uomini debbano accettare un Dio,
vero o non vero che sia, con una pelle di colore diverso dalla loro.
Ray Bradbury, Cronache Marziane, 1950




http://youtu.be/d160eWmOrRc



http://youtu.be/976u_C5XnCc



https://youtu.be/TMDFGcBjE0I




Ray Bradbury: la sua vita, i suoi libri e le sue letture nell'intervista più bella.
Con la scomparsa di Ray Bradbury se ne va forse l'ultimo grande rappresentante della Science Fiction americana.
La SF è un genere che ha conosciuto grande fortuna a cavallo fra gli anni cinquanta e sessanta grazie alla sua capacità di immaginare quel che saremmo potuti diventare, e che in seguito all'avvento dei personal computer ha invece segnato il passo, rivelandosi tutto sommato inadeguato a dar conto della complessità delle trasformazioni che investivano il nostro tempo. 
Ma prima di esaurire il suo formidabile abbrivio, la fantascienza ha fatto in tempo a regalarci alcuni momenti di grande letteratura - grande letteratura tout court, adatta anche a coloro che ritengono le pastoie di un singolo genere troppo strette - e nel firmamento di questi scrittori la stella di Ray Bradbury continua a emanare la sua luce polare, grazie ad intuizioni folgoranti come sono quelle all'origine di Farenheit 451 o delle Cronache Marziane.
Vogliamo ricordare Bradbury attraverso le parole che lui stesso ha scelto per raccontarsi. 
Credendo di fare cosa gradita a tutti i numerosissimi lettori di Bradbury, pubblichiamo dunque la traduzione di alcune parti di un'intervista che il grande scrittore di fantascienza concesse al National Endowment for the Arts nel 2010, 

Ray Bradbury:
Immagino vi stiate chiedendo perché vi ho riuniti tutti, stasera. 
Devo presentarmi. Beh, io sono ray Bradbury. Ma vedo che siete tutti curiosi di sapere come mi sono innamorato dei libri. 

Ora, prendete nota: l’amore è al centro della vostra vita. 
Le cose che fate dovrebbero essere le cose che amate, 
e le cose che amate dovrebbero essere ciò che fate. 
Ecco quel che si impara dai libri.
Ho cominciato a leggere quando avevo tre anni. Mi piacevano i fumetti, amavo le strisce domenicali, e ho avuto in regalo un libro di racconti di fate quando avevo cinque anni. 
Mi sono innamorato di storie come “La bella e la bestia” o “Jack e la pianta di fagiolo”. 

Quando avevo tre anni mi portarono per la prima volta al cinema, e mi appassionai moltissimo alle immagini in movimento: era “Il gobbo di Notre Dame”, e io crebbi nella speranza di diventare un giorno come Quasimodo. 
A cinque anni fu il turno de “Il fantasma del palcoscenico”, con Lon Chaney, e m’infatuai di Lon Chaney. Più tardi – verso i sei anni - scoprii i dinosauri, che sarebbero tornati a farsi vivi più tardi, nel mio lavoro alla sceneggiatura di “Moby Dick”, quando di anni ne avevo ormai trenta.
Ecco: vedete come funziona questo genere di cose? Un racconto nel quale vi imbattete quando avete 3, 6, 10 o 12 anni riemerge nel vostro lavoro quando siete trentenni. 

Avevo sette anni quando andai alla bilioteca per la prima volta. Fu una grande avventura.
Ma prima ancora, quando di anni ne avevo sei, viaggiai dall’Illinois a Tucson, in Arizona.
Siccome viaggiavo con i miei genitori, la prima cosa che feci la sera in cui scendemmo dalla macchina per fermarci a dormire in un hotel sulla strada, fu di andare alla biblioteca. 
Andai, correndo in mezzo a un turbine di foglie secche, fino alla biblioteca. Speravo di trovarvi libri di L.Frank Baum sulla terra di Oz, o libri di Edgar Rice Burroughs su Tarzan, o qualche libro sulla magia. Aprii la porta, e tutta quella gente era dentro ad aspettare me. 

Vedete, le biblioteche e le librerie non sono fatte da libri: sono fatte da persone. 
Migliaia di persone, che aspettano solo che tu entri in biblioteca
È molto più personale che un semplice libro. Tu apri il libro, e le persone saltano fuori. 
Tu guardi Charles Dickens, e tu sei Charles Dickens, e lui è te. 
Perciò, ti dirigi verso uno scaffale, e tiri fuori un libro, e guardi dentro quel libro, e cosa vedi?
Uno specchio. Tutt'ad un tratto uno specchio è lì, tu ti ci vedi riflesso, ma il tuo nome è Charles Dickens. Ecco quel che è una libreria, o una biblioteca.
Oppure il libro è di Shakespeare, e tu diventi Shakespeare, o Emily Dickinson o Robert Frost, 
questi grandi poeti. 

Così trovi le luci che possono guidarti attraverso il buio, e io l’ho trovata in Shakespeare, che mi ha mostrato la via, e in Emily Dickinson, che ha portato la fiaccola. Edgar Allan Poe, che ha detto “da questa parte. Ecco la luce”.
Entri in una biblioteca, e scopri te stesso.

La mia più grande influenza è John Steinbeck
Ho letto “Furore” quando avevo diciannove anni. Quando scrissi le “Cronache marziane” avevo bisogno di una struttura, e non avevo visto, in un primo momento, di quanto mi fossi avvalso di “Furore”. “Cronache marziane” ha una struttura identica a quella di “Furore”.
Da solo, a casa, quando avevo dodici anni, alzavo gli occhi al cielo e pregavo 
“Marte, vienimi a prendere e portami a casa”. 
Marte venne a prendermi, e non ho più fatto ritorno, da allora.

Quando finii il liceo, non avevamo soldi, e non potei andare al College. 
Ma andavo in biblioteca. La biblioteca può realizzarti come persona
Avevo un lavoro. Vendevo quotidiani agli angoli delle strade, e guadagnavo dieci dollari la settimana. Ogni mattina mi svegliavo e scrivevo storie, e nel pomeriggio andavo alla biblioteca.

A quell’età, a diciannove anni, riuscii ad esprimermi sugli amori della mia vita, 
e tutto questo finì nei libri. È il segreto della mia vita.
Grazie a Dio ho seguito le mie inclinazioni, e non ho fatto quel che gli altri mi dicevano di fare.

Sono le tue idee a contare, e quando sei in mezzo ai libri di tutti quei meravigliosi insegnanti, di quei grandi scrittori, scopri che possono insegnarti un sacco di cose mentre stai seduto in biblioteca e lasci che la loro maestria si irradi tutt’attorno a te.

Pubblicai la prima versione di Farenheit 451, intitolata “Il pompiere”, 
nel numero di febbraio 1951 di una rivista di fantascienza. 
Contava 25000 parole. 
Mi chiamarono da Ballantine (nota casa editrice - Ndr) dicendomi “Potrebbe provare ad allungare il racconto di altre 25000 parole? Se è in grado di farlo, pubblicheremo il suo romanzo, e lei dovrà trovare un titolo per questo romanzo. 'Il pompiere' non è il titolo giusto”. Divenni curioso: a quale temperatura la carta prende fuoco e brucia? Così chiamai il dipartimento di chimica all’UCLA e chiesi, ma loro non sapevano rispondere. “Ci spiace. Provi a chiamare i pompieri". E io lo feci: chiamai il capo dei pompieri del dipartimento centrale di Los Angeles e dissi "Potrebbe dirmi a quale temperatura la carta prende fuoco e brucia?" Lui mi rispose “Aspetti, torno subito”. Tornò poco dopo, e mi disse “La carta prende fuoco e brucia a 451 gradi farenheit”. “Ottimo”, pensai. “Così devo invertire i fattori. Il libro deve chiamarsi Farenheit 451”.

Il libro più importante della mia vita è stato "Canto di natale" di Charles Dickens, perché è tutto quel che c’è da sapere sulla vita e sulla morte. Leggi quel libro, e ne sei trasfigurato, proprio come Ebenezer Scrooge. Qualsiasi residuo di Scrooge sia dentro di te, è vinto, è sconfitto. 

Un altro libro impotrantissimo è “Tenera è la notte” di Scott Fitzgerald. 
Ho sette copie di questo libro. Pensate: sono stato a Parigi venti volte. Ogni volta che vado a Parigi porto con me questo libro. Comincio a leggerlo alla Tour Eiffel, poi m’incammino per le vie della città, dall’alba al tramonto; mi fermo in un ristorante e leggo un altro capitolo di questo libro straordinario scritto da Fitzgerald, e prima della fine della giornata ho finito di leggerlo.

Ho trovato l’amore della mia vita fra i libri di una libreria. 
Incontrai una bella ragazza, e la invitai a prendere un caffè, e poi a cena, e m’innamorai di lei e dei libri che la circondavano. 
Lei fece un voto di povertà, un anno più tardi, sposandomi, perché le mie entrate erano nulle. 
Era ricca, e rinunciò a tutto per seguire me e vivere a Venice, senza automobile, senza telefono...
Vivevamo d’amore, dei libri e delle cose che scrivevo. 

Ecco la risposta alle domande della vita: 
se puoi trovare una persona da amare, che ami la vita quanto te, 
e ami i libri quanto te, beh, non lasciartela scappare e sposala. 
Mica male, no? 
Ah! la vita è meravigliosa.

L’immaginazione dovrebbe stare al centro della tua vita. 
La fantasia dovrebbe stare al centro della tua vita. 

Un epitaffio possibile: 
Qui riposa Ray Bradbury, che ha amato la vita completamente.

http://www.wuz.it/intervista-libro/7033/Intervista-Ray-Bradbury.html




"La sirena",  un racconto di Ray Bradbury.
Là fuori, nell'acqua fredda, lontano dalla terra, aspettavamo tutte le sere l'arrivo della nebbia, e la nebbia arrivava, e noi alimentavamo il meccanismo d'ottone accendendo il faro antinebbia nella torre di pietra.
Sentendoci come due uccelli nel cielo grigio, il signor McDunn e io mandavamo la luce a scrutare il buio esterno, rossa, poi bianca, poi di nuovo rossa, alla ricerca delle navi.
E se le navi non vedevano la nostra luce, c'era sempre la nostra voce, il grande urlo profondo della nostra sirena per la nebbia che vibrava fra gli stracci di foschia, facendo fuggire spaventati i gabbiani, simili a un mazzo di carte sparpagliate, e ribollire le onde alte e schiumose.
"È una vita solitaria, ma ormai ci sei abituato, vero?" chiese McDunn.
"Sì" risposi, "Lei è un gran parlatore, grazie al cielo."
"Beh, domani tocca a te andare a terra" disse lui sorridendo.
"Tocca a te far ballare le signore e bere gin."
"A che cosa pensa, McDunn, quando la lascio qui solo?"
"Ai misteri del mare."
McDunn accese la pipa.
Erano le sette e un quarto di una fredda sera di novembre, il riscaldamento era acceso, il faro sciabolava in duecento direzioni, la sirena per la nebbia riecheggiava nell'alta gola della torre. Lungo la costa non c'erano città per almeno centocinquanta chilometri; c'erano solo una strada che arrivava solitaria fino al mare attraverso la campagna morta, percorsa da poche macchine, una lingua di tre chilometri di acqua fredda fino alla nostra roccia, e poche navi.
"I misteri del mare" disse McDunn, pensieroso.
"Sai che l'oceano è il più grande fiocco di neve mai esistito? Rotola e si gonfia in mille forme e mille colori, uno diverso dall'altro. Strano. Una sera, anni fa, ero qui solo, quando tutti i pesci del mare sono venuti alla superficie, laggiù. Qualcosa li aveva spinti a nuotare fin qui e a restare nella baia, a tremare e a fissare la luce del faro che si faceva rossa, bianca, rossa, bianca davanti a loro, e così io riuscivo a vedere i loro strani occhi. Ero raggelato. Erano come una grande coda di pavone che si muoveva là, fino a mezzanotte. Poi, senza un fiato, scivolarono via, e il milione che erano scomparve. Mi viene fatto di pensare che forse, in qualche strano modo, vennero per tutte quelle miglia per pregare. Strano. Ma immagina come deve apparire la torre ai pesci, alta più di venti metri sull'acqua, con il Faro-di-Dio che brilla, e la torre che parla con la sua voce possente. Non sono più tornati, quei pesci, ma non credi che per un po' possano aver pensato di essere alla presenza di Dio?"
Rabbrividii.
Guardai il lungo prato grigio del mare che si stendeva in lontananza, perdendosi nel nulla.
"Oh, il mare è pieno."
McDunn sbuffò nervosamente il fumo della pipa, battendo gli occhi.
Era stato nervoso per tutto il giorno, ma senza spiegare il perché.
"Malgrado tutte le nostre diavolerie e i cosiddetti sommergibili, passeranno diecimila secoli prima che metteremo piede sui veri fondali delle terre sommerse, nel regno magico che c'è là sotto, e che conosceremo il vero terrore. Pensa, laggiù è ancora l'anno 300.000 prima di Cristo. Mentre noi ce ne andavamo in parata con le nostre trombe, aggredendoci fra noi e uccidendoci, loro hanno vissuto nel mare a dodici miglia di profondità, al freddo, per un tempo antico come la coda di una cometa."
"Sì, è un mondo molto vecchio."
"Vieni. Ho una cosa speciale che mi riservavo di dirti."
Salimmo gli ottanta gradini, chiacchierando e prendendocela calma.
In cima, McDunn spense la luce nella stanza, in modo che non ci fossero riflessi sulla vetrata.
Il grande occhio del faro ronzava, girando dolcemente nella sua occhiaia ben lubrificata.
Il faro per la nebbia ululava regolare, ogni quindici secondi.
"Sembra una bestia, vero?"
McDunn annuì a se stesso.
"Una grossa bestia sola che piange nella notte. Seduta qui, al bordo di dieci miliardi di anni, a chiamare le Profondità per dire sono qui, sono qui, sono qui. E le Profondità  rispondono. Sì, certo, rispondono. Sei arrivato tre mesi fa, Johnny, e ormai è ora che io ti prepari. In quest'epoca dell'anno", continuò McDunn, studiando il buio e la nebbia "viene qualcosa a far visita al faro."
"Il branco di pesci di cui parlava?"
"No, qualcosa di diverso. Non te ne ho parlato prima perché potevi pensare che fossi pazzo. Ma ora non posso rimandare oltre, perché se il mio calendario ha tenuto bene il conto dall'anno scorso, è stasera che verrà. Non scenderò in particolari, devi vederlo da solo. Sta' seduto qui. Se vuoi, domani puoi fare le valigie, prendere il motoscafo, raggiungere la terraferma, salire sulla macchina che tieni al molo, sul capo, andartene in qualche cittadina della terraferma e tenere la luce accesa per tutte le notti a venire. Non ti farò domande, né ti biasimerò. È accaduto per tre anni, e questa è l'unica volta che c'è qualcuno con me per verificarlo. Aspetta e vedrai."
Passò mezz'ora, e fra noi vi fu solo qualche bisbiglio.
Quando cominciammo a stancarci di aspettare, McDunn cominciò col descrivermi alcune sue idee.
Aveva delle teorie sulla sirena per la nebbia.
"Un giorno di molti anni fa arrivò un uomo che si fermò al suono dell'oceano su una fredda spiaggia senza sole e disse: "Abbiamo bisogno di una voce che gridi sull'acqua, per avvertire le navi. Ne farò una. Farò una voce come tutto il tempo e come tutta la nebbia che siano mai esistiti. Farò una voce che sia come un letto vuoto accanto agli uomini per tutta la notte, e come una casa deserta quando si apre la porta, e come gli alberi in autunno, privi di foglie. Un suono come di uccelli che volano verso sud, come un urlo, e un rumore come il vento di novembre e il mare sulla dura spiaggia fredda. Farò un suono unico al mondo, tanto che non possa sfuggire a nessuno, che chiunque lo senta non possa lasciarselo sfuggire dall'anima, e i cuori si sentiranno più caldi, ed esserci dentro sarà meglio che sentirlo dalle lontane città. Farò un suono e un meccanismo, e verranno chiamati sirena per la nebbia, e chiunque la sentirà, conoscerà la tristezza dell'eternità e la brevità della vita".
La sirena per la nebbia urlò.
"Ho inventato questa storia", disse piano McDunn, "per cercare di spiegare perché questa cosa continua a tornare al faro tutti gli anni. La sirena per la nebbia la chiama, penso, e lei viene...".
"Ma...", cominciai.
"Stttt!", disse McDunn.
"La!", fece un cenno verso le Profondità.
Qualcosa nuotava verso la torre del faro.
Come ho detto, era una notte fredda.
L'alta torre era fredda, con la sua luce che andava e veniva, e la sirena per la nebbia che continuava a ululare attraverso la foschia che si addensava.
Lo sguardo non si spingeva lontano né si poteva vedere chiaramente, ma laggiù c'era il mare profondo che si muoveva sulla terra notturna, piatto e tranquillo, color fango grigio, e c'eravamo noi due, soli nell'alta torre.
Là, dapprima lontano, c'era un'increspatura, seguita da un'onda, da un ribollio, da un po' di schiuma.
E poi, dalla superficie del mare sbucò una testa, una grossa testa scura, con occhi immensi, e poi un collo.
E poi... non un corpo... ma ancora collo e ancora!
La testa si alzò più di dieci metri sull'acqua, sostenuta da un bel collo snello e scuro.
Solo allora, sgocciolò fuori il corpo, simile a una piccola isola di corallo nero e conchiglie e crostacei.
Vi fu un batter di coda.
In tutto, dalla testa alla punta della coda, calcolai che il mostro doveva misurare una trentina di metri.
Non so che cosa dissi.
Dissi qualcosa.
"Buono, ragazzo, buono", sussurrò McDunn.
"È impossibile!", esclamai.
"No, Johnny, noi siamo impossibili. Lui è com'era dieci milioni di anni fa. Non è cambiato. Siamo noi e la terra a essere cambiati, a essere diventati impossibili. Noi!"
L'animale nuotò lentamente, e con grande, oscura maestosità, si allontanò nell'acqua gelida.
La nebbia scese ad avvolgerlo, cancellando momentaneamente la sua forma.
Uno degli occhi del mostro colse, trattenne e rifranse la nostra grande luce, rossa, bianca, rossa, bianca, come un disco tenuto in alto, che mandasse un messaggio in un codice primordiale.
Era silenzioso come la nebbia attraverso la quale nuotava.
"È una specie di dinosauro!"
Mi accoccolai, stringendo la ringhiera delle scale.
"Sì, uno della tribù."
"Ma sono estinti!"
"No, si sono semplicemente nascosti nelle Profondità. Giù, giù, giù nel più profondo delle Profondità. È una vera parola, Johnny, una parola che dice molto, molto: le Profondità. C'è tutto il freddo, tutta l'oscurità, tutta la vastità del mondo, in una parola come questa."
"Che facciamo?"
"Che facciamo? Abbiamo il nostro lavoro, non possiamo andarcene. E poi, qui siamo più al sicuro che a bordo di qualunque barca nel tentativo di arrivare a terra. Quell'animale è grande come un cacciatorpediniere, e altrettanto veloce."
"Ma qui, perché viene qui?"
L'attimo dopo ebbi la risposta.
La sirena per la nebbia ululò.
E il mostro rispose.
Un urlo arrivò attraverso milioni d'anni d'acqua e di nebbia.
Un urlo così solitario e disperato che mi riverberò nel cuore e nel cervello.
Il mostro urlò verso la torre.
La sirena per la nebbia ululò.
Il mostro ruggì di nuovo.
La sirena per la nebbia ululò.
Il mostro aprì la grande bocca piena di denti, e il suono che ne uscì fu lo stesso suono della sirena per la nebbia.
Solo, vasto e lontano.
Il suono dell'isolamento, di un mare cieco, di una notte fredda, della distanza.
Questo fu il suono.
"Ora", sussurrò McDunn, "hai capito perché viene qui?"
Annuii.
"Per tutto l'anno, Johnny, quel povero mostro resta là fuori, in mare, a un migliaio di miglia di distanza e forse a venti miglia di profondità, ad aspettare il momento. Magari quella creatura ha un milione d'anni. Pensa, aspettare un milione d'anni. Tu sapresti aspettare tanto? Forse è l'ultimo della sua specie. Sì, penso proprio che sia così. Comunque, sulla terra arrivano degli uomini che costruiscono questa torre, cinque anni fa. E mettono in azione la sirena per la nebbia, facendola ululare e ululare verso il punto dove tu sei sepolto nel sonno e nei ricordi marini di un mondo in cui esistevano migliaia di esseri come te; ma ora sei solo, solo in un mondo che non è fatto per te, un mondo in cui devi nasconderti. Il suono della sirena per la nebbia va e viene, va e viene, e tu ti muovi dai fondali fangosi delle Profondità, e i tuoi occhi si aprono come l'obiettivo di una macchina fotografica e tu ti muovi, lento, lento, perché hai l'oceano sulle spalle, che ti pesa. Ma quella sirena per la nebbia arriva attraverso un migliaio di miglia d'acqua, debole e familiare, e la fornace nel tuo ventre si accende, e tu cominci ad alzarti, piano, piano. Ti nutrì di grandi branchi di merluzzi e di avannotti, di mille e mille meduse, e ti alzi attraverso i mesi autunnali, attraverso settembre, quando comincia la nebbia, attraverso ottobre con altra nebbia e la sirena che continua a chiamarti, e poi, verso la fine di novembre, dopo esserti pressurizzato giorno per giorno, qualche metro in più ogni ora, sei vicino alla superficie e ancora vivo. Devi muoverti lentamente. Se emergi all'improvviso, esplodi. E così ti ci vogliono tre mesi interi per emergere, e poi un certo numero di giorni per nuotare nell'acqua fredda fino al faro. Ed eccoti là, là fuori, nella notte, Johnny, il più grosso maledetto mostro del creato. E qui c'è il faro che ti chiama, con un collo lungo come il tuo che si innalza sull'acqua, e un corpo come il tuo corpo e, ancor più importante, una voce come la tua voce. Capisci, ora, Johnny, capisci?"
La sirena per la nebbia ululò.
Il mostro rispose.
Vidi tutto, capii tutto... i milioni di anni d'attesa solitaria, attesa che qualcuno tornasse e non tornava mai.
I milioni d'anni d'isolamento in fondo al mare, la follia del tempo laggiù, mentre i cieli si ripulivano degli uccelli-rettile, le paludi si prosciugavano sulle terre dei continenti, i bradipi si estinguevano e finivano i loro giorni nei pozzi di catrame, e gli uomini correvano come formiche bianche sulle colline.
La sirena per la nebbia ululò.
"L'anno scorso", disse McDunn, "quella creatura ha nuotato in giro e in giro, continuamente, per tutta la notte. Senza venire troppo vicino. Perplessa, direi. Spaventata, forse. E un po' arrabbiata, dopo essere venuta da tanto lontano. Ma il giorno dopo, inaspettatamente, la nebbia si è alzata, è uscito il sole, e il cielo era azzurro come in un quadro. E il mostro si è allontanato dal caldo e dal silenzio, e non è tornato. Secondo me, ci ha meditato sopra per un anno, studiando la cosa da tutti i lati."
Il mostro era lontano solo un centinaio di metri, ora, e la sirena per la nebbia e il mostro urlavano fra loro.
Quando furono colpiti dalla luce, gli occhi del mostro si trasformarono in fuoco e ghiaccio, fuoco e ghiaccio.
"Così è la vita", disse McDunn.
"Qualcuno aspetta sempre qualcuno che non torna mai. Qualcuno che ama sempre qualcosa più di quanto questo qualcosa ami lui. E dopo un po' hai voglia di distruggere questa cosa, qualunque essa sia, in modo che non ti faccia più soffrire."
Il mostro correva verso il faro.
La sirena per la nebbia ululò.
"Vediamo che cosa succede", disse McDunn.
Spense la sirena per la nebbia.
Il minuto di silenzio che seguì fu così intenso che potevamo sentire il battito dei nostri cuori, nella zona della torre racchiusa dalle vetrate, e potevamo sentire il lento fruscio lubrificato del faro che girava.
Il mostro si fermò, come pietrificato.
I suoi grandi occhi simili a lanterne batterono.
La bocca si aprì, emettendo una sorta di brontolio, come un vulcano.
Il mostro girò la testa da questa e da quella parte, come per cercare il rumore che ora si era perso lontano, nella nebbia.
Fissò il faro.
Brontolò di nuovo.
I suoi occhi presero fuoco.
Indietreggiò, battendo l'acqua, poi avanzò verso la torre, gli occhi pieni di irato tormento.
"McDunn!", gridai, "Accenda la sirena!"
McDunn cercò a tastoni l'interruttore.
Ma quando accese la sirena, il mostro si stava scagliando in avanti.
Ebbi una visione veloce delle sue zampe gigantesche, della pelle squamosa che scintillava come una ragnatela fra le proiezioni simili a dita.
Le zampe afferrarono la torre.
L'enorme occhio della parte destra della testa brillò davanti a me come un calderone nel quale potevo cadere, urlando.
La torre tremò.
La sirena per la nebbia ululò.
Il mostro ululò.
Strinse la torre e fracassò i vetri, che ricaddero su di noi.
McDunn mi afferrò per un braccio.
"Scendiamo!"
La torre ondeggiò, tremò e cominciò a cedere.
La sirena per la nebbia e il mostro urlarono.
Inciampammo e per poco non cademmo giù per le scale.
"Svelto!"
Raggiungemmo il fondo proprio mentre la torre si piegava su di noi.
Sfrecciammo sotto le scale e ci rifugiammo nella piccola cantina di pietra.
Vi furono migliaia di sussulti, mentre le pietre cadevano.
La sirena per la nebbia s'interruppe bruscamente.
Il mostro crollò sulla torre.
La torre cadde.
In ginocchio, vicini, McDunn e io ci abbracciammo stretti, mentre il nostro mondo esplodeva.
Poi finì, e rimase solo il buio e lo sciabordio del mare sulle pietre nude.
Questo, e l'altro rumore.
"Ascolta", disse piano McDunn, "Ascolta."
Aspettammo un momento.
Poi cominciai a sentire.
Prima, un risucchio d'aria, e poi il lamento, la sorpresa, la solitudine del grande mostro, ripiegato sopra di noi, in alto, così che il pauroso tremito del suo corpo riempiva l'aria, uno spessore di pietra lontano dalla nostra cantina.
Il mostro sospirò, urlò.
La torre era scomparsa.
Il faro era scomparso.
La cosa che l'aveva chiamato attraverso milioni di anni era scomparsa.
E il mostro apriva la bocca ed emetteva grandi suoni.
I suoni di una sirena per la nebbia, ancora e ancora.
E le navi lontane, in mare, non trovando il faro, non vedendo niente, ma passando e ascoltando nel cuore di quella notte, dovettero pensare: eccolo il suono solitario, la sirena della Baia della Solitudine.
Tutto bene.
Abbiamo doppiato il capo.
E continuò così per il resto della notte.
Il pomeriggio seguente, il sole era giallo e caldo quando arrivarono i soccorsi a tirarci fuori dalla cantina di pietra.
"È crollato, ecco tutto", disse McDunn con voce grave.
"Abbiamo subito l'assalto delle ondate, ed è crollato."
Mi pizzicò il braccio.
Non c'era niente da vedere.
L'oceano era calmo, il cielo azzurro.
L'unica cosa era il grande fetore di alghe proveniente dalla roba verde che copriva le pietre della torre caduta e i sassi della spiaggia.
Le mosche ronzavano da tutte le parti.
L'oceano si riversava vuoto sulla riva.
L'anno dopo costruirono un nuovo faro, ma ormai io avevo un lavoro in una cittadina, una moglie, e una casetta calda e accogliente che nelle sere d'autunno brillava giallastra, le porte chiuse, il camino che sbuffava fumo.
In quanto a McDunn, era il padrone del nuovo faro, costruito su sue istruzioni in cemento armato.
"Non si sa mai", disse.
Il nuovo faro fu pronto in novembre.
Andai là una sera tardi e posteggiai la macchina.
Rimasi ad ascoltare la nuova sirena che suonava oltre l'acqua grigia, una, due, tre, quattro volte, laggiù, da sola.
E il mostro?
Non tornò più.
"Se n'è andato", disse McDunn.
"E' tornato nelle Profondità. Ha imparato che a questo mondo non si può amare niente troppo a lungo. È sceso nel più profondo delle Profondità per aspettare un altro milione di anni. Ah, povera creatura! Aspettare là, e continuare ad aspettare, mentre l'uomo va e viene su questo piccolo pianeta miserevole. Aspettare e aspettare."
Rimasi seduto in macchina ad ascoltare.
Non riuscivo a vedere il faro, né la luce sulla Baia della Solitudine.
Sentivo solo la sirena, la sirena, la sirena.
Sembrava il richiamo del mostro.
Rimasi seduto a desiderare di trovare qualcosa da dire.





The Pedestrian, un racconto di Ray Bradbury.
La forza visionaria e premonitrice di Ray Bradbury dipinge, in un racconto pubblicato nel 1951 su “The Reporter”, la condizione del pedone in una ipotetica città nell’anno 2052. Non è necessario guardare al futuro: alcuni luoghi della città contemporanea già presentano i caratteri descritti dalla scrittore.

“Entrare in quel silenzio che era la città alle otto di un’opaca sera di novembre, sentire sotto le suole quei riquadri di cemento raggrinzito, calpestare l’erba cresciuta fra gli interstizi e aprirsi un varco, con le mani in tasca, in mezzo ai silenzi: era questo che il signor Leonard Mead amava fare sopra ogni altra cosa. Si fermava al primo crocicchio e scrutava i lunari corridoi dei marciapiedi nelle quattro direzioni, come se sceglierne una piuttosto che un’altra facesse qualche differenza. Poi, presa la decisione e stabilito l’itinerario, tornava ad avviarsi, spingendo davanti a sé, come fumo di sigaro, volute d’aria gelida.

A volte continuava a camminare per ore e ore, per miglia e miglia, e tornava a casa dopo mezzanotte. E lungo tutta la strada, lungo case e villini dalle finestre buie, era come camminare in un cimitero: con fiochi barlumi di lucciole che baluginavano di quando in quando dietro un vetro; con improvvisi fantasmi grigi che sembravano talvolta manifestarsi sui muri interni delle stanze, là dove una tenda non era stata tirata contro la notte; o con sussurri e mormorii che talvolta giungevano fino a lui, là dove una finestra, in uno dei tanti funerei edifici, era rimasta aperta.

Il signor Leonard Mead si fermava, piegava il capo, ascoltava, guardava, e si rimetteva in cammino. Il suo passo, sulle lastre di cemento incrinate e sconnesse, era perfettamente silenzioso; perché, saggiamente, già da molto tempo s’era deciso a portare scarpe con la suola di gomma, per le sue passeggiate notturne: altrimenti i cani avrebbero abbaiato parallelamente a tutto il suo viaggio, e luci si sarebbero accese di colpo, facce sarebbero apparse alle finestre, finché tutta la strada si sarebbe ridestata al passaggio di una figura solitaria, lui, in una sera di novembre.

Quella sera Leonard Mead si avviò verso la parte occidentale della città, verso il mare invisibile. C’era nell’aria il presagio cristallino del gelo; pungeva la pelle e, dentro, incendiava i polmoni come un albero di Natale; a ogni respiro, si sentiva la luce fredda accendersi e spegnersi, tutti i rami carichi d’invisibile neve. Rallegrato dai tonfi lievi delle scarpe sulle foglie d’autunno, Leonard Mead prese a fischiettare tra i denti un motivo sommesso, liscio, curvandosi ogni tanto a raccogliere una foglia, esaminando, ripresa la marcia, la sua trama scheletrica alla luce degli infrequenti lampioni, fiutandone l’odore rugginoso.

— Vi saluto, — sussurrava davanti a ogni casa, a destra e a sinistra. — Che c’è di bello stasera sul Quarto Canale, sul Settimo Canale, sul Nono Canale? Dove galoppano i cow boys? È forse la cavalleria degli Stati Uniti che viene alla riscossa, quella nube di polvere sull’altra collina?
La via era silenziosa e lunga e deserta, la sua ombra era l’unica cosa che si muovesse, come l’ombra di un falco sulla pianura. Se chiudeva gli occhi tenendosi perfettamente immobile, impietrito, riusciva a immaginarsi al centro di un’immensa distesa piatta, un arido deserto senza vento e senza una casa nel raggio di mille miglia, con l’unica compagnia di tortuosi fiumi disseccati: le strade.

— Che programma c’è a quest’ora? — chiese alle case, guardando l’orologio. — Le otto e mezzo. È l’ora di mezza dozzina di delitti assortiti? O dei quiz? O di un varietà musicale? O di una scenetta comica?
Era un mormorio di risate quello che usciva da una delle casette bianche di luna? Esitò un istante, ma poi riprese il cammino quando vide che nulla accadeva. Inciampò in un tratto di marciapiedi particolarmente sconnesso. Il cemento spariva, invaso dai fiori e dall’erba. In dieci anni di passeggiate, di giorno e di notte, per migliaia di chilometri, non gli era mai capitato di incontrare un altro essere umano che camminasse come lui per la città; nemmeno uno.

Giunse a un incrocio a quadrifoglio, imponente e silenzioso, dove due grandi arterie tagliavano la città. Durante il giorno un vortice assordante di veicoli lo trasformava in un immenso insetto frenetico, velato dai vapori degli scarichi, continuamente dissanguato, dilatato, e poi di nuovo congestionato, soffocato, dall’incessante fluire e defluire del traffico. Ma ora queste grandi strade erano anch’esse corsi d’acqua inariditi, null’altro che asfalto e pietra e chiaro di luna.
Imboccò una via laterale per tornare verso casa. Era ormai a un isolato dalla sua porta quando un’automobile solitaria girò di colpo l’angolo e lo centrò con un violento cono di luce. Al primo momento egli rimase immobile; poi, non diversamente da una falena accecata dal bagliore, si sentì attratto verso la fonte.

Una voce metallica suonò nel silenzio:
— Si fermi. Resti dov’è! Non si muova!
Si fermò.
— Mani in alto!
— Ma… — disse.
— Mani in alto! O spariamo!
La polizia, naturalmente. Ma era un caso rarissimo, quasi incredibile: in una città di 3 milioni di abitanti, era rimasta, se ricordava bene, un’unica auto della polizia. Già da un anno ormai, dal 2052, l’anno delle elezioni, le auto in dotazione della polizia erano state ridotte da tre a una sola. La delinquenza era quasi completamente scomparsa; non c’era più bisogno della polizia, quest’ultima auto solitaria che errava senza posa per le vie deserte era più che sufficiente.

— Nome e cognome, — disse l’auto della polizia in un ronzio metallico.
Non gli riuscì di vedere gli uomini dentro la macchina, accecato com’era dalla luce bianca.
— Leonard Mead, – rispose.
— Parli più forte!
— Leonard Mead!
— Impiego o occupazione?
— Diciamo, scrittore.
— Senza occupazione, — disse l’auto della polizia, come parlando tra sé. Il fascio di luce lo teneva inchiodato come un esemplare da museo, un insetto col corpo trapassato da uno spillo.
— Non avete torto, — disse Leonard Mead. Da anni aveva smesso di scrivere: Libri e riviste non si vendevano più. Tutto – pensò, tornando alle sue meditazioni d’ogni sera, – tutto ormai si svolgeva di sera, dentro quei sepolcri di case appena illuminati dal tenue riflesso dello schermo televisivo, in cui gli uomini, simili a defunti, sedevano davanti alle luci grigie o multicolori che sfioravano i loro volti ma senza mai toccarli dentro.

— Senza occupazione, — disse la voce di fonografo, sibilando.
— Perché è uscito di casa?
— Per camminare, — disse Leonard Mead.
— Camminare!
— Solo camminare, — disse con naturalezza, ma mentre un gelo gli saliva lungo la schiena.
— Camminare, solo camminare, camminare?
— Sissignore.
— Camminare dove? A che scopo?
— Camminare per prendere aria. Camminare per vedere.
— Il suo indirizzo, prego?
— Saint James Street, numero 11.
— E lei ha dell’aria, in casa sua, signor Mead? Ha un condizionatore d’aria?
— Sì.
— E ha uno schermo televisivo in casa? Uno schermo da guardare?
— No.
— No? — Vi fu un silenzio crepitante che era di per sé un’accusa.

— Lei è sposato, signor Mead?
— No.
— Celibe, — disse la voce della polizia dietro il raggio accecante.
La luna era alta e chiara fra le stelle e le case grigie e silenziose.
— Nessuno mi ha voluto, — disse Leonard Mead con un sorriso.
— Non parli se non è interrogato.
Leonard Mead rimase in attesa nella notte fredda.
— E uscito da solo, per camminare, signor Mead?
— Sì.
— Ma non ci ha detto per quale scopo.
— Ve l’ho detto: per prendere aria, per vedere, e per il piacere di camminare.
— Lo fa spesso?
— L’ho fatto per anni, tutte le sere.

L’auto della polizia era acquattata al centro della strada con la sua gola radiofonica che ronzava fiocamente.
— Bene, signor Mead, — disse.
— Non c’è altro? — chiese educatamente Mead.
— No, — disse la voce. — È tutto —. Vi fu uno scatto metallico e come un lungo sospiro.
Lo sportello posteriore della macchina della polizia si aprì lentamente. — Salga.
— Un momento, io non ho fatto niente!
— Salga.
— Io protesto. Non avete il diritto di…
— Signor Mead.
Leonard Mead avanzò rassegnato, vacillando appena, ma con le spalle improvvisamente curve. Mentre passava davanti al parabrezza guardò nell’interno dell’auto. Come si aspettava, non c’era nessuno seduto sul sedile anteriore; non c’era nessuno nella macchina.
— Salga.

Posò una mano sullo sportello e scrutò nel sedile posteriore, che era una piccola cella, una piccola prigione nera, con le sbarre. Odorava di acciaio. Odorava di pungente antisettico. Odorava di gelida pulizia, di duro metallo. Non c’era nulla di soffice là dentro.
— Se lei fosse sposato, e sua moglie potesse testimoniare, — disse la voce di ferro. — Ma così come stanno le cose…
— Dove mi portate?

La macchina esitò, o piuttosto emise un leggero, brevissimo ronzio, e uno scatto, come se un braccio meccanico, nel suo interno, chissà dove, facesse scorrere una serie di schede sotto un occhio elettrico. — Al Centro di Ricerca Psichiatrica sulle Tendenze Regressive.
Leonard Mead salì. Lo sportello si richiuse con un tonfo morbido. L’auto scivolò via tra i viali notturni, preceduta dai suoi fari fiochi.
Un istante dopo passarono davanti a una certa casa, in una certa via, l’unica casa in una città di case buie, che avesse tutte le sue luci accese, ogni finestra viva e rutilante, ogni rettangolo caldo e chiaro nel buio di novembre.
— Quella è casa mia, — disse Leonard Mead.
Nessuno gli rispose.
L’auto continuò la corsa lungo i fiumi inariditi, lasciandosi dietro strade deserte e deserti marciapiedi, dove non un suono, non un movimento turbavano più la fredda notte d’autunno.”







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