domenica 3 gennaio 2016

La conquista dell’Inghilterra pei Normanni

La conquista dell’Inghilterra pei Normanni, di A. THIERRY: versione di
F. CUSANI, fatta sulla quinta edizione. Milano, Pirotta. 3 vol.

L’impero britannico si stende oggidì per tutti quasi i mari del globo, occupa l’estremo boreale dell’America e l’estremo australe dell’Africa, domina le più doviziose regioni dell’Asia, tenta far breccia ad un tempo nell’Arabia, nella Persia, nella China, getta coi rifiuti del suo popolo le fondamenta d’una nuova Europa negli Antìpodi, riunisce con poderoso nodo la sesta parte del vivente genere umano. Quando si pensa come il nome di questo popolo, temuto in guerra, primeggi colle industrie della pace, colle opere dell’intelletto, e coll’orgoglio stesso dell’avita libertà, sembrano incredibili e mendaci le memorie di quel tempo non remoto, in cui giaceva in tanto abisso di debolezza, di miseria, d’ignoranza, di schiavitù, ch’era obbrobrio appellarsi inglese: opprobrium erat anglicus appellari: in cui l’uomo inglese, e perchè inglese, entrava nei contratti dello straniero alla rinfusa colle cose e coi bestiami, come scorta e veste della terra: terra vestita, idest agri cum domibus, hominibus et pecoribus: in cui l’anima da schiavo si riguardava come un natural distintivo di quella stirpe: jam quasi naturaliter servi... tamquam in naturam.
Eppure pochi secoli prima quegli Angli, quei Sàssoni, quei Dani, le cui discendenze formarono il popolo inglese, erano approdati a quell’isola coll’armi alla mano, diffondendo d’ogni parte lo spavento e la desolazione.  Quella strana vicenda dalla vittoria alla fuga, dall’intraprendenza all’inerzia, dalla gloria alla vergogna, che tocca alla loro volta a tutti i popoli, è la più ardua ricerca che possa instituirsi dalla Scienza Istorica, e lo studio più di tutti utile all’Arte Sociale. E infatti a che servirebbe profonder sangue e fatiche per ingrandire una nazione in guerra e in pace, se quegli sforzi che la conducono oggi al trionfo, le preparassero l’impotenza e l’ignominia dimani? 
Mentre vediamo nelle Isole Britanniche alcune stirpi conformarsi docilmente ad ogni evento, cangiar quasi natura in poche generazioni: altre ne vediamo, i cui costumi presenti discesero con inflessibile perpetuità dalle più remote epoche dell’Europa primitiva. Esse ebbero tanto genio da crearsi fin d’allora, e quasi di primo slancio, instituzioni, riti, tradizioni, poesie; ma come piante che non posso elevarsi oltre a certa misura, rimasero per secoli e secoli in quel primo ordine di cose, e non concorsero al grande e commune sviluppo del genere umano, se non quando vennero dalla violenza e dalla sventura trascinate sotto il volere e il dominio d’altre nazioni. Perlochè si direbbe che quella sanguinosa commistione di razze e di costumi, che noi chiamiamo conquista, sia necessaria a rompere le abitudini primamente invalse nei popoli; cosicché, sciolti da ogni vincolo colle barbare loro origini, possano con mente libera seguire gli impulsi della intelligenza, che traccia le vie del progresso e della civiltà. Sotto questo aspetto l’oppressione delle innocenti tribù primigenie, a nome d’un tetro e riflessivo senato, o d’un esercito di venturieri che con una giornata felice divengono signori degli uomini e della terra, sarebbe un’operazione dolorosa, ma benefica; sarebbe come la potatura d’una vite, che reprime una frondosità inutile per dare una fruttifera gagliardìa. Allora gli infelici, che sanguinarono in difesa delle antiche consuetudini e delle rudi libertà, appajono quasi vittime necessarie d’una suprema legge dell’umanità, e sono come gli uccisi in battaglia, il cui compianto non fa tacere l’esultanza della vittoria. 
Ma questa dottrina riesce dura e arbitraria; poichè noi non sappiamo qual sia il confine tra la libertà umana e la necessità; e chi giudica dopo l’evento, troppo facilmente traduce in leggi immutabili e universali gli effetti isolati e contingenti d’un fortuito scontro di forze. Quello stoico ottimismo, che si consola di tutto, che concilia tutto, che passeggia tra vinti e vincitori senz’ira e senza dolore, e nella distruzione d’un popolo nulla vede fuorché una trasformazione felice, la quale sostituisce una gente più ragionevole e progressiva ad una indocile ed arretrata, suppone troppo gratuitamente in certe razze una naturale impotenza a incivilirsi, e involge in una condanna ingiusta  e crudele tutti i voti e gli sforzi d’una virtù sventurata. Allora l’uomo in faccia alla catena degli eventi non dovrebbe più consultare il decreto del dovere attuale; ma congetturare se nel seno del tempo una nobile azione non diverrà un presuntuoso e inutile sacrificio, sul quale la dottrina invocherà un giorno la riprovazione della morale; e dovrebbe in quella vece calcolare di quanta grandezza e di quanta virtù si possa per avventura gettare le basi con un atto di viltà.
Ad ogni modo, siccome la conquista è il più poderoso strumento per cangiare il corso naturale delle singole nazioni, così lo studio del modo con cui si opera, delle cause che la preparano, e dei lontani effetti che ne derivano, diviene una parte principale della dottrina della civiltà. A questo profondo ed elevato argomento fra tutte le opere istoriche nessuna fu meglio intesa che quella dei Normanni d’Agostino Thierry; nessuna fu spinta con più profondo e pertinace studio delle fonti istoriche, e con più generoso sacrificio della gioventù, della fortuna, della salute, e della luce stessa degli occhi, che nel fervore delle sue ricerche l’autore dolorosamente consunse. Quindi, benché una traduzione dal francese non sia fra noi un avvenimento intorno a cui sia prezzo dell’opera trattenere i lettori, noi abbiamo ben caro che questi volumi siano ridotti in italiano, perchè un libro utile, scritto da uno straniero, non può mai penetrare in tutti gli ordini degli uomini studiosi, e cangiarsi in vero nutrimento dell’intelligenza nazionale, se non col mezzo d’una versione. E in questa può tornar utile agli studiosi la diligente interpretazione, che il traduttore appose ad alcuni documenti anglosàssoni, normanni e provenzali, che fanno sèguito alla narrazione. E qui prendiamo volonterosi l’occasione di porgere qualche idea d’un’opera, della quale molti non hanno ancora apprezzato abbastanza la laboriosa e profonda semplicità; e nella quale i frammenti delle rozze crònache non solo vennero ordinati all’intento della dottrina istorica, ma si assegnò la dovuta parte anche alla Critica; perocché questa è pure un officio di giustizia, ed una soddisfazione che si deve rendere al senso morale del genere umano. 
Fra le molte genti che il tempo trasse a comporre la presente popolazione delle Isole Britanniche, la più antica fu quella medesima stirpe Celtica, che vastamente abitò tutta l’Europa occidentale, dalle Ebridi sin oltre le correnti del Pò; e scolpì le orme d’impetuose spedizioni lungo l’Elba, e il Danubio, e perfino nel Lazio, nella Grecia e nell’Asia Minore. Ma sotto questo vulgar nome di Celti si confondono due popoli, poco diversi d’indole e di destino, e tuttavia ben distinti ancora oggi nel linguaggio: ciò quelli cui meglio non si saprebbe discernere che col nome di Gaeli e di Cambri. 
Le reliquie dei Gaeli parlano la lingua d’Ossian, e la conservano tuttora nella parte d’Irlanda che s’affaccia all’Oceano occidentale, nonché tra quel labirinto di rupi, di golfi, di laghi e d’isole infinite, che dicesi Caledonia, od Alta Scozia. Non è un secolo (1743) che fra loro stavano inconcusse ancora le forme sociali di migliaia d’anni addietro. Pare che ogni loro clano altro non fosse che una famiglia, moltiplicata nel corso del tempo fino a divenire un popolo; nella quale il più potente e il più povero si riconoscevano fratelli, e portavano uno stesso cognome, derivato per lo più dal commun progenitore. Sempre consorti in pace e in guerra, vivevano sui terreno commune colla caccia, cogli armenti, colle prede, adorando le memorie del passato, dispregiando ogni straniera sapienza, e non avendo altro pàscolo alla mente che le poetiche istorie dei loro avi, ricantate per secoli sulle arpe dei bardi nei giorni di convito, e intorno ai fuochi delle veglie militari. Nessuna gente più di questa ritraeva da quei costumi che vennero dipinti nei poemi d’Omero; ma essa non seppe mai levarsi per forza propria da quella guerriera e fantastica adolescenza
Dopo molte età sembra che venisse d’oltremare l’altra, che si disse, delle stirpi celtiche, quella cioè dei Cambri o Britanni; e respinse verso settentrione e occidente, ossia nell’Irlanda e nella Scozia, i Gaeli; i quali appena lasciarono qua e là alcuna ruina dei loro abituri, che i Cambri poi dissero case dei Gaeli (cyttiau y Gwyddelad). Ma i Cambri, avendo più orgoglio dell’antichità che della vittoria, amavano ripetere che al tempo di loro venuta le pianure dell’isola non erano abitate se non da orsi e da tori selvaggi. Codesti invasori non vennero forse tutti ad un tempo; e, quantunque d’una stessa origine, dividevansi in tre grandi aggregazioni, che il vulgo confuse: quella ciò dei Loegri, che teneva le pianure; quella dei Gallesi, o Cambri propriamente detti, che si pose nelle montagne; e quella dei Britanni verso settentrione e le frontiere della Scozia. Dopo che le due nazioni celtiche s’ebbero così divisi i più vasti territorj, vi s’insinuarono dal mare due minori colonie; cioè i Belgi che si sparsero trafficando sui lidi della Manica; e i Coranii, vanguardia della stirpe teutonica, venuti dalla terra palustre, ossia dai Paesi Bassi, a stanziare presso le lagune che si stendevano sulla costa orientale, presso le foci dell’Humber.
Tutti questi popoli vivevano seminudi, dipinti d’azzurro come i selvaggi, o involti in rozze pelli, con lunghe e sciolte chiome, e i loro duci li guidavano omericamente dai loro carri di guerra; mentre i Drùidi dai recessi più cupi delle foreste gli atterrivano con fieri riti e con sacrificj di vittime umane, e non lasciavano mai che le menti imbaldanzite rompessero quell’incanto fatale, che le incatenava entro le opinioni e le memorie degli avi
Venne allora repentinamente dal Mezzodì e dalla viva luce dell’Italia un uomo di genio, uno di quegli esseri potenti, cui non frenano mari, o monti, o forze d’armi o di leggi; e di cui la natura si vale per sovvertire l’opera dei secoli, e spezzare le dure abitudini dei popoli, e incalzarli a sorti novelle. Era Giulio Cesare; il superbo patrizio fatto capo di plebe fremente; terribile al pari nel comizio colla parola, e sui campi di battaglia coll’audacia dei progetti e la velocità delle mosse. Cesare, mandato quasi in esilio sulla frontiera, domò con poco esercito e in pochi anni le bellicose nazioni, che tenevano ciò che ora si chiama Francia, Belgio e Svizzera; poi passò il Reno, passò lo Stretto Britannico, e collegò per la prima volta e indissolubilmente i destini del Settentrione e quelli del Mezzodì. Egli combatte e vinse in tutte le terre dell’oriente e dell’occidente, nelle Spagne, nelle Gallie, nella Britannia, nella Germania, nell’Italia, nell’Africa, nell’Egitto, nella Grecia, nell’Asia: il suo nome proprio divenne un titolo di potenza suprema, e non si cancellò mai più dalla memoria delle nazioni. Condotta da Cesare, da Svetonio, da Agricola, la legione romana rovesciò i carri di battaglia dei Britanni, abbattè le selve dei Drùidi, stese larghe strade militari attraverso alle paludi e ai monti, seminò l’isola di colonie, di porti, di palagi, di templi, e vi radicò profondamente gli usi del commercio, dell’agricultura, delle arti. Ma con quel moderato regime, che fu la più bella loro gloria, i Romani non mirarono mai a perseguitare nei Cambri le avite instituzioni. Tolta la barbarie del vivere, aboliti i sacrificj umani, sopravisse la forma patriarcale della tribù celtica; e frammezzo alle legioni ed alle colonie d’Italia, trasmise pacificamente ai pòsteri la sua lingua e le sue genealogìe.
Quando poi l’antico Stato di Roma si scompose, e venne con Diocleziano il regime orientale, e al milite romano successero i mercenarj goti e franchi, e alla religione dei patrizj romani la fede cristiana: si slegò naturalmente il vincolo d’obbedienza che legava i Cambri a Roma; essi rimasero arbitri di sé; i coloni italici andarono confusi nella moltitudine. Rimase però sempre il vincolo delle lettere latine e della novella credenza





http://www.biblio.liuc.it/opere_cattaneo/politecnico/pdf/VersioneDeNormanniDiThierry.pdf

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