I bambini sono in grado di imparare molte lingue a cui sono costantemente esposti.
Se ti stai chiedendo quante lingue si parlano al mondo, la risposta è 7.000.
Se ti stai chiedendo quante lingue si parlano al mondo, la risposta è 7.000.
E il 75% degli abitanti del mondo ne parla più di una.
Bibbia, il libro più tradotto al mondo, è disponibile in 2.454 lingue.
Nella sola Asia si parlano 2.000 lingue.
E quasi la metà di esse sono parlate in un solo paese: Papua Nuova Guinea.
C'è una lingua in Messico, l'ayapaneco, che rischia di scomparire perché le uniche due persone che la parlano, Manuel Segovia, 78, e Isidro Velazquez, 72, hanno smesso di parlarsi dopo una lite.
La tedesca Vodafone ha così realizzato un progetto e una campagna per il suo salvataggio.
Ma ci sono almeno 2.400 lingue classificate "in pericolo".
I bambini sono in grado di imparare molte lingue a cui sono costantemente esposti.
Ciò significa che il vincolo primario per un bambino riguardo al numero di lingue che può imparare, non è il suo cervello ma piuttosto la quantità di esposizione a ogni lingua.
I linguisti hanno stabilito che l'apprendimento di 4 lingue per un bambino è possibile. Contrariamente a quanto crediamo, i bambini non vanno in confusione con l'apprendimento di più idiomi. Sebbene le mescolino tra loro all'inizio, col passare del tempo riescono a distinguerle. Questa "abilità", o finestra di opportunità, svanisce rapidamente dopo i 5 anni di età. Se si impara una lingua prima della scadenza di questo periodo critico, viene memorizzata in una parte diversa del cervello rispetto a quando si impara più tardi nella vita.
Strano ma vero gli Stati Uniti non hanno una lingua ufficiale.
L'inglese dal 2006 è ritenuta "lingua comune ed unificatrice", ma sebbene sia la lingua madre dell'82% della popolazione, solo 28 stati su 50 la ritengono la loro lingua ufficiale. La seconda lingua più parlata degli Usa è lo spagnolo (28 milioni di persone). E, secondo il censimento del 2000, c'è anche 1 milione di americani che parla l'italiano.
A La Gomena, una delle isole Canarie, si parla una lingua, il silbo gomero, costituita da 4 consonanti, altrettante vocali e più di 400 vocaboli articolati esclusivamente con… fischi.
Lo utilizzano i pastori che abitano nell'isola per parlarsi a grande distanza:
per intensificare il fischio, introducono una, due o tre dita in bocca o si servono delle mani come megafono. E con regole grammaticali e fonetiche sviluppano veri e propri discorsi.
È così potente che lo si può udire fino a 5 km di distanza. Fu inventato dagli aborigeni guanci per comunicare tra i grandi valloni che dividono l’isola. Venne poi adottato dai colonizzatori spagnoli. Utilizzato per secoli, è caduto rapidamente in disuso nel corso del 900. si sarebbe sicuramente estinto se il Governo delle Canarie, a partire dal 1990, non l’avesse inserito come insegnamento nelle scuole dell'isola.
Ascolta il silbo: http://bit.ly/1PiWnPd
Il 25% delle persone del mondo parla - anche - inglese, sebbene la prima lingua più diffusa sia ovviamente il mandarino.
Paese che vai, però, inglese che trovi. A Singapore per esempio va forte il Singlish, un dialetto dove l'inglese si mischia al cinese mandarino, al tamil e ad altre lingue asiatiche.
http://www.focus.it/comportamento/scuola-e-universita/lingue-e-il-loro-apprendimento?gimg=59450&gpath=#img59450
INSEGNARE L'ITALIANO ATTRAVERSO IL GIOCO
IL GIOCO E IL SUO RUOLO STRATEGICO PER LA FACILITAZIONE DELL’APPRENDIMENTO LINGUISTICO. CON UNO SPUNTO DI ATTIVITÀ PRATICA DA PORTARE IN CLASSE. DI FABIO CAON, RICERCATORE IN COMUNICAZIONE E DIDATTICA INTERCULTURALE ALL’UNIVERSITÀ CA’ FOSCARI DI VENEZIA.
LA GLOTTODIDATTICA LUDICA NELLE CLASSI PLURILINGUI AD ABILITÀ DIFFERENZIATE
La realtà delle classi è marcatamente segnata dalla compresenza di studenti di diversa nazionalità che, negli anni, hanno trasformato le sfide di una didattica della lingua che si ispiri ai principi dell’inclusione e dell’interculturalità.
Il profilo generale delle classi plurilingui si è altresì modificato negli ultimi anni: se, in passato, erano in grandissima maggioranza gli studenti neoarrivati, ora si trovano tra gli studenti di CNI (cittadinanza non italiana) vissuti molto differenti. Pur continuando ad esserci studenti CNI neoarrivati, con tutti i problemi linguistici legati questa situazione, vi sono anche moltissimi studenti da molti anni in Italia e poi i discenti di seconda generazione. Queste tre macrocategorie, per il vissuto linguistico oltre che psicologico legato al percorso, chiedono risposte pedagogiche e didattiche in parte convergenti in parte specifiche.
In questo contributo ci limiteremo alla presentazione dei concetti di Classe ad Abilità Differenziate (d’ora in poi CAD) e di metodologia ludica. Per gli approfondimenti sul tema dell’educazione linguistica in chiave teorica e operativa rispetto a queste situazioni, rimandiamo a Caon (2008) per la CAD e Caon, Rutka (2004) per la ludica.
Una volta delineati i due concetti, vedremo le potenzialità della metodologia ludica per poter supportare l’insegnante di lingua nella gestione di classi multilingui e multilivello.
Nelle classi ad abilità differenziata
La CAD (Caon, 2006; 2008), nella nostra prospettiva, è da intendersi come un modo di osservare la realtà delle classi. Infatti, se il concetto di CAD corrispondesse semplicemente all’idea di una classe in cui confluiscono abilità differenziate, andremmo a costruire, di fatto, l’equivalenza tra CAD e una qualunque classe di una qualsiasi scuola, sostenendo una tautologica ovvietà. Ma se consideriamo le classi non come una somma di persone differenti ma come un sistema dinamico che dipende dalla natura e dall’apporto di ogni persona che lo compone e che agisce in esso, la CAD si presenta come un sistema aperto nel quale il parametro della “differenza”, che si può registrare in più aspetti e su più livelli, è la chiave di lettura per la gestione efficace dell’apprendimento linguistico.
La valorizzazione delle peculiarità degli studenti, grazie ad una metodologia didattica variata, ad un’organizzazione flessibile della classe (gruppi di livello, gruppi eterogenei), ad una concezione cooperativa e basata sull’aiuto reciproco tra gli studenti, rappresenta il coerente impianto didattico con tale prospettiva d’osservazione.
La glottodidattica ludica si pone come una interessante risorsa metodologica per una serie di attenzioni che vengono poste contemporaneamente sul piano linguistico, cognitivo e relazionale e che quindi favoriscono uno sviluppo di diverse abilità linguistiche e cognitive e di risorse intra- ed interpersonali nello studente. Le elenchiamo qui rapidamente.
La metodologia ludica:
- valorizza diverse intelligenze (non solo la logica e la linguistica; Gardner, 1983, 1993, 1999);
- è spesso esperienza multisensoriale e quindi migliora la fissazione delle informazioni grazie alla ridondanza e alla connessione di lingua e altri codici (iconico, musicale, cinestesico; Caon, Ongini, 2008);
- utilizza naturalmente la lingua come veicolo di informazioni (o il docente, poi, può introdurre delle “regole” comunicative per cui si debbano utilizzare determinate strutture);
- permette a studenti migranti di ascoltare e interagire con italofoni in modo naturale;
- può essere attivata con successo anche senza competenze linguistiche consolidate;
- è co-costruttiva e permette di agire contemporaneamente su diverse zone di sviluppo prossimale per cui è proponibile anche a livelli differenziati (Dolci, 2006);
- è motivante e “assorbe” completamente l’allievo favorendo quel che Krashen chiama the rule of forgetting, principio che favorisce l’acquisizione linguistica. Secondo questo principio, una persona acquisisce meglio una lingua quando si dimentica che la sta imparando, quando la sua attenzione si sposta sul significato veicolato dalla lingua e non sulla forma linguistica;
- prevede diverse possibili forme di organizzazione della classe: in coppie, gruppi, squadre (Rutka, 2006).
Competenze sociali, cognitive, linguistiche
La glottodidattica ludica si può definire come una “metodologia che realizza coerentemente in modelli operativi e in tecniche glottodidattiche i principi fondanti degli approcci umanistico affettivo, comunicativo e del costruttivismo socio-culturale” (Caon, Rutka, 2004). Il gioco e la ludicità sono i due concetti portanti:
- la ludicità, ossia “la carica vitale in cui si integrano forti spinte motivazionali intrinseche con aspetti affettivo-emotivi, cognitivi e sociali dell’apprendente” è considerata il principio fondante per promuovere lo sviluppo globale dell’allievo;
- il gioco viene utilizzato come “modalità strategica” per il raggiungimento di mete educative e di abilità linguistiche proprie dell’educazione linguistica. Attraverso il gioco, infatti, si assumono e si rielaborano i dati della realtà, si espandono e si organizzano le conoscenze in reti concettuali sempre più complesse, in un continuum dinamico che vede l’allievo intrinsecamente motivato, protagonista del suo percorso formativo.
Il richiamo al gioco come dimensione strategica per la facilitazione dell’apprendimento linguistico trova la sua ragione nella natura globale ed olistica dell’esperienza ludica (Freddi, 1990). In essa, infatti, si integrano diverse componenti, con diverse prevalenze a seconda delle tipologie di giochi. Si tratta, in particolare, di componenti:
a. cognitive: ad esempio, l’elaborazione di una strategia di gioco, l’apprendimento di regole;
b. linguistiche: ad esempio, la lettura o la spiegazione di regole, le routine quali la conta o le frasi rituali che accompagnano alcuni giochi, le interazioni spontanee legate al gioco;
c. affettive: ad esempio, il divertimento, il piacere, la motivazione al gioco;
d. sociali: ad esempio, la squadra, il gruppo;
e. motorie e psicomotorie: ad esempio, il movimento, la coordinazione, l’equilibrio;
f. emotive: ad esempio, la paura, la tensione, il senso di liberazione;
g. culturali: ad esempio, le regole specifiche, le modalità di relazione e le ritualità che precedono, accompagnano e chiudono il gioco;
h. transculturali: ad esempio, la necessità delle regole e la necessità, affinché vi sia gioco, del rispetto delle stesse.
Giocando si impara
Il gioco risulta essere esperienza complessa e coinvolgente ma non solo perché – come abbiamo detto – attiva la persona globalmente; esso permette alla persona anche di apprendere, attraverso la pratica, in modo costante e naturale, accrescendo costantemente le proprie conoscenze e competenze.
Dunque, c’è una doppia forma di coinvolgimento del soggetto nell’attività ludica: sul piano sincronico (durante lo svolgimento del gioco) egli è motivato e partecipa multisensorialmente ed emozionalmente all’attività; sul piano diacronico (nel ripetersi – innovandosi – del gioco), le sue competenze evolvono costantemente e le sue motivazioni si rinnovano poiché tendono al costante superamento del traguardo raggiunto. C’è poi un terzo fattore che è di particolare rilievo per la nostra prospettiva: il gioco, se viene percepito e vissuto come tale, impegna e diverte nel medesimo tempo. Il connubio armonico di divertimento e impegno richiama così il piacere intrinseco dell’attività (Caon, 2010) senza negare lo sforzo cognitivo o psicofisico. L’esperienza ludica presenta, dunque, delle evidenti potenzialità per l’apprendimento in generale poiché coinvolge il giocatore in un’esperienza olistica che presenta straordinarie similarità con le condizioni per cui vi possa essere apprendimento significativo (Caon, 2006).
Per l’apprendimento linguistico, in particolare, essa si può rivelare di grande valore poiché la quasi totalità dei giochi prevedono l’uso della parola durante il loro svolgimento e per la comunicazione o la negoziazione delle regole.
Dunque, c’è una doppia forma di coinvolgimento del soggetto nell’attività ludica: sul piano sincronico (durante lo svolgimento del gioco) egli è motivato e partecipa multisensorialmente ed emozionalmente all’attività; sul piano diacronico (nel ripetersi – innovandosi – del gioco), le sue competenze evolvono costantemente e le sue motivazioni si rinnovano poiché tendono al costante superamento del traguardo raggiunto. C’è poi un terzo fattore che è di particolare rilievo per la nostra prospettiva: il gioco, se viene percepito e vissuto come tale, impegna e diverte nel medesimo tempo. Il connubio armonico di divertimento e impegno richiama così il piacere intrinseco dell’attività (Caon, 2010) senza negare lo sforzo cognitivo o psicofisico. L’esperienza ludica presenta, dunque, delle evidenti potenzialità per l’apprendimento in generale poiché coinvolge il giocatore in un’esperienza olistica che presenta straordinarie similarità con le condizioni per cui vi possa essere apprendimento significativo (Caon, 2006).
Per l’apprendimento linguistico, in particolare, essa si può rivelare di grande valore poiché la quasi totalità dei giochi prevedono l’uso della parola durante il loro svolgimento e per la comunicazione o la negoziazione delle regole.
Una delle tesi su cui si basa la metodologia ludica è che il gioco glottodidattico, cioè costruito “intenzionalmente per dare una forma divertente e piacevole a determinati apprendimenti” (Staccioli, 1998), sia proponibile a tutte le età e per tutti i livelli di competenza linguistica a patto che sia adattato alla maturità cognitiva o alle competenze linguistiche degli studenti e che agisca sulle zone di sviluppo prossimale. Soprattutto con studenti adolescenti o adulti vi è difficoltà a far accettare attività percepite pregiudizialmente troppo infantili. In contesti multiculturali, poi, tale difficoltà d’accettazione può essere acuita da abitudini scolastiche pregresse per cui il gioco non è stato utilizzato nemmeno nella scuola primaria.
A questi atteggiamenti di parziale rifiuto, spesso si aggiunge una diffidenza derivata dai retaggi culturali che separano nettamente la scuola – sinonimo di fatica e impegno – dal gioco – inteso come svago e ricreazione – e che, erroneamente, identificano il gioco come attività soltanto infantile. Retaggi, questi, alimentati dalle famiglie o dalle comunità d’appartenenza.
Per evitare questi rischi di non accettazione, le attività da proporre devono risultare ludiche, in quanto connotate da piacere e sfidanti sul piano cognitivo, atte, cioè, a stimolare il desiderio di superarsi, di intraprendere una sfida con se stessi prima ancora che con (o contro) gli altri. Porre lo studente di fronte ad attività stimolanti, fornirgli sia un aiuto diretto attraverso la relazione significativa che uno indiretto attraverso modalità di lavoro cooperative, è fondamentale per raggiungere apprendimenti significativi, per sviluppare senso di autoefficacia, per migliorare l’autostima e per potenziare le abilità sociali.
Un esempio di attività: caccia all’intruso
Analizziamo un’attività glottodidattica: il gioco a gruppi della “caccia all’intruso ad oltranza” (Caon, Rutka, 2004) consiste nell’eliminazione progressiva di una parola da un insieme a causa di una caratteristica che non condivide con tutte le altre.
Ad esempio, nell’insieme costituito da: il, lo, gli, la, ma, l’, gli studenti con competenze metalinguistiche possono togliere come prima parola ma in quanto congiunzione mentre le altre sono articoli, poi procedere con gli perché è l’unica plurale, e così via; chi del gruppo conosce una categoria che gli altri non conoscono, ha il compito di spiegarla. Si creano in questo modo comunicazione e costruzione di conoscenza interna al gruppo stesso.
Infine, se in un gruppo non vi fosse nessuno che possiede conoscenze metalinguistiche, il compito si può comunque svolgere correttamente, anche con conoscenze minime, ad esempio togliendo prima l’ perché è l’unica che ha l’apostrofo, poi gli perché è l’unica che ha tre lettere, poi il perché inizia con vocale, poi ma perché è l’unica che non inizia con la lettera L e così via.
Addirittura il gioco può anche essere svolto correttamente senza aver alcuna conoscenza di tipo metalinguistico: ma è l’unico che non ha la lettera l (anche se lo studente straniero non sa che si la lettera si chiama elle), l’ è l’unica parola con quel "segno strano" subito di seguito, gli è l’unica parola di tre lettere mentre gli altri ne han due, il è l’unica parola che non inizia con la elle e così via…
Gli studenti quindi possono confrontarsi e risolvere il problema attraverso un’ampia gamma di strategie che non necessariamente son collegate alla conoscenza approfondita della lingua.
Compito del docente è allora quello di sistematizzare grammaticalmente (per gli studenti che abbiamo le competenze adeguate) alla fine del gioco quanto è emerso dagli studenti e quindi di riportare il gruppo agli obiettivi anche di contenuto della lezione.
Giochiamo le nostre culture
Per quanto concerne la dimensione interculturale, il gioco presenta due caratteristiche che possono favorire proposte didattiche interculturali poiché, allo stesso tempo, è transculturale (tutti i bambini, indipendentemente dalla loro provenienza geografica e culturale, giocano; il gioco, quindi, è un’esperienza che accomuna, che mette in contatto e stabilisce una relazione paritetica tra le diverse culture) e culturale, differenziato a seconda del contesto culturale in cui si svolge.
A tal riguardo, scrive Staccioli, “un gioco, (…) è anche specchio/immagine della società nella quale si sviluppa ed ogni giocatore 'gioca' (consapevolmente o meno) anche regole, simboli, aspirazioni, fantasie che sono proprie della cultura nella quale vive” (Staccioli, 1998).
L’insegnante può trovare nel gioco un contesto significativo poiché esso scatena in modo assolutamente naturale l’interazione tra i soggetti, li coinvolge totalmente nello stesso compito e implica il riconoscimento di alcuni valori transculturali impliciti quali, ad esempio, il rispetto delle regole. Esso permette di attivare, nel processo d’apprendimento, la sfera cognitiva e quella emotiva, può fornire reciproche informazioni sull’elaborazione e la simbolizzazione dei sentimenti, può rivelare capacità ed abilità che, in una comunicazione solo verbale, resterebbero inespresse.
Infine, in una fase di ristrutturazione cognitiva dell’esperienza ludica, l’insegnante può far riflettere gli studenti sulle caratteristiche dei giochi e sul valore del giocare contribuendo, attraverso una riflessione profonda perché sorta dall’esperienza e dal confronto diretti, a:
- far mettere in discussione l’approccio etnocentrico alla cultura e le fuorvianti semplificazioni insite negli stereotipi;
- far prendere atto e a far riconoscere il valore del pluralismo culturale;
- stimolare l’interesse per l’alterità e l’identità transculturale attraverso un’interazione piacevole e motivante.
Il gioco dunque risponde a finalità linguistiche, cognitive, interculturali ed educative ben precise: applicare la didattica ludica, quindi, non equivale assolutamente a proporre dei giochi come momento di “stacco” da un’attività “seria” all’altra, senza progettazione e senza obiettivi. Il gioco è modalità strategica per il raggiungimento di obiettivi d’apprendimento linguistico; il fine che si persegue non è interno a ciò che si fa, non si conclude con il gioco stesso; il fine rimane esterno al giocare ed è determinato dall’adulto.
Riferimenti bibliografici
- BALBONI P. E., 2012 (2002), Le sfide di Babele. Insegnare le lingue nelle società complesse, Torino, UTET Libreria.
- CAON F. (a cura di), 2006, Insegnare italiano nella classe ad abilità differenziate, Perugia, Guerra.
- CAON F., 2008, Educazione linguistica e differenziazione: gestire eccellenze e difficoltà, Torino, UTET Università.
- CAON F., 2010 (a cura di), Facilitare l’pprendiemtno dell’italiano L2 e delle lingue straniere, Torino, UTET Università.
- CAON F., ONGINI V., 2008, L’intercultura nel pallone. Italiano L2 e integrazione attraverso il gioco del calcio, Sinnos, Roma.
- CAON F., RUTKA S., 2004, La lingua in gioco, Guerra, Perugia.
- DOLCI R., 2006, “La partecipazione nella classe di lingua”, in CAON F. (a cura di), Insegnare italiano nelle classi ad abilità differenziate, Guerra, Perugia.
- FREDDI G. ,1990, Azione, gioco, lingua, Liviana, Padova
- GARDNER H., 1983, Frames of Mind: The Theory of Multiple Intelligences, Basic Books, New York, trad. italiana, 1987, Formae mentis. Saggio sulla pluralità delle intelligenze, Feltrinelli, Milano.
- GARDNER H., 1993, Multiple Intelligences: The Theory in Practice, Basic Books, New York, trad. italiana, 1995, L’educazione delle intelligenze multiple: dalla teoria alla prassi pedagogica, Anabasi, Milano.
- GARDNER H., 1999, Intelligences Reframed: Multiple Intelligences in the 21th Century, Basic Books, New York.
- ROGERS C.R., 1973, Libertà nell’apprendimento, Giunti Barbera, Firenze.
- RUTKA S., 2006, “Metodologia cooperativa per classe CAD”, in CAON F. (a cura di), Insegnare italiano nelle classi ad abilità differenziate, Guerra, Perugia.
- STACCIOLI G., 1998, Il gioco e il giocare, Carocci, Roma.
Fabio Caon: 8 Gennaio 2016
http://www.giuntiscuola.it/sesamo/cultura-e-societa/punti-di-vista/-la-glottodidattica-ludica-nelle-classi-plurilingui-ad-abilita-differenziate/
Leggi i punti di vista di
Duccio Demetrio, Anna Granata, Massimiliano Fiorucci,Roberta Grassi
E TU, DA QUALE STORIA VIENI?
PEDAGOGIA DELLA NARRAZIONE E INTERCULTURA
Duccio Demetrio: 7 Dicembre 2015
Noi siamo le nostre storie, quelle che abbiamo vissuto, ascoltato, scambiato. Come possiamo sollecitare a raccontare la propria storia a scuola e fuori dalla scuola? Alcune riflessioni e proposte operative per la narrazione autobiografica con i bambini. Di Duccio Demetrio.
"Aprite le porte" , di Richolly Rosazza, vincitore della III edizione del Concorso Internazionale d’Illustrazione “Fuochino… fuochetto…”.
Le storie: un cibo per la mente
Uno studioso americano ritiene che ciascuno di noi, piccolo o grande, sia abitato da un “istinto narrativo” (J. Gottschall, L’istinto narrativo, 2014). Di che si tratta? Di una propensione naturale a comunicare attraverso lo scambio di storie e queste, nel corso dei millenni, recita il sottotitolo del suo bel libro, “ci hanno reso umani”. Anzi più umani ancora, in ogni circostanza felice o dolorosa della vita. Siano queste storie vere, inventate o utili a attirare l’ attenzione degli altri, ma anche a farci sentire meno soli. Quando infatti non abbiamo qualcuno interessato ad ascoltarci, ecco che la nostra mente corre a cercarle altrove: in un libro, al cinema, in Tv, in internet. Le storie, insomma, rappresentano un “cibo per la mente”. Quando abbiamo esaurito la scorta di quelle che si sono accumulate nella memoria, non passiamo fare a meno di andarne a cercare di nuove.
Ci consolano, dandoci coraggio, ci distraggono. La curiosità verso di esse è un alimento per l’intelligenza (perché le storie stuzzicano il piacere di conoscere, ad esempio, le vite degli altri al passato o al presente); per il nostro modo di stare insieme (perché le storie sono la materia preziosa di ogni nostro conversare, incontrarci, barattare notizie). E ancora, le storie ci fanno sentire bene, in quanto se ci piace raccontarle, ci spiegano che non veniamo mai dal nulla. Che abbiamo sempre a disposizione qualche memoria da raccontare, silenziosamente, a noi stessi; da poter scrivere e affidare al nostro diario. Una percezione, questa, che ci fa sentire i protagonisti, gli autori e qualche volta gli scrittori, di qualcosa che è soltanto nostro. Che ci appartiene in esclusiva.
In ascolto delle storie di tutti
La consapevolezza quindi che le storie vanno messe al primo posto e cercate; che rappresentano una caratteristica universale della nostra specie e di ogni cultura; che sono “irresistibili” e fonte di benessere, oltre che di infiniti apprendimenti è un inequivocabile indizio di crescita umana. L’istinto narrativo ci aiuta non poco a capire noi stessi. Purché si sia disposti a chiedersi e non una volta soltanto: ma io da quali storie provengo, quale storia sto interpretando, quali narrazioni altrui mi affascinano particolarmente?
Inoltre, è istintiva e naturale la domanda da rivolgere a chi viene da altre parti del mondo: da quali storie vieni? Che storia hai/sei? Non si dà nessuna autentica esperienza, non c’ è vera vita individuale o collettiva, se la si priva di questo impulso naturale così speciale. Un diritto, una forma di libertà: contro ogni censura, ogni imposizione a tacere. Possedere una consapevolezza pedagogica di questo tipo, significa raccogliere il desiderio di raccontare, di raccontarci, di essere raccontati da parte degli altri.
È una necessità vitale, relazionale, interculturale. Senza storie, udite o a noi richieste, ci estinguiamo pur restando in vita, soffriamo di emarginazione e isolamento. Senza storie da mettere in comune, raccogliere, proteggere, nessuna comunità avrebbe mai potuto nascere, migliorare, incontrarsi con quelle prima sconosciute.
Custodi e curatori di storie: mnemoteche a scuola e altrove
Diventare narratori e custodi delle nostre storie, di quelle di tutti, all’insegna di una sfida contro la loro dispersione, per una loro salvaguardia e diffusione, può essere il presupposto di biblioteche scolastiche e territoriali di nuovo tipo. Così come ogni città, anche il paese più minuscolo, ogni quartiere, dovrebbero dotarsi di una o più mnemoteche. Di quellecase dei ricordi destinate a raccogliere le storie delle persone più diverse di ogni origine: di chi visse, transitò, lasciò memorie significative in questi luoghi.
Storie ascoltate e poi trascritte; storie che diventano racconti autobiografici; storie che sarà bello ritrovare: rileggere, riascoltare, rivedere, anche dopo molto tempo.
Una pedagogia della memoria, oggi così importante, si fonda a partire da queste attenzioni e da queste sensibilità per la loro tutela attiva. Lontano quindi dall’intenzione di imbalsamarle e dimenticarle una seconda volta nelle teche di un museo. Devono essere le storie a dare spunti e diventare sollecitatori per attingere ad esse, mutandole in momenti di festa, spettacolo, rievocazione scenica. Offrendo ai bambini e ai ragazzi anche il compito di diventare scrivani delle storie degli adulti e degli anziani, in un rapporto con le generazioni precedenti basato anche sulla rielaborazione, musicale, storica.
Le storie hanno sempre bisogno di qualcuno che le re-immagini, per renderle più affascinanti. Senza tradirne i messaggi, in quanto il peggior tradimento che una storia possa patire è la sua banalizzazione.
Il gioco dell'Oca, da Alfabeti interculturali, a cura di G. Favaro
Gli atelier autobiografici
Ogni storia, anche la più umile è un libro potenziale.
A scuola o da qualche altra parte, esse dovrebbero essere raccolte, contando oggi anche sui mezzi digitali. Fra queste, le storie più significative dei bambini, dei ragazzi di ogni nazionalità e lingua d’ origine, degli insegnanti che li hanno aiutati a ritrovare una loro storia perduta. Lo si può fare grazie a progetti poco costosi, contando sui docenti animati dalla passione desiderosa di arricchire i programmi con una pedagogia della narrazione.
In molte scuole, soprattutto primarie, si tengono in ore scolastiche, ma non solo, degli atelier autobiografici. Questi momenti pedagogici – ce ne vorrebbero di più – nascono dalla consapevolezza dell’importanza degli scambi e incontri interculturali, del valore delle attività narrative e della memoria come bene sociale e culturale da “metter in comune”.
Il primo principio che li anima è rappresentato dal riuscire a rendere questi tempi tra scuola ed extra scuola dei laboratori di scrittura di sé. All’interno dei quali, al primo posto, si possa evidenziare il valore della scrittura/lettura come condizione adatta e insostituibile di raccoglimento, di concentrazione, di autoriflessione. L’atelier va concepito e realizzato anche come un vero e proprio antidoto nei confronti della fuga odierna dal piacere di stare da soli, dall’ affannosa dipendenza da internet.
Un secondo principio è quello di potenziare la cultura delle comunanze e non soltanto delle differenze (etniche, religiose, culturali). Ogni storia ha infatti moltissime corrispondenze di eventi, emozioni, vissuti che rendono le vicende dei piccoli e dei grandi comunicabili e fonte di reciproca emozione.
Un atelier è efficace e coinvolgente a patto che ogni stimolo a raccontarsi trovi possibilità di espressione in modalità diverse L’atelier non è infatti un contesto nel quale indurre frustrazioni nell’ incalzante consuetudine delle correzioni e delle valutazioni.
Con il gioco dell’oca, per esempio
Lo spazio /tempo dell’atelier si propone di educare all’arte del racconto di se stessi e di aiutare soprattutto i più timidi, i bambini e i ragazzi di origine straniera, i neoarrivati. Per scoprire insieme parole, ricordi, idee.
Uno spazio simile dovrebbe essere programmato non una tantum, ma dar luogo a una continuità di incontri e di sollecitatori. Il riappropriarsi dei propri ricordi può avvenire con la voce, con il corpo, con carta e matita e penna; dando molte occasioni alla poesia, al diario, alle immagini. Pensando anche al coinvolgimento, nella ricostruzione della propria storia, dei genitori e dei nonni. Anzi, i bambini possono anche diventare i loro scrivani, attirando gli adulti nella raccolta di pagine scritte del loro passato, album di famiglia, lettere.
L’immagine riportata sopra (Da. G. Favaro, a cura di, Alfabeti interculturali), un gioco dell’Oca dei ricordi e del racconto d’infanzia, può essere uno dei tanti sollecitatori che aiutano a condividere i propri ricordi e la propria biografia bambina.
Nessuno deve essere privato della propria storia. Ognuno deve trovare lo spazio e il tempo per metterla in comune e per ascoltare le storie degli altri .
Testi di Duccio Demetrio
Raccontarsi (1996); Il gioco della vita (1998); Ricordare a scuola (2003); Didattica interculturale, con G. Favaro (2003);L'educazione non è finita (2009); Perché amiamo scrivere (2011); Narrare è educare (2012); Green autobiography (2015).
http://www.giuntiscuola.it/sesamo/cultura-e-societa/punti-di-vista/e-tu-da-quale-storia-vieni/
IMPARARE GLI UNI DAGLI ALTRI NELLA SCUOLA DI TUTTI
Anna Granata, psicologa: 5 Novembre 2015
In che modo la scuola può assumere una vera “qualità interculturale”, divenire polo attrattivo per genitori di ogni origine e luogo di accesso a un sapere complesso, aperto, dinamico, per tutti i loro figli? Di Anna Granata, psicologa e docente di Psicologia interculturale.
Faire de la diversité une chance pour l’école,
c’est le meilleur antidote à nos peurs,
la meilleure réponse à la mondialisation.
c’est le meilleur antidote à nos peurs,
la meilleure réponse à la mondialisation.
Marie Rose Moro, 2012
Quale spazio hanno oggi le differenze (di genere, personalità, abilità, origine e religione) nella scuola italiana? Quale alunno può dirsi “simile” agli altri e quale “diverso”? Come si lascia interpellare la scuola da ritmi di apprendimento differenziati, da passioni e talenti distinti, da provenienze e origini plurali all’interno di classi multiculturali? Quali strategie possono essere attuate per favorire la mescolanza e fronteggiare i rischi latenti di segregazione sociale e culturale?
Questo contributo mette a fuoco l’esperienza della differenza culturale, facendo riferimento in particolare agli “ultimi arrivati” nella scuola italiana: gli alunni con cittadinanza straniera, nuova sfida profonda al tradizionale modo di fare scuola. Apriamo il tema con una tesi forte, proposta da Marie Rose Moronel suo libro Enfants de l’immigration, une chance pour l’école. Un titolo che non lascia margine di interpretazione e che capovolge il paradigma interpretativo classico: entro classi sempre più diffusamente multiculturali le opportunità da cogliere sono molte e in larga parte sottostimate. Le riflessioni e gli esempi proposti dalla nota etnopsichiatra accompagneranno le pagine di questo articolo, insieme alle note e alle testimonianze tratte da alcune ricerche svolte sul campo entro scuole del territorio lombardo.
Questo contributo mette a fuoco l’esperienza della differenza culturale, facendo riferimento in particolare agli “ultimi arrivati” nella scuola italiana: gli alunni con cittadinanza straniera, nuova sfida profonda al tradizionale modo di fare scuola. Apriamo il tema con una tesi forte, proposta da Marie Rose Moronel suo libro Enfants de l’immigration, une chance pour l’école. Un titolo che non lascia margine di interpretazione e che capovolge il paradigma interpretativo classico: entro classi sempre più diffusamente multiculturali le opportunità da cogliere sono molte e in larga parte sottostimate. Le riflessioni e gli esempi proposti dalla nota etnopsichiatra accompagneranno le pagine di questo articolo, insieme alle note e alle testimonianze tratte da alcune ricerche svolte sul campo entro scuole del territorio lombardo.
Imparare gli uni dagli altri
Il mio migliore amico mi ha passato un libro di Salgari, mi è piaciuto e ho cominciato a leggere tutti i libri che mi passava. Il fatto di aver letto tanto mi ha aiutato anche a scrivere e a perfezionare la lingua. Alle medie ho cominciato a prendere “ottimo” nei temi. Insieme ai libri ho ricevuto in regalo così anche la passione per la lettura e la scrittura (M., 20 anni, di origine cinese).
Favorire le relazioni tra i coetanei sembra essere il migliore strumento di integrazione che la scuola possa adottare. Una strategia che non solo favorisce un clima più sereno in classe ma che può avere effetti positivi anche sul rendimento scolastico degli alunni, come emerge dalla testimonianza di un giovane di origine cinese che ricorda la sua esperienza alla scuola media.
Purtroppo a volte le amicizie vengono ostacolate non soltanto dalla scuola ma anche dalle famiglie, che possono vivere con diffidenza le relazioni tra i propri figli. Il clima di diffidenza che si respira al di fuori (tra adulti italiani e stranieri) si può ripercuotere così anche sulle vite dei ragazzi, come emerge ancora dalla testimonianza:
Purtroppo a volte le amicizie vengono ostacolate non soltanto dalla scuola ma anche dalle famiglie, che possono vivere con diffidenza le relazioni tra i propri figli. Il clima di diffidenza che si respira al di fuori (tra adulti italiani e stranieri) si può ripercuotere così anche sulle vite dei ragazzi, come emerge ancora dalla testimonianza:
Già da piccolo litigavo spesso coi miei genitori. Ho lottato sempre, ho ottenuto di andare all’oratorio, poi alle feste di compleanno degli amici, alle elementari già solo andare a pranzo dal mio migliore amico e fermarmi lì al pomeriggio era una grandissima conquista. Una volta mi hanno anche lasciato andare con la sua famiglia in montagna durante le vacanze di Natale… (M. 20 anni, origine cinese).
Evitare la segregazione dei ragazzi italiani e stranieri è un compito di fondamentale importanza che vede impegnati gli insegnanti prima di tutto, ma anche le famiglie italiane e straniere che devono poter favorire le amicizie tra i propri figli e dare loro la possibilità di costruirsi un percorso insieme, come spesso effettivamente accade. L’apprendimento della lingua, un esempio tra gli altri, diventa infatti tanto più semplice e piacevole quanto più è vissuto come strumento per intessere relazioni, trovare nuovi amici e, allo stesso tempo, imparare insieme agli altri.
Ma non sono soltanto i figli di immigrati ad imparare dai figli degli autoctoni. Non di rado il processo di apprendimento assume spesso un movimento reciproco, che può portare i figli di autoctoni ad apprendere qualcosa di nuovo dai figli di immigrati. Marie Rose Moro (2012) racconta come, lei stessa, figlia di migranti spagnoli, si sia trovata nella prima fase di arrivo a scuola a Parigi a “francesizzare” parole spagnole nel momento in cui non conosceva un vocabolo francese. Come quella volta che doveva chiedere a una sua compagna di scuola se avesse visto la sua sciarpa, ma non conoscendo il termine in francese aveva utilizzato quello spagnolo, francesizzandolo: “la bufande”.
L’insegnante, ascoltando la conversazione, commentò, rivolgendosi alla compagna che era rimasta sorpresa: “La tua compagna fa della poesia!” e da lì prese spunto per tenere una lezione sulla poesia e sulla licenza poetica. Da un banaleerrore, potenziale fonte di disagio per la nuova arrivata, era nata l’occasione per un apprendimento collettivo: la ragazza d’origine straniera aveva appreso una parola nuova nella lingua del Paese ospitante, la figlia di autoctoni aveva compreso cosa significasse licenza poetica e la classe tutta aveva avuto occasione di ricevere una lezione sulla poesia a partire da un esempio concreto vissuto in classe.
L’insegnante, ascoltando la conversazione, commentò, rivolgendosi alla compagna che era rimasta sorpresa: “La tua compagna fa della poesia!” e da lì prese spunto per tenere una lezione sulla poesia e sulla licenza poetica. Da un banaleerrore, potenziale fonte di disagio per la nuova arrivata, era nata l’occasione per un apprendimento collettivo: la ragazza d’origine straniera aveva appreso una parola nuova nella lingua del Paese ospitante, la figlia di autoctoni aveva compreso cosa significasse licenza poetica e la classe tutta aveva avuto occasione di ricevere una lezione sulla poesia a partire da un esempio concreto vissuto in classe.
Lo sforzo di tenere insieme
Gli alunni stranieri che riescono bene a scuola hanno, non a caso, commenta sempre la Moro a fronte delle sue numerose ricerche, due caratteristiche essenziali: sono bilingui e hanno una rappresentazione positiva della loro lingua madre; hanno incontrato nel loro percorso un “passeur”, un traghettatore, che ha dato loro la possibilità di appropriarsi della società in cui vivono, valorizzando allo stesso tempo il contesto d’origine dei loro genitori. Quest’ultimo punto è di particolare importanza: gli alunni di origine straniera devono essere aiutati a tenere insieme le proprie origini con la loro condizione presente, senza dover rinunciare a nessuna delle proprie appartenenze. Certo non sempre hanno il desiderio di vedere sottolineata, di fronte ai compagni, la propria origine, o la propria cultura o religione di minoranza, più spesso manifestano, soprattutto nella fase della prima adolescenza, l’esigenza di essere considerati simili agli altri. L’insegnante potrà allora trovare il modo di sottolineare in maniera positiva il pluralismo culturale senza chiedere loro di esporsi tramite la propria esperienza.
In un certo senso gli insegnanti dovrebbero porsi come degli “equilibristi interculturali” (Granata, 2011), in grado di cogliere al momento opportuno occasioni di valorizzazione delle origini, che magari nascano dalla proposta spontanea dei ragazzi stessi. In questo modo è possibile aiutare gli alunni di origine straniera a sviluppare un “senso di continuità” che permetta loro di non vivere lacerati tra più mondi ma di appropriarsi di entrambi con serenità e disinvoltura.
Con i neo arrivati la questione può apparire forse più semplice, a partire dalla conoscenza della lingua d’origine. Ci si potrà soffermare, per esempio, durante una lezione di grammatica su una regola esistente nella lingua italiana e interpellare i ragazzi di origine straniera per capire se essa sia presente anche in altri sistemi linguistici. In questo modo, l’insegnante potrà comprendere gli eventuali errori dell’alunno che ha utilizzato fino a poco tempo prima un sistema grammaticale diverso, l’alunno si sentirà valorizzato per il suo sapere pregresso e gli altri alunni della classe apprenderanno la relatività delle forme linguistiche, vivendo una preziosa esperienza di decentramento.
Con i neo arrivati la questione può apparire forse più semplice, a partire dalla conoscenza della lingua d’origine. Ci si potrà soffermare, per esempio, durante una lezione di grammatica su una regola esistente nella lingua italiana e interpellare i ragazzi di origine straniera per capire se essa sia presente anche in altri sistemi linguistici. In questo modo, l’insegnante potrà comprendere gli eventuali errori dell’alunno che ha utilizzato fino a poco tempo prima un sistema grammaticale diverso, l’alunno si sentirà valorizzato per il suo sapere pregresso e gli altri alunni della classe apprenderanno la relatività delle forme linguistiche, vivendo una preziosa esperienza di decentramento.
Una scuola aperta al mondo
La presenza degli alunni stranieri, poi, può sollecitare una riflessione sulla cittadinanza aperta e cosmopolita, non soltanto legata alla storia e ai confini del territorio nazionale. Presentare in classe, per esempio, l’esperienza migratoria come un fenomeno sociale di vitale importanza per il progresso delle società, ma anche per la crescita umana e culturale delle persone che migrano. Anche in questo caso sarebbe opportuno parlare dell’esperienza migratoria come fenomeno storico, piuttosto che chiedere ai ragazzi di raccontare la storia propria o dei propri genitori. Se poi nascerà spontaneamente da loro il desiderio di portare la propria testimonianza ovviamente si valorizzerà anche questo contributo importante per chi lo offre e per tutta la classe che lo riceve.
Alcuni ragazzi che hanno vissuto in prima persona la migrazione, in età consapevole, possono anche vantare la conoscenza di due diversi sistemi scolastici, quello del paese d’origine, dove hanno magari iniziato l’esperienza della scuola e quello italiano, dove sono giunti in seguito, mettendoli in qualche modo a confronto. Conoscono a volto i limiti e i vincoli che i programmi scolastici possono avere, i loro legami con la storia, la cultura, le vicende politiche del paese e anche, in certi casi, l’imparzialità di visioni e i pregiudizi con cui trasmettono da una generazione all’altra la cultura del Paese. Anche questo è un sapere interculturale da valorizzare a scuola
Alcuni ragazzi che hanno vissuto in prima persona la migrazione, in età consapevole, possono anche vantare la conoscenza di due diversi sistemi scolastici, quello del paese d’origine, dove hanno magari iniziato l’esperienza della scuola e quello italiano, dove sono giunti in seguito, mettendoli in qualche modo a confronto. Conoscono a volto i limiti e i vincoli che i programmi scolastici possono avere, i loro legami con la storia, la cultura, le vicende politiche del paese e anche, in certi casi, l’imparzialità di visioni e i pregiudizi con cui trasmettono da una generazione all’altra la cultura del Paese. Anche questo è un sapere interculturale da valorizzare a scuola
La presenza degli alunni stranieri non può più essere vista come un’emergenza, né come un problema, ma piuttosto come l’opportunità per aggiornare in chiave interculturale il modo di fare scuola in Italia, offrendo alle nuove generazioni un’educazione il più possibile varia, approfondita e adeguata ai tempi. “La diversità deve essere assunta sia come punto di partenza sia come punto di arrivo del percorso educativo, un valore da favorire e al tempo stesso il criterio che ispira l’intera azione didattica. Le diversità sono lo stimolo e il principio per un’educazione basata sul confronto, la condivisione e l’infinità di conoscenze che ne derivano, trasformando le differenze, di qualsiasi natura esse siano, da ostacolo a risorsa per tutti” (Martinazzoli, 2012).
Diviene urgente, allora, per gli insegnanti sviluppare vere e proprie competenze interculturali, “superando la paura dell’altro, adottando un approccio inclusivo, considerando la diversità come una possibilità per tutti – così che si sentano più a loro agio e comunichino più efficacemente con i figli di migranti e le loro famiglie” (Moro, 2012).
La scuola può divenire così quel luogo in cui aprirsi a concezioni, valori, storie, differenti dalla propria, spesso con grande naturalezza e curiosità, trovando insegnanti pronti a valorizzare e accogliere le differenze di origine e tradizione. Quando questi atteggiamenti si diffondono e l’accoglienza e valorizzazione delle differenze diviene prassi condivisa e consapevole, la scuola, come sostiene Milena Santerini (2010) assume una vera e propria “qualità interculturale”, e può divenire polo attrattivo per tutte le famiglie, indipendentemente dalle loro origini, e luogo di accesso a un sapere complesso, aperto, dinamico, per tutti i loro figli.
Diviene urgente, allora, per gli insegnanti sviluppare vere e proprie competenze interculturali, “superando la paura dell’altro, adottando un approccio inclusivo, considerando la diversità come una possibilità per tutti – così che si sentano più a loro agio e comunichino più efficacemente con i figli di migranti e le loro famiglie” (Moro, 2012).
La scuola può divenire così quel luogo in cui aprirsi a concezioni, valori, storie, differenti dalla propria, spesso con grande naturalezza e curiosità, trovando insegnanti pronti a valorizzare e accogliere le differenze di origine e tradizione. Quando questi atteggiamenti si diffondono e l’accoglienza e valorizzazione delle differenze diviene prassi condivisa e consapevole, la scuola, come sostiene Milena Santerini (2010) assume una vera e propria “qualità interculturale”, e può divenire polo attrattivo per tutte le famiglie, indipendentemente dalle loro origini, e luogo di accesso a un sapere complesso, aperto, dinamico, per tutti i loro figli.
Testi citati
- Martinazzoli, C. «Così uguali, così diversi a scuola », in Granata, A. (a cura di), Intercultura. Report sul futuro, Città Nuova, Roma 2012
- Granata, A., Sono qui da una vita. Dialogo aperto con le seconde generazioni, Carocci, Roma 2011
- Moro M.R., Enfants de l’immigration, une chance pour l’école, Bayard, 2012
- Santerini, M., La qualità della scuola interculturale. Nuovi modelli per l’integrazione, Erickson, Trento 2010
http://www.giuntiscuola.it/sesamo/cultura-e-societa/punti-di-vista/imparare-gli-uni-dagli-altri-nella-scuola-di-tutti/
“LA SCUOLA È APERTA A TUTTI”: DALLA COSTITUZIONE A UN PROGETTO INTERCULTURALE DI SISTEMA
Massimiliano Fiorucci: 25 Settembre 2015
La scuola italiana ha sperimentato tante buone pratiche. Per raccoglierle e per trarne curricoli e metodologie didattiche adeguate a "spostare il centro del mondo" sarebbe opportuno creare un Centro nazionale di documentazione e ricerca sull’Educazione Interculturale. Di Massimiliano Fiorucci.
Curricolo esplicito e curricolo nascosto
L’integrazione delle differenze e delle diversità nella scuola italiana è un importante cammino di crescita culturale e civile che, nonostante la progressiva disattenzione in termini di riconoscimento sociale e di crescente riduzione dei finanziamenti, ha prodotto documenti, leggi e provvedimenti tra i più avanzati nel mondo occidentale. Si può affermare, in altri termini, che dal punto di vista giuridico e culturale la scuola italiana, a partire dal riferimento presente nella Costituzione, rappresenta un positivo esempio di democrazia e di cittadinanza inclusiva. Si tratta cioè di una scuola che non discrimina, che non esclude e che dovrebbe essere lo strumento per garantire l’eguaglianza civica affermata dagli articoli 3 (“Tutti i cittadini hanno parità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinione politica, di condizioni personali e sociali”) e 51 (“Tutti i cittadini possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”) della Costituzione italiana. Il problema della democrazia si pone dunque, in primo luogo, come un problema di istruzione e, infatti, l’articolo 34 della Costituzione recita “La scuola è aperta a tutti”. Si tratta evidentemente di un principio che richiede di essere attuato.
Nel solco della grande tradizione democratica e progressista della storia della scuola italiana la prospettiva interculturale intende proporre idee, strade e percorsi che gli insegnanti di ogni ordine e grado possono intraprendere mettendo a frutto la loro grande esperienza didattica. È necessario allora ripensare curricoli e metodologie didattiche per acquisire le competenze necessarie a “spostare il centro del mondo”. L’insegnamento tradizionale non sempre è riuscito a proporre il dialogo come strumento privilegiato nelle relazioni tra gli individui, favorendo di fatto una comunicazione a senso unico, mentre sarebbe più opportuno oggi fare ricorso a metodologie che consentano agli studenti di sperimentare concretamente l’attività dialogica e la pratica democratica. Una vera e propria revisione interculturale dell’educazione implica necessariamente oltre ad una revisione del curricolo esplicito anche una seria “esplorazione” del curricolo “nascosto”. Nonostante sia evidente un’obiettiva difficoltà a farne oggetto di analisi rigorosa, appare rilevante prendere in considerazione due dimensioni pedagogiche fondamentali:
- il clima scolastico, con gli atteggiamenti, i valori, le scelte degli allievi, nonché le modalità relazionali dei diversi soggetti del panorama scolastico;
- gli stili educativi degli insegnanti e le modalità con cui gestiscono le situazioni conflittuali in classe.
Il “clima” della scuola
In particolare, il clima scolastico deve essere analizzato in maniera ampia, coinvolgendo non solo i rapporti interni alla scuola, ma anche quelli esterni, relativi alle dimensioni sociali del contesto in cui si trova la scuola, o alle attività condotte in collaborazione con altre istituzioni socio-educative. Molti fattori concorrono, perciò, a modellare il clima scolastico in contesti multiculturali, come il grado della formalità delle relazioni nella scuola, la frequenza e la qualità dei contatti personali fra gli insegnanti e gli allievi e degli alunni fra di loro, lo stile di insegnamento prevalente, il ruolo e il rilievo delle attività extrascolastiche, l’apertura della scuola verso l’esterno.
Per fare un esempio, quella descritta e contenuta nel documento La via italiana per la scuola interculturale e l’integrazione degli alunni stranieri rappresenta una proposta globale di ripensamento della scuola che si rivolge a tutti gli alunni, che coinvolge tutti i livelli (insegnamento, curricoli, didattica, discipline, relazioni, vita della classe) e che considera tutte le differenze (di provenienza, genere, livello sociale, storia scolastica, ecc.), evidenziando i rischi di una malintesa educazione interculturale (culturalismo, banalizzazione, folklorizzazione, omologazione, enfatizzazione delle differenze, ecc.). Questo documento, al quale hanno lavorato alcuni dei principali studiosi dei fenomeni interculturali, rappresenta un punto di riferimento imprescindibile sul quale accordarsi per proporre un’interpretazione italiana di “educazione interculturale”. Attuare sistematicamente le azioni in esso descritte è già un preciso programma di lavoro per i prossimi anni.
Per fare un esempio, quella descritta e contenuta nel documento La via italiana per la scuola interculturale e l’integrazione degli alunni stranieri rappresenta una proposta globale di ripensamento della scuola che si rivolge a tutti gli alunni, che coinvolge tutti i livelli (insegnamento, curricoli, didattica, discipline, relazioni, vita della classe) e che considera tutte le differenze (di provenienza, genere, livello sociale, storia scolastica, ecc.), evidenziando i rischi di una malintesa educazione interculturale (culturalismo, banalizzazione, folklorizzazione, omologazione, enfatizzazione delle differenze, ecc.). Questo documento, al quale hanno lavorato alcuni dei principali studiosi dei fenomeni interculturali, rappresenta un punto di riferimento imprescindibile sul quale accordarsi per proporre un’interpretazione italiana di “educazione interculturale”. Attuare sistematicamente le azioni in esso descritte è già un preciso programma di lavoro per i prossimi anni.
Sembra utile, inoltre, provare a indicare in forma sintetica contesti e ambiti di ricerca e di sperimentazione sui quali sarà importante lavorare con ancora maggiore determinazione nel futuro prossimo: dall’analisi dell’apporto dell’extrascuola all’educazione interculturale al ruolo dell’associazionismo (ONG, associazioni del terzo settore, associazioni di migranti, volontariato), dalla ricerca sui percorsi di integrazione all’individuazione di indicatori di integrazione chiari e condivisi, dall’analisi critica dei libri di testo della scuola italiana alla revisione dei curricoli in prospettiva interculturale, dall’educazione degli adulti immigrati alla formazione continua e professionale, dall’inserimento scolastico degli allievi di origine straniera nelle scuole secondarie superiori fino al tema cruciale delle cosiddette “seconde generazioni”, dalla dispersione scolastica ai NEET.
La proposta di un Centro sull’educazione interculturale
Sul piano più generale va osservato che, a fronte di documenti illuminati e di un periodo di effettivo interesse anche politico al tema, si assiste ormai da anni alla progressiva riduzione delle risorse disponibili nel campo della ricerca e dell’istruzione. La questione interculturale è ormai considerata un argomento da specialisti e non chiama in causa il sistema educativo nel suo complesso che la ritiene, quando se ne ricorda, una delle tante questioni accanto alle altre.
Nel corso degli ultimi venticinque anni, in conseguenza dei fenomeni migratori in atto, la scuola italiana si è andata invece sempre più configurando in senso multiculturale. Come risposta a tali fenomeni il Ministero dell’Istruzione sin dagli anni Novanta ha emanato circolari, formulato proposte, elaborato documenti e prodotto rapporti di ricerca. Nel frattempo sul territorio nazionale le istituzioni scolastiche, i centri di istruzione degli adulti, le associazioni e gli organismi del terzo settore hanno elaborato nel corso degli anni una pluralità di risposte e di proposte anche molto avanzate che sono però rimaste patrimonio unicamente di coloro che hanno contribuito alla loro elaborazione. Si tratta di un grave deficit di comunicazione che ha reso difficile la circolazione e la messa in rete delle esperienze.
Nel corso degli ultimi venticinque anni, in conseguenza dei fenomeni migratori in atto, la scuola italiana si è andata invece sempre più configurando in senso multiculturale. Come risposta a tali fenomeni il Ministero dell’Istruzione sin dagli anni Novanta ha emanato circolari, formulato proposte, elaborato documenti e prodotto rapporti di ricerca. Nel frattempo sul territorio nazionale le istituzioni scolastiche, i centri di istruzione degli adulti, le associazioni e gli organismi del terzo settore hanno elaborato nel corso degli anni una pluralità di risposte e di proposte anche molto avanzate che sono però rimaste patrimonio unicamente di coloro che hanno contribuito alla loro elaborazione. Si tratta di un grave deficit di comunicazione che ha reso difficile la circolazione e la messa in rete delle esperienze.
Nella situazione odierna, con la presenza nella scuola italiana di più di 800mila allievi con cittadinanza non italiana, provenienti da circa 190 paesi, sembra necessario tentare di sistematizzare quanto si è fatto fino ad oggi nel campo dell’educazione interculturale. A tal fine sarebbe auspicabile la costituzione di un Centro nazionale di documentazione e ricerca sull’Educazione Interculturale deputato alla raccolta, alla capitalizzazione e alla diffusione delle “buone prassi” realizzate nei differenti territori. Tale centro dovrebbe configurarsi come punto centrale di “servizio” per raccogliere, sistematizzare, elaborare le esperienze e rimetterle in circolo nella rete.
Le migliori esperienze potrebbero essere raccolte, socializzate ed eventualmente trasferite, con i necessari adattamenti di contesto, anche in altre situazioni territoriali; l’istituzione di un tale centro potrebbe favorire anche il confronto con esperienze significative realizzate anche fuori dall’Italia. Il centro, dotato delle opportune risorse umane, economiche e strumentali, potrebbe anche configurarsi come luogo di promozione culturale per:
- promuovere e produrre rapporti di ricerca;
- realizzare monitoraggi, studi, ricerche e pubblicazioni sul fenomeno migratorio e sull’educazione interculturale;
- rendere disponibile e consultabile il materiale raccolto;
- organizzare e promuovere seminari, convegni, incontri di approfondimento;
- progettare e realizzare attività di formazione e ricerca;
- avviare e consolidare rapporti con altri centri di documentazione e ricerca esistenti in Italia (a livello locale), in Europa e nel mondo.
http://www.giuntiscuola.it/sesamo/cultura-e-societa/punti-di-vista/-la-scuola-e-aperta-a-tutti-dalla-costituzione-a-un-progetto-interculturale-di-sistema/
L’INTERAZIONE IN CLASSE TRA L’INSEGNANTE E GLI ALUNNI “STRANIERI”
Roberta Grassi, Università degli Studi di Bergamo: 21 Ottobre 2015
Come parliamo in classe con i bambini non (ancora) italofoni? E come possiamo migliorare l’interazione nella classe eterogenea? Il punto di vista di Roberta Grassi, ricercatore in Glottodidattica presso l'Università degli Studi di Bergamo.
Due caratteristiche chiave dell’interazione di classe
L’interazione che si svolge nelle classi ha molte caratteristiche peculiari che la differenziano in modo netto dalle conversazioni che avvengono fuori dalla scuola. Ne citiamo due, utili ai fini del nostro discorso sull’interazione con l’allievo straniero. La differenza più profonda risiede nella sua struttura prototipica, che prevede, anziché coppie di mosse comunicative tendenzialmente adiacenti (come domanda-risposta: “Sai che ore sono?” “Le sei meno venti” o ringraziamento-replica: “Grazie” “Prego”), una triade: la domanda, la risposta, e il feedback: “Jenny, che ore sono?” “Le sei meno venti” “Brava, benissimo!” Il “terzo turno” di questa tripletta è ciò che balza subito all’occhio come notevole, ma la sua presenza è in realtà dipendente dalla natura della prima mossa, detta di elicitazione: l’insegnante a scuola fa le domande non perché non sa, ma proprio perché sa. Lo scopo delle sue domande è infatti verificare se anche gli alunni sanno. Ecco perché, per ogni contributo dato dagli alunni, si apre potenzialmente il varco ad un turno di rettifica e di valutazione.
La seconda macro-caratteristica distintiva dell’interazione di classe risiede nella presenza di un interlocutore dominante, detto anche “regista”, figura-guida o orchestratore. È il partecipante all’interazione che ha più potere di ciascuno degli altri. Facile indovinare che si tratta dell’insegnante. Il regista dell’interazione in classe “domina” l’interazione di classe da diversi punti di vista: a) quantitativo, perché parla tipicamente più di ogni altro singolo interlocutore (o addirittura più di tutti gli altri messi insieme); b) qualitativo, perché a lui spettano le mosse conversazionali più forti, come il distribuire i turni di parola o il ristabilire l’ordine; c) semantico, perché è l’insegnante che decide di che cosa si deve parlare, quando e quanto a lungo; d) e infine, conoscitivo, perché la sua figura è quella a cui si ascrive il ruolo di competente/conoscitore/capace, mentre l’apprendente è interazionalmente rappresentato in posizione di (non ancora/non del tutto) incompetente.
La seconda macro-caratteristica distintiva dell’interazione di classe risiede nella presenza di un interlocutore dominante, detto anche “regista”, figura-guida o orchestratore. È il partecipante all’interazione che ha più potere di ciascuno degli altri. Facile indovinare che si tratta dell’insegnante. Il regista dell’interazione in classe “domina” l’interazione di classe da diversi punti di vista: a) quantitativo, perché parla tipicamente più di ogni altro singolo interlocutore (o addirittura più di tutti gli altri messi insieme); b) qualitativo, perché a lui spettano le mosse conversazionali più forti, come il distribuire i turni di parola o il ristabilire l’ordine; c) semantico, perché è l’insegnante che decide di che cosa si deve parlare, quando e quanto a lungo; d) e infine, conoscitivo, perché la sua figura è quella a cui si ascrive il ruolo di competente/conoscitore/capace, mentre l’apprendente è interazionalmente rappresentato in posizione di (non ancora/non del tutto) incompetente.
Ci accontentiamo di citare queste due caratteristiche, il formato triadico e le dominanze didattiche, perché il prosieguo del nostro discorso ci porterà a vedere come una loro accorta modulazione sia proficua per gli allievi “stranieri” (e non solo) ai fini dell’apprendimento linguistico – e, attraverso di esso, disciplinare.
Le accortezze interazionali suggerite dagli studi sull’acquisizione delle lingue
Esplicitiamo a questo punto un altro dato di fondo: è senza dubbio nell’interesse di ogni insegnante disciplinare l’avanzamento della competenza linguistica nei suoi studenti, in particolare nella lingua dello studio per il proprio ambito disciplinare: attraverso una migliorata competenza anche il possesso dei contenuti migliora significativamente. Di qui l’interesse della scuola tutta agli studi sulle lingue seconde.
Le ricerche sull’acquisizione linguistica sono in grado di suggerirci alcune direzioni per le attenzioni interazionali (e non solo) da adottare in classi dove a un obiettivo contenutistico si affianca, implicitamente, anche un obiettivo di accrescimento della competenza linguistica (e si badi che la questione, posta in questo modo, va a riguardare tutti i discenti). Alcuni dei punti tendenzialmente condivisi come utili o addirittura indispensabili per l’avanzamento delle competenze linguistiche riguardano almeno in parte l’interazione didattica: la necessità di un input comprensibile, l’utilità di un input potenziato, i vantaggi delle opportunità di output, i benefici della focalizzazione sulle forme (in particolare, nell’interazione, attraverso la correzione e la negoziazione dell’input). Vediamo brevemente ciascuno di essi.
Le ricerche sull’acquisizione linguistica sono in grado di suggerirci alcune direzioni per le attenzioni interazionali (e non solo) da adottare in classi dove a un obiettivo contenutistico si affianca, implicitamente, anche un obiettivo di accrescimento della competenza linguistica (e si badi che la questione, posta in questo modo, va a riguardare tutti i discenti). Alcuni dei punti tendenzialmente condivisi come utili o addirittura indispensabili per l’avanzamento delle competenze linguistiche riguardano almeno in parte l’interazione didattica: la necessità di un input comprensibile, l’utilità di un input potenziato, i vantaggi delle opportunità di output, i benefici della focalizzazione sulle forme (in particolare, nell’interazione, attraverso la correzione e la negoziazione dell’input). Vediamo brevemente ciascuno di essi.
- La comprensibilità del parlato dell’insegnante
Gli adeguamenti nel parlato dell’insegnante per renderlo più semplice e pertanto facilmente comprensibile non meritano, nell’economia dello spazio qui a nostra disposizione, molti approfondimenti. Ogni parlante, anche gli stessi bambini e i non nativi, è infatti in grado spontaneamente di “semplificare” il proprio parlato, con accorgimenti quali un ritmo d’eloquio più lento, più enfaticamente mosso, più scandito, più sintatticamente lineare, punteggiato da molte mosse dette di “negoziazione”, anch’esse molto utili per la comprensione, come È tutto chiaro?, Chi mi dice quel che ha capito?, Ci sono domande? e simili.
Il problema, nel caso dell’insegnante “dominante” classicamente impegnato nell’attività di monologo uno-a-molti che si chiama spiegazione, è volerlo fare. In ogni comunicazione uno-a-molti chi parla ha davanti un uditorio che deve giocoforza considerare una coorte: anche se composto di individui molto diversi tra loro, e a lui/lei non noti, il parlante si formerà un’immagine mentale delle loro preconoscenze e dei loro interessi, per cercare di comunicare nel modo più efficace per tutti.
È praticamente impossibile assimilare i componenti di una classe plurilingue ad un’unica coorte: anche ammesso di poterlo fare con i nativi (si pensi ai BES o alle eccellenze), per gli “stranieri” è ancor più arduo: accanto al bilingue nato in Italia siede il NAI con il quale non condividiamo alcuna lingua minimamente intercomprensibile, a sua volta vicino all’alunno scolarizzato in una lingua imparentata con l’italiano e ormai qui da alcuni anni.
In questa situazione, il nostro oratore selezionerà un interlocutore ideale e alla comprensibilità per quest’ultimo sarà orientato il suo discorso. Alcuni insegnanti si immedesimano negli ultimi arrivati, con il risultato di fornire un input “povero” (i-1, direbbe Krashen) soprattutto alle eccellenze. Altri ignoreranno le “code”, conformandosi all’idea del loro studente ideale, magari il primo della classe di quella famosa terza di tanti anni fa.
Sembra un problema senza soluzione, e invece la soluzione c’è: innanzitutto, i momenti di comunicazione monologica sono da ridurre al minimo indispensabile, optando per scelte metodologiche più interattive (collaborative e cooperative) e meno centrate sull’insegnante. Nelle comunicazioni plenarie indispensabili, il destinatario ideale va cambiato più volte, a seconda degli obiettivi di apprendimento individualmente prefissati per ciascuna UD. Non va inoltre dimenticato un aspetto cruciale: la comprensibilità si può incrementare con ausili non solo para-, ma anche extralinguistici. Molto utili, indispensabili anzi, saranno allora gli abbinamenti non solo tra la parola scritta e quella orale, ma anche l’uso di gesti, immagini, realia, nonché la sollecitazione della “grammatica dell’attesa” attraverso la condivisione di una scaletta dell’UD o delle attività e dei contenuti- chiave per la data lezione. Ancora: se si stanno veicolando informazioni centrali e di base, che possono e devono raggiungere tutti, molta sarà la ridondanza (verbale e non); mai ripetitiva, ma al contrario variata per strumenti e canali, verso l’alto e verso il basso. Nell’aggiungere dettagli, istituire collegamenti, insinuare criticità, al contrario, il parlato potrà stratificarsi meno, e in una sola direzione. Va da sé che le richieste in fase di verifica e valutazione saranno coerenti con quanto fornito (ma questo è un altro tema).
Il problema, nel caso dell’insegnante “dominante” classicamente impegnato nell’attività di monologo uno-a-molti che si chiama spiegazione, è volerlo fare. In ogni comunicazione uno-a-molti chi parla ha davanti un uditorio che deve giocoforza considerare una coorte: anche se composto di individui molto diversi tra loro, e a lui/lei non noti, il parlante si formerà un’immagine mentale delle loro preconoscenze e dei loro interessi, per cercare di comunicare nel modo più efficace per tutti.
È praticamente impossibile assimilare i componenti di una classe plurilingue ad un’unica coorte: anche ammesso di poterlo fare con i nativi (si pensi ai BES o alle eccellenze), per gli “stranieri” è ancor più arduo: accanto al bilingue nato in Italia siede il NAI con il quale non condividiamo alcuna lingua minimamente intercomprensibile, a sua volta vicino all’alunno scolarizzato in una lingua imparentata con l’italiano e ormai qui da alcuni anni.
In questa situazione, il nostro oratore selezionerà un interlocutore ideale e alla comprensibilità per quest’ultimo sarà orientato il suo discorso. Alcuni insegnanti si immedesimano negli ultimi arrivati, con il risultato di fornire un input “povero” (i-1, direbbe Krashen) soprattutto alle eccellenze. Altri ignoreranno le “code”, conformandosi all’idea del loro studente ideale, magari il primo della classe di quella famosa terza di tanti anni fa.
Sembra un problema senza soluzione, e invece la soluzione c’è: innanzitutto, i momenti di comunicazione monologica sono da ridurre al minimo indispensabile, optando per scelte metodologiche più interattive (collaborative e cooperative) e meno centrate sull’insegnante. Nelle comunicazioni plenarie indispensabili, il destinatario ideale va cambiato più volte, a seconda degli obiettivi di apprendimento individualmente prefissati per ciascuna UD. Non va inoltre dimenticato un aspetto cruciale: la comprensibilità si può incrementare con ausili non solo para-, ma anche extralinguistici. Molto utili, indispensabili anzi, saranno allora gli abbinamenti non solo tra la parola scritta e quella orale, ma anche l’uso di gesti, immagini, realia, nonché la sollecitazione della “grammatica dell’attesa” attraverso la condivisione di una scaletta dell’UD o delle attività e dei contenuti- chiave per la data lezione. Ancora: se si stanno veicolando informazioni centrali e di base, che possono e devono raggiungere tutti, molta sarà la ridondanza (verbale e non); mai ripetitiva, ma al contrario variata per strumenti e canali, verso l’alto e verso il basso. Nell’aggiungere dettagli, istituire collegamenti, insinuare criticità, al contrario, il parlato potrà stratificarsi meno, e in una sola direzione. Va da sé che le richieste in fase di verifica e valutazione saranno coerenti con quanto fornito (ma questo è un altro tema).
- Il potenziamento dell’input
La comprensibilità del parlato può portare paradossalmente ad un detrimento delle competenze, se intesa solo nel suo versante di “semplificazione” e non invece di una “elaborazione” per rendere più chiari, espliciti, precisi e quindi comprensibili i collegamenti tra le informazioni e le informazioni stesse. Nel “parlato semplificato” che si sente purtroppo spesso rivolto ad esempio agli immigrati negli uffici pubblici, e che è associato a forte asimmetria sociale, forme e strutture complesse vengono evitate, risultando così assenti nell’input e pertanto impossibili da acquisire.
Con l’importantissima accortezza (in cui non possiamo addentrarci qui) di saper calibrare le difficoltà linguistiche proposte a ciascun discente rispetto al suo livello di interlingua, gli studi sul potenziamento dell’input suggeriscono invece di “inondare”, evidenziandole, i testi proposti di quelle date strutture che si desidera vengano innanzitutto notate, per poi essere elaborate e via via interiorizzate. Ma poiché il potenziamento dell’input ha applicazioni interessanti soprattutto nel canale scritto, ci limitiamo qui al suo solo accenno.
Decisamente più rilevanti per la strutturazione dell’interazione in classi plurilingui sono invece la distribuzione delle opportunità di output (cioè, le opportunità d’intervento degli studenti nell’interazione scolastica) nonché, in questo quadro, la correzione dell’errore. È pertanto su questi due temi che ci soffermeremo prima di concludere.
Con l’importantissima accortezza (in cui non possiamo addentrarci qui) di saper calibrare le difficoltà linguistiche proposte a ciascun discente rispetto al suo livello di interlingua, gli studi sul potenziamento dell’input suggeriscono invece di “inondare”, evidenziandole, i testi proposti di quelle date strutture che si desidera vengano innanzitutto notate, per poi essere elaborate e via via interiorizzate. Ma poiché il potenziamento dell’input ha applicazioni interessanti soprattutto nel canale scritto, ci limitiamo qui al suo solo accenno.
Decisamente più rilevanti per la strutturazione dell’interazione in classi plurilingui sono invece la distribuzione delle opportunità di output (cioè, le opportunità d’intervento degli studenti nell’interazione scolastica) nonché, in questo quadro, la correzione dell’errore. È pertanto su questi due temi che ci soffermeremo prima di concludere.
- Sollecitare la produzione
Importantissimi studi svolti prevalentemente in Canada già negli anni ’80 del secolo scorso evidenziarono come studenti inseriti in contesti scolastici detti di “immersione”, ovvero in cui le materie di studio erano proposte in tutto o in gran parte in una lingua non materna, mostrassero significative differenze nelle loro competenze linguistiche non tanto ricettive, quanto produttive, rispetto ai “nativi”. Le loro performance linguistiche orali e soprattutto scritte erano inferiori a quelle dei coetanei la cui lingua materna coincideva con quella adottata a scuola, sebbene si trattasse di studenti alloglotti inseriti in quel contesto sin dall’inizio del percorso di studio. Le differenze principali riguardavano l’accuratezza e la complessità delle loro produzioni.
L’analisi di questi contesti portò la studiosa Merrill Swain ad identificare nelle diseguali opportunità di produrre lingua le principali cause di questa discrepanza. Da qui nacque la teoria dell’output, che appunto raccomanda di fornire all’apprendente non solo un input comprensibile, ma anche adeguate opportunità di produrre lingua. Quali sono le basi di questa teoria? Innanzitutto, il fatto che solo la produzione costringe ad una “sintattizzazione” degli elementi (la comprensione infatti può avere basi eminentemente semantiche, mentre produrre lingua costringe a “mettere in fila” e collegare adeguatamente tra di loro le forme e le strutture). Produrre lingua, e nello specifico negoziare, potendo segnalare le proprie difficoltà di comprensione o produzione, è inoltre utilissimo per procurarsi ulteriore input, e per di più, “fatto su misura” per i propri limiti, dubbi, interessi.
Un nostro studio descrittivo in una classe di scuola media, seguita per un’intera unità didattica (ben 10 h) di geografia, ha evidenziato il caso di due bilingui entrambe nate e scolarizzate in Italia che partecipavano all’interazione con grande disparità quantitativa. Mentre Shu imperversava con una media di turni di negoziazioni da lei iniziate addirittura superiore alla media degli studenti nativi, Jamila in 10 ore non è mai intervenuta una sola volta. Molti i fattori presumibilmente alla base di questa differenza, alcuni certo anche personali, che andrebbero innanzitutto indagati e probabilmente, almeno in una certa misura, anche rispettati. Ciò detto (e quanto segue vale in generale, ma lo diremo qui con specifico riferimento all’utilità per l’apprendimento linguistico): l’insegnante non può subire l’estroversione o introversione dei propri alunni; bensì, deve curare che le opportunità di partecipazione all’interazione siano tendenzialmente equamente distribuite tra i suoi apprendenti, tenuto conto dei loro livelli di competenza. È, anche questo, un tema che meriterebbe ben altri approfondimenti, legati ad esempio alla gestione delle dinamiche relazionali in situazioni multiculturali con disparità di competenze linguistiche.
Tornando invece ai fattori interazionali positivi per l’apprendimento linguistico oggetto del nostro discorso, osserviamo un ultimo cruciale vantaggio del poter produrre output: l’opportunità di testare le proprie ipotesi sul funzionamento della lingua obiettivo, ricevendone conferme o al contrario indicazioni che tali ipotesi sono da rivedere. Come? Essenzialmente attraverso la correzione.
L’analisi di questi contesti portò la studiosa Merrill Swain ad identificare nelle diseguali opportunità di produrre lingua le principali cause di questa discrepanza. Da qui nacque la teoria dell’output, che appunto raccomanda di fornire all’apprendente non solo un input comprensibile, ma anche adeguate opportunità di produrre lingua. Quali sono le basi di questa teoria? Innanzitutto, il fatto che solo la produzione costringe ad una “sintattizzazione” degli elementi (la comprensione infatti può avere basi eminentemente semantiche, mentre produrre lingua costringe a “mettere in fila” e collegare adeguatamente tra di loro le forme e le strutture). Produrre lingua, e nello specifico negoziare, potendo segnalare le proprie difficoltà di comprensione o produzione, è inoltre utilissimo per procurarsi ulteriore input, e per di più, “fatto su misura” per i propri limiti, dubbi, interessi.
Un nostro studio descrittivo in una classe di scuola media, seguita per un’intera unità didattica (ben 10 h) di geografia, ha evidenziato il caso di due bilingui entrambe nate e scolarizzate in Italia che partecipavano all’interazione con grande disparità quantitativa. Mentre Shu imperversava con una media di turni di negoziazioni da lei iniziate addirittura superiore alla media degli studenti nativi, Jamila in 10 ore non è mai intervenuta una sola volta. Molti i fattori presumibilmente alla base di questa differenza, alcuni certo anche personali, che andrebbero innanzitutto indagati e probabilmente, almeno in una certa misura, anche rispettati. Ciò detto (e quanto segue vale in generale, ma lo diremo qui con specifico riferimento all’utilità per l’apprendimento linguistico): l’insegnante non può subire l’estroversione o introversione dei propri alunni; bensì, deve curare che le opportunità di partecipazione all’interazione siano tendenzialmente equamente distribuite tra i suoi apprendenti, tenuto conto dei loro livelli di competenza. È, anche questo, un tema che meriterebbe ben altri approfondimenti, legati ad esempio alla gestione delle dinamiche relazionali in situazioni multiculturali con disparità di competenze linguistiche.
Tornando invece ai fattori interazionali positivi per l’apprendimento linguistico oggetto del nostro discorso, osserviamo un ultimo cruciale vantaggio del poter produrre output: l’opportunità di testare le proprie ipotesi sul funzionamento della lingua obiettivo, ricevendone conferme o al contrario indicazioni che tali ipotesi sono da rivedere. Come? Essenzialmente attraverso la correzione.
- Come correggere
La forma di correzione dell’orale generalmente più diffusa in tutti i contesti didattici è la riformulazione: *Non mi ha neanche offrito una caramella viene riparato fornendo direttamente la versione corretta, pronunciata in isolamento e con una certa enfasi: OFFERTO! oppure incassata in una replica come E tu che cosa gli hai offerto, invece?
I propugnatori dell’ipotesi dell’output a cui si accennava poc’anzi non amano, si può ben intuire, questa modalità correttiva, preferendole invece la sollecitazione, ovvero una mossa che richiama l’apprendente (o un suo compagno, o la classe tutta) a correggersi da sé, o segnalando un problema (Come scusa?) oppure fornendo anche qualche indizio: Offrire è irregolare!
Nelle classi disciplinari la sollecitazione è tipicamente riservata agli errori di contenuto, che sono più al centro dell’attenzione. In un contributo multiproblematico come Colombo nato a Spagna, la reazione di sollecitazione focalizza Dov’è nato?! riservando agli errori morfosintattici la più implicita, e quindi sfuggente, delle correzioni: Guarda che non è nato in Spagna – la riformulazione completa, non enfatica, incassata.
Se in una classe di lingua la riformulazione può effettivamente essere sufficiente a raggiungere la consapevolezza dell’apprendente circa i propri errori, dove l’attenzione primaria è sul contenuto la focalizzazione formale (che gli studi ci confermano essere utile per il progredire delle competenze linguistico-comunicative) deve essere più enfatica, esplicita, e se possibile partecipata, per risultare più efficace. È ben vero che la sollecitazione è più dispendiosa in termini di tempo e di energie di gestione dei suoi esiti (che possono condurre ad ulteriori interventi problematici), ma è anche vero che il suo uso, associato al coinvolgimento della classe tutta alla ricerca della soluzione e magari anche del suo perché può trasformarsi un’utilissima “spinta” all’avanzamento della competenza linguistica e metalinguistica tanto degli “alloglotti” quanto dei “nativi”.
I propugnatori dell’ipotesi dell’output a cui si accennava poc’anzi non amano, si può ben intuire, questa modalità correttiva, preferendole invece la sollecitazione, ovvero una mossa che richiama l’apprendente (o un suo compagno, o la classe tutta) a correggersi da sé, o segnalando un problema (Come scusa?) oppure fornendo anche qualche indizio: Offrire è irregolare!
Nelle classi disciplinari la sollecitazione è tipicamente riservata agli errori di contenuto, che sono più al centro dell’attenzione. In un contributo multiproblematico come Colombo nato a Spagna, la reazione di sollecitazione focalizza Dov’è nato?! riservando agli errori morfosintattici la più implicita, e quindi sfuggente, delle correzioni: Guarda che non è nato in Spagna – la riformulazione completa, non enfatica, incassata.
Se in una classe di lingua la riformulazione può effettivamente essere sufficiente a raggiungere la consapevolezza dell’apprendente circa i propri errori, dove l’attenzione primaria è sul contenuto la focalizzazione formale (che gli studi ci confermano essere utile per il progredire delle competenze linguistico-comunicative) deve essere più enfatica, esplicita, e se possibile partecipata, per risultare più efficace. È ben vero che la sollecitazione è più dispendiosa in termini di tempo e di energie di gestione dei suoi esiti (che possono condurre ad ulteriori interventi problematici), ma è anche vero che il suo uso, associato al coinvolgimento della classe tutta alla ricerca della soluzione e magari anche del suo perché può trasformarsi un’utilissima “spinta” all’avanzamento della competenza linguistica e metalinguistica tanto degli “alloglotti” quanto dei “nativi”.
Conclusioni
Con questa brevissima panoramica su alcune questioni legate all’interazione nelle classi plurilingui speriamo di aver incuriosito il lettore ad approfondire la conoscenza di alcuni strumenti per l’ottimizzazione delle opportunità di apprendimento linguistico e, attraverso di esso, disciplinare, da *offertare ai propri studenti.
http://www.giuntiscuola.it/sesamo/cultura-e-societa/punti-di-vista/l-interazione-in-classe-tra-l-insegnante-e-gli-alunni-stranieri/
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