Un anno accademico di svolta, il 2015-2016, per l’università italiana. Lo afferma Repubblica che, per confrontare i dati ufficiali del ministero dell’Istruzione, ancora in ritardo, “ha chiesto a 77 singoli atenei (statali o riconosciuti) i numeri aggiornati sulle immatricolazioni in corso”. Il risultato, ancora provvisorio, offre una buona notizia: “dopo dieci stagioni di immatricolazioni in discesa (-20%), i dati nelle segreterie dei singoli atenei indicano un cambio di direzione: il ritorno alla crescita degli iscritti al primo anno”.
Come spiega Repubblica, “70 università hanno risposto garantendo la comparazione con la stagione precedente”: il risultato è che “45 atenei risultano con le matricole in crescita, 23 sono in calo e 2 hanno gli stessi ‘nuovi studenti’ del 2014-2015”. Il totale degli iscritti al primo anno dei settanta atenei “cresce di 9.728 studenti, il 3,2 per cento”.Bene la situazione a Milano, cresce di poco Bologna, crescono tanto Parma e Modena-Reggio. Bene Ca’ Foscari di Venezia, Torino e Padova, ma “il ritorno più atteso, e che fa pensare che questi dati in divenire abbiano una sostanza, è la crescita delle università del Sud”.
http://www.illibraio.it/buona-notizia-iscrizioni-universita-316123/
Università, l’Italia taglia, la Germania investe.
È stato il più grande disinvestimento nella storia della formazione superiore.
Negli ultimi sette anni l’università italiana si è ridotta del 20%.
Spariti studenti, docenti, corsi di studio e finanziamento pubblico tagliato di 1,1 miliardi da Berlusconi-Gelmini-Tremonti e mai più rifinanziati. Negli primi sette anni della crisi, l’Italia investe meno di 7 miliardi nella sua università, mentre la Germania 26. L’Italia ha tagliato gli investimenti del 22%, la Germania li ha aumentati del 23%.
Chi ha provocato la crisi dell’università? I governi.
Berlinguer all’università
Sono i dati del rapporto 2015 «Nuovi Divari» della Fondazione Res, presentata ieri a Palermo da Gianfranco Viesti , economista all’università di Bari. Nell’indagine sullo stato dell’università del Nord e del Sud emerge un’altra realtà strutturale: la «riforma», tutta valutazione e tagli, che ha investito gli atenei dal 2010 a oggi, ha drenato le risorse dal Sud al Nord, provocando questi risultati:
- gli studenti immatricolati si sono ridotti di oltre 66mila (-20%);
- i docenti sono scesi a meno di 52mila (-17%);
- il personale tecnico amministrativo a 59mila (-18%).
- La metà del calo delle immatricolazioni è al sud. Il 30% degli immatricolati meridionali si iscrivono al Centro Nord. In Sicilia ormai quasi un terzo emigra, a fronte di meno di un sesto nel 2003-04.
Da cosa fuggono questi ragazzi?
Ad esempio dalla mancanza di un diritto allo studio a Sud.
Nel 2013–14 circa il 40% degli studenti, pur essendo idoneo, non è riuscito a beneficiare di una borsa di studio per mancanza di risorse. Nelle università sarde e siciliane la percentuale arriva al 60%. Questi numeri dimostrano che i tagli, il disinvestimento, il dispositivo di governo della meritocrazia e della valutazione hanno accentuato i problemi del sistema. Il rapporto ricorda il fallimento della legge Berlinguer-Zecchino, quella del «3+2»: l’Italia è lontana dall’obiettivo del 40% di laureati entro il 2020. Siamo all’ultimo posto nell’Europa a 28 con il 23,9%.
Meritocrazia: istruzioni per l’uso
La critica viene portata fino al cuore del sistema «meritocratico»:
il cambio apportato ai meccanismi di finanziamento degli atenei ha aumentato fino al 20% la quota premiale legata a risultati conseguiti nella didattica e nella ricerca, ma ha anche penalizzato le università del Mezzogiorno punendo le loro inefficienze e negandogli un reale miglioramento.
Valutare e punire.
Questo è il reale significato del dispositivo adottato nell’università.
È stato così creato un sistema formativo sempre più differenziato fra sedi più e meno dotate di fondi, docenti, studenti concentrate in alcune aree del Nord.
In sette anni di contro-riforma si affermata una costante: tra destra e sinistra non c’è differenza . Entrambe hanno seguito la stessa strategia. Se la prima ha tagliato, la seconda ne ha condiviso l’impostazione culturale. Nella sua introduzione al rapporto Viesti misura questa continutà con il criterio della disuguaglianza territoriale. “Le politiche universitarie degli ultimi sette anni, condotte con sorprendente continuità da governi di colore molto diverso – sostiene – stanno aggravando significativamente questi divari. La riduzione del Fondo di Finanziamento Ordinario, e la sua ripartizione con nuovi criteri, sempre variabili e tutti discutibili, ha colpito particolarmente le università del Centro-Sud, e in misura ancor più accentuata quelle delle Isole”.
***Intervista: Gianfranco Viesti: “L’austerità fa più male al Sud”
E gli studenti?
Queste disparità, sommate ai tagli, hanno prodotto conseguenze sui docenti e sugli studenti.
“Le carriere degli studenti o la partecipazione all’Erasmus, dipendono molto dai contesti — continua Viesti –Il limitato turnover dei docenti, poi, è stato assai differente fra sedi, anche in base ad indicatori territorialmente connotati come il gettito della contribuzione studentesca; lo stesso reclutamento dei nuovi professori abilitati è stato molto maggiore al Nord rispetto alle altre circoscrizioni del paese. Tutto ciò non aiuta a superare inefficienze: rende l’università del Sud molto più piccola, ma non per questo migliore”.
Lo scenario del disinvestimento e della programmatica crescita delle divaricazioni territoriali viene ulteriormente aggravato da una politica disastrosa del personale docente. La ricerca e, soprattutto, gli insegnamenti dei corsi di laurea sono stati ridisegnati “in base al pensionamento di parte dei professori, sostituiti solo in misura limitata; un corpo docente anziano; un modesto trasferimento tecnologico”.
In altre parole, la permanenza fino ai 70 anni (e oltre) dei “baroni”, l’uso distorto delle abilitazioni scientifiche “a scadenza” (un’altra invenzione della Gelmini, caso unico al mondo) come anticamera allo scorrimento di carriera dei ricercatori già assunti, il blocco delle assunzioni, il precariato diffuso hanno creato una miscela auto-implosiva che si riflette sulla contenuta qualità nell’elaborazione e nella trasmissione dei saperi e delle tecnologie.
Vita breve del diritto allo studio.
L’uso politico della «meritocrazia» ha accentuato la tradizionale biforcazione con il Sud.
«I cambiamenti, pur molto profondi, sembrano avvenire senza un chiaro disegno degli obiettivi da raggiungere: l’università italiana deve assomigliare più a quella tedesca o a quella inglese?» domanda Viesti. Per il momento assomiglia a se stessa: molto piccola, molto più sperequata territorialmente, di qualità programmaticamente inferiore all’intera Europa, con saperi mordi e fuggi, di breve durata e nessuna consistenza critica.
Jacopo Dionisio (Udu) definisce «scellerata» la stagione delle «riforme» che hanno portato a questo punto l’università. Uno stanziamento immediato sul diritto allo studio nella legge di stabilità è stato chiesto dal segretario confederale Cgil Gianna Fracassi. Alberto Campailla (Link) descrive la situazione del diritto allo studio: “i servizi del diritto allo studio si rivolgono solo al 10 % del totale degli universitari e, tra gli idonei a ricevere la borsa di studio, uno su quattro non la ottiene per mancanza di fondi. Anche i servizi mensa e alloggio sono a dir poco carenti: solo il 2% degli studenti è assegnatario di un posto alloggio nelle residenze universitarie mentre è disponibile un posto in mensa ogni 35 studenti iscritti ”.
Il 18 dicembre è stato annunciato un presidio a Montecitorio al quale parteciperanno gli studenti di Link, i dottorandi dell’Adi, il coordinamento dei ricercatori precari, la Rete 29 aprile e Flc-Cgil. Si chiede un «politica reale di investimenti a cominciare dagli atenei del Sud».
il manifesto - Autore: Roberto Ciccarelli
http://www.controlacrisi.org/notizia/Conoscenza/2015/12/11/46353-universita-litalia-taglia-la-germania-investe/
Processo all’università: sempre più inefficace e iniqua
I giovani non si fidano più e fuggono dalle università italiane: crollo delle immatricolazioni e degli iscritti ai test d'ingresso. Investimenti inferiori ai partner europei. Forbice fra Nord-Sud e fra ricchi e poveri che si apre inesorabile. Questi i numeri degli atenei nella penisola
14 Ottobre 2015 - 14:22
Gli anni della contestazione giovanile hanno avuto come lascito positivo lo sviluppo dell’università di massa. Parlando del caso meneghino, l’Università degli Studi di Milanopassò dai 7.461 iscritti del 1959 ai quasi 20.000 del 1969-70. Da quel momento, anche sullo sfondo della contestazione studentesca e delle ulteriori suggestioni che questa alimentava, la tendenza si fece via via più intensa e accelerata, fino alla punta dei 63.642 iscritti nel 1978-79, un processo che coinvolgeva tutto l’universo universitario italiano.
Negli ultimi dieci anni però si assiste ad una netta controtendenza. «In un mercato del lavoro condizionato dalle reti di relazioni e dalla prevalenza di canali informali di reclutamento, l’indagine testimonia che nel corso della recessione la mobilità sociale non è certo migliorata:la crisi occupazionale ha colpito maggiormente chi proviene da contesti meno favoriti, ingessando ancor di più la struttura sociale del Paese», è stato il commento del professor Francesco Ferrante. Parlava al convegno che a maggio si è svolto sul XVII Rapporto AlmaLaurea, “Profilo e la Condizione occupazionale dei laureati” all’Università Bicocca di Milano. «Tra il 2006 e il 2014 il tasso di occupazione dei giovani provenienti da famiglie meno favorite si è ridotto di 10 punti percentuali, a fronte di una riduzione di tre punti per i giovani provenienti dalle famiglie più favorite».
Le retribuzioni dei laureati provenienti da famiglie con laureati sono scese del 13%, quelle di chi ha famiglie con licenza elementare del 20%
Una dinamica simile si è registrata anche per le retribuzioni reali, diminuite tra il 2006 e il 2014 del 13% per i laureati provenienti da famiglie dove almeno uno dei genitori è in possesso di laurea; la discesa per chi proviene dalle famiglie in possesso di licenza elementare è stata invece del 20 per cento. Di conseguenza l’appetibilità degli studi universitari, soprattutto per i giovani provenienti da questi contesti, ne ha risentito e rischia di affievolire ulteriormente il ruolo dell’istruzione avanzata come ascensore sociale. Quella che viene sempre definita“morte dell’università” è sempre di più un dato strutturale: le iscrizioni all’università sono in decrescita, di anno in anno. Nel 2013 fece scalpore il dato dei 58.000 immatricolati in menorispetto al decennio precedente. Ma non bisogna fermarsi al solo crollo delle immatricolazioni. Infatti, fra il 2015 e il 2014 si sono registrate quasi 70.000 iscrizioni in meno (45.000 solo al Sud); e nel 2014 si registrava un calo rispetto al 2013 di oltre 32.000 iscritti (dato fornito dall'Anagrafe nazionale degli studenti universitari elaborata dal Miur).
Le immatricolazioni per l’anno accademico 2014/15 sono precipitate del 20% rispetto a quelle dell’anno 2004/5. Un calo che è più forte al Sud
Significa non solo che nelle università ci sono molti fuoricorso (per motivi disparati: non è per forza sinonimo di “mantenuto”, dato che molti lavorano), ma che numerosi studenti abbandonano gli studi, non ritenendo indispensabile concludere quel percorso per accedere al lavoro. Calano anche le iscrizioni ai test d’ingresso per le facoltà a numero chiuso (medicina, architettura, veterinaria): meno di 80.000 nel 2015 contro i 90.000 del 2014 e i 115.000 del 2013. Il numero di quest’anno, però, è comunque alto se si pensa che corrisponde a circa il 30% degli immatricolati nello scorso anno accademico.
Chi è il responsabile di questa situazione? L'Udu (l’Unione degli universitari) attribuisce la responsabilità alla riforma Gelmini, uno spartiacque del rapporto tra diplomati e università: secondo Gianluca Scuccimarra, coordinatore dell’Udu, «Le prime rilevazioni su immatricolazioni e iscrizioni per l’anno accademico 2014-15 sono in linea con le nostre paure e previsioni. Assistiamo a una consistente migrazione di studenti dovuta allo squilibrio nelle politiche e nei finanziamenti per il diritto allo studio tra Sud e Centro-Nord. E il pesante incremento di numeri programmati ha colpito particolarmente gli atenei meridionali». Quel dicembre 2010 – quando fu approvata la riforma universitaria n. 240 – ha poi coinciso con l’inizio della fase più aspra della peggiore crisi economica italiana dal dopoguerra. Le motivazioni, oltre che politiche, sono anche di tipo economico-sociale. Salvo Intravaia scriveva a maggio su La Repubblica che «la fuga dalle aule universitarie ha in pratica colpito esclusivamente i ragazzi degli istituti tecnici e professionali, prevalentemente figli di famiglie di classi sociali ed economiche più esposte alla crisi», questo per i tagli al Ffo (con la conseguente impennata delle tasse) e ai fondi nazionali e regionali per il diritto allo studio con la legge di Stabilità.
La Crui, la Conferenza dei rettori contraltare degli studenti, rileva nel 2015 la diminuzione di 87,4 milioni di euro per il Fondo di finanziamento ordinario, con tagli, dal 2009, di oltre 800 milioni. Oggi l'Ffo girato dallo Stato alle università italiane rappresenta lo 0,42% del Pil contro lo 0,99% in Francia e lo 0,92% in Germania.
Gli immatricolati che hanno conseguito il diploma in un istituto tecnico o professionale crollano del 45% rispetto a dieci anni fa. Inoltre, per la prima volta, il dato significativo è il calo del laureati, 258.052 nel 2014, 37.616 in meno, cioè il 12,72%, il peggior dato dal 2003-04
Il mutamento del ruolo dell’università e delle prospettive di lavoro offerte da una laurea, è un’altra causa di crisi. La discrepanza fra laureati e i posti di lavoro qualificato disponibili, rende l’università un enorme bacino di raccolta dei giovani della classe media, che aspirano ad una scalata sociale e possono permettersi di sostenere i costi degli studi universitari.
La crisi economica inoltre – e la cura basata su politiche di austerity – ha creato una forbicegeografico-sociale fra Nord e Sud, favorendo l’emigrazione interna dei giovani diplomati meridionali che si immatricolano nelle università settentrionali. Quando il mercato del lavoro diventa più selettivo diminuisce il valore del titolo e aumenta quello delle effettive competenze; gli studenti più motivati (e con i mezzi economici per farlo) cercano di distinguersi, conseguendo titoli più spendibili sul mercato in zone dove le università sono più “competitive”. E nelle facoltà meridionali il calo delle immatricolazioni è stato più accentuato tra i più poveri: in base ai dati dell’Indagine sui consumi delle famiglie promosso dall’Istat, i giovani meridionali provenienti dal quinto di famiglie con livelli di spesa più alti hanno una probabilità di essere iscritti all’università 2,3 volte superiore a quella dei giovani provenienti dal quinto di famiglie con livelli di spesa più bassi; il rapporto tra le due probabilità era più basso prima della crisi. Uno dei fattori di abbandono dell’università infatti – specie al Sud – sono le rette salate, aumentate in maniera esponenziale, e non sempre le famiglie possono permettersi di mantenere uno o più figli per 5 o più anni.
In base ai dati forniti del ministero dell’Istruzione, università e ricerca, dal 2007 al 2013, il costo delle rette è passato da 702 a 769 €, una costante in tutti gli atenei del paese anche se le rette restano inferiori al Sud, dove il tenore di vita è più basso
Inoltre, rispetto agli anni precedenti la crisi e anche per effetto dell’aumento dei costi dell’università, la spesa per istruzione, fra tasse universitarie, libri e costi di mantenimento, è salita dal 7,5 al 9,4% del totale delle famiglie con figli studenti. Il Corriereuniv.it, un bollettino online che da voce agli studenti, riportava il 15 giugno 2015 che le tasse universitarie eranoaumentate del 5% nell’ultimo anno. Inoltre “Il dato peggiora ulteriormente se osservato sugli ultimi 10 anni […] dal 2005 ad oggi le università italiane hanno deliberato un aumento esponenziale delle tasse universitarie, di oltre il 50%. In 10 anni siamo passati da una tassazione media di 736,91 euro ad una di 1.112,35 euro, dato da solo utile a smontare una volta per tutte gli assunti di chi sostiene che l’università italiana si quasi gratuita”. «Nel 2012 Monti ha sostanzialmente liberalizzato le tasse studentesche, indebolendo l’unico vincolo normativo che impediva agli atenei di aumentarle liberamente», spiega Scuccimarra alla testata universitaria, proponendo in alternativa una seria riforma del sistema «che riduca il peso delle tasse, soprattutto per i redditi più bassi, e introduca un criterio forte di progressività, omogeneo in tutti gli atenei».
In 10 anni siamo passati da una tassazione media di 736,91 euro ad una di 1.112,35 euro
Ma la forbice non è solo fra Nord e Sud Italia, fra il paese e gli altri d’Europa. Tutti gli indicatori Ocse mostrano che le che le risorse reali destinate all’università nel nostro Paese sono di gran lunga inferiori rispetto a quelle investite in Spagna, Francia, Germania e Svezia. Insomma, siamo il paese che meno investe nell’istruzione e dove gli esecutivi affrontano la crisi con misure improntate al contenimento della spesa pubblica, che include l’istruzione. Facendo pari a 100 la spesa per ogni laureato italiano, La Repubblica riportava che “la Francia e la Spagna spendono 171; la Germania 201; la Svezia 230. Un laureato italiano costa, in termini di risorse pubbliche e private assorbite e a parità di potere di acquisto, la metà di un laureato tedesco e circa il 30% in meno della media dei paesi Ocse”. La decrescita delle iscrizioni all’università è direttamente proporzionale alla decrescita degli investimenti, da non imputare a delle ricette di Bruxelles, ma a errate scelte governative italiane, che non influenzeranno senz’altro in maniera positiva l’uscita dalla crisi. Il finanziamento reale del diritto allo studio da portare ai livelli europei, assieme ad una riforma delle tasse universitarie per ridurle e introdurre criteri uniformi di progressività ed equità a livello nazionale (continuando ad adattarle al reddito), quindi eliminando i numeri programmati per favorire l'iscrizione, potrebbe senz’altro render più competitiva e inclusiva l’università italiana.
http://www.linkiesta.it/it/article/2015/10/14/processo-alluniversita-sempre-piu-inefficace-e-iniqua/27783/
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