Giovanni Della Casa, Galateo overo de' costumi.
Titolo completo:
Galateo overo de' costumi
TRATTATO DI MESSER GIOVANNI DELLA CASA.
Nel quale, sotto la persona d'un vecchio idiota ammaestrante un suo giovanetto, si ragiona de’ modi
che si debbono o tenere o schifare nella comune conversazione, cognominato
"Trattato di messer Giovanni della Casa, nel quale sotto la persona d'un vecchio idiota
ammaestrante un suo giovanetto, si ragiona de modi, che si debbono o tenere, o schifare
nella comune conversatione, cognominato Galatheo overo de costumi".
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Chi sa carezzar le persone, con picciolo capitale fa grosso guadagno.
Giovanni della Casa, Galateo overo de' costumi.
"L'eleganza del comportamento è conseguenza di un sereno dominio delle inclinazioni naturali..."
Giovanni della Casa, Galateo overo de' costumi.
"Non istà bene a fregarsi i denti con la tovagliuola, e meno col dito, che sono atti difformi.
Né risciacquarsi la bocca e sputare il vino, sta bene in palese. Né in levandosi da tavola portar lo stecco in bocca, a guisa d’uccello che faccia suo nido, o sopra l’orecchio, come barbiere, è gentil costume [...] Sconvenevo costume è anco, quando alcuno mette il naso in sul bicchier del vino che altri ha.".
Giovanni della Casa, Galateo overo de' costumi.
"Troverai di molti, che mentono, a niun cattivo fine tirando né di proprio loro utile, né di danno o di vergogna altrui; ma perciò che la bugia per sé piace loro; come chi bee, non per sete, ma per gola del vino".
Giovanni della Casa, Galateo overo de' costumi.
"Tra coloro che di ricchezze e d'autorità diseguali sono,... non è amore, ma utilità".
Giovanni della Casa, Galateo overo de' costumi.
"Schernire non si dee mai persona, quantunque inimica; perché maggior segno di dispregio pare che si faccia schernendo, che ingiuriando; con ciò sia che le ingiurie si fanno o per istizza o per alcuna cupidità; e niuno è che si adiri con cosa o per cosa che egli abbia per niente, o che appetisca quello che egli sprezza del tutto".
Giovanni della Casa, Galateo overo de' costumi.
"E come i piacevoli modi e gentili hanno forza di eccitare la benivolenza di coloro co’ quali noi viviamo, così per lo contrario i zotichi e rozzi incitano altrui ad odio et a disprezzo di noi".
Giovanni della Casa, Galateo overo de' costumi.
Nei primi capitoli si dice che un gentiluomo [...] non deve mai menzionare, né fare, né pensare cose spiacevoli che invochino nella mente dell'interlocutore immagini disdicevoli; da qui, evitare di far vedere che si è in procinto o si è appena tornati dal bagno, soffiarsi il naso e guardare nel fazzoletto se vi siano diamanti o pietre preziose, sputare, sbadigliare in pubblico e punzecchiare col gomito.
[...] comportamenti riguardanti il favellare:
bisogna parlare di argomenti graditi a tutti i presenti e mostrare rispetto verso tutti; se si inizia a parlare di un determinato argomento e ci accorgiamo che gli altri non sanno di che cosa si stia parlando, è buon costume cambiare oggetto della conversazione; l'oggetto però non deve essere né se stessi né la propria famiglia.
[...] mai Dio sarebbe stato chiamato in causa in una discussione se non per lodarlo.
Essendo molto religiosi non avrebbero nemmeno dovuto mentire o ingannare le altre persone perché significava andare contro il volere di Dio.
Ad un certo punto, nel capitolo XIV si parla del modo il cui ci si pone alle altre persone e la prima cosa che l'autore sottolinea è che il mal costume riguardo al quale è in procinto di parlare non è italiano, bensì è stato importato in Italia da un altro popolo, quello spagnolo.
Non dobbiamo dimenticare che già la parte meridionale della penisola faceva parte del S.R.I., e che nemmeno un decennio dopo la stesura di questo libro, con il trattato di Cateau Cambresis del 1559, il settentrione sarà ufficialmente sotto il dominio spagnolo.
Il costume in questione è il cerimoniare le altre persone; questo comportamento per l'autore è indice di vanità e non meno grave del mentire. [...]
Altro affare è se le cerimonie ci vengono fatte:
mai rifiutarle perché potrebbe essere preso come segno di arroganza.
Gli stessi princìpi devono essere osservati nelle lettere cartacee.
Dopo questa piccola parentesi, il Della Casa torna ad illustrare i costumi del favellare.
Ci dice che mai si devono usare termini vili o sconvenevoli in un discorso, neanche se il fine del quale è il riso e che, non tanto se la discussione è breve ma per lo più quando si ha intenzione di portarla avanti, si deve usare un linguaggio il più possibile “ordinato e ben espresso” in modo tale che l'uditore possa essere in grado di immaginare le cose con cui lo si sta intrattenendo. Oltre alla chiarezza delle parole usate, è importante anche che queste abbiamo un bel suono.
In più, prima di parlare di un qualsiasi argomento, è bene saperlo nella propria mente.
Non sta bene né interrompere qualcuno mentre sta parlando, né tantomeno aiutarlo a trovare le parole se in difficoltà perché significherebbe incentivarlo alla pigrizia.
Al capitolo XXV il Della Casa paragona il suo manuale con il ben più antico Canone di Policleto: evidenzia anche il fatto che a differenza del grande maestro greco lui non possa fornire un esempio concreto, ma può solo augurarsi che le persone, le quali leggeranno questo suo libro, mettano in pratica i suoi consigli.
Secondo l'autore i cattivi costumi sono da considerarsi come le malattie, e più in là con gli anni si va e più è difficile liberarsene; infatti consiglia di iniziare la pratica delle buone maniere fin da piccoli perché “la tenera età, sì come pura, più agevolmente si tigne d'ogni colore”.
Negli ultimi tre capitoli l'autore ci parla di alcuni comportamenti generali:
tutto ciò che si fa non deve solo essere giusto, ma deve anche essere fatto con leggiadria; il gentiluomo non deve mai correre o camminare troppo lentamente; inoltre, secondo la visione dell'autore "non abbiamo potere di mutar le usanze a nostro senno, ma il tempo le crea" quindi, ovunque ci troviamo, è giusto e doveroso adattarsi ai costumi locali.
Il Della Casa ci riporta anche dei comportamenti da tenere a tavola, come il non grattarsi, non riempirsi troppo la bocca, non pulirsi i denti con il tovagliolo, né tantomeno con lo stuzzicadenti e non sputare, prendendo in questo esempio da quei popoli di cui aveva tanto sentito parlare, i persiani, che non avevano mai avuto quest'abitudine.
Altra cosa che sconsiglia caldamente è l'offrire da bere, altra “malattia” d'oltralpe, ma che per fortuna, non si è ancora radicata in Italia. Il lavarsi le mani in pubblico è accettabile solo prima di pranzo e dinnanzi ai commensali, così che possano essere sicuri che la persona con cui divideranno il cibo è pulita; infatti nel XVI secolo era ancora diffuso il dividere il piatto e il bicchiere con un'altra persona e l'uso delle posate non era ancora ben radicato.
Contesto
L'opera si inserisce nel filone umanistico e didascalico che, prendendo le mosse dall'opera allegorica di Brunetto Latini e dal Fiore dantesco, attraverso le speculazioni degli Umanisti del Quattrocento raggiunge i suoi culmini con il Cortegiano (1513-1518) di Baldassarre Castiglione, gli Asolani (1505) e le Prose della volgar lingua (1525) di Pietro Bembo. [...]
[Aneddoto di Messer Galateo e del Conte Ricciardo]
[...] Avenne che, passando in quel tempo di là un nobile uomo, nomato Conte Ricciardo, egli si dimorò più giorni col Vescovo e con la famiglia di lui, la quale era per lo più di costumati uomini e scienziati. E percioché gentilissimo cavaliere parea loro e di bellissime maniere, molto lo commendarono et apprezzarono; se non che un picciolo difetto avea ne' suoi modi; del quale essendosi il Vescovo – che intendente signore era – avveduto et avutone consiglio con alcuno de' suoi più domestichi, proposero che fosse da farne aveduto il Conte, comeché temessero di fargliene noia. Per la qual cosa, avendo già il Conte preso commiato e dovendosi partir la matina vegnente, il Vescovo, chiamato un suo discreto famigliare, gli impose che, montato a cavallo col Conte, per modo di accompagnarlo, se ne andasse con esso lui alquanto di via; e, quando tempo gli paresse, per dolce modo gli venisse dicendo quello che essi aveano proposto tra loro. Era il detto famigliare uomo già pieno d'anni, molto scienziato et oltre ad ogni credenza piacevole e ben parlante e di grazioso aspetto, e molto avea de' suoi dì usato alle corti de' gran signori: il quale fu e forse ancora è chiamato M(esser) Galateo, a petizion del quale e per suo consiglio presi io da prima a dettar questo presente trattato. Costui, cavalcando col Conte, lo ebbe assai tosto messo in piacevoli ragionamenti; e di uno in altro passando, quando tempo gli parve di dover verso Verona tornarsi, pregandonelo il Conte et accommiatandolo, con lieto viso gli venne dolcemente così dicendo: – Signor mio, il Vescovo mio signore rende a V(ostra) S(ignoria) infinite grazie dell'onore che egli ha da voi ricevuto; il quale degnato vi siete di entrare e di soggiornar nella sua picciola casa. Et oltre a ciò, in riconoscimento di tanta cortesia da voi usata verso di lui, mi ha imposto che io vi faccia un dono per sua parte, e caramente vi manda pregando che vi piaccia di riceverlo con lieto animo; et il dono è questo. Voi siete il più leggiadro et il più costumato gentiluomo che mai paresse al Vescovo di vedere; per la qual cosa, avendo egli attentamente risguardato alle vostre maniere et essaminatole partitamente, niuna ne ha tra loro trovata che non sia sommamente piacevole e commendabile, fuori solamente un atto difforme che voi fate con le labra e con la bocca, masticando alla mensa con un nuovo strepito molto spiacevole ad udire. Questo vi manda significando il Vescovo e pregandovi che voi v'ingegniate del tutto di rimanervene e che voi prendiate in luogo di caro dono la sua amorevole riprensione et avertimento; percioché egli si rende certo niuno altro al mondo essere che tale presente vi facesse. – Il Conte, che del suo difetto non si era ancora mai aveduto, udendoselo rimproverare, arrossò così un poco, ma, come valente uomo, assai tosto ripreso cuore, disse: – Direte al Vescovo che, se tali fossero tutti i doni che gli uomini si fanno infra di loro, quale il suo è, eglino troppo più ricchi sarebbono che essi non sono. E di tanta sua cortesia e liberalità verso di me ringraziatelo sanza fine, assicurandolo che io del mio difetto sanza dubbio per innanzi bene e diligentemente mi guarderò; et andatevi con Dio.
V [A tavola: modi dei commensali e dei servitori]
[...] Dee adunque l'uomo costumato guardarsi di non ugnersi le dita sì che la tovagliuola ne rimanga imbrattata, percioché ella è stomachevole a vedere; et anco il fregarle al pane che egli dee mangiare, non pare polito costume. I nobili servidori, i quali si essercitano nel servigio della tavola, non si deono per alcuna condizione grattare il capo né altrove dinanzi al loro signore quando e' mangia, né porsi le mani in alcuna di quelle parti del corpo che si cuoprono, né pure farne sembiante, sì come alcuni trascurati famigliari fanno, tenendosele in seno, o di dirieto nascoste sotto a' panni; ma le deono tenere in palese e fuori d'ogni sospetto, et averle con ogni diligenza lavate e nette, sanza avervi sù pure un segnuzzo di bruttura in alcuna parte. E quelli che arrecano i piattelli o porgono la coppa, diligentemente si astenghino in quell'ora da sputare, da tossire e, più, da starnutire [...].
Quando si favella con alcuno, non se gli dee l'uomo avicinare sì che se gli aliti nel viso, percioché molti troverai che non amano di sentire il fiato altrui, quantunque cattivo odore non ne venisse. [...]
http://www.classicitaliani.it/index022.htm
https://it.wikipedia.org/wiki/Galateo_overo_de%27_costumi
http://www.letteraturaitaliana.net/pdf/Volume_5/t118.pdf
Jacopo Pontormo, Giovanni Della Casa
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