Dino Buzzati, La boutique del mistero.
a cura di Claudio Toscani
[...] Il 27 marzo 1933 appare sul «Corriere» il suo primo articolo di fondo in terza pagina, che si intitola Il Falstaff della fauna e che parla della vita e degli amori di un rospo. [...]
Nel 1939 Buzzati inaugura la sua carriera di inviato speciale:
in Eritrea e in altre parti dell'Africa orientale e mediterranea, a contatto con il paesaggio struggente ed elegiaco delle grandi distese abissine, somale ed etiopiche, egli ha modo di completare la sua idea di «deserto» quale luogo metaforico e allegorico che verrà rappresentato nel romanzo Il deserto dei Tartari. [...]
L'attesa, l'angoscia, la rinuncia, il tempo, la solitudine, l'amore stregato, la morte sono i sentimenti che più spesso l'autore rappresenta, che più spesso sente come significativi per sé come per tutti gli uomini.
Il deserto dei Tartari attira definitivamente su Buzzati l'attenzione della critica che, colpita dalle atmosfere arcane e insondabili del romanzo, dalle sue situazioni irrazionali, assurde o allucinanti, tende a battezzarlo come un «piccolo Kafka italiano», discutibile qualifica che più volte, infatti, verrà ridimensionata. Dopo Il deserto, per arrivare a un altro romanzo di Buzzati, bisognerà attendere vent'anni. In questo periodo comunque escono molte altre sue pubblicazioni, soprattutto raccolte di racconti come I sette messaggeri (1942), Paura alla Scala (1949), In quel preciso momento (1950), Il crollo della Baliverna (1957), Sessanta racconti (1958), Esperimento di magia (1958). Nel 1960 esce Il grande ritratto, romanzo che accoglie spunto fantascientifico e problematica psicologica.
[...] Avvenimenti importanti in questi anni sono per Buzzati, ormai apprezzato in Italia e all'estero, la rappresentazione teatrale in Francia di Un caso clinico, in una versione di Albert Camus; e, nella vita privata, la morte della madre, nel 1961.
Nel 1963 Buzzati stupisce il mondo letterario italiano con la pubblicazione del romanzo Un amore, giudicato in modo discorde dalla critica, ora come un ottimo esempio di moderna narrativa dei sentimenti, ora come il prodotto decadente di una mente ossessionata dal sesso.
[...] Avvenimenti importanti in questi anni sono per Buzzati, ormai apprezzato in Italia e all'estero, la rappresentazione teatrale in Francia di Un caso clinico, in una versione di Albert Camus; e, nella vita privata, la morte della madre, nel 1961.
Nel 1963 Buzzati stupisce il mondo letterario italiano con la pubblicazione del romanzo Un amore, giudicato in modo discorde dalla critica, ora come un ottimo esempio di moderna narrativa dei sentimenti, ora come il prodotto decadente di una mente ossessionata dal sesso.
- I sette messaggeri 10
- L'assalto al Grande Convoglio 14
- Sette piani 26
- Eppure battono alla porta 39
- Il mantello 50
- Una cosa che comincia per elle 54
- Una goccia 61
- La canzone di guerra 64
- La fine del mondo 68
- Inviti superflui 71
- Racconto di Natale 74
- Il cane che ha visto Dio 77
- Qualcosa era successo 99
- I topi 103
- Il disco si posò 107
- Il tiranno malato 112
- I Santi 117
- Lo scarafaggio 121
- Conigli sotto la luna 123
- Questioni ospedaliere 124
- Il corridoio del grande albergo 127
- Ricordo di un poeta 130
- Il colombre 133
- L'umiltà 138
- Riservatissima al signor direttore 143
- Le gobbe nel giardino 149
- L'uovo 153
- La giacca stregata 159
- La Torre Eiffel 164
- Ragazza che precipita 169
- I due autisti 173
L'assalto al Grande Convoglio.
https://www.ffst.unist.hr/_download/repository/BUZZATI_Boutique.pdf
Sette piani.
Sette piani
Dopo un giorno di viaggio in treno, Giuseppe Corte arrivò, una mattina di
marzo, alla città dove c'era la famosa casa di cura. Aveva un po' di febbre, ma
volle fare ugualmente a piedi la strada fra la stazione e l'ospedale, portandosi
la sua valigetta.
Benché avesse soltanto una leggerissima forma incipiente, Giuseppe Corte
era stato consigliato di rivolgersi al celebre sanatorio, dove non si curava che
quell'unica malattia. Ciò garantiva un'eccezionale competenza nei medici e la
più razionale ed efficace sistemazione d'impianti.
Quando lo scorse da lontano - e lo riconobbe per averne già visto la
fotografia in una circolare pubblicitaria Giuseppe Corte ebbe un'ottima
impressione. Il bianco edificio a sette piani era solcato da regolari rientranze
che gli davano una fisionomia vaga d'albergo. Tutt'attorno era una cinta di
alti alberi.
Dopo una sommaria visita medica, in attesa di un esame più accurato
Giuseppe Corte fu messo in una gaia camera del settimo ed ultimo piano. I
mobili erano chiari e lindi come la tappezzeria, le poltrone erano di legno, i
cuscini vestiti di policrome stoffe. La vista spaziava su uno dei più bei
quartieri della città. Tutto era tranquillo, ospitale e rassicurante.
Giuseppe Corte si mise subito a letto e, accesa la lampadina sopra il
capezzale, cominciò a leggere un libro che aveva portato con sé. Poco dopo
entrò un'infermiera per chiedergli se desiderasse qualcosa.
Giuseppe Corte non desiderava nulla ma si mise volentieri a discorrere con
la giovane, chiedendo informazioni sulla casa di cura. Seppe così la strana
caratteristica di quell'ospedale. I malati erano distribuiti piano per piano a
seconda della gravità. Il settimo, cioè l'ultimo, era per le forme leggerissime.
Il sesto era destinato ai malati non gravi ma neppure da trascurare. Al quinto
si curavano già affezioni serie e così di seguito, di piano in piano. Al secondo
erano i malati gravissimi. Al primo quelli per cui era inutile sperare.
Questo singolare sistema, oltre a sveltire grandemente il servizio, impediva
che un malato leggero potesse venir turbato dalla vicinanza di un collega in
agonia, e garantiva in ogni piano un'atmosfera omogenea. D'altra parte la
cura poteva venir così graduata in modo perfetto.
Ne derivava che gli ammalati erano divisi in sette progressive caste. Ogni
piano era come un piccolo mondo a sé, con le sue particolari regole, con le
sue speciali tradizioni. E siccome ogni settore era affidato a un medico
diverso, si erano formate, sia pure minime, ma precise differenze nei metodi
di cura, nonostante il direttore generale avesse impresso all'istituto un unico
fondamentale indirizzo. Quando l'infermiera fu uscita, Giuseppe Corte,
sembrandogli che la febbre fosse scomparsa, raggiunse la finestra e guardò
fuori, non per osservare il panorama della città, che pure era nuova per lui, ma
nella speranza di scorgere, attraverso le finestre, altri ammalati dei piani
inferiori. La struttura dell'edificio, a grandi rientranze, permetteva tale genere
di osservazione. Soprattutto Giuseppe Corte concentrò la sua attenzione sulle
finestre del primo piano che sembravano lontanissime, e che si scorgevano
solo di sbieco. Ma non poté vedere nulla di interessante. Nella maggioranza
erano ermeticamente sprangate dalle grigie persiane scorrevoli.
Il Corte si accorse che a una finestra di fianco alla sua stava affacciato un
uomo. I due si guardarono a lungo con crescente simpatia, ma non sapevano
come rompere il silenzio. Finalmente Giuseppe Corte si fece coraggio e
disse: «Anche lei sta qui da poco?»
«Oh no» fece l'altro «sono qui già da due mesi...» tacque qualche istante e
poi, non sapendo come continuare la conversazione, aggiunse: «Guardavo
giù mio fratello.»
«Suo fratello?»
«Sì» spiegò lo sconosciuto. «Siamo entrati insieme, un caso veramente
strano, ma lui è andato peggiorando, pensi che adesso è già al quarto.»
«Al quarto che cosa?»
«Al quarto piano» spiegò l'individuo e pronunciò le due parole con una tale
espressione di commiserazione e di orrore, che Giuseppe Corte restò quasi
spaventato.
«Ma son così gravi al quarto piano?» domandò cautamente.
«Oh Dio» fece l'altro scuotendo lentamente la testa «non sono ancora così
disperati, ma c'è comunque poco da stare allegri.»
«Ma allora» chiese ancora il Corte, con una scherzosa disinvoltura come di
chi accenna a cose tragiche che non lo riguardano «allora, se al quarto sono
già così gravi, al primo chi mettono allora?»
«Oh, al primo sono proprio i moribondi. Laggiù i medici non hanno più
niente da fare. C'è solo il prete che lavora. E naturalmente...»
«Ma ce n'è pochi al primo piano» interruppe Giuseppe Corte, come se gli
premesse di avere una conferma «quasi tutte le stanze sono chiuse laggiù.»
«Ce n'è pochi, adesso, ma stamattina ce n'erano parecchi» rispose lo
sconosciuto con un sottile sorriso. «Dove le persiane sono abbassate là
qualcuno è morto da poco. Non vede, del resto, che negli altri piani tutte le
imposte sono aperte? Ma mi scusi» aggiunse ritraendosi lentamente «mi pare
che cominci a far freddo. Io ritorno in letto. Auguri, auguri...»
L'uomo scomparve dal davanzale e la finestra venne chiusa con energia;
poi si vide accendersi dentro una luce. Giuseppe Corte se ne stette ancora
immobile alla finestra fissando le persiane abbassate del primo piano. Le
fissava con un'intensità morbosa, cercando di immaginare i funebri segreti di
quel terribile primo piano dove gli ammalati venivano confinati a morire; e si
sentiva sollevato di sapersene così lontano. Sulla città scendevano intanto le
ombre della sera. Ad una ad una le mille finestre del sanatorio si
illuminavano, da lontano si sarebbe potuto pensare a un palazzo in festa. Solo
al primo piano, laggiù in fondo al precipizio, decine e decine di finestre
rimanevano cieche e buie.
Il risultato della visita medica generale rasserenò Giuseppe Corte. Incline
di solito a prevedere il peggio, egli si era già in cuor suo preparato a un
verdetto severo e non sarebbe rimasto sorpreso se il medico gli avesse
dichiarato di doverlo assegnare al piano inferiore. La febbre infatti non
accennava a scomparire, nonostante le condizioni generali si mantenessero
buone. Invece il sanitario gli rivolse parole cordiali e incoraggianti. Un
principio di male c'era - gli disse - ma leggerissimo; in due o tre settimane
probabilmente tutto sarebbe passato.
«E allora resto al settimo piano?» aveva domandato ansiosamente
Giuseppe Corte a questo punto.
«Ma naturalmente!» gli aveva risposto il medico battendogli
amichevolmente una mano su una spalla. «E dove pensava di dover andare?
Al quarto forse?» chiese ridendo, come per alludere alla ipotesi più assurda.
«Meglio così, meglio così» fece il Corte. «Sa? Guando si è ammalati si
immagina sempre il peggio...»
Giuseppe Corte infatti rimase nella stanza che gli era stata assegnata
originariamente. Imparò a conoscere alcuni dei suoi compagni di ospedale,
nei rari pomeriggi in cui gli veniva concesso d'alzarsi. Seguì scrupolosamente
la cura, mise tutto l'impegno a guarire rapidamente, ma ciononostante le sue
condizioni pareva rimanessero stazionarie.
Erano passati circa dieci giorni, quando a Giuseppe Corte si presentò il
capo-infermiere del settimo piano. Aveva da chiedere un favore in via
puramente amichevole: il giorno dopo doveva entrare all'ospedale una
signora con due bambini; due camere erano libere, proprio di fianco alla sua,
ma mancava la terza; non avrebbe consentito il signor Corte a trasferirsi in
un'altra camera, altrettanto confortevole?
Giuseppe Corte non fece naturalmente nessuna difficoltà; una camera o
un'altra per lui erano lo stesso; gli sarebbe anzi toccata forse una nuova e più
graziosa infermiera.
«La ringrazio di cuore» fece allora il capo-infermiere con un leggero
inchino; «da una persona come lei le confesso non mi stupisce un così gentile
atto di cavalleria. Fra un'ora, se lei non ha nulla in contrario, procederemo al
trasloco. Guardi che bisogna scendere al piano di sotto» aggiunse con voce
attenuata come se si trattasse di un particolare assolutamente trascurabile.
«Purtroppo in questo piano non ci sono altre camere libere. Ma è una
sistemazione assolutamente provvisoria» si affrettò a specificare vedendo
che Corte, rialzatosi di colpo a sedere, stava per aprir bocca in atto di protesta
«una sistemazione assolutamente provvisoria. Appena resterà libera una
stanza, e credo che sarà fra due o tre giorni, lei potrà tornare di sopra.»
«Le confesso» disse Giuseppe Corte sorridendo, per dimostrare di non
essere un bambino «le confesso che un trasloco di questo genere non mi piace
affatto.»
«Ma non ha alcun motivo medico questo trasloco; capisco benissimo
quello che lei intende dire, si tratta unicamente di una cortesia a questa
signora che preferisce non rimaner separata dai suoi bambini... Per carità»
aggiunse ridendo apertamente «non le venga neppure in mente che ci siano
altre ragioni!»
«Sarà» disse Giuseppe Corte «ma mi sembra di cattivo augurio.»
Il Corte così passò al sesto piano, e sebbene fosse convinto che questo
trasloco non corrispondesse a un peggioramento del male, si sentiva a disagio
al pensiero che tra lui e il mondo normale, della gente sana, già si frapponesse
un netto ostacolo. Al settimo piano, porto d'arrivo, si era in un certo modo
ancora in contatto con il consorzio degli uomini; esso si poteva anzi
considerare quasi un prolungamento del mondo abituale. Ma al sesto già si
entrava nel corpo autentico dell'ospedale; già la mentalità dei medici, delle
infermiere e degli stessi ammalati era leggermente diversa. Già si ammetteva
che a quel piano venivano accolti dei veri e propri ammalati, sia pure in forma
non grave. Dai primi discorsi fatti con i vicini di stanza, con il personale e con
i sanitari, Giuseppe Corte si accorse come in quel reparto il settimo piano
venisse considerato come uno scherzo, riservato ad ammalati dilettanti,
affetti più che altro da fisime; solo dal sesto, per così dire, si cominciava
davvero.
Comunque Giuseppe Corte Capì che per tornare di sopra, al posto che gli
competeva per le caratteristiche del suo male, avrebbe certamente incontrato
qualche difficoltà; per tornare al settimo piano, egli doveva mettere in moto
un complesso organismo, sia pure per un minimo sforzo; non c'era dubbio
che se egli non avesse fiatato, nessuno avrebbe pensato a trasferirlo di nuovo
al piano superiore dei "quasi-sani".
Giuseppe Corte si propose perciò di non transigere sui suoi diritti e di non
cedere alle lusinghe dell'abitudine. Ai compagni di reparto teneva molto a
specificare di trovarsi con loro soltanto per pochi giorni, ch'era stato lui a
voler scendere d'un piano per fare un piacere a una signora, e che appena
fosse rimasta libera una stanza sarebbe tornato di sopra. Gli altri lo
ascoltavano senza interesse e annuivano con scarsa convinzione.
Il convincimento di Giuseppe Corte trovò piena conferma nel giudizio del
nuovo medico. Anche questi ammetteva che Giuseppe Corte poteva
benissimo essere assegnato al settimo piano; la sua forma era
as-so-lu-ta-men-te leg-ge-ra - e scandiva tale definizione per darle
importanza - ma in fondo riteneva Che al sesto piano Giuseppe Corte forse
potesse essere meglio curato.
«Non cominciamo con queste storie» interveniva a questo punto il malato
con decisione «lei mi ha detto che il settimo piano è il mio posto; e voglio
ritornarci.»
«Nessuno ha detto il contrario» ribatteva il dottore «il mio era un puro e
semplice consiglio non da dot-to-re, ma da au-ten-ti-co a-mi-co! La sua
forma, le ripeto, è leggerissima, non sarebbe esagerato dire che lei non è
nemmeno ammalato, ma secondo me si distingue da forme analoghe per una
certa maggiore estensione. Mi spiego: l'intensità del male è minima, ma
considerevole l'ampiezza; il processo distruttivo delle cellule» era la prima
volta che Giuseppe Corte sentiva là dentro quella sinistra espressione «il
processo distruttivo delle cellule è assolutamente agli inizi, forse non è
neppure cominciato, ma tende, dico solo tende, a colpire
contemporaneamente vaste porzioni dell'organismo. Solo per questo,
secondo me, lei può essere curato più efficacemente qui, al sesto, dove i
metodi terapeutici sono più tipici ed intensi.»
Un giorno gli fu riferito che il direttore generale della casa di cura, dopo
essersi lungamente consultato con i suoi collaboratori, aveva deciso un
mutamento nella suddivisione dei malati. Il grado di ciascuno di essi - per
così dire - veniva ribassato di un mezzo punto. Ammettendosi che in ogni
piano gli ammalati fossero divisi, a seconda della loro gravità, ih due
categorie (questa suddivisione veniva effettivamente fatta dai rispettivi
medici, ma ad uso esclusivamente interno), l'inferiore di queste due metà
veniva d'ufficio traslocata a un piano più basso. Ad esempio, la metà degli
ammalati del sesto piano, quelli con forme leggermente più avanzate,
dovevano passare al quinto; e i meno leggeri del settimo passare al sesto. La
notizia fece piacere a Giuseppe Corte, perché in un così complesso quadro di
traslochi, il suo ritorno al settimo piano sarebbe riuscito assai più facile.
Quando accennò a questa sua speranza con l'infermiera egli ebbe però
un'amara sorpresa. Seppe cioè che egli sarebbe stato traslocato, ma non al
settimo bensì al piano di sotto. Per motivi che l'infermiera non sapeva
spiegargli, egli era stato compreso nella metà più "grave" degli ospiti del
sesto piano e doveva perciò scendere al quinto.
Passata la prima sorpresa, Giuseppe Corte andò in furore; gridò che lo
truffavano, che non voleva sentir parlare di altri traslochi in basso, che se ne
sarebbe tornato a casa, che i diritti erano diritti e che l'amministrazione
dell'ospedale non poteva trascurare così sfacciatamente le diagnosi dei
sanitari.
Mentre egli ancora gridava arrivò il medico per tranquillizzarlo. Consigliò
al Corte di calmarsi se non avesse voluto veder salire la febbre, gli spiegò che
era successo un malinteso, almeno parziale. Ammise ancora una volta che
Giuseppe Corte sarebbe stato al suo giusto posto se lo avessero messo al
settimo piano, ma aggiunse di avere sul suo caso un concetto leggermente
diverso, se pure personalissimo. In fondo in fondo la sua malattia poteva, in
un certo senso s'intende, essere anche considerata di sesto grado, data
l'ampiezza delle manifestazioni morbose. Lui stesso però non riusciva a
spiegarsi come il Corte fosse stato catalogato nella metà inferiore del sesto
piano. Probabilmente il segretario della direzione, che proprio quella mattina
gli aveva telefonato chiedendo l'esatta posizione clinica di Giuseppe Corte, si
era sbagliato nel trascrivere. O meglio la direzione aveva di proposito
leggermente "peggiorato" il suo giudizio, essendo egli ritenuto un medico
esperto ma troppo indulgente. Il dottore infine consigliava il Corte a non
inquietarsi a subire senza proteste il trasferimento; quello che contava era la
malattia, non il posto in cui veniva collocato un malato.
Per quanto si riferiva alla cura - aggiunse ancora il medico - Giuseppe
Corte non avrebbe poi avuto da rammaricarsi; il medico del piano di sotto
aveva certo più esperienza; era quasi dogmatico che l'abilità dei dottori
andasse crescendo, almeno a giudizio della direzione, man mano che si
scendeva. La camera era altrettanto comoda ed elegante. La vista ugualmente
spaziosa: solo dal terzo piano in giù la visuale era tagliata dagli alberi di cinta.
Giuseppe Corte, in preda alla febbre serale, ascoltava ascoltava le
meticolose giustificazioni con una progressiva stanchezza. Alla fine si
accorse che gli mancavano la forza e soprattutto la voglia di reagire
ulteriormente all'ingiusto trasloco. E senza altre proteste si lasciò portare al
piano di sotto.
L'unica, benché povera, consolazione di Giuseppe Corte, una volta che si
trovò al quinto piano, fu di sapere che per giudizio concorde di medici, di
infermieri e ammalati, egli era in quel reparto il meno grave di tutti.
Nell'ambito di quel piano insomma egli poteva considerarsi di gran lunga il
più fortunato. Ma d'altra parte lo tormentava il pensiero che oramai ben due
barriere si frapponevano fra lui e il mondo della gente normale.
Procedendo la primavera, l'aria intanto si faceva più tepida, ma Giuseppe
Corte non amava più come nei primi giorni affacciarsi alla finestra; benché
un simile timore fosse una pura sciocchezza, egli si sentiva rimescolare tutto
da uno strano brivido alla vista delle finestre del primo piano, sempre nella
maggioranza chiuse, che si erano fatte assai più vicine.
Il suo male sembrava stazionario. Dopo tre giorni di permanenza al quinto
piano, si manifestò anzi sulla gamba destra una specie di eczema che non
accennò a riassorbirsi nei giorni successivi. Era un'affezione - gli disse il
medico - assolutamente indipendente dal male principale; un disturbo che
poteva capitare alla persona più sana del mondo. Ci sarebbe voluta, per
eliminarlo in pochi giorni, una intensa cura di raggi digamma.
«E non si possono avere qui i raggi digamma?» chiese Giuseppe Corte.
«Certamente» rispose compiaciuto il medico «il nostro ospedale dispone di
tutto. C'è un solo inconveniente...»
«Che cosa?» fece il Corte con un vago presentimento.
«Inconveniente per modo di dire» si corresse il dottore «volevo dire che
l'installazione per i raggi si trova soltanto al quarto piano e io le sconsiglierei
di fare tre volte al giorno un simile tragitto.»
«E allora niente?»
«Allora sarebbe meglio che fino a che l'espulsione non sia passata lei
avesse la compiacenza di scendere al quarto.»
«Basta!» urlò allora esasperato Giuseppe Corte. «Ne ho già abbastanza di
scendere! Dovessi crepare, al quarto non ci vado!»
«Come lei crede» fece conciliante il medico per non irritarlo «ma come
medico curante, badi che le proibisco di andar da basso tre volte al giorno».
Il brutto fu che l'eczema, invece di attenuarsi, andò lentamente
ampliandosi. Giuseppe Corte non riusciva a trovare requie e continuava a
rivoltarsi nel letto. Durò così, rabbioso, per tre giorni, fino a che dovette
cedere. Spontaneamente pregò il medico di fargli praticare la cura dei raggi e
di essere trasferito al piano inferiore.
Quaggiù il Corte notò, con inconfessato piacere, di rappresentare
un'eccezione. Gli altri ammalati del reparto erano decisamente in condizioni
molto serie e non potevano lasciare neppure per un minuto il letto. Egli
invece poteva prendersi il lusso di raggiungere a piedi, dalla sua stanza, la
sala dei raggi, fra i complimenti e la meraviglia delle stesse infermiere.
Al nuovo medico, egli precisò con insistenza la sua posizione
specialissima. Un ammalato che in fondo aveva diritto al settimo piano
veniva a trovarsi al quarto. Appena l'espulsione fosse passata, egli intendeva
ritornare di sopra.
Non avrebbe assolutamente ammesso alcuna nuova scusa. Lui, che sarebbe
potuto trovarsi legittimamente ancora al settimo.
«Al settimo, al settimo!» esclamò sorridendo il medico che finiva proprio
allora di visitarlo. «Sempre esagerati voi ammalati! Sono il primo io a dire
che lei può essere contento del suo stato; a quanto vedo dalla tabella clinica,
grandi peggioramenti non ci sono stati. Ma da questo a parlare di settimo
piano mi scusi la brutale sincerità - c'è una certa differenza! Lei è uno dei casi
meno preoccupanti, ne convengo, ma è pur sempre un ammalato!»
«E allora, allora» fece Giuseppe Corte accendendosi tutto nel volto «lei a
che piano mi metterebbe?»
«Oh, Dio, non è facile dire, non le ho fatto che una breve visita, per poter
pronunciarmi dovrei seguirla per almeno una settimana.»
«Va bene» insistette Corte «ma pressappoco lei saprà.» Il medico, per
tranquillizzarlo, fece finta di concentrarsi un momento in meditazione e poi,
annuendo con il capo a se stesso, disse lentamente: «Oh Dio! proprio per
accontentarla, ecco, ma potremmo in fondo metterla al sesto! Sì sì» aggiunse
come per persuadere se stesso. «Il sesto potrebbe andar bene.»
Il dottore credeva così di far lieto il malato. Invece sul volto di Giuseppe
Corte si diffuse un'espressione di sgomento: si accorgeva, il malato, che i
medici degli ultimi piani l'avevano ingannato; ecco qui questo nuovo dottore,
evidentemente più abile e più onesto, che in cuor suo - era evidente - lo
assegnava, non al settimo, ma al quinto piano, e forse al quinto inferiore! La
delusione inaspettata prostrò il Corte. Quella sera la febbre salì
sensibilmente.
La permanenza al quarto piano segnò il periodo più tranquillo passato da
Giuseppe Corte dopo l'entrata all'Ospedale. Il medico era persona
simpaticissima, premurosa e cordiale; si tratteneva spesso anche per delle ore
intere a chiacchierare degli argomenti più svariati. Giuseppe Corte discorreva
pure molto volentieri, cercando argomenti che riguardassero la sua solita vita
d'avvocato e d'uomo di mondo. Egli cercava di persuadersi di appartenere
ancora al consorzio degli uomini sani, di essere ancora legato al mondo degli
affari, di interessarsi veramente dei fatti pubblici. Cercava, senza riuscirvi.
Invariabilmente il discorso finiva sempre per cadere sulla malattia.
Il desiderio di un miglioramento qualsiasi era divenuto in Giuseppe Corte
un'ossessione. Purtroppo i raggi digamma, se erano riusciti ad arrestare il
diffondersi dell'espulsione cutanea, non erano bastati ad eliminarla. Ogni
giorno Giuseppe Corte ne parlava lungamente col medico e si sforzava in
questi colloqui di mostrarsi forte, anzi ironico, senza mai riuscirvi.
«Mi dica, dottore» disse un giorno «come va il processo distruttivo delle
mie cellule?»
«Oh, ma che brutte parole!» lo rimproverò scherzosamente il dottore.
«Dove mai le ha imparate? Non sta bene, non sta bene, soprattutto per un
malato! Mai più voglio sentire da lei discorsi simili.»
«Va bene» obiettò il Corte «ma così lei non mi ha risposto.»
«Oh, le rispondo subito» fece il dottore cortese. «Il processo distruttivo
delle cellule, per ripetere la sua orribile espressione, è, nel suo caso, minimo,
assolutamente minimo. Ma sarei tentato di definirlo ostinato.»
«Ostinato, cronico vuol dire?»
«Non mi faccia dire quello che non ho detto. Io voglio dire soltanto
ostinato. Del resto sono così la maggioranza dei casi. Affezioni anche
lievissime spesso hanno bisogno di cure energiche e lunghe.»
«Ma mi dica, dottore, quando potrò sperare in un miglioramento?»
«Quando? Le predizioni in questi casi sono piuttosto difficili... Ma senta»
aggiunse dopo una pausa meditativa «vedo che lei ha una vera e propria
smania di guarire... se non temessi di farla arrabbiare, sa che cosa le
consiglierei?»
«Ma dica, dica pure, dottore...»
«Ebbene, le pongo la questione in termini molto chiari. Se io, colpito da
questo male in forma anche tenuissima, capitassi in questo sanatorio, che è
forse il migliore che esista, mi farei assegnare spontaneamente, e fin dal
primo giorno, fin dal primo giorno, capisce? a uno dei piani più bassi. Mi
farei mettere addirittura al...»
«Al primo?» suggerì con uno sforzato sorriso il Corte.
«Oh no! al primo no!» rispose ironico il medico «questo poi no! Ma al terzo
o anche al secondo di certo. Nei piani inferiori la cura è fatta molto meglio, le
garantisco, gli impianti sono più completi e potenti, il personale è più abile.
Lei sa poi chi è l'anima di questo ospedale?»
«Non è il professor Dati?»
«Già il professor Dati. È lui l'inventore della cura che qui si pratica, lui il
progettista dell'intero impianto. Ebbene, lui, il maestro, sta, per così dire, fra
il primo e il secondo piano. Di là irraggia la sua forza direttiva. Ma, glielo
garantisco io, il suo influsso non arriva oltre al terzo piano; più in la si direbbe
che gli stessi suoi ordini si sminuzzino, perdano di consistenza, deviino; il
cuore dell'ospedale è in basso e in basso bisogna stare per avere le cure
migliori.»
«Ma insomma» fece Giuseppe Corte con voce tremante «allora lei mi
consiglia...»
«Aggiunga una cosa» continuò imperterrito il dottore «aggiunga che nel
suo caso particolare ci sarebbe da badare anche all'espulsione. Una cosa di
nessuna importanza ne convengo, ma piuttosto noiosa, che a lungo andare
potrebbe deprimere il suo "morale"; e lei sa quanto è importante per la
guarigione la serenità di spirito. Le applicazioni di raggi che io le ho fatte
sono riuscite solo a metà fruttuose. Il perché? Può darsi che sia un puro caso,
ma può darsi anche che i raggi non siano abbastanza intensi. Ebbene, al terzo
piano le macchine dei raggi sono molto più potenti. Le probabilità di guarire
il suo eczema sarebbero molto maggiori. Poi vede? una volta avviata la
guarigione, il passo più difficile è fatto. Quando si comincia a risalire, è poi
difficile tornare ancora indietro. Quando lei si sentirà davvero meglio, allora
nulla impedirà che lei risalga qui da noi o anche più in su, secondo i suoi
"meriti" anche al quinto, al sesto, persino al settimo oso dire...»
«Ma lei crede che questo potrà accelerare la cura?»
«Ma non ci può essere dubbio. Le ho già detto che cosa farei io nei suoi
panni.»
Discorsi di questo genere il dottore ne faceva ogni giorno a Giuseppe
Corte. Venne infine il momento in cui il malato, stanco di patire per l'eczema,
nonostante l'istintiva riluttanza a scendere, decise di seguire il consiglio del
medico e si trasferì al piano di sotto.
Notò subito al terzo piano che nel reparto regnava una speciale gaiezza, sia
nel medico, sia nelle infermiere, sebbene laggiù fossero in cura ammalati
molto preoccupanti. Si accorse anzi che di giorno in giorno questa gaiezza
andava aumentando: incuriosito, dopo che ebbe preso un po' di confidenza
con l'infermiera, domandò come mai fossero tutti così allegri.
«Ah, non lo sa?» rispose l'infermiera «fra tre giorni andiamo in vacanza.»
«Come; andiamo in vacanza?»
«Ma sì. Per quindici giorni, il terzo piano si chiude e il personale se ne va a
spasso. Il riposo tocca a turno ai vari piani.»
«E i malati? come fate?»
«Siccome ce n'è relativamente pochi, di due piani se ne fa uno solo.»
«Come? riunite gli ammalati del terzo e del quarto?»
«No, no» corresse l'infermiera «del terzo e del secondo.
Quelli che sono qui dovranno discendere da basso.»
«Discendere al secondo?» fece Giuseppe Corte, pallido come un morto.
«Io dovrei così scendere al secondo?»
«Ma certo. E che cosa c'è di strano? Quando torniamo, fra quindici giorni,
lei ritornerà in questa stanza. Non mi pare che ci sia da spaventarsi.»
Invece Giuseppe Corte - un misterioso istinto lo avvertiva - fu invaso da
una crudele paura. Ma, visto che non poteva trattenere il personale
dall'andare in vacanza, convinto che la nuova cura coi raggi più intensi gli
facesse bene - l'eczema si era quasi completamente riassorbito - egli non osò
muovere formale opposizione al nuovo trasferimento. Pretese però, incurante
dei motteggi delle infermiere, che sulla porta della sua nuova stanza fosse
attaccato un cartello con su scritto "Giuseppe Corte, del terzo piano, di
passaggio". Una cosa simile non trovava precedenti nella storia del sanatorio,
ma i medici non si opposero, pensando che in un temperamento nervoso
quale il Corte anche una piccola contrarietà potesse provocare una grave
scossa.
Si trattava in fondo di aspettare quindici giorni né uno di più, né uno di
meno. Giuseppe Corte si mise a contarli con avidità ostinata, restando per
delle ore intere immobile sul letto, con gli occhi fissi sui mobili, che al
secondo piano non erano più così moderni e gai come nei reparti superiori,
ma assumevano dimensioni più grandi e linee più solenni e severe. E di tanto
in tanto aguzzava le orecchie poiché gli pareva di udire dal piano di sotto, il
piano dei moribondi, il reparto dei "condannati", vaghi rantoli di agonie.
Tutto questo naturalmente contribuiva a scoraggiarlo. E la minore serenità
sembrava aiutare la malattia, la febbre tendeva a salire, la debolezza generale
si faceva più fonda. Dalla finestra - si era oramai in piena estate e i vetri si
tenevano quasi sempre aperti - non si scorgevano più i tetti e neppure le case
della città, ma soltanto la muraglia verde degli alberi che circondavano
l'ospedale.
Dopo sette giorni, un pomeriggio verso le due, entrarono improvvisamente
il capo-infermiere e tre infermieri, che spingevano un lettuccio a rotelle.
«Siamo pronti per il trasloco?» domandò in tono di bonaria celia il
capo-infermiere.
«Che trasloco?» domandò con voce stentata Giuseppe Corte «che altri
scherzi sono questi? Non tornano fra sette giorni quelli del terzo piano?»
«Che terzo piano?» disse il capo-infermiere come se non capisse «io ho
avuto l'ordine di condurla al primo, guardi qua» e fece vedere un modulo
stampato per il passaggio al piano inferiore firmato nientemeno che dallo
Stesso professor Dati.
Il terrore, la rabbia infernale di Giuseppe Corte esplosero allora in lunghe
irose grida che si ripercossero per tutto il reparto. «Adagio, adagio per carità»
supplicarono gli infermieri «ci sono dei malati che non stanno bene!» Ma ci
voleva altro per calmarlo.
Finalmente accorse il medico che dirigeva il reparto, una persona
gentilissima e molto educata. Si informò, guardò il modulo, si fece spiegare
dal Corte. Poi si rivolse incollerito al capo-infermiere, dichiarando che c'era
stato uno sbaglio, lui non aveva dato alcuna disposizione del genere, da
qualche tempo c'era una insopportabile confusione, lui veniva tenuto
all'oscuro di tutto... Infine, detto il fatto suo al dipendente, si rivolse, in tono
cortese, al malato, scusandosi profondamente.
«Purtroppo però» aggiunse il medico «purtroppo il professor Dati proprio
un'ora fa è partito per una breve licenza, non tornerà che fra due giorni. Sono
assolutamente desolato, ma i suoi ordini non possono essere trasgrediti. Sarà
lui il primo a rammaricarsene, glielo garantisco... un errore simile! Non
capisco come possa essere accaduto!
Ormai un pietoso tremito aveva preso a scuotere Giuseppe Corte. La
capacità di dominarsi gli era completamente sfuggita. Il terrore l'aveva
sopraffatto come un bambino. I suoi singhiozzi risuonavano lenti e disperati
per la stanza.
Giunse così, per quell'esecrabile errore, all'ultima stazione. Nel reparto dei
moribondi lui, che in fondo, per la gravità del male, a giudizio anche dei
medici più severi, aveva il diritto di essere assegnato al sesto, se non al
settimo piano! La situazione era talmente grottesca che in certi istanti
Giuseppe Corte sentiva quasi la voglia di sghignazzare senza ritegno.
Disteso nel letto, mentre il caldo pomeriggio d'estate passava lentamente
sulla grande città, egli guardava il verde degli alberi attraverso la finestra, con
l'impressione di essere giunto in un mondo irreale, fatto di assurde pareti a
piastrelle sterilizzate, di gelidi androni mortuari, di bianche figure umane
vuote di anima. Gli venne persino in mente che anche gli alberi che gli
sembrava di scorgere attraverso la finestra non fossero veri; finì anzi per
convincersene, notando che le foglie non si muovevano affatto. Questa idea
lo agitò talmente, che il Corte chiamò col campanello l'infermiera e si fece
porgere gli occhiali da miope, che in letto non adoperava; solo allora riuscì a
tranquillizzarsi un poco: con l'aiuto delle lenti poté assicurarsi che erano
proprio alberi veri e che le foglie, sia pur leggermente, ogni tanto erano
mosse dal vento.
Uscita che fu l'infermiera, passò un quarto d'ora in completo silenzio. Sei
piani, sei terribili muraglie, sia pure per un errore formale, sovrastavano
adesso Giuseppe Corte con implacabile peso. In quanti anni, sì, bisognava
pensare proprio ad anni, in quanti anni egli sarebbe riuscito a risalire fino
all'orlo di quel precipizio?
Ma come mai la stanza si faceva improvvisamente così buia? Era pur
sempre pomeriggio pieno. Con uno sforzo supremo Giuseppe Corte, che si
sentiva paralizzato da uno strano torpore, guardò l'orologio, sul comodino, di
fianco al letto. Erano le tre e mezzo. Voltò il capo dall'altra parte, e vide che
le persiane scorrevoli, obbedienti a un misterioso comando, scendevano
lentamente, chiudendo il passo alla luce.
Inviti superflui.
Vorrei che tu venissi da me in una sera d'inverno e, stretti insieme dietro i
vetri, guardando la solitudine delle strade buie e gelate, ricordassimo gli
inverni delle favole, dove si visse insieme senza saperlo. Per gli stessi sentieri
fatati passammo infatti tu ed io, con passi timidi, insieme andammo
attraverso le foreste piene di lupi, e i medesimi genii ci spiavano dai ciuffi di
muschio sospesi alle torri, tra svolazzare di corvi. Insieme, senza saperlo, di
là forse guardammo entrambi verso la vita misteriosa, che ci aspettava. Ivi
palpitarono in noi per la prima volta pazzi e teneri desideri. "Ti ricordi?" ci
diremo l'un l'altro, stringendoci dolcemente, nella calda stanza, e tu mi
sorriderai fiduciosa mentre fuori daran tetro suono le lamiere scosse dal
vento. Ma tu - ora mi ricordo - non conosci le favole antiche dei re senza
nome, degli orchi e dei giardini stregati. Mai passasti, rapita, sotto gli alberi
magici che parlano con voce umana, né battesti mai alla porta del castello
deserto, né camminasti nella notte verso il lume lontano lontano, né ti
addormentasti sotto le stelle d'Oriente, cullata da piroga sacra. Dietro i vetri,
nella sera d'inverno, probabilmente noi rimarremo muti, io perdendomi nelle
favole morte, tu in altre cure a me ignote. Io chiederei "Ti ricordi?" ma tu non
ricorderesti.
Vorrei con te passeggiare, un giorno di primavera, col cielo di color grigio
e ancora qualche vecchia foglia dell'anno prima trascinata per le strade dal
vento, nei quartieri della periferia; e che fosse domenica. In tali contrade
sorgono spesso pensieri malinconici e grandi; e in date ore vaga la poesia,
congiungendo i cuori di quelli che si vogliono bene. Nascono inoltre speranze
che non si sanno dire, favorite dagli orizzonti sterminati dietro le case, dai
treni fuggenti, dalle nuvole del settentrione. Ci terremo semplicemente per
mano e andremo con passo leggero, dicendo cose insensate, stupide e care.
Fino a che si accenderanno i lampioni e dai casamenti squallidi usciranno le
storie sinistre delle città, le avventure, i vagheggiati romanzi. E allora noi
taceremo sempre tenendoci per mano, poiché le anime si parleranno senza
parola. Ma tu - adesso mi ricordo - mai mi dicesti cose insensate, stupide e
care. Né puoi quindi amare quelle domeniche che dico, né l'anima tua sa
parlare alla mia in silenzio, né riconosci all'ora giusta l'incantesimo delle
città, né le speranze che scendono dal settentrione. Tu preferisci le luci, la
folla, gli uomini che ti guardano, le vie dove dicono si possa incontrar la
fortuna. Tu sei diversa da me e se venissi quel giorno a passeggiare, ti
lamenteresti di essere stanca; solo questo e nient'altro.
Vorrei anche andare con te d'estate in una valle solitaria, continuamente
ridendo per le cose più semplici, ad esplorare i segreti dei boschi, delle strade
bianche, di certe case abbandonate. Fermarci sul ponte di legno a guardare
l'acqua che passa, ascoltare nei pali del telegrafo quella lunga storia senza
fine che viene da un capo del mondo e chissà dove andrà mai. E strappare i
fiori dei prati e qui, distesi sull'erba, nel silenzio del sole, contemplare gli
abissi del cielo e le bianche nuvolette che passano e le cime delle montagne.
Tu diresti "Che bello!" Niente altro diresti perché noi saremmo felici; avendo
il nostro corpo perduto il peso degli anni, le anime divenute fresche, come se
fossero nate allora.
Ma tu - ora che ci penso - tu ti guarderesti attorno senza capire, ho paura, e
ti fermeresti preoccupata a esaminare una calza, mi chiederesti un'altra
sigaretta, impaziente di fare ritorno. E non diresti "Che bello!" ma altre
povere cose che a me non importano. Perché purtroppo sei fatta così. E non
saremmo neppure per un istante felici.
Vorrei pure - lasciami dire - vorrei con te sottobraccio attraversare le grandi
vie della città in un tramonto di novembre, quando il cielo è di puro cristallo.
Quando i fantasmi della vita corrono sopra le cupole e sfiorano la gente nera,
in fondo alla fossa delle strade, già colme di inquietudini. Quando memorie
di età beate e nuovi presagi passano sopra la terra, lasciando dietro di sé una
specie di musica. Con la candida superbia dei bambini guarderemo le facce
degli altri, migliaia e migliaia, che a fiumi ci trascorrono accanto. Noi
manderemo senza saperlo luce di gioia e tutti saran costretti a guardarci, non
per invidia e malanimo; bensì sorridendo un poco, con sentimento di bontà,
per via della sera che guarisce le debolezze dell'uomo. Ma tu - lo capisco bene
- invece di guardare il cielo di cristallo e gli aerei colonnati battuti
dall'estremo sole, vorrai fermarti a guardare le vetrine, gli ori, le ricchezze, le
sete, quelle cose meschine. E non ti accorgerai quindi dei fantasmi, né dei
presentimenti che passano, né ti sentirai, come me, chiamata a sorte
orgogliosa. Né udresti quella specie di musica, né capiresti perché la gente ci
guardi con occhi buoni. Tu penseresti al tuo povero domani e inutilmente
sopra di te le statue d'oro sulle guglie alzeranno le spade agli ultimi raggi. Ed
io sarei solo. È inutile. Forse tutte queste sono sciocchezze, e tu migliore di
me, non presumendo tanto dalla vita. Forse hai ragione tu e sarebbe stupido
tentare. Ma almeno, questo sì almeno, vorrei rivederti. Sia quel che sia, noi
staremo insieme in qualche modo, e troveremo la gioia. Non importa se di
giorno o di notte, d'estate o d'autunno, in un paese sconosciuto, in una casa
disadorna, in una squallida locanda. Mi basterà averti vicina. Io non starò qui
ad ascoltare - ti prometto - gli scricchiolii misteriosi del tetto, né guarderò le
nubi, né darò retta alle musiche o al vento. Rinuncerò a queste cose inutili,
che pure io amo. Avrò pazienza se non capirai ciò che ti dico, se parlerai di
fatti a me strani, se ti lamenterai dei vestiti vecchi e dei soldi. Non ci saranno
la cosiddetta poesia, le comuni speranze, le mestizie così amiche all'amore.
Ma io ti avrò vicina. E riusciremo, vedrai, a essere abbastanza felici, con
molta semplicità, uomo con donna solamente, come suole accadere in ogni
parte del mondo.
Ma tu - adesso ci penso - sei troppo lontana, centinaia e centinaia di
chilometri difficili a valicare. Tu sei dentro a una vita che ignoro, e gli altri
uomini ti sono accanto, a cui probabilmente sorridi, come a me nei tempi
passati. Ed è bastato poco tempo perché ti dimenticassi di me. Probabilmente
non riesci più a ricordare il mio nome. Io sono ormai uscito da te, confuso fra
le innumerevoli ombre. Eppure non so pensare che a te, e mi piace dirti
queste cose.
I due autisti.
A distanza di anni, ancora mi domando che cosa si dicevano i due autisti
del furgone scuro mentre trasportavano la mia mamma morta al cimitero
lontano.
Era un viaggio lungo, di oltre trecento chilometri, e benché l'autostrada
fosse sgombra, il nefasto carro procedeva lentamente. Noi figli seguivamo in
macchina ad un centinaio di metri e il tachimetro oscillava sui
sessanta-settantacinque, forse era perché quei furgoni sono costruiti per
andare lentamente ma io penso che facessero così perché era la regola, quasi
che la velocità fosse una irriverenza ai morti, che assurdità, io avrei invece
giurato che a mia mamma sarebbe piaciuto correre via a centoventi all'ora, la
velocità se non altro l'avrebbe illusa che era il solito spensierato viaggio
estivo per raggiungere la nostra casa di Belluno.
Era una stupenda giornata di giugno, il primo trionfo dell'estate, le
campagne intorno bellissime, che lei aveva attraversato chissà quante
centinaia di volte ma adesso non le poteva più vedere. E il grande sole era
ormai alto e sull'autostrada, laggiù in fondo, si formavano gli acquei miraggi
per cui le macchine in lontananza sembravano sospese a mezz'aria.
Il tachimetro oscillava sui settanta-settantacinque, il furgone dinanzi a noi
sembrava immobile e di fianco guizzavano lanciatissime le macchine libere e
felici, uomini e donne tutti vivi, anche stupende ragazze a fianco di
giovanotti, in fuori-serie aperte, coi capelli sventolanti al vento della corsa.
Anche i camion ci sorpassavano, anche quelli con rimorchio, tanto procedeva
lentamente il cimiteriale furgone e io pensavo com'è stupido questo, sarebbe
stata una cosa bella e gentile per mia mamma morta trasportarla al lontano
cimitero sopra una meravigliosa supersport rossa fiammante, premendo
l'acceleratore al massimo, dopo tutto sarebbe stato concederle un piccolo
supplemento della autentica vita mentre quel lento scarrucolare sul filo
dell'asfalto assomigliava troppo al funerale.
Perciò io mi chiedevo di che cosa stessero parlando i due autisti; ce n'era
uno che sarà stato alto un metro e ottantacinque, un pezzo di marcantonio
dalla faccia bonaria, ma anche l'altro era robusto, li avevo intravisti al
momento della partenza, non erano assolutamente dei tipi adatti a questo
genere di cose, un camion carico di lamiere gli sarebbe stato assai più
confacente.
Mi domandavo di che cosa stessero parlando perché quello era l'ultimo
discorso umano, le ultime parole della vita che mia mamma poteva udire. E
loro due mica che fossero carogne, ma in un viaggio così lungo e monotono
certo sentivano il bisogno di discorrere; il fatto che alle loro spalle, a distanza
di pochi centimetri, giacesse mia mamma, non aveva per loro la minima
importanza, si capisce, a queste faccende erano abituati altrimenti non
avrebbero fatto quel mestiere.
Erano le ultime parole umane che mia mamma poteva udire perché subito
dopo l'arrivo sarebbe cominciata la funzione nella chiesa del cimitero e da
quel momento i suoni e le parole non sarebbero appartenuti più alla vita,
erano i suoni e le parole dell'aldilà che cominciavano.
Di che cosa parlavano? Del caldo? Del tempo che avrebbero impiegato nel
ritorno? Delle loro famiglie? Delle squadre di calcio? Si indicavano l'un
l'altro le migliori trattorie scaglionate lungo il percorso con la rabbia di non
potersi fermare? Discutevano di automobili con la competenza di uomini del
mestiere? Anche gli autisti dei furgoni funebri appartengono, in fondo, al
mondo del motore e i motori li appassionano. O si confidavano certe loro
avventure d'amore? Ti ricordi quella biondona di quel bar vicino alla
colonnetta dove noi ci si ferma sempre a far benzina? Proprio quella. Ma va',
racconta allora, io non ci credo. Che mi cascasse la lingua se... Oppure si
raccontavano addirittura barzellette sconce? Non è forse uso consueto questo,
fra due uomini che per ore e ore viaggiano da soli in automobile? Perché quei
due certamente erano convinti di essere soli; la cosa chiusa nel furgone alle
loro spalle non esisteva neppure, se ne erano completamente dimenticati.
E mia mamma udiva i loro scherzi e le loro sghignazzate? Sì, certamente li
udiva e il suo tribolato cuore si stringeva sempre di più, non che potesse
disprezzare quei due uomini, ma era una cosa brutta che nel mondo, da lei
tanto amato, le ultime voci fossero quelle e non le voci dei figli.
Allora, mi ricordo - eravamo quasi a Vicenza e il caldo del mezzodì
incombeva facendo tremolare i contorni delle cose, pensai quanto poco io
avessi tenuto compagnia alla mamma negli ultimi tempi. E sentii quella punta
dolorosa nel mezzo del petto che abitualmente si chiama rimorso.
In quel preciso momento - chissà come, fino allora non era scattata la molla
di questo miserabile ricordo - cominciò a perseguitarmi l'eco della sua voce,
quando al mattino entravo in camera sua prima di andare al giornale: «Come
va?» «Stanotte ho dormito» rispondeva (sfido, a forza di iniezioni). «Io vado
al giornale.» «Ciao.»
Facevo due tre passi nel corridoio e mi raggiungeva la temuta voce:
«Dino.» Tornavo indietro. «Ci sei a colazione?» «Sì.» «E a pranzo?»
"E a pranzo?" Dio mio, quanto innocente e grande e nello stesso tempo
piccolo desiderio c'era nella domanda. Non chiedeva, non pretendeva,
domandava soltanto un'informazione.
Ma io avevo appuntamenti cretini, avevo ragazze che non mi volevano
bene e in fondo se ne fregavano altamente di me, e l'idea di tornare alle otto e
mezzo nella casa triste, avvelenata dalla vecchiaia e dalla malattia, già
contaminata dalla morte, mi repelleva addirittura, perché non si deve aver il
coraggio di confessare queste orribili cose quando sono vere? «Non so»
allora rispondevo «telefonerò.» E io sapevo che avrei telefonato di no. E lei
subito capiva che io avrei telefonato di no e nel suo "Ciao" c'era uno
sconforto grandissimo. Ma io ero il figlio, egoista come sanno esserlo
soltanto i figli.
Non avevo rimorso, sul momento, non avevo pentimenti e scrupoli.
Telefonerò dicevo. E lei capiva benissimo che a pranzo non sarei venuto.
Vecchia, ammalata, distrutta anzi, consapevole che la fine stava
precipitando su di lei, la mamma si sarebbe accontentata, per essere un poco
meno triste, che io fossi venuto a pranzo a casa. Magari per non dire una
parola, ingrugnato magari per le mie maledette faccende di ogni genere. Ma
lei, dal letto, perché non poteva muoversi dal letto, avrebbe saputo che io ero
di là in tinello e si sarebbe consolata.
Io invece no. Io andavo in giro per Milano ridendo e scherzando con gli
amici, idiota, delinquente che ero, mentre il costrutto della mia stessa vita,
l'unico mio vero sostegno, l'unica creatura capace di comprendermi e di
amarmi, l'unico cuore capace di sanguinare per me (e non ne avrei trovati altri
mai, fossi campato anche trecento anni) stava morendo.
Le sarebbero bastate due parole prima di pranzo, io seduto sul piccolo
divano e lei distesa in letto, qualche informazione sulla mia vita e sul mio
lavoro. E poi, dopo pranzo, mi avrebbe lasciato andare volentieri dove
diavolo volevo, non le sarebbe dispiaciuto, anzi, era lieta se avevo occasione
di svagarmi. Ma prima di uscire nella notte sarei rientrato nella sua camera
per un ultimo saluto. «Hai già fatta l'iniezione?» «Sì, questa notte spero
proprio di dormire.»
Così poco chiedeva. E io neanche questo, per il mio schifoso egoismo.
Perché io ero il figlio e nel mio egoismo di figlio mi rifiutavo di capire quanto
bene le volessi. E adesso, come ultima porzione di mondo, ecco le
chiacchiere, le barzellette e le risate dei due autisti sconosciuti. Ecco l'ultimo
dono che le concedeva la vita.
Ma adesso è tardi, spaventosamente tardi. La pietra da quasi due anni è
stata calata a chiudere la piccola cripta sotterranea, dove nel buio, una su
l'altra, stanno le bare dei genitori, dei nonni, dei bisnonni. La terra ha già
riempito gli interstizi, qualche minuscola erbetta tenta di spuntare qua e là. E
i fiori, collocati qualche mese fa nella vasca di rame, sono ormai
irriconoscibili. No, quei giorni che lei era malata e sapeva di morire non
possono più tornare indietro. Lei tace, non mi rimprovera, probabilmente mi
ha anche perdonato, perché sono suo figlio. Anzi, mi ha perdonato di sicuro.
Eppure, quando ci penso, non so darmi pace.
Ogni vero dolore viene scritto su lastre di una sostanza misteriosa al
paragone della quale il granito è burro. E non basta una eternità per
cancellarlo. Fra miliardi di secoli, la sofferenza e la solitudine di mia
mamma, provocate da me, esisteranno ancora. E io non posso rimediare.
Espiare soltanto, semmai, sperando che lei mi veda.
Ma lei non mi vede. Lei è morta e distrutta, non sopravvive, o meglio non
restano più che i residui del suo corpo orrendamente umiliato dagli anni, dal
male, dalla decomposizione e dal tempo.
Niente? Proprio niente rimane. Di mia mamma non esiste più nulla?
Chissà. Di quando in quando, specialmente nel pomeriggio, se mi trovo
solo, provo una sensazione strana. Come se qualcosa entrasse in me che
pochi istanti prima non c'era, come se mi abitasse un'essenza indefinibile, non
mia eppure immensamente mia, e io non fossi più solo, e ogni mio gesto, ogni
parola, avesse come testimone un misterioso spirito. Lei! Ma l'incantesimo
dura poco, un'ora e mezzo, non di più. Poi la giornata ricomincia a macinarmi
con le sue aride ruote.
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